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I castellieri preistorici
di Trieste e della regione Giulia
del Dr. Carlo Marchesetti
[Tratto da Atti del Museo civico di storia naturale.
Volume IV. della Serie Nuova - 1903.]
ra i monumenti lasciatici dai nostri maggiori, posto
ragguardevolissimo occupano i
castellieri, sebbene finora assai poco
venissero studiati. Eppure anch'essi, al pari delle palafitte e
delle terramare, hanno diritto a tutta la nostra attenzione,
contenendo documenti di grande importanza per ricostruire la storia
di epoche lontanissime, delle quali nessun autore ci ha tramandato
notizie. Secondo la natura del paese che sceglieva a sua dimora,
l'uomo doveva adattare le sue costruzioni: ove c'erano laghi si
sviluppavano le palafitte, che essendo circondate dall'acqua,
porgevano il duplice vantaggio della sicurezza contro gli attacchi
nemici e della facilità di procurarsi i necessari mezzi di
sussistenza nei molteplici prodotti acquatici sia animali che
vegetali; ove stendevansi vaste pianure, soggette talora ad
inondazioni, si ricorreva ad analoghe costruzioni, ma all'asciutto,
alle terramare, e per difenderle maggiormente, si circondavano d'un
fosso; ove, come da noi, la regione era montuosa, si presceglievano
le vette emergenti, cingendole di robuste mura e rendendole per tal
modo atte a resistere agli urti più formidabili. E su questi monti
fortificati, su questi
castellieri, i nostri
[2]
progenitori trassero la loro esistenza per migliaia e migliaia di
anni: le generazioni si succedettero alle generazioni, depositando
le loro reliquie nel grembo della terra, quasi in sacro volume,
scritto a caratteri indelebili, che noi appena ora cominciamo a
sfogliare e comprendere.
Sono oramai trascorsi quasi sei lustri dacchè in compagnia di
Riccardo Burton, di
Tomaso Luciani
e di
Muzio Tommasini, io visitai per la
prima volta un
castelliere, quello di
Cunzi presso
Albona. Queste costruzioni particolari erano allora
avvolte nel mistero, e chi ne parlava veniva tacciato di visionario.
(1) A quel tempo sulla nostra
preistoria incombeva ancora la nebbia più fitta, attraverso la quale
ci giungevano solo poche notizie vaghe ed incerte, adombrate per lo
più da qualche mito favoloso. Nessuno aveva ancora interrogato i
misteri delle
caverne, le quali in tanta copia perforano le viscere
de' nostri monti, nessuno aveva esplorato i recinti che incoronano
le vette de' nostri monti, nessuno aveva osato violare le vaste
necropoli, in cui i nostri padri dormivano quietamente i loro sonni
più volte millennari, conservandoci gelosamente tante pagine
smarrite del nostro remotissimo passato. Gli archeologi classici,
usi per lo più a studiare la storia al tavolino, suggendo la scienza
quasi esclusivamente dai libri, riguardavano con una specie di
sdegnosa noncuranza tutto quello che non era
romano o riferivano a
questo popolo tutti i monumenti antichi della nostra provincia.
Lo stesso
Kandler. l'accuratissimo esploratore dell'Istria, il padre della
nostra archeologia, tutto compreso della grandezza della civiltà
romana e de' gloriosi monumenti, ch'essa per ogni dove aveva
seminato nella nostra provincia, non ebbe una visione chiara degli
avanzi che ci lasciarono le popolazioni anteriori. Devesi però
notare che al tempo del
Kandler la paletnologia era ancora una scienza bambina, che
appena nell'Italia settentrionale e centrale tentava i primi passi
[3] incerti, rovistando nei tumuli e nelle terremare o
pescando gli incompresi documenti dal fondo dei laghi. E quindi
naturale che sebbene avesse visitato un considerevole numero di
castellieri, notandoli nella sua grande carta archeologica dell'Istria, (2) egli li riguardasse
come costruzioni
romane. Ed ancora nel 1869 egli esprimeva in tal
modo la sua opinione in proposito.
"Ove esistono
strade romane o luoghi abitati in antico,
si rinvengono i cosi detti
Castellari, i quali sono
recinti rotondi, circondati da vallo tumultuario, di rado da
muraglie, del diametro solito di quaranta tese viennesi,
talvolta hanno doppia, talvolta tripla cinta a distanza di 25
tese, anche di 60. Nell'interno il terriccio è nerastro, quasi
terra da orti, vi si rinvengono armi, proiettili rotondi di
cotto della grandezza di noci, con un buco per passarvi la
funicella, si rinvengono cotti, stoviglie di cotto, idoletti di
metallo. Talvolta entro il recinto sta cappella cristiana,
spesso contengono
cisterne.Siffatti
Castellari si costruivano
lungo le strade, su altura, a distanza di due miglia, due miglia
e mezzo. Talvolta ogni quinto
Castellaro è maggiore. Servivano a
stazione di soldati per presidiare le strade; servivano anche di
rifugio a coloni per le persone e per le derrate in caso di
scorrerie di nemici; se murati, si vede talvolta la rottura
patita per assaltamento.
La loro distribuzione lungo le vie è sì regolare, che i soli
Castellari indicano la direzione delle strade, ove queste sieno
sparite.
La serie di questi
Castellari guida anche ai porti di mare
frequentati; i
Castellari erano pure destinati alla custodia de'
porti.
Avverto che i
Castellari hanno talvolta forma quadrata, ed in
tale caso sono murati, talvolta (ciò mi è accaduto raramente), il
quadrato principale ha intorno a sè ed alli angoli, quadrati minori,
che sono pure
Castellari di piccole dimensioni.
Questi
Castellari, ove sieno collocati in più serie, hanno il
loro centro, dal quale si dipartono come fossero centri di
[4] raggi, il che potrebbe essere di Caroiba, che è
Quadruvio, centro di strada.
Avverto che dai
Castellari si davano segnali a modo di
telegrafo, di giorno con fumo, di notte con fuoco; così che il
segnale passava celeremente da punti distanti, anche molto
distanti; telegrafi che durarono nella Carniola e si rinnovarono
ai tempi delle scorrerie turchesche." (3)
Ho creduto opportuno citare per esteso le parole dell'illustre
archeologo, per dimostrare quale fosse la sua opinione intorno ai
nostri
castellieri, opinione che le ricerche posteriori hanno
dimostrato in buona parte erronee. (4)
Lungo tempo prima che la nostra provincia fosse percorsa da una rete
di strade, esistevano già i
castellieri, nè servivano punto da
semplici stazioni di soldati per tutelare le comunicazioni.
Kandler ha
evidentemente confuso i castri romani coi
castellieri preistorici, a
ciò forse tratto dalla volgare designazione comune degli stessi. La
loro disposizione non era sì regolare com'egli supponeva, non
trovandosi essi a determinate distanze, perchè non erano costruiti
allo scopo precipuo di trasmettersi l'un l'altro segnali, il che non
aveva che un'importanza secondaria. Del pari la loro costruzione e
le loro dimensioni non sono sì uniformi come le ammetteva il nostro
Kandler,
dipendendo esse anzitutto dalle condizioni locali del terreno e dal
maggiore o minore numero di famiglie, che vi andavano a coabitare.
Partendo da una falsa premessa, era naturale ch'egli cercasse in
tutti i modi di coordinarvi logicamente le osservazioni, purtroppo
alquanto superficiali, che vi aveva fatte, per darsi ragione delle
varie particolarità offerte dai
castellieri.
Nè gli fu dato ricredersi, dappoichè poco appresso l'inesorabile
parca troncò quella esistenza attivissima, tutta dedicata [5]
alla ricerca delle patrie antichità. (5)
Nè è punto da mettersi in dubbio che se crudo morbo non l'avesse
inchiodato per lungo tempo al letto, egli col suo occhio acutissimo,
sarebbe giunto a conoscere la vera essenza de' nostri
castellieri ed
a discernere le varie epoche che vi si sovrapposero.
Questo merito spetta a due solerti indagatori
della nostra storia, al prenominato
Tomaso Luciani di
Albona e ad
Antonio Covaz
di Pisino, che fin dal 1870 esposero la loro opinione in proposito.
(6) Essi riconobbero che quelle
costruzioni, che generalmente si ascrivevano ai romani, erano di
epoca ben anteriore, appartenenti ad un popolo che abitava la nostra
provincia molto prima che le aquile romane vi giungessero,
apportatrici di una novella civiltà. Essi non videro nei
castellieri
soltanto semplici fortilizi o luoghi di rifugio temporaneo, ma le
stabili
[6]
dimore di genti, che per lungo volgere di secoli vi si succedettero
fin dalle epoche più remote.
Se non che l'opinione di questi valent'uomini, espressa
modestamente in una lettera privata ed in un giornale di provincia,
non poteva certamente richiamare l'attenzione degli studiosi sui
nostri
castellieri. A ciò provvide l'illustre
Riccardo Burton, l'ardito esploratore dell'Africa e per molti
anni console britannico a
Trieste, che nel 1874 presentò un dotto
lavoro alla Società antropologica di Londra, parlando in generale
de' nostri
castellieri e descrivendo più diffusamente quello già
nominato di
Cunzi, ed il Moncastello di Cervera nel distretto di
Parenzo. (7)
Tuttavia lo studio de'
castellieri rimase ancora per lungo tempo
negletto, come in generale tutto ciò che riguardava le epoche
preistoriche della nostra provincia.
Appena dopo il 1883 s'iniziò la loro vera esplorazione
scientifica, che non accontentandosi di rilevarne semplicemente la
forma e di raccogliere gli scarsi avanzi, che casualmente vi si
trovavano sparsi alla superfice, si mise attivamente a ricercare nel
loro seno le reliquie delle spente generazioni, spiando i loro riti,
i loro costumi, la loro civiltà; che non s'arrestò dinanzi ai campi
della morte, ma frugando per entro alle tombe ed interrogando quelle
fredde ceneri, le costrinse a rivelarci un mondo ignorato, a
popolarlo di genti travolte nell'oblìo dei secoli, a farci vivere
della loro vita. Perchè lo studio de' nostri
castellieri è la storia
primitiva del nostro paese, i cui documenti non si trovano in alcun
archivio, ma ad uno ad uno devono venir strappati faticosamente al
grembo geloso della terra. Pur troppo moltissimi di essi andarono
inesorabilmente perduti, altri sono siffattamente monchi, che a
prima vista sembrano del tutto indecifrabili, e richieggono studi
accuratissimi [7] e pazienti e
confronti non pochi, per essere completati e resi intelligibili.
Come il geologo, che da poche ossa frammentate o da qualche impronta
appena percettibile, deve ricomporre gli animali e le piante che
avvivavano l'alba della creazione, così il paletnologo è spesso
costretto da pochi avanzi dell'uomo e delle sue industrie, a
ricostruire stentatamente e con lungo lavorìo la storia smarrita del
nostro passato. A lui non monete, non iscrizioni, non memorie
storiche vengono a facilitare l'arduo lavoro: egli deve limitarsi
unicamente alle proprie osservazioni, interrogando gli avanzi che
giacciono qua e là dispersi o che la sua zappa fa tornare alla luce.
Tuttavia è con intima soddisfazione che possiamo riguardare i
risultati ottenuti da questi pochi lustri di ricerche. Si constatò
una numerosa popolazione di trogloditi, dei quali si negava persino
l'esistenza;(8) ai
castellieri già
noti se ne aggiunsero centinaia di nuovi finora sconosciuti; si
scopersero vastissime necropoli, nelle quali si sterrarono oltre a
9000 tombe, traendo alla luce un materiale vario, ricco, multiforme,
che fu una vera rivelazione insperata, uno sprazzo di luce
scintillante nella densa tenebria che ci avvolgeva.
Nè lo studio dei
castellieri può andare disgiunto da quello delle
necropoli: le dimore dei morti sono il complemento indispensabile di
quelle dei vivi. Anzi da quelle noi possiamo trarre un numero assai
più grande ed importante di documenti, che ben a ragione la
paletnologia fu definita la scienza delle tombe. Quanto si rinviene
nei
castellieri non sono che i rifiuti gettati via come inservibili
od i pochi oggetti casualmente perduti, un materiale quindi
frammentato, incompleto; nelle necropoli invece noi troviamo il
ricco corredo funerario, onde la pietà de' superstiti forniva i
defunti, i loro vasi, le loro armi, i loro ornamenti, tuttociò
insomma che possedevano in vita. E questo corredo fu deposto talora
con tanta cura e venne circondato e coperto da pietre, che si
conservò egregiamente, quasichè vi fosse stato appena sotterrato,
presentandoci tuttora inalterati persino gli oggetti più labili, le
ampolle di legno, i più fini tessuti.
[8] È quindi naturale che finora si prescegliesse
l'esplorazione dei cimiteri, come quelli che forniscono più ricco
bottino, e si negligessero i
castellieri, il cui scavo per la
povertà e l'uniformità degli oggetti, riesce di gran lunga meno
attraente e meno produttivo. Per conoscere più esattamente la vita
che si agitava in quelle prime dimore epigee dell'uomo, farebbe
mestieri intraprendere estesi scavi in un gran numero di
castellieri, notando esattamente ogni più piccola particolarità:
lavoro oltremodo lungo e faticoso, richiedente mezzi di cui pur
troppo non possiamo disporre. Il grande numero di essi nella nostra
provincia, disseminati dalle alpi all'estreme isole del Quarnero,
rende assai difficile la loro completa e sistematica esplorazione,
giacendo molti di essi in luoghi remoti ed inospiti. Tuttavia gli
scavi che potei finora eseguire e che amerei chiamare semplici
assaggi, ci hanno fornito parecchie interessanti notizie intorno ai
nostri castricoli ed ai loro costumi, e quindi non credo fuor di
luogo di darne una relazione, tanto più che fino ad oggi non esiste
alcuna opera generale in proposito. Il lavoro è tutt'altro che
ultimato, dappoich'esso eccede le forze del singolo, e domanda
l'opera concorde di molti esploratori ed il sussidio di larghi
mezzi. S'investigarono sì parecchi
castellieri, si apersero migliaia
di tombe, traendone alla luce preziosi documenti, ma quante
rivelazioni non sono da attendersi da uno scavo sistematico dei
tanti
castellieri, non tocchi per anco dalla zappa del paletnologo,
dalle innumerevoli necropoli celate sotto le zolle protettrici!
È
questo dunque un primo tentativo di scrivere la storia remota del
nostro paese in base ai resultati ottenuti colle ricerche
paletnologiche, una storia senza avvenimenti particolari, in cui
l'uomo entra come quantità generica senza individualità speciale,
senza nomi, senza eroi; una storia che è rappresentata quasi
unicamente dallo svolgersi della coltura e delle sue fasi
progressive.
Ed io riguarderò quale il più gradito guiderdone alle ardue
fatiche sopportate, se il mio lavoro varrà a richiamare l'attenzione
degli studiosi su questi venerandi monumenti, in cui si compendia
tanta parte del nostro non inglorioso passato.
