Il
Conte Agostino Carli Rubbi
(1748 – 1825)
Agostino nasceva a Venezia il 25 giugno 1748
da Paolina Rubbi e da
Gian Rinaldo Carli. Non quindi a
Capodistria, come si è
creduto da taluni. Ebbe quale padrino di battesimo il doge Marco Foscarini amico
del padre fin dai tempi dell’università a Padova.
Versato negli studi, conosceva molto bene il
latino e parlava il francese, lo spagnolo, il tedesco, con cognizioni
dell’inglese. Avrebbe potuto seguire e continuare la luminosa carriera del padre
ma dominato da un carattere schivo e indipendente, insofferente alle soggezioni,
non volle mettersi al servizio di nessuno dei regnanti del suo tempo, causa
prima di conflitto con il padre. Amava gli studi storici e araldici,
giurisprudenza e matematica, godeva di notevole senso artistico e di perspicacia
politica che tuttavia, come si vedrà, non gli giovò.
Perdette troppo presto la madre, morta in
giovane età per tisi polmonare, perdendo con ciò una guida affettuosa,
confacente e qualificata, restando per lo più in mano alla servitù in quanto il
padre, preso dai molti suoi impegni, era spesso assente.
Nel 1753
Gian Rinaldo Carli si trasferiva a
Milano raggiunto l’anno dopo dalla moglie e dal figlio, che veniva collocato nel
collegio dei Padri Barnabiti. Attento alla sua educazione, Gian Rinaldo scriveva
l’operetta “Elementi morali, o sieno saggi di Morale Cristiana e civile,
principalmente preposti alla nobile gioventù”.
Dopo un breve periodo passato in Toscana,
sposata in seconde nozze la nobildonna Anna Maria Lanfranchi donna di carattere
bizzarro ed indomabile,
Gian Rinaldo tornava con la famiglia a
Capodistria
essendo morto, nel 1757, il padre Rinaldo. Dopo un periodo di poca pace e di
insofferenze manifestate ad ogni pie’ sospinto dalla Lanfranchi,
Gian Rinaldo
finiva per divorziare e Agostino passava sotto le cure dello zio Stefano che lo
metteva a studiare nel Collegio dei Nobili, tenuto dagli Scolopi.
Lo troviamo poi a studiare nel Collegio di Parma (1764) e
nel Collegio Teresiano di Vienna, tenuto dai Gesuiti con preminenti studi di
giurisprudenza (1766-68).
Completato l’iter con molto onore, Agostino passava a
Milano ad abitare col padre, che s’era bene sistemano in ambito governativo.
Iniziavano i dissapori in quanto il figlio non intendeva segui-re le orme del
padre, non accettava impieghi, e continuava gli studi giuridici e diplomatici
entrando anche nella dispendiosa bella vita della capitale lombarda.
Nel 1775 sembrava rivedersi e chiedeva un impiego, la
nomina di consigliere soprannumerario nel Supremo Consiglio di Pubblica
Economia, impiego che non otteneva. Nel 1777 lo troviamo a Ginevra per un
periodo limitato, che invece, dopo una malattia che impediva il suo rientro, si
prolungava attirato dal bel vivere ma occupandosi anche di matematica e di
fisica idraulica. Il padre, stizzito, gli sospendeva il sostentamento. Agostino
se la prendeva di brutto e ricorreva al tribunale di Venezia per avere parte
dell’eredità che la madre gli aveva lasciato in usufrutto. La faccenda andava
per le lunghe finché nel 1781 vinceva la causa ma perdeva il padre.
È questo un periodo oscuro del quale si sa qualcosa dalle
numerose lettere che egli scriveva al libraio veneziano Pasquali divenuto suo
grande amico e confidente.
Si allargava la rete dei contatti con uomini eminenti nei
vari campi della cultura e delle scienze, conosciuti nella casa paterna di
Milano, basti fare i nomi di Pietro Verri, di Cesare Beccaria, di Luigi Bossi.
Tornava finalmente a Venezia ormai uomo maturo bene accolto dagli amici
intessendo una nutrita corrispondenza epistolare col marchese
Girolamo Gravisi e
col vescovo Bonifacio da Ponte.
