Biografia
di Matteo Bartoli
di Giacomo Devoto
[Tratto da:
Francesco Semi & Vanni Tacconi,
Istria e Dalmazia - Uomini e Tempi. Istria
e Fiume,
Del Bianco
(Udine, 1991).]
La carriera di Matteo Bartoli è stata
semplice: nato ad Albona nel 1873, fu studente a Vienna, lettore di
italiano a Strasburgo, titolare della cattedra di glottologia a Torino
dal 1908 alla morte (gennaio 1946). Tutto sembrerebbe giustificare una
vita di studioso rettilinea, aliena da drammi o da discussioni di
principi. E viceversa, a chi ben guardi, a queste omogeneità di
circostanze corrispondono due periodi diversi della sua vita. Il primo
che va fino al 1925 è essenzialmente all'ombra della sua opera
grandiosa sul «Dalmatico»: la scoperta, la illustrazione e la
definizione delle reliquie neo-latine della Dalmazia preveneta. È
un'opera nella quale la minuzia filologica, la impeccabilità della
scuola viennese, si innestano alla capacità intuitiva, al coraggio per
le novità, quando afferma i legami fra il dalmatico e il neolatino delle
opposte coste abruzzesi.
Ma accanto a questa precoce realizzazione
(l'opera è del 1906) questa prima fase che arriva fino ai suoi
cinquant'anni, mostra un travaglio, una riflessione e una
elaborazione interna che darà poi vita al secondo periodo della sua
attività. E difatti nel suo articolo
Alle fonti del neolatino
nella «Miscellanea Hortis»
manifestava un volto diverso a quello del «Dalmatico», uno sforzo di
riflettere non tanto sui risultati acquisiti dalla linguistica
romanza, nel suo trionfale cammino degli ultimi decenni, quanto
sugli strumenti e sulle armi di cui si era servita.
Per vent'anni non fece che pensare.
Poi nel 1925 compariva quella
Introduzione alla neolinguistica
che non solo significava critica di una vecchia metodologia, ma
presentava l'attrezzatura di una linguistica nuova, fondata su
principi nuovi, in polemica recisa col passato. È la
linguistica fondata sopra le cosiddette
norme areali e cioè volta a considerare, sulla base
della distribuzione geografica delle manifestazioni
linguistiche contrastanti, non solo le loro aree, ma l'età e le
cause; quando la linguistica tradizionale si era limitata a
descriverne il meccanismo e a sistemarle in «leggi». Le norme
areali furono oggetto di viva polemica, e per dieci anni il
Bartoli fu combattente intrepido. Naturalmente, non rimane tutto
quello che in quell'occasione ebbe ad affermare, e soprattutto
che le «norme areali» siano davvero delle «norme». Sono
piuttosto dei «tipi» che consentono di trarre certe conclusioni
con probabilità assai maggiore di altre.
Soprattutto la cosidetta «norma delle aree
laterali» ha rinnovato completamente il campo degli studi linguistici
obbligando gli studiosi a rinunziare al mito che tutte le parole che si
trovano in
alcune lingue neolatine (o
in alcune lingue indeuropee) debbono essere attribuite alle lingue
comuni (il latino volgare o la lingua indeuropea comune) senza nessuna
stratificazione. Che si sia imparato a conoscere lo spagnolo
hablar come specchio di una
situazione più antica rispetto a quella definita dall'italiano
parlare', che il latino
ignis per «fuoco» rispecchi
una situazione più antica rispetto al greco
pyr, questo è reso possiamo
dire certo da una «norma areale»; e le conseguenze beneficile di questo
riconoscimento sono da ascrivere in prima linea a chi ha saputo
formulare meglio il criterio, e cioè al Bartoli.
