“Sebbene non fosse
tardi, la stanza era quasi al buio. Nelle vecchie città di
provincia la sera scende presto; il sole gira alto sopra le
case addossate le une alle altre senza respiro, e, appena
comincia a declinare, le ombre si allungano e le viuzze
restano squallide. Nella camera gialla, una stanza ch’era
qualcosa tra il tinello e il salotto, entrava ancora un
raggio di sole, ma di sbieco…”
Due ombre, una voce crucciosa e una
voce dolce e rassegnata rompono il silenzio precedute da un
sommesso rumore, quello della suoneria di un orologio che batte
le ore 4. Batte l’ora sopra i tetti delle case anche l’orologio
di Duomo, ma alcuni minuti dopo: è un tocco di sottile umorismo
che non manca mai in Quarantotti Gambini. Il cruccio sta nel
fatto che ha preannunciato il suo arrivo il comproprietario
della casa, già generale dell’esercito austriaco, temendo i due
vecchi magari senza confessarlo qualche inconveniente causato
dal mutato corso politico. Come lo si dovrà chiamare? Non
certamente generale né eccellenza, ma semplicemente conte: il
conte Paolo, cugino del conte Piero e della contessa Ines, e di
quanto è stato non bisognerà fare parola.
Sono i membri della classe un tempo
egemone e oramai avviata al tramonto, il romanzo corre infatti
sul filo di confine tra il mondo esausto che ha fatto il suo
tempo ed il mondo nuovo e sanguigno che avanza inesorabilmente
mutando l’assetto sociale.
“Il conte Paolo arrivò l’indomani mattina, col
vaporetto delle undici. La signora Ines e il signor Piero lo
attesero nel vestibolo piccolo, in cima alle scale; lei,
alta, ravvolta nello scialle nero di lana, perché fuori
delle stanze faceva freddo; lui, più basso e grosso, col
pellicciotto grigio”.
Attendevano reputando che forse
aveva perso il vapore.
“Ma ecco uno scoppio di voce, ilare: — Tutto a suo posto!
Tutto a suo posto! Come trent’anni fa! — E poi uno
scalpiccio leggero, su per le scale. Ines e Piero si
guardarono muti. Il conte Paolo entrò come un colpo di
vento, e si arrestò sulla soglia, allargando le braccia: —
Oh! Cugini! Cari cugini! — Gli occhi gli splendevano
nerissimi, in contrasto con i capelli e coi baffetti
candidi.”
Era accompagnato dalla governante
Basilia ch’era stata mandata ad accoglierlo con l’istruzione di
prendere una carrozza che egli aveva rifiutato preferendo fare
il tragitto a piedi. Basilia, altro personaggio chiave, che
rideva sciolta e ringiovanita, piena di premure.
La ventata recata dal generale
(pardon, dal conte Paolo) provocava non poco scompiglio
specialmente nell’animo e nel fisico del cugino Piero, che si
sentiva obbligato ad uscire da uno stato di abulia al quale si
era lasciato andare non completando gli studi intrapresi
all’Università di Padova e abbandonando la vita di società,
a riprendersi facendosi vedere nuovamente, tra l’altro, nelle
sedute della Società del Teatro di cui egli era consigliere da
molti anni.
La richiesta di visitare la casa
offre a Quarantotti Gambini l’occasione di portare il lettore in
giro per il vecchio edificio, per i suoi meandri ormai
disabitati ed oscuri risvegliando nei personaggi assopiti
ricordi. La stessa contessa Ines metteva mano nei cassetti di un
mobile con aperture a sorpresa, in uso nei tempi andati, traendo
un cofanetto foderato di velluto rosso conservato diligentemente
da oltre 60 anni pieno di lettere, di “ricordi”. Capitava anche
al conte Paolo di sentirsi riafferrato da suggestioni mai
svanite:
“— Quella rosa…Quella rosa… — Si riscosse ad un
tratto — Ma dov’ero allora ? Si era ricordato
all’improvviso, che alzandosi una mattina, tanti e tanti
anni fa, aveva trovato in un bicchiere del lavamano,
freschissima, una rosa rossa. Ed era rimasto sorpreso perché
la sera prima, ed era rientrato tardi, quella rosa non
c’era. Quella mattina egli era di partenza, e quindi non
aveva mai potuto sapere chi l’aveva messa”.
