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Antonio Ive.
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I dialetti ladino-veneti dell'Istria.
— Strasburgo, Trübner, 1900
(in 8.o pp. XXIII-207)
[Tratto da: Rassegna Bibliografica della Letteratura
Italiana, Anno X (1902), Gennaio-Febbraio, Fasc. 1-2, Enrico
Spoerri, Libraio-Editore (Pisa, 1902) p. 5-10.]
Fino dal 1873 l'Ascoli nei Saggi ladini dedicava all'Istria
veneta un breve capitolo; nel quale, valendosi di non molti
materiali, tracciava per il primo un rapido ma sicuro schizzo delle
condizioni fonetiche di tre parlate, scelte non a caso, di quella
penisola, le parlate di Pirano, Rovigno e Dignano; confrontandole
col veneto di terra ferma e le due ultime anche (e le pagine dov'è
istituito questo confronto non sono delle meno fini e sagaci
dell'insigne volume) col dialetto allora morente e ora morto
dell'isola di Veglia, nel Quarnero. Questo capitolo servì di
incitamento a proseguire ed estendere le indagini ivi iniziate al
prof. A. Ive di Rovigno, noto per aver dato fuori fino dal 1877 i
Canti popolari istriani, che nel 1886 pubblicò nell'
Archivio glottologico (vol. IX, 115-87) uno studio sull'antico
dialetto di Veglia, senza per altro alterare le linee del magistrale
abbozzo dell'Ascoli, ed è poi con lodevole tenacia venuto via via
ricercando i dialetti dell'Istria sua, e ora ha finalmente raccolto
tutto il frutto delle lunghe e amorose fatiche intorno ai medesimi
nel volume che ci sta dinanzi, venuto in luce fino dall'anno
scorso,(1) ma del quale, per quanto ci consta,
nessuno ha ancora reso conto tra noi.
Poiché nell'Introduzione è, per così dire,
spremuto e condensato il succo di tutto il lavoro, ci fermeremo di
preferenza su di essa. "Lo studio presente si prefigge adunque di
esaminare da vicino i dialetti odierni dei seguenti otto luoghi:
Pirano, Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, Fasana, Pola e Sissano;
quattro de' quali situati alla costa e quattro nell'interno
dell'Istria già di ragion veneta, con una popolazione complessiva di
57979 abitanti, (p. VI). Come fu da altri notato, (2)
giovava avvertir subito che il
[6]
numero dei parlanti i dialetti di cui
questo studio si occupa, è minore d'assai, se nel 1894 si verificò
ufficialmente che non meno di 42000 dichiararono di servirsi
comunemente nel discorso dell'italiano o meglio del veneto. E, per
esempio, la vera parlata di Pola ora non si può dire conosciuta che
da pochissimi de' suoi nuovi cittadini, come verso la fine
dell'Introduzione (p. XXI) osserva 1' autore stesso. Al quale si
affaccia anzitutto "il quesito del posto che occupano i nostri
parlari entro alla famiglia de' dialetti sia ladini sia veneti della
terra ferma" (pp. VI-VII); ma, dopo avere fugacemente accennato alle
ragioni che ne rendono assai diffìcile la soluzione, crede per il
compito suo di poter senz'altro passarsene. Â dir vero, la questione
colle parole testé riferite non ci sembra posta nel modo più esatto,
e inoltre non c'era forse neppur bisogno di porla, per chi accetti,
come fa l'autore, l'opinione dell'Ascoli; secondo il quale
(Arch. glott. I, 435) "pur nell'Istria il linguaggio ladino,
nella sua varietà friulana, venne a toccarsi e in parte a fondersi
con un linguaggio che si rannoda al veneto di terra ferma e ha
quindi in sé medesimo delle somiglianze ingenite coi parlari
ladini". Resterebbe dunque da determinare per quanta parte
l'elemento schiettamente ladino entri in cotesti dialetti, e se, a
parer dell'autore, ciò non si può fare con precisione, bisognerà pur
contentarsi di farlo approssimativamente. Del resto, se egli non
affronta direttamente tale questione, dal modo in cui più qua e più
là si esprime, traspare l'opinione sua, che il ladino formi il fondo
di coteste parlate, chiamando egli Pola "quasi estremo lembo della
Ladinia orientale" (p. XVII) e dicendo che il muggese e il veglioto
segnano, per così dire, i limiti estremi del territorio ladino
nell'Istria" (p.
XXIII).
