L'avorio istriano per Donatello
Ravenna, Venezia, Loreto: gloria della pietra istriana
©
Miroslav Bertoša
Scrive Fernand Braudel nelle "Strutture
del quotidiano": "In occidente e nel Mediterraneo servirono secoli prima
che si instaurasse la civiltà della pietra. Fu necessario sfruttare le
cave, scegliere le pietre che meglio si prestavano ad essere lavorate e
che alle intemperie diventavano più resistenti. Fu necessario investirvi
dei secoli".
Per la quantità di pietra e la rinomanza
della stessa l'Istria era una terra privilegiata, nonostante che la sua
cultura materiale, con la popolazione rurale che in parte abitava
case di legno col tetto di paglia, non sia stata determinata dall'arte
dei tagliapietra. Ci sono certamente in Istria esempi molto interessanti
e validi di opere architettoniche, urbane e rurali, in sasso; sta
comunque di fatto che la maggior parte dei prodotti delle sue cave se ne
andava oltremare, nelle metropoli marmoree appenniniche, a dare
splendore ad edifici che tuttora destano immutato entusiasmo. Le note
che seguono trattano appunto dell'esportazione della pietra istriana,
delle sue glorie medievali e moderne conservatesi fino ai nostri giorni.
Una pietra che incanta per bellezza e
sfida il tempo...
Molti degli stupendi edifici della
Serenissima Regina dei mari devono la propria perfezione architettonica
e aspetto "al caratteristico colore opalino, simile all'avorio antico -
come scrisse all'inizio degli anni trenta l'architetto triestino Arduino
Berlam -, che distingue la pietra istriana di
Orsera e di
Rovigno".
A Venezia, dai tempi di Bisanzio al
Novecento, sono cambiati molti stili architettonici, ma il materiale è
rimasto lo stesso: la pietra istriana! Nessun'altra cava, da Bergamo
alla Dalmazia al litorale albanese, poteva fornire alla Serenissima un
materiale edile così solido e resistente. Berlam cita in proposito
l'eloquente esempio della Chiesa dei Scalzi, edificata nel XVIII sec.
con marmo di Carrara e intaccata dal processo di corrosione.
La pietra istriana invece resiste. Furono
proprio gli edifici di imperitura bellezza con essa costruiti che
ammaliarono un Inglese sensibile, I'esteta, filosofo e poeta John
Ruskin, tanto da fargli scrivere "The Stones of Venice" (1851-'53), una
delle opere più affascinanti nel campo dell'arte, dellà letteratura e
della "filosofia dell'architettura".
Orografi, viaggiatori, funzionari
veneziani, testimoni dei tempi e luoghi istriani menzionano per lo più
le cave della costa occidentale: quelle di
Brioni, di
Rovigno e di
Orsera.
Prospero Petronio,
medico e letterato, originario di
Capodistria o di
Pirano, nel 1681 annotò che le
vene rocciose sono estese anche ad altre aree istriane, specie al
Pinguentino, ma che a causa della distanza dagli imbarchi (i
carregadori) si è rinunciato alloro sfruttamento. Anche nel territorio
della Contea di Pisino vennero
scoperti, verso la metà del XVII sec., giacimenti di pietra molto bella
(Petronio chiama quel sasso "Affricano e Morello").
Petronio riprende parte dei dati
riportati nella sua orografia manoscritta "Memorie sacre e profane
dell'Istria", dal noto vescovo cittanovese
G.F. Tomasini, anche lui
letterato; ciò nonostante è un testimone attendibile per quanto concerne
le cave istriane, il sasso che ne veniva estratto e gli scalpellini che
lo lavoravano.
Rovigno, l'ingegno che spacca il sasso
Lo storico
Bernardo Benussi,
rampollo di antica radice rovignese e diligente studioso del passato,
trovò nelle cronache e nelle fonti d'archivio dei dati sull'ingerenza
della pietra nell'ambiente, economia e mentalità dei propri
concittadini. Secondo il
Benussi, i Rovignesi
erano eccellenti scalpellini. La loro fama è stata consacrata da un
proverbio sul loro "ingegno collettivo": "Rovigno pien
d'ingegno / Spacca il sasso come il legno".