[9] Prima di trattare dei
castellieri non sarà superfluo di volgere un rapido sguardo; ai
primi abitatori della nostra provincia. È molto dubbio se l'uomo vi
fosse già arrivato al tempo, che vide aggirarsi per le nostre
contrade il mammut ed il rinoceronte, dei quali si rinvennero le
spoglie in parecchi luoghi, come ad Opicina presso
Trieste, a Punta
del Dente presso
Cittanova, a
Dignano, a Preluca non lungi da
Volosca, a Gorizia, sull'isola di
Lussino. (9)
Nessun fatto è venuto finora a provarci con sicurezza s'egli
contendesse il dominio delle loro dimore tenebrose al leone ed
all'orso delle
caverne (10) e se,
indomito cacciatore, si lanciasse dietro all'impaurite torme di
cavalli selvaggi, che pascevano sui nostri altipiani e le cui ossa
accatastate nelle fovee perpendicolari del Carso, ci raccontano
delle loro fughe impazzate e del loro precipitare nelle voragini del
suolo. (11)
Ad ogni modo non lungo tempo era trascorso dal giorno, che gli
antri avevano echeggiato all'ultimo bramito dell'orso delle
caverne,
allorchè il nuovo signore apparve al loro limitare per prenderne
possesso. Poche ed incerte sono ancora le tracce
[10]
dell'uomo archeolitico nella nostra provincia, del quale solo nella
caverna di S. Canziano trovammo alcuni avanzi in uno strato di
cenere e carboni alla profondità di 5 metri, contenente selci
scheggiate e resti d'animali esclusivamente selvaggi, senza alcuna
traccia di manufatti d'argilla. Qualche accenno si ebbe pure nella
caverna di Gabrovizza, ove raccolsi alcune falangi tagliate
longitudinalmente dell'orso speleo. (12)
Non è però da dubitarsi che continuando assiduamente le esplorazioni
degli strati più profondi delle
caverne, si rinvengano altre e più
sicure prove di que' prischi abitatori.
All'incontro nell'epoca neolitica noi troviamo già abitata la
maggior parte delle nostre spelonche. Una regione calcare, come la
nostra, ove il suolo è tutto foracchiato, doveva offrire certamente
un gradito soggiorno a quei primi nomadi cacciatori o pastori,
venuti nelle nostre contrade, allettandoli a prendervi stabile
dimora. Qui abitazioni ampie, spaziose, tiepide d'inverno, porgenti
dolce frescura nei calori estivi; qui gemitìo continuo d'acqua,
prezioso dono nelle siccità perduranti, in un paese privo di
ruscelli e di sorgenti; qui negli oscuri recessi ignorati sicurezza
personale nelle incursioni di nemici, facile difesa contro le fiere
de' boschi. E di fatti, durante l'epoca neolitica le nostre
caverne
si andarono popolando rapidamente, e non soltanto quelle di facile
accesso ed asciutte, ma talvolta anche quelle che a primo aspetto ci
si mostrano assai disadatte a tale scopo, e nelle quali non si
sarebbe neppur creduto possibile l'esistenza dell'uomo. Cosi noi
trovammo resti della sua dimora, non solo transitoria od accidentale
ma di lunga permanenza, in spelonche in cui un ripidissimo pendio
roccioso ne rendeva assai malagevole l'accesso, o nelle quali faceva
addirittura mestieri calarsi con corde [11]
o con scale per decine di metri. (13)
Naturalmente preferiti erano gli antri pianeggianti o con dolce
pendenza e non soggetti a troppo copioso stillicidio. Ed è in questi
principalmente che noi troviamo alle volte strati poderosi di
cenere, grossi due e più metri, ricoprenti il loro fondo per
centinaia di metri quadrati: testimoni eloquenti del lungo soggiorno
fattovi dai trogloditi e del loro numero considerevole.
Più volte anzichè nell'interno delle
caverne essi prendevano
stanza al riparo di rocce perpendicolari od a strapiombo,
specialmente durante la buona stagione, offrendo questi luoghi il
vantaggio di una maggiore illuminazione e di un'aria più pura. E
come gl'ingressi delle dimore ipogee venivano difese da muri o da
palizzate, altrettanto probabilmente aveva luogo per questi ripari,
aggiungendovi forse una specie di tetto per premunirsi contro la
pioggia.
Quando e d'onde giungessero nella nostra provincia questi primi
abitatori, non è possibile rintracciare, che la loro origine si
perde nella notte dei tempi. Intorno alle loro sedi originarie si
hanno le più disparate ipotesi, ricercando gli uni il loro centro di
diffusione nell'Asia, altri nell'Africa, altri infine nelle regioni
settentrionali d'Europa. (14) Il
problema è assai complesso ed i tentativi per risolverlo non hanno
approdato ancora ad un resultato soddisfacente. Ad ogni modo pare
che nelle nostre contrade venissero ad incontrarsi due correnti
della grande migrazione primitiva, quella de' Liguri diffusi per
l'Italia, dalla Sicilia alle Alpi, e quella dei Pelasgi che si
estesero per la penisola balcanica. Di questo popolo antichissimo,
che abitava le
caverne, noi troviamo larghe tracce lungo tutto il
versante meridionale delle Alpi, lungo tutte le coste bagnate dal
[12]
Mediterraneo, e dappertutto con un'uniformità meravigliosa di
costumi, di riti, di civiltà. Nè di esso mancano accenni nelle opere
degli antichi scrittori, che ce li descrivono con abbastanza
chiarezza, sicchè non riesce difficile il riconoscervi i nostri
trogloditi.
Ignari dell'uso de' metalli, essi chiedevano unicamente alle
pietre e all'osso i loro scarsi utensili, le loro armi primitive.
Cacciatori e pastori, poco si curavano dell'agricoltura, contenti di
quanto loro forniva il suolo senza alcuna fatica. (15)
Quelli dimoranti non troppo lungi dal mare, scendevano spesso alla
riva per raccogliervi molluschi, (16)
di cui erano ghiottissimi, ma non conoscevano ancora l'arte della
pesca, nè pare s'avventurassero sul mobile flutto. Maestri invece ci
si dimostrano nel plasmare l'argilla, onde traevano la svariata
serie de' loro vasi, adornandoli talora assai vagamente con graffiti
o con impressioni.
Così essi vissero lunghi secoli nell'infanzia della coltura, poco
avanzando in progresso, dispersi com'erano in
caverne isolate, che
tutt'al più davano ricetto a poche famiglie, ma non potevano
determinare la convivenza di un numero maggiore di genti in un
villaggio comune, nè potevano dare un impulso alla vita sociale,
fomite precipuo dell'umano incivilimento.
Ma quale causa venne a turbare bruscamente la tranquillità de'
loro recessi tenebrosi, spingendoli a lasciare le dimore ipogee?
Il costume di passare la vita nel cavo delle grotte, ove l'uomo
senza alcuna fatica trova un naturale rifugio, in cui facilmente può
celarsi a' suoi nemici ed in cui, riparato dai rigori invernali e
dagli eccessivi calori della state, fruisce di una temperie mite,
uniforme, è sì diverso da quello di scegliersi per dimora il vertice
de' monti, ov'è costretto ad edificarsi le sue case ed a difendersi
dai nemici colla costruzione di argini [13]
poderosi, ove trovasi esposto al vento ed al gelo, alla pioggia ed
all'infuriare delle procelle, che riescirebbe incomprensibile il
perchè di questo mutamento radicale, senza una suprema necessità
impellente o senza ammettere la venuta di un popolo diverso, già più
avanzato in coltura e proveniente forse da regioni prive di
caverne,
nelle quali avesse potuto esplicarsi l'uso di abitazioni ipogee.
E ben vero che i nostri trogloditi sebbene dimorassero sotterra,
prediligevano tuttavia gli atri rischiarati delle spelonche,
approfittando pure degli spiazzi innanzi al loro ingresso, come
pure, ove ne avevano la possibilità, dei ripari sotto rocce
sporgenti, costruendovi non di rado muri e recinti di difesa.
Sappiamo inoltre ch'essi si dedicavano oltrechè alla caccia alla
pastorizia, possedendo numerose greggi di
capre e di
pecore, come
pure buon numero di
bovini. Essendo il nostro Carso in gran parte
rivestito da dense foreste, essi dovevano ricercare spesso pascoli
lontani, ove in mancanza di
(il che era il caso in tutta la
vasta zona marno-arenacea), si saranno costruite rozze capanne,
circondandole da muri o da palizzate per tenervi al sicuro durante
la notte i loro animali. Ed ecco per tal modo che il bisogno poteva
tramutare, almeno per una parte dell'anno, i trogloditi in abitatori
all'aperto. Così nel progresso del tempo, allorchè le
caverne non
potevano più bastare all'accresciuta popolazione, una parte di
questa avrà dovuto ricercare altre sedi più vaste per sé e per gli
animali domestici, dai quali ritraeva il suo principale
sostentamento.
Ma dal dimorare semplicemente all'aperto, allorchè il bisogno lo
richiedeva, all'innalzare quelle grandiose costruzioni, quali sono i
castellieri, ci corre tanto divario, che noi siamo costretti ad
ammettere un'immigrazione di nuove genti più progredite, che già
nella loro patria originaria usavano circondare le loro case di
simili baluardi. E di fatti sebbene gli oggetti fornitici dagli
strati più profondi de'
castellieri ci offrano parecchie analogie
con quelli delle
caverne, non si possono tuttavia disconoscere
differenze notevolissime, che ci dimostrano in quelli una coltura
assai più avanzata. Nelle ricerche delle nostre
caverne abbiamo
inoltre fatto più volte l'osservazione, [14]
che mentre le grotte più piccole e più recondite continuarono ad
esser abitate per un periodo più o meno lungo anche in epoche
posteriori, le più grandi e di più facile accesso, vennero per lo
più abbandonate allo scorcio dell'epoca della pietra quali dimore
stabili e solo occasionalmente adoperate più tardi da rifugio
temporaneo. Quale fu la causa di questo improvviso abbandono di
vaste
caverne, largamente illuminate, che offrivano tutte le
comodità possibili ed ove l'uomo avrebbe potuto continuare la sua
esistenza assai meglio che negli antri oscuri, disagevoli, nascosti
in luoghi selvaggi? La spiegazione di questo fatto noi la dobbiamo
ricercare nell'immigrazione di una gente straniera, la quale
impossessatasi violentemente del paese, cacciò dalle
caverne
maggiormente accessibili e quindi più esposte agli attacchi nemici,
i loro prischi abitatori, laddove quelli delle spelonche meno
appariscenti, poterono più facilmente sottrarsi ai nuovi
conquistatori e, non molestati, continuare a dimorarvi.
Va pure notato che meno poche eccezioni, i
castellieri possedono
sempre dimensioni abbastanza considerevoli e quindi fanno
presupporre un numero di abitanti ben più rilevante di quello, che
poteva fornire l'eccedenza di popolazione d'una
caverna. Avrebbero
potuto poche famiglie, stabilitesi sopra un monte, erigere cogli
scarsi mezzi che stavano a loro disposizione, quelle opere
colossali, che sfidarono vittoriose le furie struggitrici di trenta
e più secoli? E quale scopo avrebbero avuto di costruire que' vasti
recinti, che poi non sarebbero stati neppure in caso di difendere?
Ma più ancora di queste considerazioni, viene a provarci che
l'erezione de'
castellieri sia dovuta ad un popolo forestiero il
fatto importantissimo, ch'essi non sono punto una specialità del
nostro paese, ma che si trovano sparsi sur un'area vastissima nella
penisola balcanica, presentandosi dovunque identici, sia per il modo
di costruzione, che per riguardo cronologico, che per le reliquie
delle colture ch'essi rinserrano.
Le condizioni del nostro paese erano a quel tempo ben diverse
dalle odierne. Immense foreste vergini ondeggiavano sugli altipiani
del Carso, scendevano giù per i fianchi delle montagne, ravvolgendo
tutta la nostra regione in un fitto [15] padiglione di
verzura. E vasti interminabili boschi ricoprivano pure i nostri
colli arenacei, ove al fondo delle valli, romorosi torrenti
balzavano spumeggianti di sasso in sasso, finchè allamavano nelle
pianure più prossime al mare. E per quelle selve s'aggiravano
cignali ed
orsi e lupi, cui forse s'associava talvolta l'uro,
abitatore della propinqua Carniola. (17)
In tali contingenze era naturale che le parti piane del nostro
territorio non presentassero le desiderate condizioni di comodità e
di sicurezza, e quindi venissero preferite le vette emergenti, ove
il bosco per la natura più rocciosa del suolo, non era sì fitto ed
ove più facili riescivano le opere di difesa. Si aggiunga che da
que' luoghi elevati si poteva dominare un vasto tratto di terreno
avvistando l'avvicinarsi di un nemico, prevenendone l'attacco. In
pari tempo, siccome da un
castelliere erano solitamente visibili
parecchi altri, vi era data la possibilità di farsi vicendevolmente
segnali ed, in caso di bisogno, prestarsi l'un l'altro soccorso.
In questo riguardo i nostri proavi non differivano punto dagli
abitatori di altre regioni. Lasciate le sue sedi primitive, le
caverne, fu in alto, sulle eminenze che l'uomo fondò le sue prime
capanne. Così noi vediamo le prime città della Grecia e dell'Etruria
edificate sulle cime delle montagne, costumanza seguita anche nei
tempi posteriori e fin nel tardo evo medio, ove le case raggruppate
strettamente intorno ai turriti castelli e circondate da valide
mura, potevano esser difese con maggior successo, di quanto se
fossero state costruite in pianura, a somiglianza delle nostre città
moderne.
Perocchè se anche il nome di
castellieri per designare queste
antiche costruzioni, trovasi limitato alle nostre contrade, essi
sono diffusi per buona parte d'Europa (18
ove variamente [16]
vengono appellati. (19)
La loro costruzione non era però ovunque la stessa, ma differiva
secondo le condizioni fisiche del terreno. In regioni ricche di
pietre, come da noi, in Carinola, nella penisola balcanica, essi
venivano eretti con questo materiale, mentre ove c'era penuria di
sassi, si circondavano d'argini di terra, come nella maggior parte
della Germania. (20) Egualmente
diverso era il modo di costruire le opere di difesa, che da noi
consistevano in muri regolari, con pietre però non lavorate, a
differenza delle mura erette con pietre riquadre, nei così detti
monumenti ciclopici, o dei valli tumultuari con sassi gettativi
senza alcun ordine, quali s'incontrano nelle costruzioni della bassa
Etruria.(21) Nei paesi ove la
coltura ebbe uno sviluppo precoce e molto intenso, come in Grecia ed
in Italia, le costruzioni posteriori modificarono non poco l'aspetto
dei prischi
castellieri, sebbene spesso non riesca difficile il
riconoscerne le tracce. Così l'antica Atene stendentesi sul Museion,
non era altro che un
castelliere, al pari di Acrocorinto, di Micene,
e di molte altre città divenute poi famose.(22)
[17] Non credo qui fuor di luogo accennare che un
castelliere non corrisponde punto, come forse potrebbe farlo
supporre il nome, ad un semplice fortilizio, nel quale avesse da
prender stanza un presidio militare più o meno numeroso a difesa di
un villaggio sottostante. No, esso non è solamente l'arce
tutelatrice, ma è lo stesso villaggio fortificato, munito di valido
muro che lo cinge tutto intorno, occupante talora un'area
estesissima.
Tuttavia parecchie
caverne, di preferenza quelle che giacevano in
vicinanza de'
castellieri, continuarono ad essere abitate fin
nell'epoche più tarde, se anche per lo più solo temporaneamente, sia
quale rifugio durante la fredda stagione, sia durante incursioni
nemiche.
Nel corso de' secoli il numero de'
castellieri andò continuamente
accrescendosi e la nostra provincia si ricopri di un'estesa rete di
queste costruzioni. In molti luoghi essi sono ancora benissimo
conservati, sicchè riescono riconoscibili ad ognuno; in altri
l'edace dente del tempo vi ha esercitato più o meno profondamente la
sua azione distruggitrice, onde a mala pena un occhio esercitato vi
può constatare la loro antica esistenza. Nè solo le influenze
atmosferiche determinarono la loro rovina, chè anzi più di frequente
essa fu causata dall'uomo, sia che continuasse ad abitarvi anche
ne' tempi successivi, tramutando il primitivo
castelliere in un
villaggio od in una città, sia che approfittando della fertilità del
terreno, lo riducesse a coltura. Così noi abbiamo nella provincia
numerose ville e cittadette costruite alla sommità de' monti, per le
quali potemmo accertare che sono sorte sopra
castellieri
preistorici, laddove per altre, causa i profondi mutamenti del
suolo, riesce [18] molto difficile
e spesso anche del tutto impossibile, constatare con sicurezza la
loro prisca origine. Più spesso ancora, abbandonata la ventosa cima,
l'odierno villaggio si adagia ai fianchi del monte sul quale giaceva
l'antico, che per lo più venne ridotto a campo od a prato.
