Un interessante giro perlustrativo nell'agro dignanese

Le «casite», antiche «sentinelle» di pietra

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Da qualsiasi parte si arrivi a Dignano e in genere nell'Istria centro meridionale, una caratteristica salta subito agli occhi. Si tratta delle casite, costruzioni che conservano nella forma e nella struttura architettonica, monocellulare, circolare, talvolta anche quadrangolare e normalmente con il tetto a pseudocupola, un complesso di caratteristiche molto arcaiche. Infatti, i moderni archeologi sono concordi nell'affermare che le casite istriane conservano nella forma e nella struttura architettonica i caratteri arcaici della primitiva dimora monocellulare in pietra degli abitanti dei castellieri preistorici, tipica dimora delle genti istriane.

Dai trulli ai nuraghi, dalle specchie ai talayots

Pertanto sulla origine mediterranea di queste costruzioni non ci sono dubbi, poiché anche in altre regioni dell'Italia e della Grecia non mancano esempi di dimore a pianta circolare che ripetono la loro antica origine. Basti pensare ai trulli della Puglia, ai nuraghi della Sardegna, alle specchie del Salento, ai talayots delle Baleari. Siano questi edifici dei resti archeologici oppure di più recente datazione, presentano tutti una comune tecnica costruttiva e architettonica: cioè, come abbiamo già detto, la muratura in pietre a secco, la pianta circolare e il tetto a falsa cupola.

La piova vignarò sula sulita...

Moltissimi studiosi si sono interessati a queste costruzioni e nel 1994 sotto gli auspici del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno è uscito un poderoso volume a cura di Luciano Lago, al quale hanno contribuito numerosi illustri ricercatori e che porta il titolo: Pietre e paesaggi dell'Istria centro-meridionale - "LE CASITE" - Un censimento per la memoria storica, un volume al quale anche noi in parte ci siamo appoggiati nello stendere questo servizio. A Dignano c'è una antica canzone popolare che dice nel dialetto arcaico oggi, purtroppo, parlato solo da pochi vecchi: La piova vignarò sula sulagna, la bagnarò el me ben ch'a zì 'n campagna; la piova vignarò sula sulita, la bagnarò el me ben ch'a xzì 'n casita.... Ed ecco in un certo modo spiegato il perché di queste costruzioni. La distanza dei campi e dei pascoli dal paese - spesso anche di parecchi chilometri -, la scarsa diffusione di insediamenti sparsi nell'agro all'infuori di poche stanzie, cioè piccolissimi agglomerati di due o tre case, hanno determinato l'esigenza dei contadini e dei pastori di costruire ricoveri di piccole dimensioni da destinare a riparo temporaneo in caso di maltempo o anche a ricovero per qualche notte, sia nei periodi del raccolto, quando più intensa era la presenza del contadino sui campi e più attenta la necessità di una sorveglianza da eventuali ladri, sia durante la guardia alle greggi al pascolo, soprattutto in inverno, quando le giornate erano molto corte. Inoltre, una volta erano veri e propri depositi per gli attrezzi agricoli.

Allineate alle «masere»

Ad eccezione di qualche raro ricovero in paglia, presente però solo nell'Istria alta, tali costruzioni si inquadrano perfettamente nella generale architettura rustica locale, caratterizzata dall'abbondante uso della pietra calcarea. A volte si confondono e si allineano con le masere, quelle muricce che, con la medesima tecnica costruttiva, delimitano le proprietà rurali. Come abbiamo già ricordato, sono comunissime nella campagna dignanese, ma se ne trovano però (col nome croato di kazun) anche nelle campagne di Fasana, di Peroi, di Valle, di Rovigno, di Canfanaro, di Sanvincenti, di Gimino e di Barbana mentre il limite di una loro presenza a oriente sembra coincidere con i territori del canale d'Arsa. Queste casite nei tempi antichi, sono state con ogni probabilità i primi tentativi di edilizia abitativa della penisola istriana, specialmente in quelle regioni dove il calcare emerge, si frantuma e il legname è scarso sia per motivi legati al suolo che per l'intenso utilizzo da parte dell'uomo.