Ma torniamo a
Prospero Petronio. Nella
zona di
Rovigno "ammirabili sono
le cave di pietra bianca detta d'Istria", la quale, come afferma, a
Venezia è talmente apprezzata che se ne innalzano molte Fabbriche
sontuose. Secondo il giuduzio di quei tempi, le pietre rovignesi "sono
buone da lavorare e stando all'aria et alla pioggia s'indurano e
resistono ad ogni intemperie del Cielo".
Il
Petronio aveva notato che nelle
colline circostanti erano state scavate delle grandi cave ed era rimasto
soprattutto colpito dal metodo di trasporto dei blocchi di pietra fmo
agli imbarchi della costa. Si trasportano, scrive questo curioso
cronista del Seicento istriano, "con certi carri fatti di due Travi e
manegiati con molta destrezza; perch' un h uomo sarà bastante con un
legno in mano mover qualsivoglia gran sasso".
Da Santa Caterina e Sant'Andrea fino a
Montauro si vedono lungo la costa, scrive ancora il
Petronio, delle
grandi caverne del diametro di un miglio veneziano, mentre altre sono
larghe da sei a sette piedi, e tutte sono state fatte secoli addietro
per estrarne la pietra. Parecchi ne ricavarono lauti guadagni, tanto che
la famiglia rovignese dei Tagliapietra, una delle più illustri nel
consiglio cittadino, si trasferì in seguito a Venezia dove costruì molti
edifici. La ricchezza e i meriti fecero assurgere i rovignesi
Tagliapietra ai ranghi della nobiltà veneziana.
Secondo il cronista Angelini gli
scalpellini rovignesi avevano fondato sin da XIII sec. una propria
corporazione, e del 1323 ci è conservata la citazione di un certo mastro
Andrea, scalpellino, condannato alI' esilio. Anche le istruzioni
governative (commissiones) del 5 settembre 1323 al podestà di
Rovigno, che concedevano agli
scarpellini veneziani di estrarre il sasso dovunque ritenessero
opportuno, sono indicative del vivace commercio di pietra. Che durò
ininterrottamente per secoli. Il podestà e capitano capodistriano
Agostin Barbarigo nella sua relazione del 13 aprile 1669 elogiava i
Rovignesi che estraevano incessantemente grossi quantitativi di pietra
per trasferirli nella Città sulla Laguna, mentre il vescovo Tomasini
riferisce che oltre 500 marinai su più di cento tra vascelli, trabacoli
e pelighi navigano tra Rovigno,
Orsera e Venezia, trasportando
il prezioso materiale per le fabbriche veneziane.
Anche se si tratta solamente di
spigolature, pur nella loro frammentarietà sono documenti eloquenti. Lo
confermaranno anche gli esempi che seguono.
Istria-Ravenna: la traversata delle
pietre
Nei porti dell'Istria occidentale erano
spesso all'attracco navi bizantine, i cosiddetti dromoni, alcuni dei
quali caricavano il sasso istriano, molto apprezzato anche a quei tempi.
Ma uno dei carichi più celebri fu l'enorme monolito estratto in una cava
del Parentino e che nel 520 servì per la monumentale cupola del Mausoleo
di Teodorico a Raven na. In base alla tradizione la roccia, di
proporzioni veramente enormi, venne scavata in una vecchia cava
abbandonata sull'isolotto di S. Nicola di fronte a
Parenzo; il Berlam invece ritiene più probabile che sia di origine
orserese. Secondo lui, il blocco deriva da una delle isolette di fronte
a Orsera, forse quella di S.
Giorgio, la cui stratificazione indurrebbe, anche visivamente, a
concludere che proprio lì avrebbe potuto venir estratto il monolito per
la gigantesca cupola sotto alla quale riposano le ceneri del famoso re
gotico.
Istria-Venezia: la traversata delle
pietre
Venezia, città sorta su banchi di sabbia
e fango, è stata per secoli il più grande cantiere edile dell' Adriatico
e del Mediterraneo; nel suo spazio limitato sorsero edifici monumentali,
grandi palazzi, chiese, ponti, calli lastricate..., ma anche fondamente,
cioè banchine, e soprattutto dighe foranee per la protezione dalle
grandi maree e dal mare in tempesta, cui la laguna veneziana è stata
sempre (e lo è tuttora) molto sensibile. All'Arsenale vennero costruite,
per il trasporto del sasso dalla costa istriana, delle imbarcazioni
particolari, dette marani, la cui portata raggiungeva anche le 200
tonnellate. Gli armatori dovevano effettuare, in base ai contratti,
cinque viaggi all'anno con ogni marano; i carichi, dipendentemente
dall'ubicazione del cantiere, venivano deposti sulle banchine cittadine
oppure sulle dighe foranee.