Lasciata dunque da parte tale questione
preliminare, egli si fa da prima ad esporre
i caratteri comuni a tutti gli otto
dialetti, così rispetto ai suoni come rispetto alle forme e alla
sintassi, per passare poi a dividerli in gruppi e ad esaminare i
caratteri specifici di ciascun gruppo e di ciascun dialetto. Ora in
tale classificazione ci sembra che l'autore non sempre raggiunga e
mantenga la chiarezza ed esattezza che sarebbe desiderabile. Secondo
lui i gruppi sarebbero tre: il rovigno-fasanese, il
dignano-gallesanese e il pirano-valle-sissanese (p. X). E il
polesano? Subito appresso si accenna ai vincoli peculiari onde vanno
stretti i due primi gruppi e si tocca di un fenomeno il quale, oltre
che ad essi, "è pur comune ai dialetti di Pirano e Gallesano" (p.
XI). Ma Gallesano non entra appunto nel secondo gruppo? E più avanti
(p. XV) il gallesanese è detto prossimo congiunto del rovignese, il
che farebbe quasi dubitare appartenga con esso ad un medesimo
gruppo, e si accenna al rovigno-dignano-fasanese. Certamente in
quest'ultimo luogo s'intenderà riunire i tre dialetti soltanto per
ragione dello speciale fenomeno di cui ivi si tocca, ma, ad ogni
modo, ne risulta sempre un po'
di confusione. E lo stesso si può
ripetere della menzione del dignano-vallese (p. XVI).
Si è detto di sopra che l'autore segue, quanto
alla natura mista dei dialetti di cui si discorre, l'opinione
dell'Ascoli, ma non siamo stati dei tutto esatti; che, se
egli ne riproduce le parole già da noi riferite, fa per altro
un'aggiunta materialmente brevissima, ma notevole, dicendo che
coll'antico istrioto venne a commischiarsi il ladino "si centrale
che nella sua varietà [7] "friulana" (p. VII), mentre
l'Ascoli aveva parlato soltanto di quest'ultima. Ora, tale aggiunta,
la quale, per il modo onde l'autore si esprime, potrebbe anche
prendersi come dell' Ascoli stesso, andava messa bene in rilievo,
giacché io fondo costituirebbe uno dei risultamenti più importanti
di tutto lo studio. È ben vero che nell' esame dei singoli dialetti
l'autore non manca poi di additare per certi fenomeni i riscontri
del ladino centrale, come per qualche altro non sa trovarli se non
spingendosi anche più ad occidente, in Piemonte (pp. XIII e XV), o
discendendo nell'Italia meridionale (p. XVI). Ma è proprio
necessario ricorrere a cotesti dialetti o ad essi soli? Si badi.
L'autore, com'è naturale, non manca di rammentare le affinità già
discoperte dall' Ascoli di alcuni dialetti istriani col veglioto, e
una volta anche aggiunge, a proposito di certa costruzione
sissanese, che arieggia una consimile dalmata (p. XVIII). O come
mai, a fine di rendersi ragione della natura di cotesti dialetti,
non si è sentito tentato di estendere ed allargare le ricerche anche
da quella parte? Chissà allora non fosse accaduto a lui di fare
quella quasi rivelazione del vecchio dalmatico, che in un complesso
organico non ci è noto, per quel tanto che è noto, se non nell'
ormai spento veglioto, e fu fatta invece, crediamo mentre si
stampava il suo libro, da un giovane per essa così favorevolmente
annunziatosi ai romanologi! Intendiamo accennare alla Comunicazione,
preludio di più ampio lavoro, di
Matteo Bartoli
sull'antico dalmatico.(3)
Dalle ricerche del
Bartoli
si fa manifesto che
alcuni fenomeni dei dialetti istriani per i quali l'Ive non seppe
richiamarsi che al ladino centrale o al piemontese o ai dialetti
meridionali, s'incontrano invece anche nel dalmatico. Così la
riduzione dell'á in e
nel dialetto di Valle, che l'antere nota ricorrere "oltre che
nell'emil. in dialetti ladini della sezione centrale °e nei
pedemontani" (p. XII). Così il carattere decisivo del dialetto di
Fasana, il ridursi
dell'-o atono finale ad
u per cui questo parlare parrebbe "riallacciarsi, a primo
aspetto, a' dialetti dell'Italia meridionale" (p. XVI). E quanto
alla riduzione di et
in it che, secondo l'autore, ci porterebbe ben lungi
dalla regione veneta (p. XIII), era già noto che essa anticamente si
verificò anche nel veneto nel termine fruito, e uscendo dal
Veneto, senza dilungarcene poi molto, nel lago d'Iseo si può pescare
la truita (Arch. glott. I, 305) ;
ma qui noteremo forse con maggiore
opportunità che anche cotesta riduzione non è estranea al dalmatico.