Rinasceva in casa un po’ di vita
dato che il conte Piero non intendeva affatto mostrarsi meno
“giovane”, meno “forte”, del cugino. Ci scappava anzi, con
grande meraviglia ma condiscendenza della consorte Ines, un
invito al Teatro Ristori per l’opera “Il barbiere di Siviglia”.
Egli aveva sperato in un rifiuto, ma no, il conte Paolo
accettava! Si presentava subito un problema angustiante allorché
il conte Piero vedeva con un sussulto che all’ingresso del
teatro c’era anche il marchese Balzeroni:
“Se viene a teatro, — pensò — c’è il caso di passare un
brutto momento. E sbirciò con cruccio Paolo. Egli temeva che
il Balzeroni, volontario di guerra sul fronte italiano e
uomo, come dicevano, intransigente, affrontasse in pubblico
l’ex generale austriaco, per dargli del rinnegato e magari
per buttarlo fuori del teatro”.
Un’angustia da togliere il respiro,
ma nulla di tutto questo, anzi il contrario perché il marchese
Balzeroni insieme ad altri veniva, si, durante un intervallo, ma
ad ossequiare il vecchio generale chiamandolo addirittura
Eccellenza e presentando con calore sé e ciascuno del gruppo. Un
capitolo, questo, che si può definire in certo qual modo fuori
testo perché insolitamente lungo ma bene inserito, quasi un
piccolo trattato di storia anagrafica capodistriana sia pure
romanzata, indice di quanto Quarantotti Gambini abbia amato la
sua e nostra terra. La scenetta si presenta sorprendente e quasi
blasfema essendo ancora ben vivo il ricordo della guerra in un
ambiente ancora intriso di un irredentismo ma accettabile nel
1937, quando cioè l’autore scrive, in quanto indice di mutamenti
esistenziali che porteranno, come noi ben sappiamo, ancor più
lontano.
Piano piano stava succedendo
qualcosa. Il generale, così lo possiamo chiamare anche noi,
andava e veniva ma cominciava a mostrare la sua reale età.
L’autore lo portava sullo spalto del Belvedere che si apriva
sull’ampia distesa del mare coronata dalla collina di Punta
Grossa animata dalla pittoresca miniatura di un vaporino della
Navigazione Capodistriana dalla ciminiera nera cerchiata di
rosso:
“Aveva in mano una rosa
rossa, grande ma ancora tutta raccolta, e ogni tanto la
portava con attenzione alle narici. Era un po’ pallido, come
abbattuto; attorno agli occhi il cerchio d’ombra si era
fatto più fondo, più largo, e i baffetti parevano più
candidi che mai. Quella mattina si era destato presto, e
subito aveva guardato sul lavamano. Era vero o aveva
sognato? La rosa era là, intatta e splendida, come l’aveva
trovata la sera innanzi tornando dal teatro… Non aveva
dubbi, era stata Basilia. Egli si sentiva felice, perché
questo episodio della rosa legava Basilia al suo passato.
Dunque era stata lei, anche tanti anni fa”.
Una storia d’amore che si riaccende
in termini psicologici tra due esseri oramai avanti negli anni?
Un tema dissueto e difficile, questo, che tenta l’autore, il
quale lo svolge delicatamente, a modo suo.
Ma, giunti quasi a metà romanzo,
ecco l’imprevisto:
“Il signor Piero si svegliò al suono dell’orologio
del Duomo. Si sfregò gli occhi, e vide che dagli scuretti
filtrava luce. Istintivamente, come faceva ogni mattina, si
volse verso il letto di Ines. Era vuoto. “Ahi, — pensò,—
dev’esser tardi!”e mise i piedi fuori delle coperte. Si
vestì in fretta e corse subito da Paolo.”
Doveva comunicargli la soluzione di
una sciarada che la sera prima li aveva impegnati entrambi.
Ebbene, lo trovò esanime. Era morto nel sonno.
Gli avvenimenti si intrecciano.
“Dalla cucina, dove Basilia accolse la notizia senza
un grido ma facendosi bianca come le piastrelle
dell’acquaio, il signor Piero si precipitò attraverso il
vestibolo piccolo, in camera da letto. Non capiva dove si
era ficcata Ines, e appena allora si meravigliò ch’ella si
fosse alzata a sua insaputa.”