Nel maggio del 1788 lo troviamo a
Capodistria dove veniva
nominato membro dell’Accademia dei Risorti e dove, nel marzo dell’anno
successivo, sposava Maria Anna Pettenello, figlia del medico di Pisino, nozze
solennemente celebrate dal vescovo da Ponte. Passava a vivere a Trieste, dove
nasceva la prima figlia, Paolina, sperando di sistemarsi con un impiego
confacente. Nel 1793 si rivolgeva a Vittorio Emanuele II, re di Sardegna,
chiedeva la concessione della Croce dell’Ordine Militare dei SS Maurizio e
Lazzaro otteneva la facoltà di portare l’abito e la Croce della Sacra Religione
essendo ancora vivo il padre già insignito dell’ Ordine, nel quale entrava alla
sua morte. Seguiva la nomina a Consigliere di Corte per il Commercio di Torino
ma lo scoppio della guerra con la Francia vanificava la felice apertura. Doveva
pazientare occupandosi di borsa e questioni mercantili che poco rendevano
men-tre la famiglia cresceva. Nasceva nel 1796 la seconda figlia, Eleonora.
Il 1797 vedeva la armi francesi di Napoleone minacciare
l’Istria. Favorevoli alcune città,
Pirano,
Parenzo,
Rovigno, ma non il nostro
Agostino che non vedeva di buon occhio la democratizzazione conseguente.
Autonominatosi diplomatico, prendeva dei contatti col commissario di guerra
Chèvillard e col comandante di marina Sibille dipingendo la situazione con
foschi colori al fine di scoraggiare col metodo della disinformazione la mossa
militare. Brigava per la dedizione al re d’Ungheria o all’Austria contattando i
maggiorenti capodistriani, Girolamo Gravisi e il sindaco deputato Nicolò
Baseggio, Gianpaolo Polisini, Nicolò del Bello, che lo dissuadevano. Si sa come
andarono le cose, ma non è noto che è stato Agostino a portare segretamente da
Trieste in casa dello zio Stefano, sei giorni prima della sommossa popolare, la
bandiera austriaca.
La famiglia cresceva ancora, con la nascita della terza
figlia Cecilia, mentre i Francesi gli sequestravano la commenda di Torino.
Contrario alle amministrazioni civiche e camerali, il conte Agostino propendeva
per qualche impiego politico. Domiciliato a
Trieste da 12 anni, costantemente in
lotta col bilancio economico familiare, aspirava a 54 anni ad un servizio
regolare per cui nel 1801 partiva per Vienna dove intendeva farsi vedere e farsi
valere. L’imperatore si mostrava comprensivo ma voleva un piano per
l’organizzazione delle nuove province. A Trieste non poteva contare su molti
appoggi, il governatore conte Brigido gli era anzi contrario. Il monarca
incaricava qualcuno di formare un processetto informativo “de vita, moribus
scriptisque” con risultati contradditori. Tentava una mossa a Venezia ma doveva
ritornare a Trieste. Erano passati, tra una cosa e l’altra, tre anni e due mesi
e qui trovava la sua biblioteca svaligiata.
Non sopportando più la situazione, decideva di andarsene
con tutta la famiglia, che molto amava definendola PACEM (Paolina Agostino
Cecilia Eleonora Marianna), e nel dicembre del 1807 si sistemava a Venezia in
una sua casa dove rimaneva fino al termine dei suoi giorni. Il governo italiano
napoleonico gli concedeva qualche attenzione esentandolo da determinati obblighi
e seccature, anche se lui sperava che, col tempo, Venezia passasse sotto il
Regno di Sardegna. Ma i Francesi rimanevano, e allora Agostino tentava di
mettersi in mostra presso Napoleone scrivendo lettere “ Sur la Maison Bonaparte et sur
divers sujets histori-ques” indirizzate al ministro conte Mariscalchi, già
amico del padre, pregandolo di pubblicare una lettera con l’impegno di fare a
sua volta lui una pubblicazione in italiano. Lo pregava inoltre, a 63 anni, di
un collocamento ma non in politica.
Finalmente nel maggio del 1812 veniva nominato “Regio
delegato alla scelta dei Documenti che fossero riconosciuti appartenenti
all’archivio diplomatico di Milano, e che sono negli archivi demaniali de’
Dipartimenti Brenta, Tagliamento e Adriatico”. Faceva in questo lavoro buona
prova per cui veniva nominato “alunno assistente gratuito” presso l’Archivio
Generale di Venezia con particolare affidamento dell’importante e riservato
settore degli Inquisitori di Stato, ubicato a San Teodoro.