L'Introduzione si chiude coll' indicazione dei
fonti a cui l'autore attinse e con quella del modo onde la materia è
disposta. "Vengono mandati innanzi gli Appunti fonetici,
morfologici, sintattici e lessicali "del dialetto di Rovigno, come
quello che meglio spicca e si conosce di più. Ad essi seguono quelli
degli altri parlari; però negli Appunti ecc.
[8]
di questi ultimi, son descritte di
preferenza le particolarità che pili emergono
in tali dialetti, serbandosi pei numeri, l'ordine preciso, dato nei
primi". Segue quindi la trattazione vera e propria, che qui non
converrebbe sottoporre a minuto esame e che non abbiamo neanche per
conto nostro tutta quanta esaminata, ma ben possiamo dire che
l'autore merita gratitudine per avere raccolto e ordinato tanti
materiali. Egli conosce anche e cita tutto ciò che è stato scritto
intorno a singoli fenomeni e singole voci. Strano però che con tali
conoscenze cada qua e là in errori di etimologia elementare, come p.
es. quando, per ispiegare aseza
'acidità di stomaco' postula la base acedia sia pure dubitativamente
(p. 80) o deriva sfise 'fessure, rughe' da *fissa (p. 124)
anziché da ex-*fensae o sudition da subjectione (p. 162)
anziché da subditione. E in generale l'acume etimologico dell'autore
non apparisce in quella misura che sembrerebbe potessimo attenderci
da lui, come mostreremo esaminando le spiegazioni di alcune voci
scelte tutte, meno una, dai pur sempre utili Appunti lessicali di
ciascun dialetto.
—
bovolo
148 lumaca, bovoli
160 riccioli di capelli. Si accetta la derivazione da bove; mi
sembra invece probabile, come dissi in altro luogo (Miscellanea
linguistica Ascoli, p. 559), che bovolo stia per
bodolo 'botolo' come covolo per codolo 'ciottolo'.
— garnéj
105 "minestra di legumi, orzo, fagiuoli in genere". Non sarà che
metatesi di granéj 'granelli', che nel bergamasco dice
qualche cosa di simile cioè 'farinata' (v. il Vocab. bergam. del
Tiraboschi).
—
fregunáse 122 "lordarsi di fuliggine (fregon); frigunada
colpo od "imbrattamento di nero. Pajon derivati da fricare". Ma se
per 'fuliggine' si dice
fregon, ci può esser dubbio che il verbo non derivi dalla
stessa base fuligo?
—
insanaká 65 "ingarbugliare, confondere; ed è foggiato sul tema
"Seneca, divenuto in Istria fem.; cfr. trent. inseneghír
intristire, a. lomb.
"senechia e Salvioni
Arch.
XIV, 214". Qui il termine istriano è scambiato con altri di
altri dialetti, coi quali non ha che vedere, e che essi pure alla
loro volta si potrebbe dimostrare non essere stati finora spiegati
in modo soddisfacente. Il rovignese
insanaká sarà metatesi di
insanaká per
insakoná 'insacconare' derivato non da saccone ma
direttamente da insaccare. E in italiano insaccare
alcuno significa 'vincerlo, superarlo in qualche prova d'ingegno, di
sapere' (Rigutini) ossia appunto 'confonderlo'.
— karácia
86 "raganella". Si direbbe metatesi di rakácia, come persuade
il confronto colla forma veneta
rácola.
—
missetá
78 "deriv. da messetus sensale (μεσίτης) , però con lieve differenza
di significato, in quanto s'usi per il 'portare intorno vino od
olio' ". Si tratterà invece di mescitare. In Toscana accade
d'imbattersi ad ogni momento in qualche 'mescita di vino'.