C'è un episodio curioso in proposito:
verso la metà del XIV sec. fra i trasportatori di pietre dall'Istria
c'era anche un architetto, Filippo Calendario, che aveva partecipato
alla costruzione di Palazzo ducale. Era un lavoro molto redditizio,
tanto che il Calendario aveva riscattato dall'Arsenale due emerite galee
da guerra trasformandole in navi da trasporto; possedeva inoltre quattro
marani. Eppure, il suo slancio imprenditoriale fmì tragicamente!
Successe che un anno il Calendario riuscì a compiere con le sue quattro
imbarcazioni solo diciannove viaggi (invece dei venti, come avrebbe
dovuto in base ai regolamenti). La burocrazia veneziana gli inflisse una
forte multa, che il devoto e patriottico Calendario prese come
un'infamante offesa. sicche, quando venne ordita una congiura contro il
doge Marin Faliero, vi prese parte; nel 1354 la congiura viene scoperta
e l'infelice architetto venne arrestato, condannato a morte e impiccato.
E proprio tra quelle colonne di marmi di Palazzo ducale che egli aveva
personalmente trasportato da
Orsera!
In alcune fonti documentarie del XIV-XVI
sec., ci sono dei riferimenti all'impiego della pietra istriana nella
costruzione di molti famosi palazzi veneziani.
Il 1.mo giugno 1334 il Senato spedì
Leonardo Tagliapietra ad
Orsera
a lavorarvi la pietra per conto della Repubblica.
Nel 1484 l'architetto (e scultore)
Antonio Rizzo, proto a Palazzo Ducale, cioè sovrintendante alle opere di
stato, fIrmò un contratto con i fratelli Zuanne e Simon di
Rovigno per la consegna di sasso che poi venne impiegato nel Cortile
d'Onore e nella Scala dei Giganti.
Qualche tempo più tardi gli
scultori/tagliapietre Zuanne e Bartolomeo Bon s'impegnarono col Senato a
scolpire, per la somma di 1.700 ducati, nella cava di
Rovigno parti della Porta della Carta, l'entrata a Palazzo ducale, e
una statua di "Sam Marcho in forma de lion".
Durante la sua visita a Venezia nel 1495,
l'ambasciatore del re francese, Philippe de Comiens, rimase ammirato
delle "facciate di marmo bianco che loro viene dall'Istria, a cento
miglia di là".
Nel 1503 giunse a
Rovigno Giorgio Spavento,
sovrintendente alla manutenzione della laguna e ai restauri della
Basilica di S. Marco, per concordare con gli scalpellini locali la
preparazione di pietre per l'ampiamento della chiesa del S. Salvatore a
Venezia.
Con le stesse incombenze soggiornò ad
Orsera l'architetto Moro
Lombardo: ordinò materiale per la chiesa di S. Zaccaria.
La rinomanza del sasso istriano raggiunse
- per lo più attraverso Venezia - anche altre città appenniniche. A
Firenze la pietra orserese venne usata dal celebre Donatello; servì per
la costruzione di alcuni edifici anche a Bologna, Odine (ad esempio,
ne11525, materiale istriano venne impiegato per la chiesa di S. Giacomo)
e in altre località.
Pure l'Austria durante il suo impero
sfruttò la pietra d'Istria per opere pubbliche, come ad esempio il ponte
nei pressi della stazione ferroviaria (1841-'46). E più tardi ancora,
fino ai giorni nostri.