Dal numero de'
castellieri si tentò stabilire il numero della
popolazione della nostra provincia, il che riesce tuttavia alquanto
incerto, considerata la grande diversità che presentano le
dimensioni dei singoli
castellieri e la nostra ignoranza riguardo
alla densità delle genti che vi tenevano dimora. Prescindendo però
da una determinazione anche approssimativa della quantità degli
abitanti, noi possiamo dedurre dall'ingente copia dei
castellieri,
che le nostre contrade fossero largamente popolate, il che ci viene
confermato indirettamente dall'esercito poderoso de' romani che fu
necessario per impadronirsi dell'Istria e debellare la resistenza
de' suoi difensori.
Nella sua grande carta archeologica dell'Istria,
Kandler
aveva notati, secondo l'estratto del Dr.
Amoroso, 821
castellieri di
cui 42 nell'Istria superiore, 123 nella media, 141 nell'inferiore e
15 nelle isole del Quarnero. (23)
In questo numero sono però compresi anche i castri romani, coi
quali, come si è detto, il nostro archeologo confondeva le
costruzioni primitive, e vi figurano pine parecchi fortilizi
medioevali.
Ve ne sono pine parecchi segnati in luoghi ove non si trova
assolutamente alcuna traccia di antiche abitazioni, sicchè pare ch'egli ve li notasse unicamente perchè li credeva necessari a
completamento della rete strategica da lui supposta. Viceversa poi
vi mancano moltissimi altri, di cui non ebbe contezza.(24)
Non si può quindi servirsi della carta del
Kandler che quale scorta per ulteriori ricerche, facendo
mestieri rivisitare uno per mio tutti quelli da lui indicati,
rifacendo addirittura il lavoro e completandolo. Poichè se è vero
che i [19] romani impossessandosi
della nostra provincia, approfittassero il più delle volte dell'eccellenti posizioni strategiche dei
castellieri per erigervi le
loro fortificazioni, non va dimenticato che spesso le costruivano
anche altrove su altre eminenze, specialmente ove si rendevano
necessarie per tutelare la sicurezza delle comunicazioni. Devesi
quindi far distinzione tra i castri puramente romani ed i
castellieri preistorici, sia per l'epoca in cui furono eretti che
per lo scopo diverso cui servivano. Nè tale distinzione riesce punto
difficile vuoi per la forma differente di queste costruzioni, vuoi
per essere le mura preistoriche sempre a secco senza traccia di
cemento. Basta del resto un semplice assaggio, allorchè per
avventura si fosse in dubbio, per stabilire con certezza l'epoca cui
devesi riferire una data costruzione, poichè i cocci preistorici,
ond'è disseminato il terreno del
castelliere, sono tanto differenti
dai romani, che non è affatto possibile una confusione in proposito.
La ricerca dei
castellieri non è tuttavia sì facile, come
parrebbe a prima vista, giacendo essi talora in regioni inospiti,
lontani dagli abitati o nascosti nel fitto de' boschi. Ed appunto
coll'estendersi del rimboschimento del nostro Carso, sempre più
difficile riesce la constatazione dei
castellieri, perchè mentre un
occhio esercitato può spesso anche a distanze notevoli, riconoscere
l'esistenza di un
castelliere sur una vetta denudata, ciò diviene
per lo più impossibile allorchè una fitta vegetazione arborea,
specialmente di conifere, abbia velato le disuguaglianze
caratteristiche del suolo. Più ancora malagevole riesce la loro
misurazione se ricoperti, come ha luogo specialmente nell'Istria
meridionale, da sterpi e piante spinose, che alle volte ne
impediscono l'accesso o rendono impossibile il seguire il decorso
del vallo.
Alle volte degli argini e delle cinte più non esiste vestigio
alcuno, caso non raro principalmente in quelli della regione
marno-arenacea, ove le pietre disgregandosi con maggiore facilità si
ricoprono di terriccio, sicchè talora fa d'uopo praticare scavi più
o meno estesi per accertare la loro esistenza. Così p. e. del
castelliere di Montebello presso
Trieste, ove più [20]
non scorgevasi alcuna traccia nè di muri nè di ripiani, ed i
fianchi uniformemente arrotondati erano rivestiti da un denso
tappeto erbaceo, si ebbe appena contezza, allorchè aprendosi una
cava, venne intaccata la sua cinta, mettendo a giorno lo strato
antropozoico.
Del pari non è raro il caso, in ispecie quando la vegetazione è
molto rigogliosa, che non ci si accorga del vallo esterno,
prendendosi per
castelliere ad una sola cinta quello che ne ha due.
Viceversa le rocce naturali imitano talora, col decorso dei loro
strati, siffattamente un vallo rovesciato, che si richiede molta
circospezione per non prendere abbaglio e ritenerlo manufatto umano.
Dappoichè anche il terriccio nero che alle volte vi si trova, non è
caratteristico, potendo esso derivare dalla decomposizione di
vegetali, principalmente quando il monte era prima ricoperto da
bosco.
Molto spesso i
castellieri ci vengono rivelati unicamente dalla
presenza de' cocci, il cui valore archeologico e cronologico, è
della massima importanza nelle esplorazioni preistoriche. Nel lungo
volgere de' secoli tutto scompare, tutto perisce: città e borgate
vanno distrutte, regni ed imperi piombano nell'obblio, senza lasciar
traccia di loro antica esistenza, interi popoli passano inavvertiti
sulla faccia della terra, persino i monti cambiano la loro forma, i
fiumi mutano il loro corso, vaste isole emergono dai salsi flutti o
scompaiono negli abissi, ma il coccio, questo misero avanzo della
più fragile opera umana, perdura inalterato a dispetto del tempo e
resta lì, testimone eloquente delle estinte generazioni, ad
additarci le sedi ignorate de' nostri lontanissimi progenitori!
Mercè sua noi siamo in grado di riconoscere non solamente
l'esistenza di un
castelliere, ma talora eziandio di determinare
l'epoca a cui apparteneva!
E qui non credo inopportuno ricordare un'alleata del paletnologo,
la talpa, che sovente riesce di grande vantaggio nella ricerca di
castellieri, specialmente ove una vegetazione rigogliosa non
permette riconoscere la natura del terreno, e non si abbia la
possibilità di praticare uno scavo. È allora che dai mucchi
sollevati da questa instancabile nostra collaboratrice, noi possiamo
riconoscere il caratteristico terriccio del
castelliere,
[21]
tra il quale non di rado si trovano pezzetti di cocci e di
ossa e persino alle volte frammenti di bronzo.
Il ricordo di queste antiche sedi si mantenne inalterato
attraverso la lunga serie de' secoli, collegandovisi spesso
tradizioni di città scomparse, di castelli diruti, di tesori
nascosti. Ed è veramente strano che certi luoghi, ove appena una
ricerca più accurata può scoprire qualche traccia di vetuste
costruzioni, sieno noti quali dimore dell'uomo e conservino ancora
il nome di
castellieri, il che ci dimostra come i vecchi ricordi
vengano tramandati religiosamente da generazione in generazione e
con quanta tenacia il popolo si attenga alle primitive
denominazioni. Così noi troviamo un Monte Castellier presso Muggia,
altro monte d'egual nome sorge poco lungi da
Umago, una località
Castellier giace a nord di Visignano, altro M. Castellier rinviensi
tra Rovigno e
Valle, la stanzia Castellier tra Filippano e Cernizza,
un M. Castellier presso
Dignano, un altro poco discosto ad est di
Galesano, uno ad Altura, un altro sull'isola Brioni maggiore, ecc.
Appartengono pur quivi il Moncastello di Cervera (Parenzo), il M.
Castril presso Promontore, il Moncas (evidentemente contratto da
Moncastello) tra
Valle e Villa di Rovigno, Castelz presso S. Servolo
(Trieste), Castellazzo di Doberdò (Monfalcone), il M. Castion ed il
M. Buoncastel nell'agro di
Pola, ecc.
Altro nome caratteristico con cui gli abitanti, specialmente
nella parte più meridionale della penisola istriana e sulle isole
del Quarnero, sogliono dinotare i
castellieri, è quello di grumazzo
o gromazzo (24) corrispondente a
grumo o mucchio di sassi, come p. e. uno ad oriente di Gimino, un
altro presso Cavrano, uno a Castelmuschio sull'isola di Veglia, uno
(Gromacina) a levante di Malinsca sulla stessa isola.
Del pari la presenza di un Castelnovo o di Villanova, di cui sono
parecchi nella nostra provincia, lascia presupporre l'esistenza di
un Castelvecchio o di una Villa più vecchia, e difatti nelle loro
vicinanze noi troviamo sempre i resti di qualche antico
castelliere.
[22] Corrispondentemente nei territori dell'interno
abitati da slavi, noi troviamo numerosi monti coi nomi di Grad,
Gradina, Gradec, Gradaz, Gradisce, Hradisce, Zagrad, (25)
ecc., che hanno il medesimo significato del nostro
Castelliere. (26)
Talora incontriamo invece il nome di Gomila come p. e. a Villa di
Rovigno, a Promontore, a Castelnuovo, ecc. per indicare il
Castelliere, specialmente quando entro il suo recinto trovansi uno o
più tumoli. (27) Del pari non raro
è il nome di Tabor, specialmente sull'altipiano del Carso, ove per
lo più riscontransi nel
castelliere avanzi di fortilizi medioevali.
Spesso i nostri
castellieri portano il nome di santi, da antiche
cappelle o chiese che vi vennero costrutte, quasi a dimostrare la
potenza trionfatrice del cristianesimo sopra l'abbattuta dominazione
pagana. Tuttavia nella nostra provincia non possiamo constatare un
predominio di santi battaglieri, come S. Vito, S. Michele, S.
Giorgio, S.ta Margherita (28) che
più frequenti s'incontrano nella propinqua Carniola, perchè appresso
a questi noi troviamo numerosi altri santi del tutto pacifici ed il
cui nome non ci rappresenta punto un simbolo di lotte e di vittorie.
Così tenendo solamente conto dei
castellieri dei quali ho potuto
accertare io stesso l'esistenza, se ne riscontrano nella nostra
provincia otto che portano il nome di S. Croce, sette di S. Martino,
cinque di S. Giorgio, quattro di S. Pietro e S. Catterina, tre di S.
Giovanni, S. Michele e S. Maria, due di S. Antonio, S. Bartolomeo,
S. Canziano, S. Daniele, S. Lorenzo, S. Primo e S. Tomaso, ed uno
quelli di S. Acazio, Ambrogio, Angelo, Dionisio, Gallo, Ilario,
Leonardo, Marco, Mauro, Paolo, Quirico, Servolo, Spirito, Stefano e
Vito, e delle sante Agata, Elena e Maddalena.
[23] Così anche i nomi ci sono non di rado utili
ausiliari nella ricerca de'
castellieri e ne rendono più facile la
loro constatazione. Ma ve ne sono altri moltissimi dei quali andò
completamente perduta la memoria e che non portano alcun nome, sia
per giacere lontani dagli abitati, sia per essere stati distrutti
prima che l'odierna popolazione prendesse stanza in loro prossimità.
Sono questi che presentano perciò difficoltà maggiori al loro
rinvenimento e che richiedono spesso indagini lunghe e faticose, per
poter accertare la loro esistenza. Per essi non abbiamo alcun
accenno che guidi i nostri passi e quante vette non ci è d'uopo
salire, per quante pendici dirupate non dobbiamo inerpicarci, prima
di aver la ventura di scoprirne qualcuno! E ben vero che i nostri
castricoli sceglievano di preferenza le vette culminanti, ma di
questa regola generale noi abbiamo non poche eccezioni, e quindi non
si può limitarsi unicamente all'esplorazione di quelle, ma fa
mestieri visitare accuratamente anche i dossi meno elevati. Più
volte la forma particolare di qualche monte od il decorso de' suoi
strati rocciosi, ci danno in distanza l'illusione di un
castelliere,
obbligandoci ad una salita altrettato faticosa che inutile. La
scoperta poi di
castellieri in piano viene a dimostrarci che, date
certe condizioni, que' prischi abitanti anzichè le ventose cime,
ricercavano talora luoghi più riparati, sicchè non ai soli monti
devono essere rivolte le nostre indagini, ma eziandio alle vaste
distese pianeggianti, il che rende naturalmente ancor più ardua e
difficile una esauriente e completa investigazione di questi
monumenti preistorici.
Sarebbe stato mio desiderio di comprendere nel presente lavoro
tutti i
castellieri della regione delle Alpi Giulie, dandone la
descrizione ed i relativi piani. Se non che per una sì estesa
monografia, si sarebbero richiesti ancora parecchi anni di ricerche
e di faticose misurazioni, accrescendosi di troppo la mole
dell'opera e rendendo necessario un numero considerevole di tavole.
Stimai quindi miglior consiglio di limitarmi, per ora,
all'illustrazione particolareggiata di quelli dei dintorni
[24] di
Trieste, che sommano a ben 118,
aggiungendovi l'enumerazione di quelli del resto della provincia. In
quanto all'area di
Trieste, è naturale che non si poteva
restringersi agli angusti confini del territorio politico della
nostra città, il quale misura in superfice appena 94 chilometri
quadrati ed in cui non trovasi che un numero limitatissimo di
castellieri, ed anche questi per la massima parte assai deteriorati.
Gli attuali confini politici non possono certamente avere alcun
valore per un'epoca sì remota, in cui il nucleo della futura
Trieste era forse rappresentato da un umile
castelliere sul colle di
S. Giusto, (del quale però non esiste più alcuna traccia), alle cui
falde crebbe più tardi e si distese la colonia romana di Tergeste.(29)
E quindi opportuno allargare i termini ad una zona più vasta,
comprendendovi buona parte dell'altipiano del Carso e la limitrofa
regione marno-arenacea coi distretti di
Capodistria e d'un tratto di
quello di
Pirano. Per tal modo si ha un territorio di circa 1200
chilometri quadrati, limitato da un lato dalla pianura friulana,
dall'altro dal fiume Dragogna e dall'emersione del calcare che forma
l'ossatura delle colline istriane. Il lato settentrionale viene
chiuso dall'affiorare della zona arenaria della vallata del
Vippacco, mentre per l'orientale abbiamo scelto una linea che a
semicerchio stendesi dalla Dragogna a Senosecchia.
Questo territorio costituito per lo più da monti di mediocre
altezza, doveva offrire condizioni eccellenti allo stabilimento di
castellieri. E di fatti noi vi troviamo un numero considerevole,
sebbene parecchi, senza dubbio, specialmente in vicinanza della
città, saranno stati distratti causa le costruzioni posteriori.
Solamente nei due vasti tratti ad oriente del nostro distretto, ove
si trovano le maggiori elevazioni del M. Tajano e del M. d'Auremio,
superanti i 1000 metri, essi fanno totalmente difetto. L'asprezza
del suolo e l'inclemenza del clima avranno certamente distolto i
nostri proavi dal prendervi stabile dimora, sebbene non puossi
dubitare che dai propinqui [25]
castellieri, giacenti sulle minori eminenze, vi abbiano condotte a
pascere le greggi durante la buona stagione, precisamente come ha
luogo ancora al dì d'oggi.
Nel ristretto territorio politico di
Trieste esistono otto
castellieri, dei quali la metà nella zona marno-arenacea, gli altri
sui monti calcari che a semicerchio si stringono intorno alla città.