Nel 1813 moriva a
Parenzo lo zio Stefano Carli. Le
relazioni tra i due non erano state delle migliori, non senza dissensi, ma i due
s’erano poi conciliati. Comunque sia, il vecchio conte Stefano non si ricordò
molto dell’unico suo nipote. Fatto sta che lasciava la sostanza al comune di
Parenzo e, in caso di scioglimento, alla città di Grenoble con tutta una serie
di sproporzionate obbligazioni. Il conte Agostino si risentiva e impugnava
l’atto per vie legali secondo il particolare iter previsto dal codice civile
francese, nel tempo in cui Napoleone spariva dalla scena. Ricorreva allora
all’imperatore di Vienna che lo rimandava ai tribunali e alle autorità
competenti per territorio (1814), le quali si trovavano a Trieste dove non
otteneva soddisfazione venendo anzi condannato al pagamento delle spese legali
(1817). Era lo stesso comune di Parenzo a non versare un soldo di quanto doveva
quale vitalizio ( non certo generoso) decretato dallo zio defunto (1820).
Nel frattempo, con l’avvenuto cambio di governo e
l’appoggio dell’arcivescovo di Vienna, il conte Agostino otteneva la riconferma
del posto archivistico con l’assegnazione di 3 fiorini a titolo di diaria.
I buoni servigi prestati a San Teodoro muovevano il
governo, nel 1816, a porlo a capo del grande Archivio dei Frari e ciò grazie
alle mosse della moglie in quanto Agostino, dopo tante sfortune, s’era lasciato
prendere dalla sfiducia. Restava qui fino alla morte occupandosi diligentemente
e pazientemente delle sue particolari mansioni proseguendo nel contempo negli
studi e nei contatti con gli amici, tra i quali il marchese Gian Paolo Polesini,
che nel 1824 si recava a visitare a Parenzo.
Lo stato di salute non era molto buono, soggetto a febbri
intermittenti, e moriva nel marzo del 1825 per un male alla vescica ( che poteva
essere stato un cancro ). Il tribunale civile di Venezia riconosceva quali sue
eredi la moglie e le figlie, che gli erano sempre state accanto.
Molte carte e diversi manoscritti di Gian Rinaldo e di
Agostino venivano conservati da ultimo, sempre a Venezia, dalla figlia di
Cecilia, Marianna, con la quale arriviamo alla fine del secolo.
Ill conte Agostino Carli Rubbi è stato in conclusione un
uomo altero di carattere, di idee liberali e amante dell’indipendenza ma non
baciato dalla fortuna. Avrebbe potuto eguagliare in fama il padre Gian Rinaldo
ma non ne ebbe il modo (forse neanche la voglia) intralciato da complesse
situazioni e imprevedibili impedimenti. Veniva a mancare l’opera sublime alla
quale non gli è stato possibile attendere pur avendone la capacità, le
conoscenze, la profondità di mente e di dottrina. Ha lasciato però un nutrito
epistolario che ne fa fede. Tenuto molto in considerazione per la vasta
erudizione e lo spirito critico , contattato dagli studiosi, nel 1823 era stato
avvicinato anche da Francesco Combi che gli chie-deva notizie sul manoscritto de
“La Rinaldeide” di Alessandrone Gavardo ( che passerà alle stampe molto più
tardi, nel 1950).
Lasciava manoscritti in lingua francese e italiana, 11
saggi completi e memorie su vari temi economici, commerciali, politici,
genealogici, araldici. Dava alle stampe nel 1811 un solo lavoro che egli
dedicava allo zio Stefano, seguito da una traduzione in francese, ma non
curandosi di indicare il suo nome d’autore sul frontespizio dell’edizione.
(Fin qui, avvenimenti, notizie e date
reperite nella biografia di Leone Volpis pubblicata nel mensile “Pagine
Istriane” della prima serie, edita a
Capodistria, nei fascicoli usciti tra il
1909 e il 1910)
LE
CURIOSITÀ DI CAPODISTRIA
Pur essendo vissuto per lo più lontano da
Capodistria, il conte Agostino è stato un profondo conoscitore di
Capodistria,
del suo ambiente, della sua gente, della sua storia. Ne fa fede uno scritto in
lingua francese intitolato “Les curiositès de Capodistria pour mon ami M.R.
l’Abbé Barrd par le c.te Agostino Carli Rubbi”, tutt’ora inedito. Dato per
disperso, esiste in realtà una copia tratta dall’originale (ora introvabile) dal
prof. Benedetto Lonza tra gli anni 1920 e 1930.