Quando poi a messeto, proprio, come si rammenta in nota, di
parecchi dialetti, e che anche il Mussafia,
(Beitrag, 79), seguendo il Boerio, raffrontò al
neogreco μεσίτης,
esso non è che il
diminutivo di messo (messetto), che si capisce possa essere
passato a significare 'intermediario', com'è avvenuto anche nel
ligure (v. Parodi, Arch. glott.,
[9]
— pikunia
88 "uomo lento; pikuniá
stentacchiare; e sembra da "pecunia con significato antitetico". Il
lat. pecunia qui non c'entra per nulla. Ci sta invece dinanzi
uno dei numerosi derivati di quel tema
pik da cui anche l'ital. piccolo, come già ben vide lo
Schneller, Die roman. Volksmund.
p. 162, a proposito appunto di picognar
usato nel trentino con significazione diversa che in Istria.
—
pitocco 88. Si dovrà assolutamente abbandonare la vecchia
etimologia dal greco πτωχός,
che qui è la sola accennata. Le forme lombarde pit, piton,
pitot, per restringerci a queste sole, mostrano che pitocco
è formato dal tema pit col suffisso -occo.
— mámulo, -a 21
"ragazzo -a (cfr. friul. mámule, mugg.
mámula, it. mámmola, gr. od. μαμουλφ,
ίξω mastico senza denti, e Joppi, Arch.
IV, 337), se è assimil. di famulo, -a (?), o non voce
infantile (v. G. Meyer, Contor. cit. p. 48)". — A me
sembra invece che mammolo,
registrato anche nel vocabolario italiano col significato di
'bambino, fanciullo', non sia che bambolo così ridottosi per
via di doppia assimilazione (prima
bammolo e poi mammolo). Se ci fosse bisogno di una
conferma, questa sarebbe offerta dal trivigiano mamo, che
significa 'scemo' appunto come l'italiano bambo.
E perciò si dovrà rinsaldare l'opinione espressa nel Vocabol. del
Tommaseo, secondo il quale la viola mammola sarebbe così
chiamata "forse per vezzo, dalla piccolezza gentile". Allo stesso
concetto è dovuto il nome
putina 'bambina', che le si dà nel veneziano, nome ricordato
recentemente dal Nigra (Arch. glott.
XV, 299), il quale da esso doveva esser trattenuto a esprimere
l'opinione, per noi erronea, che l'altro appellativo mammola
dica quasi 'mammina'.
— rinziñá
77 "sgualcire". Si accenna dubitativamente soltanto alla
derivazione da "reunciniare, e a p. 173 sembra si ragguagli
raganá unire, ripiegare su vesti, abiti e simili al francese
rechigner. Mi fo lecito rammentare che le forme dell'alta Italia
corrispondenti al verbo istriano e anche la francese furono da me
ricondotte, già da alcuni anni, a *recinniare da ci cinnus negli
Studj di filol. rom. VII, 123-25, etimologia che mi sembra
sempre giusta, nonostante le riserve di un valoroso glottologo quale
il Parodi (Arch. glott. XV, 73 s. v. resenio).
Soltanto, per ispiegare le diverse forme della sillaba iniziale
accanto a re-, cioè ren-, ran-, rin-, non direi più
necessaria, come allora feci, l'immistione di un' altra parola.
—
sansariéle 69 "coagulazione, rappigliamento della minestra,
specie "d'uova;
zéi in s... coagularsi". A p. 28 n. 64 la parola è messa fra
quelle in cui avrebbe avuto luogo la dissimilazione della consonante
l, e sembra quindi la si riguardi come una modificazione di
salsariéle.
Sennonché non occorre pensarci su molto per persuadersi che essa
invece corrisponde di certo al femminile plurale del toscano
cencerello. Foneticamente la riduzione è regolarissima, e,
quanto al senso, basterà rammentare che la stessa minestra di sansariéle
dell'Istria e del Veneto si chiama
stracciatelle in Toscana. Dove invece il nome di cenci è
dato, e sempre per ragion della forma, a una specie di pasta intrisa
di farina e d'uova che spianata e poi tagliata a strisce si frigge e
si sparge di zucchero" (Rigutini). Nel ladino centrale invece è
proprio di una specie di frittelle il nome cianciari
'cencerelli', per ispiegare il quale l'Alton, Die ladinischen
Idiome,
p. 171, si lasciò andare a
[10]
strane ipotesi. Aggiungeremo anche che
nel Veneto, oltre zanzaréle
e la forma da questa estratta zánzare e anche
semplicemente zanze, c'è un altro derivato di cencio
con diverso significato: zinzola 'brindello', donde
l'aggettivo
zinzolona 'donna che ha la veste sbrindellata'.