Nei primi non si vede più esternamente alcuna traccia di cinta e
sono assai alterati dal tempo, essendo stato quello di Montebello
ridotto a fortezza, ora abbandonata, quello di Cattinara servendo
tuttora ad uso di polveriera, ed essendo fabbricati in quelli di
Conconello e di Contovello gli attuali villaggi omonimi.
I
castellieri di Montebello e di Cattinara, distanti poco tra di
loro, giacciono sul largo dosso che chiude a mezzogiorno la valle di
Rozzol, ad un'altezza di 269, rispettivamente di 255 metri sul
livello del mare. Da quello fu levato il materiale occorrente alla
costruzione dei terrapieni della sottostante strada ferrata, sicchè
venne profondamente inciso in più luoghi del suo versante
meridionale, mettendo allo scoperto lo strato antropozoico di
terriccio accumulatosi entro la cinta. Le gravi alterazioni subite
non permettono una misurazione precisa dell'area occupata da questo
castelliere, che pare esser stato di mediocre estensione ed abitato
per lungo periodo di tempo, come lo indica la quantità e varietà
delle stoviglie e di altri prodotti dell'industria umana.
Gli estesi scavi che vi praticai, diedero gran copia di cocci
appartenenti a vasi di dimensioni per lo più considerevoli, ornati
con impressioni digitali, con graffiti, con bugnette, con bitorzoli,
ecc. Assai numerosi sonvi i resti d'animali tanto domestici che
selvatici, quali il bue, il maiale, la capra, la pecora, il
capriuolo e specialmente il cervo, le cui corna servivano a
molteplici istrumenti, che si raccolsero copiosi in tutti gli stadi
di lavorazione. (30) Rari all'incontro apparvero gli avanzi del cavallo,
[26] dell'asino e del cane. Frequenti sono pure i molluschi
marini, che servivano ai pasti de' nostri castricoli. Si raccolsero
inoltre molte fusaiuole, pesi da telaio, grossi anelli di argilla,
una grande quantità di cote e di pestelli d'arenaria, e vari oggetti
di bronzo, come coltelli, spilloni, armille, anelli, bottoncini,
saltaleoni, pendagli, ecc.
Il
castelliere di Cattinara, (T. I, f.1) (31)
che fu uno dei primi
castellieri da me esplorati, (32)
presenta dal lato strategico un'eccellente posizione, chiudendo
esso le due valli di Longera e di Rozzol, delle quali sta a
cavaliere, e dominando sulla vasta pianura solcata dal fiumicello
Rosandra, onde il colle su cui giace trasse il nome di monte Chiave.
Meno manomesso di quello di Montebello, permise un rilievo
topografico, dal quale risultò la sua periferia di oltre mezzo
chilometro. (33) Le indagini
fattevi con una serie di scavi praticati in più punti, ci fecero
conoscere ch'esso fu abitato tanto all'epoca preistorica che ai
tempi romani, nei quali si preferì il versante meridionale meglio
riparato dai venti, ove spesseggiano appunto i manufatti
appartenenti a quest'ultimi, laddove le genti anteriori avevano
fissato la loro dimora sulla vetta, che a tal uopo era stata
spianata. Anche in questo
castelliere la messe di cocci, di resti di
animali e di svariati utensili fu molto ricca, corrispondendo su per
giù a quella di Montebello, sicchè per non incorrere in troppe
ripetizioni ne tralascio la specificazione. Noterò solo che tra gli
oggetti di bronzo si raccolsero due fibule, una della Certosa
l'altra del tipo
La Tene, quindi di epoca relativamente tarda. Non ostante vari
assaggi fatti qua e là alle falde della collina,
[27]
non mi riesci di rintracciare la necropoli, dalla quale
si avrebbe potuto trarre un materiale prezioso per l'illustrazione
di questo
castelliere.
Come questi due
castellieri erano posti a velettare ad oriente le
valli che conducevano a
Trieste, cosi anche dalla parte opposta
all'estremo limite dell'arenaria, sorgeva un
castelliere sul colle
di Contovello (259 metri), (34)
chiudente l'accesso dalla parte di nord-ovest. Le costruzioni
posteriori e la riduzione del terreno a fertili vigneti, lo hanno
scomposto completamente, sicchè a mala pena si trova qualche coccio
qua e là per i campi. Tuttavia sebbene vi manchi qualsiasi traccia
del muro di cinta, si può ancora riconoscere in parte la sua forma
originaria di un'ovoide allungata con un restringimento verso la
metà.
Altrettanto distrutto è quello di Conconello (411 m.), del quale
non scorgesi quasi più alcun vestigio e la cui esistenza ci viene
rivelata unicamente dal terriccio nero e dagli scarsi cocci in esso
contenuti.
Il
castelliere del M. Cal (f. 2)
giace sulla maggiore eminenza, a 448 metri, di quel complesso di
vette, che comunemente viene compreso sotto il nome di M. Spaccato.
Esso si estende su ambidue i versanti del monte ed ha una cinta di
circa 330 m. di periferia, di cui buona parte ancora munita di
vallo, robusto specialmente dal lato di nord-ovest, ove giunge ad
una largezza di 15 a 25 metri. Dolcemente inclinato al versante
orientale, scende dall'opposto, vôlto verso la città di
Trieste,
ripidissimo per guisa, che non si comprende come fosse stato
possibile l'abitarvi. Causa la forte pendenza, il terriccio vi è in
gran parte asportato al pari della cinta. Tracce di un muro si
prolungano per circa 80 metri lungo il dorso calcare, che scende
[28] verso levante ad un varco più basso, ove in una piccola
insenatura giacciono numerosi mucchi di sassi in forma di tumoli. Il
ritrovarvi dappresso alcuni cocci mi fe' supporre ch'essi fossero
veri tumuli sepolcrali e quindi ne feci aprire tre dei maggiori, dai
quali m'ebbi un risultato perfettamente negativo. E probabile
quindi ch'essi non sieno altro che gli acervi di pietre raccolte per
nettare il terreno circostante.
Assai meglio conservati sono all'incontro i due
castellieri, che
trovansi l'uno appresso dell'altro su due vette del Monte Grisa ad
un altezza di 323 metri (f. 3). La loro posizione è oltremodo
pittoresca ed assai bene scelta, precipitando la roccia su cui
furono fabbricati quasi a strapiombo dal lato vòlto verso il mare,
sicchè da questa parte erano affatto innaccessibili e rendevano
quindi superflua qualunque opera di difesa. Al versante opposto
invece, ove il monte va abbassandosi meno bruscamente, il
castelliere inferiore possiede tre cinte concentriche, con ripiani
corrispondenti. La cinta esterna non giunge a chiuderlo
completamente, ma gira prima di arrivare al ciglio della roccia,
lungo la vallecola interposta tra il
castelliere inferiore ed il
superiore, distanti tra di loro 170 metri, per modo che ambidue
vengono compresi dal medesimo vallo comune. All'incontro il vallo
medio e V interno giungono fin quasi alla roccia
perpendicolare, lasciando solamente in prossimità di questa due
aperture per gl'ingressi ai lati opposti. Il vallo interno, lungo
128 metri, è assai bene conservato e completo, alto 1-1.5 metri,
laddove il medio, distante da esso 30 metri e della lunghezza di 225
metri, trovasi più alterato. In quest'ultimo scorgonsi ancora
chiaramente gli avanzi di una porta.
Meno esteso è il
castelliere superiore, non avendo che una cinta
della lunghezza di 138 metri. Il suo muro, solo parzialmente
conservato, ha una grossezza di 1.40 metri ed al pari di quello
dell'inferiore è semicircolare mancando del tutto dalla parte vòlta
al mare. Il lungo e stretto dorso calcare inchiuso da esso è assai
rupestre e non presenta che una spianata della larghezza di 3 a 6
metri girante lungo il muro, ove si raccolse uno strato poderoso di
terriccio.
È caratteristica in questo castellierre la presenza di un
muro interno della grossezza di 140 metri
[29] costruito da grandi blocchi, che decorre parallelo al
vallo, alla distanza di 2.30 metri da esso, al quale s'unisce di
tanto in tanto con muri trasversali. Verso l'estremità orientale
ergesi un tumolo alto 3 metri, formato di sassi accatastati senza
alcun ordine.
Gli scavi praticati in questo e nel
castelliere inferiore
diedero, come sempre, una grande quantità di cocci, spesso ornati d'impressioni digitali. S'ebbero pure parecchi vasi interi, tra i
quali alcuni piccolissimi, che non possono aver servito che da
ballocchi. Nel
castelliere superiore si trovarono sopra un letto di
sabbia gli avanzi di un inumato con un anellino di bronzo.
Simile ai due
castellieri testè descritti, è quello del M. S.
Primo (279 metri) poco lungi da S. Croce (f. 4), non avendo anch'esso che una cinta semicircolare dalla parte di terra, laddove dal
lato opposto il ripidissimo declivio roccioso, che scende al mare,
la rendeva superflua. Esso è di piccole dimensioni misurando in
larghezza 90 ed in larghezza 35 metri, sebbene a giudicare dalla
grossezza del muro (2 metri), ancora parzialmente in piedi, e
dall'ampia zona di sfasciume variante da 12 a 16 metri, appaia esser
stato assai validamente munito. Il terreno racchiuso dal vallo è
piano, ricoperto in buona parte di terriccio nerissimo, e venne
recentemente imboscate a conifere. Della cappella dedicata a S.
Primo non restano che pochi avanzi.
Kandler
segna inoltre un
castelliere sul monte di Opicina, ove ora sorge la
vedetta della Società Alpina. Vi esistono sì resti di grosse
muraglie, che si prolungano lungo parecchie vette in direzione di
Contovello, però io credo che si tratti piuttosto di mura divisorie
di confine, anzichè di
castelliere, non essendomi riescito di
ritrovarvi alcun coccio, nonostante ripetute accuratissime ricerche.
Del pari non ebbi alcun risultato dall'esplorazione di alcuni colli
dei nostri dintorni, che per la loro posizione si sarebbero prestati
egregiamente alla costruzione di
castellieri, come quello di
Metlica, sul quale si trovano tracce di vecchi edifizi, quello di
Timignano, di Triestinicco, del Farneto e di altri.
I
castellieri sono legati intimamente ai rilievi orografici, dai
quali dipende in primo luogo la loro distribuzione topografica. Noi
li riscontriamo quindi allineati solitamente lungo [30]
le catene montuose, mancando quasi totalmente nelle regioni
pianeggianti o poco elevate. Essi presentano perciò una certa
regolarità nella disposizione, ove le catene hanno un decorso
regolare, com'è il caso sull'altipiano del Carso, si trovano
all'incontro sparsi per lo più senz'ordine nella zona arenaria, in
cui i monti seguono le tortuosità delle valli. Se osserviamo
l'altipiano del Carso, che si estende tra
Trieste e la conca
arenacea della vallata del Vippacco, noi vi vediamo abbozzate due
valli longitudinali, che seguono l'asse di sollevamento da sud-est a
nord-ovest, divise da una catena montuosa, che cominciando nei
pressi di Divaccia, decorre con un'altezza di oltre 500 metri, ossia
di 100 el50 metri superiore al piano circostante, digradando a poco
a poco in una serie di dossi minori fino a morire nella pianura
friulana. I lati esterni di queste due lunghe valli, che
probabilmente corrispondono alle due correnti sotterranee, in cui si
raccolgono le acque meteoriche, che cadono sull'altipiano del
Carso, ingrossate da quelle che vengono assorbite dalle voragini di
S. Canziano e da altri imbuti minori, sono formati dalle elevazioni
marginali, che accompagnano il ciglio dei due versanti. La catena
centrale nel suo decorso verso nord-ovest va a poco a poco
avvicinandosi al ciglio meridionale, fino a fondersi collo stesso
nell'ultimo tratto verso Monfalcone. In quella vece a restringere la
vallata opposta s'interpone una serie di dossi, dapprima con rilievi
incerti, poi raggruppati al di là di Comen e di Goriansca, in un
increspamento generale del terreno, della media altezza di 300 a 350
metri sul livello del mare e culminante al monte Terstel con 644
metri.
Appunto su questi rilievi noi incontriamo la maggior parte dei
castellieri dell'altipiano calcare, disposti con una certa
regolarità, dovuta più che altro alle accidentalità al suolo.
Si è già trattato di quelli che giacciono sul ciglio meridionale,
compresi nel territorio politico di
Trieste e quindi resta da dire
di quelli distesi lungo la catena centrale ed il margine
settentrionale.
Ma prima di volgerci a questi, credo opportuno di parlare qui di
due altri
castellieri, che trovansi a poca distanza dal
[31]
confine del nostro territorio. Quello di Nasirz (T. I, f. 5)
è uno de' più piccoli, non misurando che soli 192 metri di
periferia, ed occupa una rupe isolata a ponente dell'omonimo
villaggio. Circondato da due lati da pareti che scendono a
perpendicolo per 5 a 10 metri sul sottostante declivio, esso non
andava fornito di vallo che dagli altri due, ove se ne conserva
ancora un resto per la lunghezza di 41 metri. Il terreno venne
recentemente imboscato a pini, meno la parte più elevata che è tutta
rupestre. Del resto pare abbia servito d'abitazione anche in tempi
posteriori, trovandovisi misti ai cocci preistorici anche frammenti
di tegole.
Ben più vasto è il
castelliere che sorge sulla vetta principale
della catena, che si estende tra Basovizza e Roditti (Rodig), sul M.
di Grociana (742 metri), conosciuto generalmente sotto il nome di
Castellaro maggiore (f. 6). Sebbene tutto intorno il terreno sia
formato da calcare nummulitico, il cocuzzolo su cui venne costruito,
consta di arenaria, la presenza della quale fa sì ch'esso fruisca
di quel raro benefizio de' nostri monti, di possedere cioè sorgenti
d'acqua, delle quali le due principali scaturiscono al suo lato
orientale. Questa particolarità oltre alla posizione elevata, d'onde
si domina un vastissimo territorio, e la fertilità delle due valli
che s'insinuano al suo piede, determinò i nostri progenitori a
fissarvi la loro dimora. Il muro di cinta, che a giudicare dai pochi
avanzi aveva una grossezza di metri 1.40 andò completamente
distrutto, ed anche i cocci alla superfice sono molto scarsi,
essendo imboscato e ricoperto da lussureggiante vegetazione.
Tuttavia il grosso strato di terriccio nero, in cui non difettano
punto, ci dimostra che esso fu per lunghissimo tempo abitato. Si
conservò anzi tra il popolo la tradizione ch'ivi sorgesse in antico
una grande città, della cui distruzione, come al solito, viene fatto
carico ad
Attila.
Di forma irregolare, il
castelliere ha una circonferenza di 870
metri e viene diviso in due parti da un'elevazione trasversale del
terreno, sul cui vertice innalzasi un cono erboso, alto circa 10
metri, che ha tutta l'apparenza di un tumolo artificiale. Dal lato
nord-ovest vi si annoda un piccolo ripiano di circa 160 metri, che
però causa la densa sterpaja che al presente
[32] l''ingombra, non è possibile misurare con
precisione. Sulla vetta del M. Cocusso, che più si spinge verso
Basovizza, ergesi un colossale tumolo di sassi, non per anco
esplorato.
Sulla catena centrale, che cominciando nei pressi di Corgnale e
di Divaccia si estende per circa 25 chilometri fino alle foci del
Timavo, noi incontriamo ben 13
castellieri. Nel primo tratto che si
estolle tra Corgnale e Sesana ad un'altezza di 5 a 600 metri e da
un lato si annoda ai monti che accompagnano la valle del Recca,
dall'altro, dopo la stretta depressione del varco di Sesana (369
metri), continua in una serie di vette alte 450 a 500, verso
Repentabor, trovansi quattro
castellieri.