Un lavoro non datato scritto di getto senza pretese
letterarie in epoca napoleonica come lasciano supporre certi accenni , donato in
originale al Municipio nel 1879 e da questo preso in consegna e regolarmente
protocollato.
Trattasi di una non spregevole opera di storia patria, ma
come mai? Era l’abate di Bard, savoiardo, un distinto soggetto che, pur non
essendo istitutore di professione, aveva accettato su solle-citazione del conte
Francesco Grisoni di occuparsi dell’educazione del figlio Pompeo soggiornando a
Capodistria e a Daila. Il conte Agostino lo avrà conosciuto probabilmente a
Torino, per cui volle compilare per lui una guida della città istriana secondo
un uso che aveva preso piede nelle terre venete e che stava estendendosi in
tutti i paesi.
L’esposizione ha inizio senza preamboli entrando subito
nel merito con l’elenco delle opere di pittura esposte nel Vescovato, nel Duomo,
nelle chiese grandi e piccole e nei conventi in termini, diremmo oggi, da
cicerone turistico con accenni alle pietre sculte e letterate, per lo più
d’epoca romana, che si trovano sul posto, passando poi alle tele e alle pietre
conservate nelle magioni e nelle case private. Iniziato in forma di catalogo, il
lavoro si sviluppa richiamando progressivamente l’interesse dell’autore, che
finisce per meglio impegnarsi nel lavoro.
“Il y a peu de petites villes dont le Clergè aye donnè
à l’Eglise autant d’Eveques que celle de Capodistria”: sono poche le
piccole città che hanno dato alla Chiesa tanti vescovi quanti quella di
Capodistria. E qui il conte Agostino si dilunga in una esposizione densa di
nomi, di dati, di località con precisazioni sull’origine del vescovato
giustinopolitano che egli dichiara non ascrivibile a San Nazario perché frutto
di una leggenda.
Seguono nozioni riguardanti la parte letteraria sulle
opere di letteratura, sulle accademie cittadine, sulle biblioteche e sugli
autori distintisi nelle varie materie ad iniziare col monaco Beato Monaldo,
eminente giurista. Le citazioni dei “les Jacobins” e dei “Belli à la
grande rue”, cioè della famiglia Belli di Via Eugenia, permettono di
collocare l’opera nell’epoca napoleonica.
L’autore dichiara poi di provarsi a dare ordine alla parte
politica di questa piccola raccolta di dati con elementi di storia, con uno
schizzo riguardante il governo municipale iniziando con l’Egida e la Capris dei
romani e dando dimostrazione di conoscenze approfondite. Del governo municipale
elenca le ventitre magi-strature e mansioni con in testa i due sindaci deputati
per finire con il controllore del Fondaco.
“Nous voici au dernier article qui regarda les notions
sur les 35 familles qui composent actuellement l’aristocratie municipale de
Capodistria”, famiglie dell’aristocrazia municipale che vengono riportate in
ordine alfabetico da quella decina o poco più che rappresentavano l’eminenza
cittadina alle decadute famiglie dei “balotini” non per questo declassate.
L’elenco inizia con gli Almerigogna, balotini, e termina con gli eminenti
Zarotti. I conti Carli, è inutile dirlo, trovano qui non poco spazio.
Dedicato com’è il lavoro all’abate de Bard, il conte
Agostino aggiunge in chiusa le informazioni riguardanti i rapporti storici
intercorsi tra
Capodistria ed il Piemonte.
In una nota finale l’autore dichiara di aver cominciato a
scri-vere queste “cavresaneries” per distrarsi ma se avesse immaginato
quanto tempo avrebbero richiesto non avrebbe intrapreso il lavo-ro. Le considera
una massa di notizie che non si sarebbe dato la pena di correggere, limare e
integrare non intendendo perdere al-tro tempo senza alcun utile per nessuno.