Salta così fuori inopinatamente una
storia parallela. La contessa Ines, tranquilla e per forza
abulica anche lei dovendosi accontentare di “stare alla finestra
a guardare chi passa”, si era rianimata tirando fuori dal suo
cofanetto le lettere di tanto tempo fa che cadevano in mano al
marito facendolo infuriare immaginando egli una segreta tresca
d’amore con un certo ungherese, che poi era tornato a Budapest.
Il vecchio marito non si dava pace, sproloquiava, ma quando
risultava che non si trattava di lettere d’amore la tempesta si
acquietava: un episodio di vita coniugale impostato e descritto
in termini magistrali in cui tutti — Ines, Piero, Basilia ed
anche la domestica Rosa — svolgono una parte ben caratterizzata.
Non solo, ma la verità è che a suo tempo la giovane Ines era
rimasta impressionata dal giovane cugino Paolo, allora capitano,
e che era stata lei e non Basilia a recare quella rosa rossa
vista il mattino della partenza:
Quel giorno “Ines si alzò prestissimo; e, piano piano, entrò
nella stanza. Paolo dormiva e non si destò. Sapeva di commettere
un’audacia, ma era appunto questa consapevolezza che,
turbandola, la spronava. Con una rosa in mano si avanzò, e il
cuore le martellava in gola…Con quell’omaggio, dovuto a un
impulso vago ma irresistibile, le parve, confusamente, di aver
concluso qualcosa…Uscendo da quella stanza si sentì leggera
leggera.”
Si può ben immaginare lo scompiglio
provocato dall’improvvisa morte in casa e nella cerchia delle
conoscenze. Sul vecchio Piero non si poteva contare ed è Basilia
che veniva incaricata da Ines di occuparsi di quanto occorreva
fare. Emergono così nuovi personaggi in pagine
che sono tra le più belle del romanzo. Il medico dott.
Rascovich, che viene incaricato di praticare la puntura al cuore
che una volta si usava richiedere ai medici nel timore di morte
apparente con conseguente sepoltura di persona viva ( cosa
accaduta una volta anche a Capodistria, scoperta in una tomba
del convento dei Servi di Maria al Porto). Troviamo descritta
quell’operazione in termini molto crudi, inconsueti in
Quarantotti Gambini.
È Basilia che lo ha mandato a
chiamare dalla giovane domestica Rosa, che non sta in sé a
tenersi una simile notizia che nessuno ancora conosce:
“guardava i passanti con un leggero cipiglio, e, dentro di sé,
li disprezzava un poco per la loro aria tranquilla…si sentiva
più grande , più importante di loro, e accresceva la sua aria
severa. Li sapeva privi di una notizia che li avrebbe lasciati
attoniti, spegnendo per un momento sulle loro labbra quell’aria
canzonatrice che in quella cittadina era un vezzo quasi comune”
Una stoccatina che si attagliava
veramente a molti dei capodistriani, che Quarantotti Gambini
dimostra di conoscere piuttosto bene tanto da definirsi lui
stesso capodistriano!
La domestica Rosa (non ancora colf,
collaboratrice familiare, metamorfosi inimmaginabile in quel
tempo) non resisteva alla tentazione di fermarsi un momento
davanti al portone dei Balzeroni a sbirciare indecisa. C’era un
uomo, bianco di capelli e abbronzato, Andrea, tra il servitore e
l’ortolano, al quale Rosa passava la notizia, che egli riceveva
attonito in modo strano correndo subito a comunicarla al
marchese Balzeroni.
Si viene a scoprire a questo punto
un segreto di famiglia : Andrea altri non era che il fratello
naturale del conte Paolo, dell’ex generale, per cui non mancava
di presenziare alle esequie anche lui pur sconosciuto ai più.
L’incontro con Basilia non lascia dubbi quando lo incontra nella
casa oscurata per il lutto:
“Improvvisamente fece per mandare un grido e per
poco non venne meno.
Vestito di scuro, aveva visto venirle incontro giù per le
scale il conte Paolo. Retrocedendo si sorresse al passamano,
e chiuse gli occhi. Quando gli riaperse si vide accanto,
nella penombra, quella figura.