Il primo (T. I, f. 7) giace immediatamente sopra Corgnale, al
vertice del M. Clemenoga (567 metri), che è diviso dal resto della
catena da una profonda valle. Esso presenta una cinta circolare
benissimo conservata della lunghezza di 440 metri, racchiudente uno
spazio quasi piano, ove il terriccio nero trovasi sparso dovunque
abbondantissimo, producendovi un'ubertosa vegetazione di magnifici
prati. Non essendo stato smosso il terreno, non si rinvengono cocci,
che però devono essere molto copiosi, scorgendosene frequenti
pezzetti nei mucchi sollevati dalle talpe.
Dalla parte orientale si vede un'altra cinta circolare ancora più
vasta, misurando 502 metri di circonferenza, che scende sul declivio
del monte. Siccome però essa non è concentrica al
castelliere, ma lo
tocca solo tangenzialmente suppongo ch'essa non vi appartenga, ma
fosse fabbricata più tardi per recintare un pezzo di terreno, forse
allo scopo di tenervi animali, tanto più che anche più in basso
veggonsi tracce di altri consimili spazi recintati, se anche di
dimensioni minori.
Ben diverso è l'aspetto del
castelliere che incorona il monte al
disopra della Grotta di Corgnale, conosciuto nel paese col nome di
Tabor di Corgnale (605 metri). Non offriva certamente la comodità di
quello toste descritto, ma per converso si prestava assai bene quale
punto strategico per la sua posizione eminente e per le sue pendici
dirupate ed in alcuni punti addirittura innaccessibili. Lo spazio
che si può dominare dalla sua vetta è estesissimo, abbracciando
buona parte del Carso ed arrivando fino al mare. Questa fu la
ragione [33] ch'esso non venne
abbandonato, ma fu ridotto a castro romano e nelle varie incursioni
turchesche del medio evo servì quale luogo di ricovero per gli
abitanti del villaggio sottostante. Vi troviamo perciò oltre agli
avanzi del
castelliere preistorico, anche numerose tracce di
costruzioni posteriori, tra cui le forti mura a cemento, che ne
cingono la vetta.
Del vallo inferiore, che correva circolarmente a due terzi circa
dell'altezza, è ancora benissimo conservato il muro dal lato
orientale, che ha una grossezza di 1.40 metri, laddove il pendio
ripidissimo dirupato, scendente nella valle dal lato opposto, lo
rendeva superfluo. L'esplorazione vi è difficoltata dalle rocce e
dalla fitta sterpaja, che impediscono in più tratti l'avanzarsi. Nei
luoghi dilavati si trovano unitamente a cocci preistorici, anche
frammenti di vasi e di embrici romani.
Molto più vasto è il
castelliere di Povir (T. I, f. 8) che
comprende tre vette, misurando 1350 metri di periferia. Anche questo
restò munito in epoca romana e nell'evo medio (Tabor di Povir),
conservandosi sino ai nostri giorni la torre circolare ed alcuni
muri del castello, sorgenti sul cocuzzolo di nord-ovest, ove trovasi
una spianata rocciosa della superficie di circa 5500 metri quadrati.
Da questo tratto più elevato (523 metri) si discende dolcemente per
75 metri fino al punto più basso del
castelliere, ove comincia la
parte più vasta, che s'innalza alla seconda vetta, culminante in un
ammasso di pietre in forma di tumolo e racchiusa colla prima da una
cinta comune. Alla seconda vetta si annoda un altro dorso un po'
inferiore, conservante tracce di un muro di cinta, che termina a
levante con alcuni avanzi di fabbricati posteriori. Presso la
seconda vetta trovasi pure un'ampia cisterna e resti di costruzioni.
Il vallo è parzialmente conservato, in parte rovesciato e formante
una cinta di 5 a 12 metri di larghezza. Il terriccio vi è nerissimo
con molti cocci di pentole preistoriche e romane, come pure di
embrici. Vi raccolsi pure una grande lancia di ferro. Presentemente
il
castelliere è totalmente imboscato. (35)
[34] Dopo il
castelliere di Povir
seguono parecchie vette, sulle quali non mi riesci di trovare alcuna
traccia di sedi preistoriche, sebbene nelle sottostanti vallate
frequenti sieno le grotte già abitate dai nostri trogloditi. Appena
ad una distanza di circa 5 chilometri, ci si affaccia un altro
castelliere sul monte su cui si appoggia il villaggio di Sesana
(Tabor di Sesana). Anche questo è un
castelliere assai vasto (f. 9),
constante di due parti, cioè della vetta principale chiusa da un
vallo circolare della lunghezza di 550 metri, e di un dorso
inferiore quasi piano, che vi si annoda dal lato di nord-ovest della
periferia anch'esso di 550 metri. Del vallo non si è conservato che
il tratto ove si uniscono le due parti del
castelliere, ed ov'esso
è tuttora alto 2 a 5 metri. Il resto della cinta è visibilissimo,
quale una fascia di sassi franati della larghezza di 5 a 10 metri,
che tutto intorno circonda il monte. Entro la cinta trovasi un
ripiano circolare largo 5 a 8 metri. La vetta è occupata dalle
rovine di un edifizio medioevale, del quale si conserva ancora la
torre rotonda.
Anche la parte aggiunta possiede un ripiano circolare, però il
suo muro più debole trovasi (piasi totalmente rovesciato
all'infuori. Al suo punto estremo e più elevato sorge un ammasso di
sassi in forma di tumolo. Il terriccio copioso, assai nero, è
disseminato di cocci. Anch'esso è totalmente imboscato, parte ad
alberi a foglia caduca, parte a pini.
Come ad oriente così anche ad occidente noi non troviamo per
cinque chilometri alcun
castelliere, sebbene sopra una vetta
intermedia, sul Medevediak (475 metri), sorga un grande tumolo,
presso al quale venne raccolto uno spillone a globetti di bronzo.
Appena a Monrupino (Repentabor) noi incontriamo nuove sedi de'
nostri castricoli, le quali diventano sempre più spesse. Quivi noi
ne troviamo due a pochissima distanza tra di loro: il
castelliere di
Monrupino (424 metri) e quello di Zolla. Il primo di questi (T. II,
f. 1) possiede una forma piuttosto irregolare, come lo richiedeva la
natura del monte, che dal lato di nord-est scende ripidissimo in una
profonda vallata, mentre da quello vòlto a meriggio si allarga in un
mammellone [35] sporgente. La
costruzione complessa di questo
castelliere ne rende alquanto
difficile la descrizione, sicchè meglio che da questa si potrà
farsene un'idea dalla relativa pianta.
La cinta esterna, in parte assai bene conservata, che si può
seguire per 720 metri, manca dal lato settentrionale, ove il pendio
rupestre porgeva sufficente difesa. Il vallo è tuttora alto 1 a 1.50
metri e ci mostra un muro della grossezza di metri 2.70, formato da
grandi blocchi, che all'estremità del mammellone presenta un
allargamento a guisa di tumolo, alto circa 5 metri. A poca distanza
da questo si stacca la cinta interna e circondando dal lato
nord-ovest il precitato mammellone, si prolunga per 230 metri e va
ad inserirsi alla parte opposta del vallo esterno. Dalla metà circa
di questa cinta interna, ove trovasi un secondo allargamento, si
diparte un altro vallo in direzione di ponente per una lunghezza di
160 metri, che va del pari ad unirsi all'argine esterno. Un ripiano,
largo da 3 a 10 metri, segue quasi dovunque il decorso del vallo ed
in più luoghi venne ridotto a campi. La vetta del monte è formata da
un'alta rupe, sulla quale torreggiano ancora le mura esterne di un
castello medioevale, entro le quali fu edificata l'attuale chiesa
colla relativa canonica. Alla base di questa rupe gira tutt'intorno
una spianata circolare. Il terriccio nerissimo e la notevole
quantità di cocci, che vi si ritrovano, ci fanno fede della lunga
dimora dell'uomo su questo monte, che presentava per la sua
posizione elevata, d'onde si domina un vastissimo territorio del
Carso, e per la difficoltà dell'ascesa, condizioni eccezionalmente
favorevoli.
Molto più piccolo era il
castelliere di Zolla (T. I, f. 10) che è
di forma ovale e circonda l'apice del monte, che s'erge di faccia a
Monrupino. Anch'esso non possiede una cinta completa, facendo
questa difetto dal lato di sud-ovest assai declive e rupestre ed ora
fittamente imboscato. Il vallo alto 1 a 1.50 metri, ha una lunghezza
di 240 e lascia benissimo scorgere un muro poderoso di 2.50 e 2.75
metri di grossezza. Lungo il vallo decorre una spianata circolare
larga 5 ad 8 metri, cui sovrasta la vetta per una ventina di metri.
[36] Un terzo
castelliere sorge
pure poco lungi sur una collina di mediocre altezza a ridosso del
villaggio di Repenpiccolo (T. II, f. 2). In parte alterato dalle
cave di pietra e dal susseguente deposito del materiale di rifiuto,
specialmente dal lato vòlto verso il villaggio e verso settentrione,
esso conservò benissimo la sua cinta verso sud e sud-est per una
lunghezza di 180 metri, ov'essa presenta un vallo della larghezza
di 10 a 15 metri con un'altezza media di 2 a 3, risultante dallo
sfasciarsi di un muro di quasi 2 metri di grossezza. Rimarchevole è
specialmente la difesa dal lato di nord-est, ov'ergesi una specie
di enorme tumolo allungato, alto 8 a 10 metri e misurante in
periferia oltre a 200, composto di pietre e di blocchi calcari di
varia grandezza. Questa costruzione che è una delle più formidabili,
che abbia finora riscontrato in un
castelliere, e che non trova
riscontro che in quello di Redipuglie, fu determinata dalla
necessità della difesa di quel lato, ove il terreno non offre quasi
alcun declivio e quindi si rendeva indispensabile di fortificare
maggiormente con sassi ammucchiati l'accesso al
castelliere. Inoltre
vedesi tuttora a metà circa di questo, un muro trasversale che lo
divideva in due parti. Le fitte sterpaje spinose, ond'è densamente
ricoperto, vi rendono malagevoli le indagini.
Sui monti selvosi che s'innalzano a tergo di Repenpiccolo,
culminanti con 545 metri al M. Volnig (M. Lanaro), trovasi sur una
vetta di poco a quella inferiore (524 metri), il
castelliere di
Nivize, detto anche Aidovskigrad (T. II, f. 3). Esso è a doppia cinta
rientrante e totalmente imboscato, ad eccezione dei ripiani
circolari, assai bene conservati e larghi 6 a 10 metri. La cinta
intema, della periferia di 140 metri, ha un vallo parzialmente
conservato, alto 0.5 ad 1 metro e della larghezza di 3 a 4.
L'esterna che si annoda a questa in direzione di sudest, scende alla
falda del monte con un largo ripiano, e misura 300 metri di
lunghezza, mancando però per buon tratto di vallo visibile. Essendo
i ripiani ridotti a prato non vi si trovano alla superficie che
pochissimi cocci. Uno scavo però praticatovi, ci diede tramezzo al
terriccio nerissimo, grande copia di resti di fittili, corna di
cervo ecc.
[37] Sopra una cima di faccia al
castelliere vidi un grande tumolo appiattito, all'incontro nessuna
traccia di abitazioni osservai sulla vetta principale. Probabilmente
venne prescelta la vetta inferiore, perchè da questa si gode una
vista più libera e più ampia sull'altipiano del Carso, specialmente
dal lato di oriente e di settentrione.
Procedendo più oltre ci si affacciano presso al villaggio di
Salles due
castellieri, uno ad oriente detto Gradisce, sopra una
piccola eminenza, segnata sulla carta dello Stato maggiore con 316
metri, immediatamente sopra il villaggio; l'altro un po' più
lontano, sulla vetta più alta (M. Dernovcah, 407 metri),
nominato dai terrazzani Gradez. Il primo (T. II, f. 4), di forma
quadrilatera arrotondata, ad una sola cinta della lunghezza di 410
metri, occupa il vertice del monte ed è al pari di questo imboscato,
ad eccezione di un piccolo tratto ridotto a vigna. Il suo vallo,
benissimo conservato, vi gira tutt'intorno ed è in alcuni punti
alto tuttora 2 e più metri; la relativa spianata circolare misura in
larghezza 6 a 8 metri.
L'altro
castelliere (f. 5) ha una doppia cinta, formata di grossi
blocchi, di cui l'interna lunga appena 190 metri e quasi circolare,
è in buonissimo stato; l'esterna di 240 metri è mancante invece in
alcuni tratti ed un po' meno grossa di quella. Anche questo è
totalmente imboscato.
Uno de'
castellieri più rimarchevoli e per costruzione e per la
sua posizione elevata (401 metri), d'onde si gode una vista libera
da ogni lato, è quello di S. Leonardo al disopra di Samatorza (f.
6). Un vallo robusto circonda per 260 metri l'apice del monte, cui
si annoda la cinta esterna, che si distende per 600 metri intorno al
dosso sottostante. Questa cinta presenta inoltre due valli
trasversali, venendo l'area rinchiusa divisa per tal modo in tre
parti. Sul punto culminante scorgonsi le rovine di antica cappella
dedicata al santo, d'onde il monte trasse il suo nome. I ripiani
entro le cinte sono bene conservati e constano di terriccio
nerissimo con numerosi cocci, tra i quali non rari gli anelli
d'argilla. Una piccola grotta trovasi entro la cinta esterna e
parecchie altre sono sparse nei dintorni, delle quali alcune abitate
in antico, come la Grotta [38]
azzurra, dalla quale trassi una bella collezione di oggetti
neolitici.(36)
A poca distanza da questo
castelliere, dal quale viene diviso da
una piccola sella, havvene un altro, detto Gradine (T. II, f. 7),
sul colle che s'eleva a tergo del villaggio di Ternovizza, a circa
340 metri d'altezza. Esso è ad un'unica cinta lunga 380 metri con
vallo largo 3 a 6 metri e mancante dalla parte di ponente, ove il
monte scende a precipizio, e di mezzogiorno ove trovasi un piccolo
campo coltivato. Sembra non esser stato lungamente abitato, essendo
il terriccio poco nero ed assai scarsi i cocci.
Non sull'asse principale della catena, ma spostato alquanto verso
mezzogiorno, sorge sopra una collina di circa 200 metri il
castelliere di Slivno (f. 8.), che giacendo a poca distanza dal
viadotto di Aurisina, viene rimarcato da ognuno per la sua forma
caratteristica e per il suo vallo egregiamente conservato, che gli
danno l'aspetto di una fortezza. Esso possiede una cinta interna
quasi circolare di 270 metri con un vallo che dal lato orientale è
alto tuttora circa 8 metri ed il cui muro riconoscibile nella massa
di sfasciume, ha una grossezza di metri 2.15. A questa parte più
elevata del
castelliere si aggiunge un vallo esterno di circa 300
metri, che lo cinge dal lato settentrionale. Nei dintorni apresi nel
calcare ippuritico un gran numero di grotte, la maggior parte delle
quali con copiosi resti di trogloditi.
La catena montuosa va quindi perdendo a poco a poco il suo
carattere, allargandosi in un altipiano accidentato di 160 a 200
metri d'altezza con poche elevazioni maggiori. Appena cinque
chilometri più a ponente, nei pressi di Duino, noi troviamo un
increspamento più considerevole al M. Ermada, che s'inalza fino a
325 metri, per poi declinare gradatamente con una serie di dossi
fino alla profonda spaccatura del vallone tra Duino e Gabria, lunga
oltre 14 chilometri, che mette in comunicazione la valle del
Vippacco coll'estuario monfalconese.