La raccolta dei «groumasi»

La materia prima veniva raccolta dai cumuli di sassi, i cosiddetti (in dialetto dignanese) groumasi, derivanti in massima parte dalla pulitura dei campi messi a coltura. Infatti dopo il dissodamento dei terreni da coltivare e dopo l'innalzamento delle masere, le pietre più grosse venivano utilizzate per la costruzione del muro di sostegno circolare, mentre quelle piatte, le laure, andavano a comporre la cupola. Di solito venivano erette all'angolo di unione di due masere, ma possiamo trovarle anche nel mezzo di un campo normalmente destinato a seminativi o sui prati dei pascoli, oppure inserite, come vere e proprie nicchie, in muri particolarmente spessi e a volte anche molto alti, cioè nei già citati groumasi che, secondo il Kandler, (nel suo Secondo volume del Codice diplomatico istriano) già nel 1275 rivestivano peraltro grande importanza per la definizione dei confini delle proprietà e su di loro si giurava con il segno della croce.

La tecnica di costruzione

Il lavoro per costruire una di queste casite prevede delle tecniche e dei momenti ben determinati che si sono tramandati, sempre simili, da più secoli. Ecco una descrizione molto dettagliata fatta dal Gruppo storico-etnografico della Comunità degli Italiani di Dignano nel 1987: "Prima di tutto bisognava trovare un posto in bonasa (cioè un luogo riparato dal vento) dal quale si poteva vedere l'intera campagna. Trovata la posizione adatta, bisognava liberarla di tutte le ruve (i rovi) per ottenerne una superficie pulita. I sassi che venivano raccolti durante il lavoro dei campi (specialmente quando si piantavano le viti e soprattutto gli olivi, poiché bisognava scavare a fondo il terreno) venivano ammonticchiati secondo l'uso che ne avrebbe seguito, compresa la sgaia, cioè i piccoli sassi di scarto che si mettevano tra i due strati esterni di pietre grosse. Quindi con dello spago e due bastoni che fungevano da compasso si tracciavano i due cerchi, uno all'interno e l'altro all'esterno. Tra questi due cerchi ci doveva essere uno spessore di circa 95 centimetri. Si scavava quindi con el sapon (la zappa) fino alla roccia lasciando 60-80 centimetri per la porta che veniva posta prevalentemente sempre a ponente dove appunto non arrivano i vortici della bora". Dunque la costruzione vera e propria iniziava con i sassi grossi che, come prosegue la descrizione "venivano accatastati alle estremità della corona circolare. Arrivati a un'altezza di 80-90 centimetri (ma ci sono casite anche molto più alte) sopra la porta si metteva el suier (un grande pezzo di pietra largo un po' più di quest'ultima). Configuravano ancora la porta le spalite, cioè i sassi che formavano gli stipiti, costruiti con pesanti blocchi squadrati o di piastre più grosse di quelle adoperate per le pareti (el tondo). Si continuava ad aggiungere sassi fino all'altezza del cinturin (1,20 m circa), quindi si costruiva il pioverin con laure sporgenti per fare in modo che la pioggia non bagnasse i muri esterni. Dopo si iniziava finalmente a sistemare le laure con le quali si faceva el coverto, cioè quella falsa cupola che fungeva da tetto.

Un tetto resistente

Affinché il tetto fosse più resistente, di solito si facevano più coverti. Per la maggior parte questi erano due o tre, ma potevano essere anche più numerosi per le casite più grandi, più ampie. Per il primo coverto si usavano le laure più grezze che venivano messe in posizione orizzontale secondo cerchi concentrici che si restringevano via via sempre più verso il centro. Per il secondo e terzo coverto le laure dovevano essere più regolari e più leggere. Si continuava a disporle finché rimaneva uno spazio di circa 30-40 centimetri sul quale si metteva una unica grande laura la quale chiudeva così la sommità. Per finire il tetto e per bloccare questa grande lastra si metteva l'immancabile pimpignol, un sasso che lo abbelliva e che di solito veniva lavorato con la martelina". In questo modo l'acqua piovana non poteva in alcun modo cadere all'interno.