Chi è? — volle gridare, ma balbettò appena, con la bocca legata.
Aveva gli occhi spalancati e il viso come uno straccio.
Quella figura che, che stava oltrepassandola, si volse e sorrise
con tristezza:
— Non mi riconosce? — rispose: — Sono Andrea. L’ortolano di casa
Balzeroni. In questo buio anch’io ho stentato a riconoscervi.”
Un nuovo imprevisto rapporto tra i
due? Tra due non più giovani? Sembra proprio così.
Tutto il romanzo è animato da spunti e riflessi psicologici
rispecchianti situazioni a volte suggerite e a volte non
definite.
Un figlio naturale non riconosciuto,
o sconosciuto tra i più, era una cosa non rara al tempo delle
famiglie titolate con beni e titoli trasmissibili e Quarantotti
Gambini non manca di inserire anche un personaggio del genere
nella trama del romanzo perché rispondente a fatti accaduti.
Basilia non è più una donna giovane, è vissuta sempre chiusa in
sé stessa, ed ora non sa resistere a qualche cosa che sta
sciogliendosi dentro di lei, non sa resistere alle lacrime
coinvolgendo, sembra, anche lo stesso Quarantotto Gambini in
pagine molto belle che riguardano anche il riavvicinamento di
Piero e di Ines:
“La voce di Piero era un po’ emozionata, più bassa
del solito; come se fosse raffreddato. Sotto gli occhi di
Ines egli si sentiva un po’ impacciato; ma, appena ella li
abbassava, la sbirciava con interesse. Ines, nonostante la
sua età, gli pareva ancora bella, fine soprattutto; ed egli
indugiava con piacere su quelli ch’erano gli ultimi segni
della sua grazia, sorpreso di non averli notati prima.”
Dopo il funerale la vita comunque
continuava in maniera alquanto inaspettata. Il medico Rascovich,
presentato non come un Adone ma amante delle gonnelle, e il suo
rapporto con la giovane domestica Rosa, timida ed ingenua nella
sua freschezza, che finisce in un matrimonio, evento che fa già
parte del mondo che avanza. Il vecchio mondo del conte Piero e
della contessa Ines (i personaggi meglio cesellati, attorno ai
quali gira il microcosmo del romanzo) che emerge nel rigurgito
ormai soltanto psicologico del passato.Il testamento del conte
Paolo e conseguenti complicazioni, che con grande sorpresa del
cugino Piero risulta proprietario di tre case a Trieste e a
Vienna. Il capitolo un po’ goldoniano dei popolani che si
scambiano pareri e presunte informazioni sullo sconosciuto padre
di Andrea che in un certo momento si ribellai alla sua
condizione richiudendosi in sé stesso. Il ritorno di Piero e di
Ines alle vecchie abitudini. La governante Basilia che vede
finalmente realizzata la sua aspirazione venendo accolta a
tavola, non solo, ma che si vede anche assegnare una stanza
nell’ala padronale del palazzetto per decisione della contessa
Ines che prevede una non lontana necessità di aiuto diretto:
“Passò un inverno, e poi un altro.
Un giorno arrivò dall’Ungheria la partecipazione di morte di
un certo Bela Szoltay, indirizzata con poche parole della
figlia che diceva di eseguire la volontà del defunto,alla
signora Ines; ma Basilia, non riuscendo a capire di chi si
trattasse e temendo di turbare la signora, bruciò quella
carta.”
È così che si conclude una vicenda
umana presentata con l’ immediatezza espressiva
di una prosa asciutta e suggestiva che pongono “La rosa rossa”
nel novero dei più bei romanzi della prima metà del 1900. Un
tramonto e un’alba, il mondo
crepuscolare degli anziani che sta per
aprirsi al futuro in nuove pagine,
quelle del ciclo di Paolo, il ragazzo di Semedella, dei suoi
compagni, delle sue compagne, e degli inquietanti interrogativi
che lo sbocciare della vita inevitabilmente comporta con “Le
trincee”, “Il cavallo Tripoli”, “Le redini Bianche”, “L’amore di
Lupo”, che si agitano già nella mente di
Quarantotti Gambini.