Sulla vetta principale del M. Ermada trovasi un piccolo
castelliere (T. III. f. 1) ad un'unica cinta circolare di appena
[39] 130 metri di periferia. Ilsuo
vallo largo 8 a 12 metri ed alto 1, abbastanza bene conservato,
proviene da un muro della grossezza di 1.60 metri. Imboscato al pari
di tutto il monte, esso è pianeggiante e possiede nel mezzo un
tumolo di sassi, alto 2 metri e del diametro di 12. Il terriccio è
assai nero e ricco di cocci.
Questa vetta fu prescelta quale sede dai nostri castricoli
principalmente per la sua posizione elevata e dominante su tutte le
circostanti, per modo che lo sguardo può spaziare sur un vastissimo
territorio e quindi presentavasi quale un'eccellente vedetta. Ma
l'area di essa, troppo ristretta, non poteva certamente offrire
spazio sufficiente ad una popolazione numerosa, la quale si stabilì
perciò sur un ampio dosso arrotondato, che trovasi dappresso, una
cinquantina di metri più in basso. E quivi sorse un
castelliere
assai vasto (T. III, f. 2), del pari ad una sola cinta, che misura
in circonferenza 800 metri e della quale si conservarono ancora
benissimo 510 metri, parte quale muro della grossezza di ben 3.10
metri e parte rovesciato quale vallo di 4 a 6 metri di larghezza. A
nord-est può riconoscersi ancora chiaramente la porta larga 3.60
metri. Manca il vallo dal lato di ponente e settentrione, ove il
suolo è molto roccioso ed il pendìo assai ripido ed imboscato. Fra i
castellieri da me visitati, questo va fornito d'uno dei muri più
grossi e più poderosi.
Un chilometro più a nord della vetta principale giace sur un
monte roccioso, detto Nad Ulinca (248 metri), di faccia al villaggio
di Brestovizza, uno dei
castellieri più formidabili del nostro
distretto, visibile già da lontano per la grandiosità del suo vallo.
Esso (T. III, f. 3) è a doppia cinta, di cui l'interna più debole,
lunga 270 metri, è alquanto deteriorata, laddove l'esterna misurante
710 metri ci presenta un vallo alto 5 a 8 metri, formato dal
rovesciamento di un muro grosso 2.50 metri. Dall'enorme massa di
sfasciume che circonda tutto intorno il monte come una zona larga 25
a 30 metri, si può farsi di leggeri un'idea della robustezza delle
sue opere fortificatorie. Solamente al lato settentrionale, ove il
castelliere scende assai ripido e roccioso, manca quasi totalmente
il vallo od appare [40] meno forte.
Tanto entro la cinta interna che esterna, corre tutt'all'ingiro un
ripiano circolare, che specialmente in quest'ultima, ha una
larghezza di 10 a 15 metri e per un tratto di 25. La cinta esterna
comunica coll'interna a mezzo di una rampa ascendente lunga 112
metri, che metteva pure alla porta principale del
castelliere,
vôlta verso Bresovizza, che presenta ai
lati due enormi ammassi di blocchi calcari, alti 3 a 5 metri,
provenienti forse dallo sfasciarsi di due torri, che ne difendevano
l'ingresso. Altre due porte sono tuttora visibili nel vallo esterno,
d'onde partono i viottoli che conducono al basso. L'apice che
sovrasta di 50 a 60 metri la cinta esterna, consta di nude rocce
corrose. Il terriccio nerissimo abbonda di cocci. Il
castelliere fu
senza dubbio abitato anche in epoche posteriori, trovandosi tracce
di edifici a mura con calce. Del pari il vallo esterno, dal lato di
mezzogiorno, appare rafforzato da costruzioni in cemento.
Procedendo verso ponente noi incontriamo un altro
castelliere a
due chilometri di distanza, presso i casali di Flondar, sur un colle
alto 149 metri, e pur questo di dimensioni considerevoli (T. II, f.
9). Anch'esso è a due cinte, che però, a differenza di quello testè
descritto, non girano intorno al monte, ma cominciando alla vetta,
oltremodo rocciosa, circondano la falda vôlta verso sud-ovest. La
cinta interna, della periferia di 370 metri, consta a sud-est, per
una lunghezza di 180 metri, di un vallo poderoso, proveniente dalla
distruzione di un muro grosso 2 metri, mentre dal lato opposto vi
manca o non è che parzialmente conservato. Il suo ripiano è largo 8
a 12 metri. La cinta esterna comincia egualmente alla vetta ed,
altrettanto poderosa, si prolunga in direzione sud-est per 250
metri, ove cessa in una depressione del terreno, laddove quella del
lato opposto, formata da grossi blocchi rovesciati, scende giù per
la china per un'ottantina di metri e si perde nel bosco, senza
permettere di seguirla più oltre. Tuttavia tenendo conto delle
tracce del ripiano esterno, si può calcolare a circa 600 metri la
sua periferia. Il terriccio vi è nero con cocci numerosi ed è
totalmente imboscato. Innicchiata nel muro si trovò una pentola
contenente le ossa di un combusto.
[41] Il
castelliere di Flondar
aveva certamente un'importanza speciale, per la sua posizione
all'ingresso del Vallone di Duino. Più importanti ancora devono
esser stati altri due, quello di Vertace presso Jamiano, ove colla
strada del Vallone s'incrocia quella che segue la forte depressione
di Goriansca-Brestovizza, ed il Castellazzo di Doberdò, che sorge
immediatamente dal lago omonimo e domina la stretta gola per la
quale si svolge la via.
Il primo di questi sorge sur un colle isolato di 145 metri,
(nominato sulla carta dello St. Magg. Nad Cherupa Kupa), che
s'interpone tra il laghetto di Pietra Rossa e quello di Doberdò.
Parte imboscato e parte ridotto a prato, esso comprende oltre che la
vetta anche il sottostante pianoro, di circa 80 metri più basso (T.
III, f. 4). E uno de' più vasti, misurando la sua cinta esterna
oltre ad un chilometro. Per la sua forma ricorda quello di Flondar,
cominciando all'apice del monte, ove trovasi un allargamento
derivante forse da una torre crollata, e stendendosi sulla falda di
sud-ovest, come quella che era meglio riparata dai venti impetuosi.
Il vallo conservato tuttora per una lunghezza di 720 metri, ne ha in
larghezza 5 a 10 ed è in media alto 1 metro. Causa il pendìo
roccioso esso manca al lato di nord-ovest. A 00 metri dall'apice è
diviso trasversalmente da un altro vallo, però molto più debole.
Nella parte più depressa, ove viene tagliato da una strada, evvi una
vallicella con molta argilla, sicché l'acqua vi ristagna facilmente,
Causa la fitta vegetazione, sebbene il terriccio sia nerissimo, si
veggono solo pochi cocci.
Il Castellazzo di Doberdò (160 metri) era una posizione
fortissima, essendo da tre lati limitato da pendici ripidissime ed
in più luoghi da rocce perpendicolari (f. 5). Per tal motivo rimase
abitato anche in epoche posteriori, come ci fanno fede le varie
costruzioni e specialmente i resti di un castello medioevale con una
torre ed il forte muro a cemento, grosso 2.50 metri, sovrapposto
all'antico vallo. Questo ha tuttora una lunghezza di mezzo
chilometro e manca solamente a sud-ovest essendovi affatto superfluo
per la ripidità della china rocciosa che tuffa la sua base nel
sottostante lago. Un piccolo assaggio [42]
praticatovi ci diede oltre a parecchi cocci preistorici e romani, un
coltellino di selce, frammenti di bronzo ed alcune frecce di ferro.
Giacchè abbiamo parlato dei tre
castellieri, che velettano l'ingresso
meridionale del così detto Vallone, credo opportuno di aggiungervi
tosto quello di Brestovec (f. 6) che ne difendeva l'accesso
dal lato opposto non lungi da Gabria. Molto più piccolo dei
precedenti, esso giace sopra un cocuzzolo di 209 metri ed è a
duplice cinta, mancante di vallo dalla parte di mezzogiorno, ove
trova validissima difesa nelle aspre rocce dentellate. La sommità
del monte, del pari totalmente rocciosa, presenta un vallo
parzialmente conservato di 2 a 3 metri di grossezza e della
periferia di soli 75. In miglior stato trovasi il vallo esterno,
largo 4 a 6 metri, del quale esistono ancora 160 metri, con un bel
ripiano di fi a 8 metri che si restringe e cessa al lato
meridionale. La nativa rocciosa e la fitta vegetazione ne rendono
alquanto malagevole una misurazione precisa. Nei punti dilavati
veggonsi abbondanti cocci di rozzo impasto.
Opportunissime quali sedi de' nostri proavi, si presentavano le
colline estreme che limitano la pianura friulana, offrendo queste
oltrechè vaste distese di prati e di fertili campi, anche copia
inesauribile d'acqua. E qui troviamo presso a Monfalcone allineati
l'uno appresso l'altro, non meno di quattro
castellieri. Il primo
più ad oriente sulla eminenza maggiore di questa serie di colli (122
metri) detta M. Golas, che forma un dosso arrotondato totalmente
nudo, è assai deteriorato, non essendovi visibili che poche tracce
del vallo e della relativa spianata (f. 7). E quasi rotondo e misura
circa 170 metri di circonferenza. Molto meglio conservato è quello
che sorge immediatamente a tergo di Monfalcone, alto 85 metri, su
cui torreggia ancora la Rocca attribuita a Teodorico ed in cui si
vuol vedere l'antico castello della Verucca (f. 8). Già dalla
stazione della ferrata si scorge la cinta biancheggiante, che fascia
il monte a mezza costa e che è il vallo preistorico, sussistente
ancora per una lunghezza di 140 metri, ai lati di levante,
mezzogiorno e ponente, laddove solo qualche traccia se ne conservò
dalla parte settentrionale, ove non si può seguirlo che assai
[43] diffìcilmente causa la fitta
sterpaja, che ne impedisce il passaggio. Esso comincia al punto
culminante, occupato dalla Rocca, la quale è circondata da un ampio
fosso circolare di 210 metri di periferia, e si distende alla falda
vòlta a meriggio. Il muro aveva una grossezza di 1.80 metri, ed il
vallo risultante dallo sfasciarsi dello stesso, misura 10 a 15
metri. Però anche dal lato opposto veggonsi resti di mura, forse
aggiuntevi più tardi per amplificare il
castelliere, quando non
poteva capire l'accresciuta popolazione. Nel terriccio assai nero,
come pure alla superficie, giacciono numerosi cocci.
A poca distanza dalla Rocca stendesi un altro
castelliere, detto
delle Forcate (T. III, f. 9), con vallo in parte tuttora esistente,
largo 5 a 10 metri ed alto 0.5 ad 1, mancante dal lato di
nord-ovest, ove il terreno è assai rupestre e quindi non
possiede che appena qualche traccia della spianata. La sua
circonferenza è di circa 600 metri.
Un quarto
castelliere (f. 10), il più vasto ed il meglio
conservato sulla vetta adiacente, quello della Gradiscata o di S.
Polo, è a duplice cinta, di cui l'esterna lunga 510 metri, l'interna
390, con bei ripiani circolari larghi 10 a 15 metri. Il vallo è
assai robusto, specialmente dalla parte di sud-ovest, ove ha un'altezza di 2 a 5 metri. Nello scavo che vi praticai alcuni anni or
sono, raccolsi parecchi frammenti di stoviglie preistoriche ornate e
resti d'animali. Nel ripiano della cinta esterna m'imbattei in un
gruppo d'inumati d'epoca romana. (37)
Al piede del
castelliere esiste un pianoro con piccola grotta, al
cui fondo trovasi una raccolta d'acqua perenne,
[44] comunicante con un grande deposito
sotterraneo, come ce lo dimostra l'apparire reiterato di protei.
Così gli antichi abitanti non erano costretti a scendere fin alla
pianura per attingere l'acqua, trovandone di eccellente in questa
caverna.
Il
castelliere del nostro Carso che più si spinge ad occidente è
quello di Redipuglia (f. 11), del pari al margine della pianura
friulana, giacente a tergo del villaggio omonimo sopra un colle di
92 metri d'altezza. Di forma quadrilatera, cogli angoli arrotondati,
possiede duplice cinta, l'esterna misurante 760 metri, l'interna
450. Dalla parte di nord-est, ove si annoda all'altipiano del Carso,
quasi allo stesso livello, si rendeva necessaria più valida opera di
difesa, e quivi troviamo di fatti un formidabile argine formato da
un largo ammasso di blocchi, che s'erge tuttora a 6 od 8 metri
d'altezza e ci fa arguire quanto robusto fosse il muro dal cui
sfasciamento trasse origine. Più debole naturalmente è il vallo
dalle altre parti, ove il maggior declivio naturale suppliva alla
men forte costruzione. Da un lato la cinta esterna ed il relativo
ripiano furono profondamente intaccati da una cava, d'onde si
estrae il materiale per la vicina fornace di calce. In questa
occasione si rinvennero parecchi utensili, dei quali mi riesci di
ricuperare una parte, mercè la gentilezza del proprietario. Vi
praticai pure alcuni scavi, che mi fornirono numerosi frammenti di
pentole, cote d'arenaria, pestelli, macine di trachite, resti
d'animali, ecc.
Recentemente, in occasione dei lavori per il canale d'irrigazione
dell'agro monfalconese, si scoprirono anche le necropoli
appartenenti a questo
castelliere, di cui una presso al villaggio di
Redipuglia, l'altra un po' più distante verso Ronchi. Mentre la
prima giace a circa un metro di profondità, la seconda è ricoperta
da uno strato di terreno alluvionale alto tre metri In quella apersi
nove tombe, in questa 65, cui devesi aggiungere circa una
quarantina, che andarono precedentemente distrutte dai lavoranti.
Meno tre, tutte le altre erano ad incinerazione e constavano
solitamente di un grande vaso-tomba o ziro d'argilla, coperto da un
pezzo di pietra. Le necropoli appartengono ad un periodo tardo della
prima epoca del ferro e sono piuttosto povere d'oggetti, tra i quali
ricorderò alcune fibule [45]
serpeggianti e della Certosa, parecchi spilloni a globetti ed a
riccio, forniti talora di schermo per la punta, armille, anelli,
frammenti di cinture, saltaleoni, pendagli, perfette di vetro e di
bronzo, fusaiuole, ecc.
Anni fa, a poca distanza tra Fogliano e Pollazzo, si rinvennero
alcune accette di rame, di cui potei averne una, e due belle ascie
di pietra dura, che vennero acquistate dal nostro museo di
archeologia.
Un ultimo
castelliere, del quale però assai poche tracce sono
visibili, trovasi presso S. Martino (199 metri) al di sopra di
Sdraussina. In un campo attiguo si rinvenne, un paio d'anni fa, un
vaso con ossa di combusto, senza alcuna aggiunta.
Il pianoro, variamente accidentato, tra la catena centrale ed il
margine settentrionale del nostro Carso, non offriva condizioni
molto opportune allo stabilimento di
castellieri e quindi non ne
troviamo che un numero piuttosto limitato.
Vasto ma in buona parte distrutto dalle colture posteriori e
dall'erezione di un castello medioevale, di cui esistono ancora due
torrioni, è il
castelliere di Tomai (T. IV, f. 1), che aveva una
circonferenza di oltre un chilometro. La sua posizione eminente (382
metri) sur un monte isolato in mezzo ad una campagna assai fertile,
dal quale si domina tutt'intorno un estesissimo territorio, lo
rendeva certamente uno de' più importanti del nostro Carso. La parte
vòlta a mezzogiorno ed a ponente è occupata dall'odierno villaggio
e da campi e vigneti, e quindi poche tracce conserva dell'antico
vallo, laddove dall'opposta, rivestita da un bel bosco di castagni,
questo è visibile per oltre 200 metri. Il pianoro superiore ove
sorgono la chiesa ed altri edifizi, è per la massima parte ridotto a
campi ubertosi, dai quali, mercè le cure dell'egregio
parroco-decano M. Siila, ebbi nunerosi cimeli preistorici. Qualche
anno fa, scavandosi il terreno più profondamente per costruirvi una
scuola, si rinvennero parecchi scheletri del Vili o IX secolo, con
orecchini, anelli ed armille di bronzo.