Le «spie» rivolte verso il «porter»

Durante la lavorazione del muro, in alcune casite si lasciavano delle aperture dette spie, dalle quali si poteva sorvegliare l'intera campagna e i dintorni o altre nicchie chiuse per deporre gli utensili. Molte volte queste spie erano rivolte verso el porter (l'entrata del campo) in modo che, anche seduti o distesi, si poteva notare se arrivava qualcuno. In questo modo la costruzione era finalmente finita e dentro si ponevano i sentadori, delle pietre larghe che servivano da sedili. In alcune c'era anche el fogoler, nonché covoni di paglia o bracciate di odorose tome (elicrisi) per il riposo e, talvolta, per il sonno dei contadini o dei pastori.

La benedizione del parroco

Naturalmente se inizialmente lo scopo della costruzione delle casite era quello di creare un riparo dalle avversità meteorologiche e dalle fredde notti per pastori e contadini, oggi hanno sostanzialmente perso questa funzione, sia per l'avvento della meccanizzazione che rende più breve la permanenza nei campi e più veloce il rientro nel paese, sia per la quasi totale scomparsa della pastorizia (all'infuori di quella, rara, invernale, dei pastori che scendono dal Monte Maggiore o dai Monti della Vena), soprattutto sul territorio del comune di Dignano. È interessante citare ancora quanto lo studioso A. Cucagna, nel suo saggio "La casa rurale del Carso" ha scritto. Riportiamo un passo della sua ricerca: "Nei periodi di indigenza e di fame, nei secoli passati e nel corso delle guerre, i contadini usavano vigilare dalle casite sui propri coltivi alla vigilia del raccolto e della vendemmia. Vi si fermavano durante la notte temendo che qualcuno di nascosto portasse via il frutto del loro duro lavoro. Perciò non è raro sentir dire ancora oggi: la casita serve per la spia!, cioè per vigilare". Più innanzi questo studioso scrive ancora: "I nostri contadini erano affezionati alle loro casite. Qui nei caldi pomeriggi solevano godersi un po' di refrigerio e di meritato riposo; qui ancora si riparavano durante i temporali. I contadini dell'agro dignanese volevano che il parroco benedicesse anche le loro capanne di pietra. E questo rito veniva ripetuto ogni anno nelle tre giornate delle Rogazioni minori, quando il sacerdote usava portarsi all'aperto con canti, croci e stendardi infiorati per implorare dal cielo la benedizione e la fecondità dei campi: era allora uno spettacolo altamente suggestivo".

L'arrivo delle ruspe...

Una delle casite molto nota era quella grande detta dei Busi de Braghenegre, con una porta grande, vari sentadori e persino un vasto focolare mentre il tetto aveva un foro circolare che fungeva da camino. Purtroppo oggi le casite, come le masere del resto, sono sgurbade, cioè crollano senza che nessuno se ne occupi anzi, molti dei groumasi vengono utilizzati per la produzione di ghiaia per l'edilizia. Diverse masere sono state poi eliminate dalle ruspe per permettere una coltivazione industriale degli oliveti che stanno sorgendo attorno alla cittadina, soprattutto nelle zone verso il mare. Qualche nuova costruzione appare soltanto nei luoghi turistici, quale simbolo del mondo istriano, ma i muratori nell'innalzarle, si servono del cemento per legare le pietre. Unica eccezione, quelle poche casite che sono state ricostruite, rimesse al loro posto, dopo essere distrutte durante la costruzione della Ipsilon istriana.

Mario Schiavuto

Tratto da:

  • La Voce del Popolo, 22 dicembre 2007.

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Created: Wednesday, January 09, 2008; Last updated: Wednesday, May 05, 2021
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