L'attività del Bartoli apparve allora
rivoluzionaria e perciò essenzialmente demolitrice. E tuttavia ogni
rivoluzione, proprio per la rigidità a cui è costretta a ricorrere per
rendere chiari ed efficaci i suoi postulati, implica nuove leggi, nuove
sistemazioni, nuove regolarità. L'aspetto costruttivo delle rivoluzioni
appare normalmente a distanza: ma nel caso del Bartoli questo ritardo
non si manifesta, vorrei dire per la sua profonda umanità. Alla ricerca
di certezze, l'uomo non si sottrae senza danno. Avversario delle
vecchie «leggi», il Bartoli nello stesso 1925 elaborò una nuova legge,
«una legge affine alla legge Verner» che diede l'aspetto definitivo
all'attività del suo secondo periodo. Dichiarò più tardi anzi di non
voler combattere le leggi in sé, ma solo la loro formulazione difettosa.
In questo dunque si ha, accanto al filone
accennato sopra del dibattito metodologico, quello costruttivo nel
campo, nuovo per lui, della comparazione indeuropea. Da questa non si
distaccò più. Il suo ultimo volume
Saggi di linguistica spaziale (1945) è una organica
incessante riaffermazione dei principi critici che lo separano
definitivamente dalla linguistica classica, e insieme di quella sete di
certezze per le quali egli rielaborò le sue «leggi» sul sistema
consonantico indeuropeo privo di consonanti aspirate; sui rapporti fra
la sede dell'accento e la nascita delle consonanti aspirate; infine la
teoria della cosidetta ossitonia indeuropea.
Naturalmente risalta in questa più l'umanità
e la vitalità del suo spirito che la grandezza tecnica dello studioso.
Questa vedrei piuttosto
negli scritti parziali che, non discutendo principi basilari ne
problemi di ricostruzione astratta, mirano invece a chiarire e rendere
intelligibili i problemi della distinzione linguistica e della
formazione di lingue nuove cosi nel campo romanzo come in quello
indeuropeo. Cosi occupandosi del
posto che spetta al latino nella famiglia dei linguaggi aria-europei
(1934) come già della storia del
latino volgare e della lingua d'Italia (1927), egli seppe
conciliare l'esigenza teorica per la quale ogni innovazione linguistica
deve avere una storia a sé, e quella descrittiva per la quale le
innovazioni devono essere in certo modo catalogate e classificate di
mano in mano che si passa da una lingua comune a una molteplicità di
lingue. Si deve a lui la distinzione fra innovazioni di età «preetnica»
che si possono immaginare ancora all'interno della lingua indeuropea
comune e innovazione di età «postetnica» o «deu-teroetnica» che si sono
sviluppate invece quando un embrione di distinzione linguistica si era
già costituito. Allo stesso modo, nel mondo neolatino si devono
distinguere innovazioni di età «romana» come il diffondersi di una
distinzione di pronuncia di e
aperte e chiuse, e innovazioni di età romanza come la dittongazione di
una e breve accentata in
sillaba aperta in ie.
La sua vitalità, la sua larghezza di
interessi appaiono anche dai campi, non soltanto linguistici, nei quali
egli si è sforzato di introdurre le beneficile conseguenze della
linguistica spaziale, Diede l'avvio a studi paralleli nel campo della
etnografia e delle letterature popolari, si occupò d'albanese, di lingue
americane e ugro-finniche.
Fuori dell'attività scientifica, basta
accennare al suo attaccamento costante, drammatico, verso la sua terra
di origine e l'intiera regione
giulia.
Due dei suoi ultimi scritti, del 1945, trattano delle
porte orientali d'Italia
e della Venezia Giulia, terra d'Italia. Ma più ancora che gli
scritti vale la testimonianza della sua morte: il suo cuore stanco
avrebbe potuto darci ancora parole e opere, se il distacco della terra
natia non gli avesse data l'impressione inconscia che vivere dopo quel
distacco, più non valesse. Il buon lavoratore, che ha testimoniato
efficacemente in vita per la scienza italiana nel mondo, è stato un
testimone di italianità, anche morendo.
Opere principali:
- Saggi di linguistica, spaziale,
Torino, 1945;
- Introduzione alla neolinguistica,
Ginevra, 1925.
Bibliografia:
- A. Colombis, Grammatici e glottologi istriani,
in «Pagine istriane», 1950, 4;
- G. Vidossi, Matteo G. Bartoli, in «Atti e mem. d. Società
Istriana d'A. e St. P.», 1949;
- G. Devoto, II linguaggio d'Italia,
Milano, 1974
|