Del pari il villaggio di Scopo trovasi fabbricato entro un
castelliere (300 metri), che per tal modo andò quasi totalmente
distrutto, e del quale più non si scorge che un breve tratto di
vallo.[46] Altro minuscolo
castelliere, egualmente assai deteriorato, sorge sopra una piccola
eminenza isolata tra Copriva e Cobillaglava. Poco lungi da questo,
al M. Jelenca, apresi nel suolo una voragine che mette in una
caverna spaziosa, la quale sebbene giaccia ad una profondità di 38
metri, era anticamente abitata, avendovi rinvenuto resti di focolai
con cocci, manufatti d'ossa e due ascie di pietra dura. (38)
Ben diverso per forma è l'ampio
castelliere di Vucigrad (T. IV,
f. 2), il quale, a differenza degli altri, non giace sopra un monte,
ma trovasi sur una piccola elevazione del terreno appena appena
accennata. Ciò determinò una costruzione particolare, per munire
sufficientemente il luogo, specialmente alle due estremità di
sud-ovest e nord-est, laddove agli altri lati, per la presenza di
alcune delle solite vallicelle del Carso, non rendevansi necessarie
altre opere fortificatorie all'infuori del solito vallo. A
quelle due estremità la cinta possiede un raddoppiamento in forma di
un secondo argine della lunghezza di 220 metri, che staccandosi dal
vallo interno, si protende all'infuori per 40, rispettivamente 38
metri. Così la periferia totale del
castelliere è di 850 metri,
laddove la cinta interna è di 680. Essendo la difesa di questo luogo
affidata principalmente alle opere artificiali, anzichè alla
propizia posizione, è naturale che i valli fossero assai robusti —
il mino aveva una grossezza di 2 metri, — e difatti anche al
presente essi hanno un'altezza di 2 a 4 metri, sebbene le enormi
masse di sfasciume, larghe 8 a 15 metri, ci dimostrino, che ben più
alti ancora s'ergessero in antico. Il
castelliere è attualmente
ridotto in buona parte a coltura e viene attraversato in tutta la
sua lunghezza dalla vecchia strada che da Vucigrad mette a Comen. Il
grosso strato di terriccio nero e la quantità di cocci, ci fanno
fede della lunga dimora dell'uomo in questo
castelliere.
Quattro chilometri più a ponente trovasi il
castelliere di
Zagraiz (T. III, f. 12 ), del pari bene conservato, ma molto più
piccolo, non misurando in periferia che 370 metri. Esso sorge a
ridosso dell'omonimo villaggio sopra un colle di
[47] mediocre altezza e non possede che
un'unica cinta, più forte dal lato orientale, ove ha tuttora un'altezza di 3 a 4 metri ed una larghezza di 10 a lo, laddove il muro
originario era grosso 1.50 metri. In buona parte coltivato, ha
dovuto subire parecchie alterazioni nel corso de' secoli, essendo
stato abitato tanto in epoca romana che più tardi, come ci attestano
le rovine di un castello medioevale e di altri edifizi. Perciò ai
cocci preistorici vi sono frammisti pure altri di tempi posteriori.
In una vigna di Zagraiz si rinvennero, non è guari, pentole
frammentate e parecchie fusaiuole preistoriche. Dalla parte opposta
verso Goriansca esistono in tre campi gruppi di tombe romane a
cassetta, di cui ne apersi tre, contenenti resti d'inumati. (39)
Molto deteriorato e quindi difficilmente riconoscibile, è il
castelliere di Voischizza (327 metri), per esservi stato costruito
in esso un castello medioevale, che ancora presentemente serve da
casa parrocchiale ed una parte del villaggio. Non si conservarono
che poche tracce del vallo e gli scarsi cocci che qua e là trovansi
sparsi pei campi.
Assai meglio conservato all'incontro è il
castelliere di
Martinischie (345 metri), presso Slitta, che è uno de' più vasti del
nostro Carso, misurando quasi un chilometro e mezzo di periferia (T.
IV, f. 3). Esso giace sur un'elevazione poco emergente dalle
circostanti campagne e comprende due collinette, tra cui si stende
una vallicella imboscata. Di forma alquanto irregolare, si compone
di due parti distinte: l'orientale, più piccola (periferia 790
metri), ma con vallo assai forte, alto 5 a 6 metri e largo 8 a 20,
mimita inoltre di un avancorpo semicircolare, del pari robustissimo,
ed attraversata dalla strada regionale che da Slitta conduce a
Scherbina; e l'occidentale
[48] molto vasta (perif. 1200 metri),
però maggiormente alterata dalla riduzione del terreno a campi ed a
prati.
Di questo
castelliere mi riesci di scoprire la relativa
necropoli, se anche pur troppo per la massima parte distrutta dai
lavori agricoli. Essa giace a circa mezzo chilometro di distanza in
alcuni campi del villaggio di Slitta e consta di tombe di combusti
ricoperte da lastre di pietra. Oltre ad alcuni spilloni a globetti,
ad anelli, ad armille, a coltellini di ferro, ecc. noterò un bel
lebete di bronzo ed una fibula conservatissima con pendagli a
catenella.
In maggior numero noi incontriamo i
castellieri presso al ciglio
settentrionale del Carso, ove se ne contano 12 lungo un tratto di
circa 30 chilometri tra Storie (Saturiano) e S. Maria di Merna.
Primo ci si affaccia quello di S. Michele di Storie (T. V, f. 1),
giacente a circa due chilometri da questo villaggio sur una vetta di
445 metri, d'onde lo sguardo può spaziare sopra un ampio territorio,
comprendente buona parte dell'altipiano del Carso ed i monti che si
stendono al di là della valle della Rassa. Costruito al margine di
questa, ove il monte presenta un ripido declivio di circa 200 metri,
non veniva protetto da questo lato che da un debole vallo, al
presente rovesciato, al pari di quello della parte opposta, ch'era
però assai più robusto. All'incontro ergesi ancora maestoso per 6
metri l'argine formidabile, che lo chiude a sud-est, della larghezza
di 15 a 25 metri. La periferia di questo
castelliere è di 450 metri.
All'estremità di nord-ovest veggonsi le rovine della chiesa dedicata
a S. Michele, mentre all'opposta vi si annoda una spianata esterna
semicircolare di 220 metri però senza alcuna traccia di vallo.
Più vasto ed ancor meglio conservato è il
castelliere del M.
Vachta o M. Guardia (T. IV, f. 4), giacente sur un dosso di 400
metri, immediatamente sopra il villaggio di Casle. Per la robustezza
del vallo, formato da grossi blocchi, è questa una delle più
grandiose costruzioni preistoriche del nostro distretto, che misura
in circonferenza 850 metri. Il vallo che manca solo per
un'estensione di 200 metri della cinta esterna,
[49]
ove fu asportato per ridurre il terreno a prato, ha quasi
dovunque 10 a 25 metri di larghezza e 5 a 6 di altezza, lasciando
scorgere un muro grosso 340 metri, dal cui crollo parziale esso ebbe
origine. Essendo il
castelliere parte imboscato e parte ridotto a
prato, i cocci visibili sono assai scarsi.
Solo poche tracce incerte rimasero di quello di Auber, posto sur
un'eminenza attualmente occupata dalle case del villaggio e dai
campi, sui quali, testimoni del prisco
castelliere, rinvengonsi
pochi cocci sparsi.
All'incontro benissimo conservossi quello di Cobdil (T. IV, f.
5), che porta tuttora il nome di Gradisce e che realmente consta di
due
castellieri divisi da una piccola vallicella ed uniti tra di
loro da un vallo comune. Nascosto in un magnifico bosco di querce,
il maggiore di essi, di forma quasi circolare, ha una periferia di
circa 360 metri ed è tuttora difeso da un vallo robusto alto 2 a 3
metri per quasi tutta la sua estensione. Solo dal lato di ponente
esso vi fa difetto per un tratto di 80 metri, mentre la spianata,
larga 6 a 8 metri, vi gira ininterrotta tutt'intorno. La parte
centrale va leggermente elevandosi e sovrasta la cinta di 6 a 10
metri.
Da questo
castelliere si allunga in direzione di oriente un
grosso muraglione, lungo 180 metri, che sale ad una vetta un po' più
alta (411 metri), annodandosi ad un altro
castelliere del pari
circolare ma di dimensioni minori, non misurando che 116 metri di
circonferenza. Anche questo trovasi in buono stato e possiede un
vallo alto 1 a 1.50 metri, formato da grossi blocchi ed è
perfettamente piano. Del vallo comune, che univa i due
castellieri,
non si conservò che quello rivolto verso la valle della Branizza.
A poca distanza sorgeva un altro
castelliere, quello di S.
Daniele, che andò però in buona parte distrutto, per essere stato
abitato dalle epoche remotissime fino al presente, sicchè vi si
trovano numerosi avanzi della dominazione romana e dei tempi
feudali. Stanno ancora parzialmente in piedi le sue mura colle porte
ed i baluardi e sul suo vertice s'ergono ancora i resti di un
torrione. Di conseguenza è naturale che andassero distrutte
le cinte dell'antico
castelliere, dell'interna
[50] delle quali non rimase che un
tratto di ripiano, e dell'esterna i resti del vallo rovesciato per
una lunghezza di circa 200 metri.
Fin dal 1878 ci venne fatto di trovare un pajo di tombe della
necropoli appartenente a questo
castelliere, in un campo
sottostante. Vi si raccolsero allora una bella cista a cordoni, la
prima rinvenuta nella nostra provincia, qualche fibula della Certosa
e ad arco laminare, alcuni anelli ed armille. (40)
Non essendosi praticati scavi sistematici, non è possibile stabilire
se la necropoli si estenda maggiormente o se sia stata già distrutta
coi lavori agricoli. Forse ricercando tra i filari di viti, si
avrebbe la ventura di trovare altri sepolcri.
Oltre a queste tombe piane esistono nelle vicinanze due glandi
tumoli, di cui uno sul M. Ostri al disopra dei casali di Cipi
(diametro 25 metri, altezza 2 metri), che sembra ancora intatto, ed
un altro ancora più colossale sul M. Skerlevec (430 metri), formato
da grossi blocchi, del diametro di 31 metri ed alto 6 a 8 metri
portante tracco evidenti di antica manomissione, crescendo alcuni
alberi nella depressione centrale derivante dallo scavo.
Il colle isolato su cui torreggia il castello dei conti Lantieri
a Reifenberg (1.50 metri), era pure in antico un
castelliere, del
quale però ben poco rimase fino ai giorni nostri, sicchè ove non vi
si incontrassero cocci preistorici nel nero terriccio, difficilmente
si potrebbe constatare la sua esistenza.
Un tumolo colossale sorge poco lontano sul monte di Rabotniza
(433 metri), che aperto qualche anno fa dai cerca tesori, presentò
al suo centro una cassetta formata da lastre di pietra e contenente
resti di un inumato e frammenti di pentole di argilla.
Chi da Comen si reca a Reifenberg scorge a sinistra, a metà circa
del cammino, un colle sporgente, alto 478 metri, colla
caratteristica cinta, che incorona il vertice, su cui si scorgono le
rovine di una vecchia chiesuola. È il monte di S. Martino (T. IV, f.
6), che prende appunto il nome dal santo, cui essa era dedicata. Il
castelliere, della periferia di 240 metri, possiede
[51]un vallo circolare, che a giudicare
dall'enorme massa di sfasciume rovesciata sui fianchi del monte,
dev'essere stato molto poderoso. La sua spianata ha una larghezza
di 8 a 10 metri. Dal lato di nord-ovest scende giù dal monte un'altra cinta non troppo bene conservata, che s'allontana dall'interna di 80 metri e che si può seguire per 380 metri. Sul vallo
antico vedesi costruito a settentrione un muro posteriore a cemento,
lungo 60 metri. Il terriccio vi è nerissimo e numerosi i cocci.
Sebbene elevato, S. Martino non permette la visione libera che
verso mezzogiorno e ponente, laddove dai lati opposti essa viene
ristretta da una catena montuosa, che lo sovrasta per una quarantina
di metri. Per ovviare a questo inconveniente venne costruito sur una
dell'eminenze maggiori, al disopra dei casolari Mihali, un altro
castelliere in miniatura, perfettamente circolare, che doveva
servire da vedetta. E il più piccolo de'
castellieri finora
conosciuti, non avendo che 97 metri di circonferenza, sebbene la sua
costruzione sia identica agli altri, ed abbia una cinta larga 10 a
15 metri ed alta 1. La mancanza di terriccio nero e di cocci, fa
supporre ch'esso sia stato abitato, o piuttosto presidiato, solo in
caso di guerra, godendosi da esso una vista illimitata su tutta la
vallata del Vippacco fino ai piedi delle prealpi.
Tanto sulla vetta del monte Sunka (41)
(519 metri), che sorge a levante, che su quella del M. Vousniac (573
metri) a ponente, e sopra un'altra che trovasi appresso, giacciono
tre tumoli di mediocre altezza.
Uno de'
castellieri più vasti trovasi di faccia sur un dorso
montuoso, chiamato M. Lipovnic (T. V, f. 2), che si protende per una
lunghezza di quasi un chilometro, a nord del villaggio di Scherbina.
Esso consta in realtà di due
castellieri giacenti sulle due vette estreme, uniti tra di loro
a mezzo di due lunghi muraglioni, che comprendono la parte mediana,
e corrisponde quindi per costruzione a quello di Cobdil. Il
castelliere [52]
principale, che sorge sulla vetta orientale, alta 489 metri, ha una
circonferenza di circa 500 metri e possiede un robusto vallo,
formato da grossi blocchi, alto 1 a 3 metri e grosso 8 a 15, che lo
cinge tutt'intorno meno che dal lato ove la ripida china si allunga
nel dorso del monte. Esso viene ancora maggiormente rafforzato da un
altro vallo, che partendo dalla periferia settentrionale, sale alla
vetta rocciosa e va ad inserirsi alla parte opposta. La natura
rupestre del suolo non permise la formazione della spianata, che
solo in alcuni tratti. Al versante meridionale trovasi una bella e
comoda grotta di facile accesso, lunga una ventina di metri, che
senza dubbio avrà fornito un ricovero gradito agli antichi
abitatori. Dei due muraglioni, che partendo da questa vetta
principale, si estendevano per una lunghezza di circa 500 metri fino
all'estremità occidentale, non si conservarono che poche tracce dal
lato rivolto a meriggio, ove però per buon tratto è tuttora visibile
la spianata, mentre di quello del lato opposto esistono notevoli
avanzi per oltre 300 metri. Queste due muraglie fanno capo ad una
vetta un po' più bassa della principale, sulla quale trovasi altro
recinto circolare, con vallo rovesciato, di dimensioni però assai
piccole, non misurando che soli 70 metri di perimetro, entro il
quale si scorgono le rovine di una cappella dedicata a S. Martino.
Già da lungi visibile per la sua cinta formidabile, è il
castelliere di S. Ambrogio (T. V, f. 3), sorgente sur un colle di
534 metri, che si stacca dal massivo del M. Terstel. La sua
periferia è di G30 metri, dei quali 470 muniti di robustissimo
vallo, alto dalla parte interna 2 metri e dall'esterna ben 10 a 12.
La massa di sfasciume proveniente da un muro grosso 2 metri, ha una
larghezza di 15 a 35 metri. Il vallo mancava a sud-ovest, ove le
rupi rendevano superflua qualsiasi opera di difesa. Sul punto
culminante esistono le rovine di una cappella dedicata a S.