La non comune conoscenza della storia e
della società capodistriana da parte del conte Agostino trova conferma anche in
un altro suo scritto, steso quale procuratore della città in un esposto
presentato nel 1819 all’Eccelsa Araldica Commissione di Venezia per far
conoscere le prerogative della nobiltà locale. Trattasi di una pagina episodica
riguardante la richiesta della concessione dei “sindaci del popolo” presentata
nel 1769 al podestà e capitano Girolamo Marcello lamentando le parzialità e le
angherie dei nobili sotto pretesto del bene comune. Il corpo nobiliare si era
diviso in due parti, l’una maggioritaria favorevole e l’altra contraria ma
minoritaria per cui scavalcava le autorità locali rivolgendosi direttamente al
Senato Veneto di Venezia che dichiarava la sua inap-pellabile contrarietà ai
sindaci del popolo. Il conte Agostino esponeva i fatti con cognizione di causa e
abilità avvocatizia.
IL VECCHIO ERUDITO
E IL GIOVANE SCRITTORE
Compariva un giorno ai Frari di Venezia, davanti
al conte Agostino ormai avanti negli anni, un giovane scrittore di bella
presenza, chioma mossa ma corretta, sguardo serio e penetrante, guance scavate
della tensione intellettuale. Era
Alessandro Manzoni che possiamo ritenere
indirizzato là dal nonno materno Cesare Beccaria che conosceva bene Agostino
avendo frequentato la casa di Milano dei Carli intessendo interessanti rapporti
sia col padre che col figlio.
Il giovane
Manzoni cercava ispirazione per un romanzo che
intendeva scrivere secondo la moda allora in auge del “romanzo storico” quale
componimento misto di invenzione e di cronaca vissuta ma non in tema di grandi
fatti e con personaggi non tutti immaginari.
Il conte Agostino aveva di che far contento il giovane e
tirava fuori un voluminoso incartamento con gli atti concernenti il processo
celebrato nel 1607 dalla Corte Pretoria di Padova contro Paolo Orgiano
riconosciuto colpevole e istigatore di violenze varie ai danni della gente,
uomini e donne, dell’omonimo villaggio di Orgiano del Basso Vicentino. Cambiate
date, nomi e località, si possono riscontrare tutti gli ingredienti travasati in
buona misura nel romanzo manzoniano “Fermo e Lucia”, prima elaborazione di
quelli che saranno infine i celebri “Promessi sposi”.
Ne scrive Claudio Povolo nel suo libro “Il romanziere e
l’archivista. Da un processo veneziano del Seicento all’anonimo manoscritto dei
Promessi Sposi” edito nel 1993 dall’Istituto Vene-to di Lettere Scienze ed Arti:
“La coincidenza dei fatti emergenti da tale processo con quelli narrati da
Alessandro
Manzoni è tale da rendere plausibile e legittima l’ipotesi che egli,
nella fase di gestione ed avvio del suo romanzo, avesse potuto prendere visione
del fascicolo processuale”.
Il fatto è rimasto riservato per più
motivi, principalmente perché l’accesso ai fondi archivistici era proibito e il
conte Agostino Carli Rubbi non era persona tale da venir meno ad una
disposizione di tal fatta. Se non in via del tutto eccezionale e con persona da
lui ben conosciuta, il nipote di Cesare Beccaria, quel
Alessandro Manzoni che da
parte sua si è guardato bene dal tradire la fiducia accordatagli.
BIGLIETTI DA
VISITA
Il prof. Leone Volpis trovava nell’archivio
domestico dei marchesi Polesini e precisamente tra le carte di Gian Paolo Sereno
(1739-1829) due biglietti da visita del conte Agostino lasciati in occasione
di una sua visita. Ne dava notizia Attilio Gentile sul numero di
giugno-settembre 1910 della rivista “Pagine Istriane”.
L’uno è un semplice cartoncino da cartoleria incorniciato
da un fregio di genere ma con la scritta autografa C.te Agostino Carli Rubbi, e
come tale interessante.
L’altro biglietto si fa invece notare perché opera
dell’incisore veronese Domenico Cagnoni al quale il conte Agostino aveva
commissionato il biglietto con indicazione del disegno da incidere. Vale a dire
monumenti romani di Pola tratti dalle “Antichità italiche”, nota opera del padre
Gian Rinaldo: l’Arco dei Sergi, l’Arena, il Tempio di Augusto, la Sfinge sul
basamento della quale si legge la seguente incisione “Il Commendatore / Conte
Agostino / Carli Rubbi”. Evidentemente con riferimento alla commenda dell’Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro del Regno di Sardegna.
Una prova in più dell’area culturale nella
quale si muoveva anche il figlio di Gian Rinaldo. |