Istria-Recanati-Loreto: la traversata
delle pietre
Carichi col prezioso maretiale edile
istriano viaggiarono anche fino alla costa delle Marche, regione allora
possedimento dello Stato pontificio. La pietra rovignese andò a ornare
le facciate del famoso santuario di Loreto e della stessa Santa Casa. A
Loreto il buon nome della bianca pietra che, al sole e alla pioggia,
diventava sempre più resistente e bella, si tramandò per secoli. Ne
fanno fede i contratti di scalpellatura e trasporto del pregiato
materiale edile dalle cave di
Rovigno alla costa nei pressi
di Loreto. L'8 luglio 1571, ad esempio, il notaio di
Rovigno, Antonio Fachinetti dei Quarengis, stese un contratto tra
due "taiapiera" Zuanne Chatonar e Zorzi Iurizza - e Giona Boccalino,
architetto di Loreto, con il quale gli scalpellini si impegnavano di
lavorare i blocchi di pietra esattamente "circa lo disegno della S.ta
Casa di Loreto". Venne pattuito un contingente di 18 misure di
pietre a 45 soldi per ogni unità di misura, però il carico doveva venir
imbarcato e trasportato via mare a spesa dei soci rovignesi.
Notozie più vaste ci sono state
tramandate sulla ricostruzione del complesso sacro di Loreto nel 17
49-'55, cui sovrintese il famoso architetto Luigi Vanvitelli
(1700-1773). Anche in questo caso, come risulta dalle dettagliate
descrizioni conservate negli archivi della Santa Casa e del Vaticano,
accanto al celebre architetto, venne a trovarsi la non meno celebre
pietra istriana.
Il 19 novembre 1749, a Roma, si decise
che gli edifici di Loreto sarebbero stati costruiti in marmi d'Istria,
da trasportare con navi e sbarcare nel porto di Recanati. Un mese più
tardi al vescovo di
Parenzo, Gasparo Negri, venne
fatta preghiera di interessarsi affinche la consegna delle pietre per
quell'opera così importante avvenisse quanto prima. L'ampliamento della
facciata occidentale dalla casa apostolica e l'innalzamento del
campanile erano compito lungo e difficile, che richiedeva una
moltitudine di blocchi. L'Istria era piuttosto lontana e il trasporto
via mare era ostacolato dall'eterna nemica dello Stato pontificio, la
Repubblica di Venezia. Il cardinale Rezzonico in persona firmò un
contratto con il patron rovignese Mattia Bori che, date le circostanze,
si sobbarcò quella che era probabilmente la parte più difficile
dell'affare: il trasporto delle pietre! Le quali, in effetti, non solo
si trasportavano ma letteralmente contrabbandavano! Il 6 marzo 1750, sui
banchi di sabbia di Recanati, approdò il primo carico; la prima pietra
venne posta il 3 novembre; da una relazione del 20 marzo 1751 risulta
che i lavori erano già in fase avanzata. Le barche di Bori scaricavano
le pietre sui banchi di sabbia, donde con i buoi venivano trainate a
riva e lì lavorate prima di essere trasferite a Loreto. L'accorto patron
rovignese seppe abilmente evitare le milizie marinare veneziane,
navigando col maltempo per raggiungere con piccole imbarcazioni Recanati
e, a bordo di grandi navi, Ancona.
Nonostante i ripetuti interventi del
vescovo Negri, solo nel luglio 1753 il governo di Venezia abrogò il
divieto di esportazione del sasso istriano. Finalmente i proprietari
della cava orserese e patron
Bori ottennero carta bianca. Le barche, cariche del marmo
istriano, approdavano continuamente a Recanati portandovi blocchi che
suscitavano unanime ammirazione. In una relazione si menzionano i nomi
di eccellenti ed esperti scalpellini (Filippo Pancalli, Francesco
Pascuacci, Gianbattista Albertini), i quali dichiararono
all'amministratore della Santa Casa che "non si è mai avuta una
pietra così bella e dura che ai colpi di martello risponde come se fosse
un metallo". Quest'ispirata ode alla pietra istriana non è solamente
risultato dell'ingegno, bensì anche delle mani virtuose dei maestri
scalpellini, mani che scavarono capolavori, edifici per l'eternità.
Le mani degli scalpellini (talvolta
chiamati mastri da muro), mani di costruttori... hanno
immortalato la braudeliana "civiltà della pietra"
adriatico-mediterranea, cui l'1stria, con le sue ricche cave e le
bianche stratificazioni calcaree di eccezionale qualità, ha dato un
significativo contributo.
Miroslav Bertosa
Tratto da:
- Miroslav Bertosa, "L'avorio istriano
per Donatello",
Jurina i Franina, rivista di varia cultura istriana, n. 51,
estate-autunno 1992, Libar od Grozda (Pula), p. 38-41. All rights
reserved.
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