— niciá
67 "burlarsi, ridere sgangheratamente;... stuzzicare. Riverrà
"probabilmente al tedesco necken". Invece niciá, nonostante
la diversità di significato, avrà la stessa base del toscano
nicchiare, lì quale sarà da ricondurre col Pieri (Miscellanea
Ascoli, p. 434) a *nictulare derivato non soltanto, com'egli
pensa, da nictere, ma anche insieme da nictare, altra e più usata
forma dello stesso verbo e con altri significati; se pare, che poi è
quasi lo stesso, ma che è anche più facile, nicchiare non
riviene direttamente a *niculare da nicere, di cui nictare non è che
il frequentativo. Sia l'una o l'altra delle due ora dette la base
immediata di nicchiare,
i varj significati di tal verbo si possono spiegare movendo da
quelli di nictare e nictere.(4) In uno degli
antichi glossarj latini (Goetz, Corpus gloss. lat. V, 621, 3)
leggiamo: "nicto est quod rustico dicitur
cenno". E il verbo lat. cenno vale quanto "facere
cinnus". E cinnus in un altro glossario (Goetz, op. cit.,
VI, s. v.) è definito: "tortio oris unde dictus est ci-"cinnus
(cachinnus)". Ora V
atto di torcere la bocca, di increspare quindi la pelle del
viso, è proprio così di chi piange, come di chi ride. Ed ecco in tal
guisa spiegato anche il niciá istriano. E poiché uno dei
significati piti comuni di nictare è 'ammiccare' e, come si è detto
testé, anche 'ridere', s'intende che niciá valga pure
'burlarsi'. Quindi anche il francese niquer, da cui nique
della frase 'faire la nique', che significa come il
niciá
istriano 'burlare', e che fin qui s'è creduto riduzione del
tedesco nicken (Körting,
Latein.-roman. Wb.
5603), sarà da ricondurre allo stesso tema ; e, per evitare una
questione che non ci sembra ancora definitivamente risoluta, ci
contenteremo dire che esso sta a nictare, per ciò che concerne il
suono gutturale avanti la desinenza, nello stesso rapporto del
bolognese ñikkär ricordato dal Pieri (op. cit. p. 434 n.). E
a nique fa riscontro il provenzale nico e
nicho in quanto vale 'espièglerie, grimace' (Mistral). Quanto
poi a nicchiare
nel significato di 'puzzare' e detto solamente dei cadaveri, pur
consentendo col Pieri che non colpiscano giusto le spiegazioni
proposte dal Caix e dal Nigra, non mi sembra nemmeno sicura
la spiegazione sua, che cioè qui si abbia quel traslato che,
com'egli dice, è proprio di molti verbi indicanti suono. Non è pili
facile che nicchiare in tal senso indichi l'effetto del
puzzare e
inoltre sia adoperato per 'far
nicchiare'? I cadaveri quando puzzano fanno veramente
arricciare il naso, torcere la bocca, che, come s'è veduto, sembra
essere il significato fondamentale di
nicchiare.
Il volume opportunamente si chiude con un "Saggio
di trascrizione di testi vivi" dei singoli dialetti studiati.
Leandro Biadene. |
Note:
- Questa recensione fa consegnata alla
Direzione della Rassegna nel novembre dell' anno testò
cessato.
-
Da Th. Oartner nella breve recensione del libro
dell'Ivo pubblicata nel Literaturblatt f. germ. u. rom.
Phil., ottobre 1900. col. 339-41; recensione ohe nel resto
non ha nulla di coniane oon questa nostra e contiene soltanto
alcune poche osservazioni particolari.
- Ueber sine Studienreise rur Erforschung
des Altromanischen Dalmatiens (Separat-Abdrook aus dem
Anzeiger d. phil.-hist. CI., Vienna, 1899). Ridotta poi in forma
più breve in italiano col titolo Due parole sul neolatino
indigeno di Dalmazia (estr. dalla Rivista Dalmatica
a. II, fasc. II). Su di essa gioverà vedere il breve ma utile
articolo di H. Schneegans nel Literaturblatt f. germ. u. rom.
Phil., ottobre 1900, col. 338-39; nel quale si notano alcune
speciali concordanze nel dittongamento fra il dalmatico e certe
parlate di Sicilia.
-
Intendiamo dire dei significati che in italiano ha il semplice
nicchiare, il quale andrà tenuto distinto dal nicchiare
che è in rannicchiare e che per l'etimo andrà invece
congiunto con nicchia.
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Created: Friday,
August 14, 2009; Last updated:
Sunday, March 27, 2022
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