Ambrogio. Esso servì anche in tempi posteriori quale luogo di
rifugio in caso di guerra, il che ci viene dimostrato dai resti di
costruzioni, che qua e là si veggono e dal grosso muro a cemento
costruito a difesa del lato di levante e di settentrione sul vallo
preistorico, per una lunghezza di
[53] 340 metri. Molto grosso è lo
strato di terriccio nero, accumulatosi nel corso de' secoli e
copiosi vi sono i cocci. Presentemente esso è ridotto a prato
boschivo. L'ampia e fertile pianura, che si stende alla sua base,
avrà senza dubbio allettato a prendervi stanza una popolazione
numerosa.
Di faccia a Castagnovizza sorgono due colli isolati, al cui piede
si allarga del pari un piano ubertoso, detto Valle di Sottocastello
(Podgrac dolina). Il primo di questi, sebbene veduto dal basso abbia
tutta l'apparenza di andar fornito di un vallo, non possiede alcun
avanzo preistorico, ma consta alla cima di nuda roccia orribilmente
sgretolata, l'altro invece, un po' più basso ed imboscato, è un bel
castelliere (T. V, f. 4) a doppia cinta parziale, benissimo
conservata, della periferia di 550 metri, che dalla parte di
nord-est si annoda ad un pianoro, mentre la parte di sud-ovest si va
leggermente abbassando verso la valle sottostante. Il vallo,
specialmente dal lato settentrionale ed orientale è fortissimo, alto
fino 6 metri e largo 10 a 20 metri, che lascia scorgere quale nucleo
un muro di 2.20 metri di grossezza. Il vallo interno è molto più
debole e si stende attraverso il
castelliere, dividendo dalla parte
maggiore un piccolo segmento inferiore pianeggiante di 18 metri di
diametro. Anche il vallo esterno dal lato di sud-ovest è meno forte
che dal lato opposto, in cui non essendovi pendio, tutta l'opera di
difesa era da esso rappresentata. Ed è probabile che quivi si
trovasse pure una specie di torrione centrale, presso l'ingresso, a
giudicare da un allargamento del vallo. Il
castelliere è totalmente
imboscato, sicchè dal lato di nord-ovest, causa gli sterpi, riesce
in più luoghi difficile seguirne la cinta.
Dalla catena calcare, che limita a mezzogiorno l'ultimo tratto
della valle del Vippacco, sporgono alcune colline arrotondate, sull'estrema delle quali, alta 120 metri, sorge il santuario della
Madonna di Grado (T. V, f. 5). Alterato dagli edifizi recenti, che
incoronano la vetta del colle, come pure dal tracciamento della
strada che vi conduce e da costruzioni medioevali di difesa, di cui
si vedono ancora gli avanzi, riconoscesi tuttavia l'esistenza di
antico
castelliere nelle reliquie della cinta, nei cocci e nel
terriccio nero. Dei muri è oramai scomparsa
[54] quasi ogni traccia, e solo rimane il ripiano circolare,
ora imboscato a pini, che si può seguire per circa 500 metri.
Avendo stabilito quale limite del nostro distretto il
corso del Vippacco, ci resta da descrivere ancora alcuni
castellieri, che giacciono al di là della profonda
spaccatura del torrente Rassa. Da S. Michele di Storie
so ne scorge benissimo uno colla sua cinta
conservatissima, sorgente al disopra del villaggio Grise
(T. V, f. 6). E questo un
castelliere ad una sola cinta
costrutto all'apice del monte, di mediocri dimensioni,
misurando 420 metri di circonferenza. Il vallo alto 1.50
metri e largo 8 a 10, formato da grossi blocchi calcari,
è specialmente poderoso dal lato di nord-ovest, che è il
punto più alto del
castelliere, ove si riconosce ancora
assai bene il muro della grossezza di 3.30 metri. Il
terreno vi è rupestre, con pochissimo terriccio, ed è
occupato da ginepri ed arbusti di quercia.
Presso a questo
castelliere trovansi all'apice de' due colli due
tumoli, di cui uno di soli 12 metri di circonferenza ed alto 1
metro, l'altro rovesciato di quasi 100 metri.
Più esteso è un altro
castelliere a duplice cinta, che giace di
faccia a poca distanza, entro il quale è costruito il villaggio di
Tabor (T. V, f. 7). La sua circonferenza totale è di 680 metri,
quello della sola cinta interna di 550. Sebbene sia stato utilizzato
nell'evo medio quale fortilizio, di cui sussiste tuttavia una torre
circolare e tuttora serva da dimora all'uomo, che lo ridusse quasi
totalmente a fertili campi, il vallo vi è in buona parte conservato
ed assai robusto, specialmente l'esterno, che è alto 1 a 1.50 metri
ed ha una larghezza di 10 a 15 metri Al suo piede giace il villaggio
di Jacovize.
Cinque chilometri circa a ponente noi incontriamo un altro
castelliere a Gradisco presso Stiac, del quale però non si
conservano che tracce molto incerte, essendo ridotto a prati ed a
campi, nei quali non mi riesci di trovare alcun coccio. Per la sua
posizione elevata di quasi 600 metri, dominante le valli dei
torrenti Rassa e Branizza, come pure buon tratto di quella del
Vippacco, vi si sarebbe prestato assai bene, al pari che il
propinquo Tabor, ove si veggono i resti di un castello medioevale,
ma non si può più riconoscere alcun vestigio di una
[55]
stazione preistorica.
L'esplorazione accurata della vasta zona di monti arenacei, che
fiancheggiano la valle del Vippacco fino alla pianura friulana, darà
senza dubbio la scoperta di parecchi altri
castellieri, quantunque
per la natura del terreno poco propizio alla loro conservazione,
alquanto difficoltato ne sia l'accertamento. Così pare ne esista uno
sopra la vetta, che si protende dal villaggio di Ersel, posto anch'esso in cima di un monte; altri forse giacciono sul lungo dosso di
S. Pietro presso Gabria e su quello di S. Tibot presso Samarie, ecc.
La fertile vallata che si stende presso Senosecchia, racchiusa
tutt'intorno da monti ricoperti di dense foreste, tra le quali
serpeggiano numerosi ruscelli, offriva non ostante la sua notevole
elevazione di oltre 500 metri, condizioni opportunissime allo
stabilimento di
castellieri, tanto più che il propinquo passo di
Prevald rendeva facili le comunicazioni verso Postumia e la Carniola
inferiore. Così noi troviamo quivi un gruppo di quattro
castellieri
sur una linea di poco più di tre chilometri.
Il primo giace sur un colle di circa 700 metri d'altezza, che
s'eleva a tergo di Senosecchia. Causa la costruzione di un vasto
fortilizio medioevale, che ingombra tutta la vetta con un enorme
ammasso di rovine, l'antico
castelliere andò in buona parte
distrutto, sicchè solo dal lato di sud-est si può riconoscere
l'argine per una lunghezza di circa 150 metri.
All'incontro in ottimo stato si presenta quello di S. Giorgio (T.
IV, f. 8), che si protende immediatamente sopra Potoce, ed è a
duplice cinta, del perimetro di 300 metri, con un vallo alto 0.5 ad
1 metro e largo 5 a 10. Il nero terriccio abbonda di cocci.
Assai più vasto è quello del M. Bandiera (T. V, f. 8), del pari
in prossimità di Potoce, ma dall'altra parte del ruscello sopra un
monte più elevato, che s'estolle a settentrione. È rimarchevole
questo
castelliere per andar fornito di un grandioso argine di
blocchi calcari, sebbene giaccia su terreno arenario, sicchè i suoi
costruttori dovettero trascinarvi il materiale occorrente da un
colle inferiore: lavoro colossale, data la grande estensione della
cinta, che misura ben 650 metri di [56]
circonferenza, ed i mezzi primitivi di escavazione e di trasporto,
dei quali potevano disporre quegli antichi abitanti. L'aggere è
specialmente robusto dalla parte di nord-est, ove per una lunghezza
di 50 metri ha tuttora un'altezza di 6 metri ed una larghezza di 20
a 25. Dagli altri lati è più debole ed in buona parte rovesciato e
ricoperto di erba. Il
castelliere possiede una bella spianata
circolare, larga 15 a 20 metri, ed occupa il vertice del monte. Il
tratto superiore, in cui scorgonsi le fondamenta di alcuni vecchi
edifizi ed un piccolo stagno, è quasi piano e limitato
dall'inferiore, un po' declive, da un vallo quasi scomparso. Dalle
falde del monte, ricoperte da bellissimi boschi di querce e di
betulle, sgorgano parecchie sorgenti d'acqua.
Poco lungi da Dolegnavas giace sur un monte calcare, che sovrasta
la valle del torrente Locnic, presso i casali di Hrib (T. V, f. 9),
un
castelliere circolare ad una sola cinta di 470 metri. Il vallo è
parzialmente rovesciato, parte alto fin due metri, perù rivestito
d'erba. Il terriccio vi è assai nero.
Descritti i
castellieri che si trovano sul Carso a settentrione
ed a ponente di
Trieste, ci resta a trattare di quelli, che sono
sparsi a mezzogiorno ed a levante della nostra città.
E qui, a brevissima distanza dal confine, troviamo quello di S.
Michele (T. VI, f. 6) sul colle che innalzasi a 230 metri a ridosso
del villaggio di Bagnoli (Boliunz). La sua posizione all'imboccatura della stretta gola del Rosandra, lo rendeva certamente
di speciale importanza, tanto più che presso alla sua base sgorgano
parecchie grosse sorgenti d'acqua eccellente, una delle quali fu
anzi utilizzata più tardi dai romani per l'acquedotto di
Trieste,
del quale si conservano ancora gli avanzi. (42)
Il forte pendìo dirupato del monte non richiedeva grandi opere di
difesa, che anzi erano del tutto superflue dal lato di sud-est, che
guarda la predetta gola, ove le rocce scendono quasi a picco. Il
castelliere appartiene quindi a quelli di [57] forma
semicircolare a triplice cinta, di cui la media non continua ma a
differenti livelli, come lo concedeva la natura del terreno. La
superiore di 210 metri di lunghezza, circonda la sommità del monte,
che presenta un piccolo pianoro, lungo circa 70 metri, ove si
veggono pochi avanzi di una cappelletti. La cinta media che misura
350 metri, comunica con una breve rampa colla superiore. L'inferiore
non trovasi che dal lato di nord-est per una lunghezza di 260 metri.
I ripiani sono larghi 5 a 10 metri, laddove il vallo è quasi
completamente scomparso o rappresentato solo da una fascia di sassi
rovesciati di 10 a 12 metri che segue i ripiani. Lo scavo d'assaggio
praticatovi, diede resti d'animali, cocci ed una fusajuola.
Immediatamente sotto la vetta, trovasi una piccola grotta ove
qualche anno fa si raccolsero alcune armi di ferro. (43)
Le falde inferiori del monte vennero recentemente imboscate a
conifere.(44)
Di faccia a S. Michele s'innalza, dall'altra parte della
Rosandra, un altipiano roccioso di 400 a 450 metri d'altezza, che a
mezzogiorno digrada in una serie di terrazzi, mentre a levante va a
poco a poco salendo ai contrafforti selvaggi del M. Tajano
(Slaunig), punto culminante del nostro distretto (1029 metri).
Quest'altipiano calcare, lungo 12 chilometri e largo 2 a 5,
denudato al presente quasi del tutto di vegetazione arborea, colle
sterili distese seminate di sassi, foracchiato in mille guise da
spaccature e da burroni, in cui s'aprono numerose voragini e
caverne: questo triste deserto con scarsi e miseri villaggi, celati
in qualche depressione del terreno, offriva tuttavia nei tempi
preistorici posizioni opportunissime alla costruzione di
castellieri. E di fatti noi ne troviamo un numero considerevole,
specialmente al lato vòlto verso mezzogiorno, ove spesso si adagiano
al margine dei vari terrazzi. E sur un mammellone dirupato
immediatamente al disopra di [58]
Bagnoli, sul M. Grisa, alto 458 metri, giace uno de' più vasti
castellieri, misurando in circonferenza oltre a 1700 metri (T. VI,
f. 2). Il suo vallo robustissimo, delia lunghezza di 770 metri, lo
cinge solo da una parte (da sud-est), mentre dall'opposta riesciva
del tutto superfluo, precipitando il monte ripidissimo o quasi a
perpendicolo, con una serie di rocce, nella sottoposta valle di
Bagnoli e nella stretta gola, che è l'unica via per cui vi si può
accedere. Costruito da grossi blocchi, ha presentemente un'altezza
di un metro ad un metro e mezzo ed una larghezza di 20 a 30,
permettendo ancora riconoscere il muro grosso 2 metri, d'onde trasse
origine. Esso circonda un vasto altipiano di almeno 300.000 metri
quadrati ed un monticello che ad un'estremità s'eleva di una
quarantina di metri, il quale alla sua volta possiede un proprio
vallo interno della lunghezza di 80 metri. Questo era meno forte,
non avendo il suo muro che una grossezza di un metro e mezzo ed
essendo molto meno alto dell'esterno, come ci viene dimostrato
dalla cinta di sassi rovesciati di appena 4 a 6 metri di larghezza.
Tuttavia pare che questa parte interna del
castelliere sia stata più
a lungo e più densamente abitata, trovandosi quivi il terriccio nero
ed i cocci copiosi, laddove nel resto del
castelliere vi difetta
quello e molto scarsi rinvengonsi i secondi. E quindi probabile che
questo
castelliere, almeno nella sua parte più estesa, servisse
anzichè d'abitazione precipuamente quale accampamento in tempo di
guerra. E per vero come tale ci si presenta stupendamente scelto per
la sua posizione eminentemente strategica. Posto al margine d'un
elevato altipiano e circondato da due lati da rocce perpendicolari o
da ripidissimi pendii, esso non presentava che un solo lato
accessibile a sud-est, ove si congiunge al vasto pianoro già
accennato, che si estende verso S. Servolo ed a poco a poco va
elevandosi verso le pendici dirupate dei monti Tajano e Coinig. Ma
per giungere a questo altipiano fa mestieri sforzare la stretta
valle della Rosandra, limitata da erte e rupestri montagne e nella
quale non sboccano che due anguste gole, quella che mena
direttamente al
castelliere e quella di Becca, Ora la prima di
queste, quantunque assai erta, era stata ancora fortificata per
mezzo di una grossa [59] muraglia trasversale. Questa
muraglia, o piuttosto vallo tumultuario di blocchi gettativi alla
rinfusa, largo 15 a 20 metri, scendeva giù dai fianchi della
montagna e chiudeva perfettamente la gola fino alle rupi
perpendicolari che la limitano a sinistra di chi vi ascende. Inoltre
circa 30 metri innanzi di essa, si spingeva un corpo avanzato, forse
una torre che accresceva ancora maggiormente la sua validità in caso
di un attacco nemico. Che questo vallo sia antico e rimonti al tempo
del
castelliere, non è punto da mettersi in dubbio, essendo i cocci
che vi si raccolgono, qua e là disseminati tra le pietre, d'una
epoca anteriore alla dominazione romana, se anche forse di poco
anteriore.
l'altra gola, quella di Becca, non è accessibile lungo il
ruscello Grisa che la percorre, perchè questo forma frequenti
cascate, ma deve esser seguita alle falde molto ripide del monte,
girando intorno ad un altro
castelliere, a quello di S. Lorenzo, che
ne tutelava il passaggio. Dall'altro lato l'accesso al pianoro
veniva vigilato da una serie di
castellieri, quello del M. d'Oro, di
Prebeneg e di S. Servolo. Ma anche ove il nemico fosse riescito a
girare questa prima barriera e, seguendo la valle di Ospo, avesse
voluto guadagnare da questo lato l'altipiano, ritrovava sbarrati da
altrettanti
castellieri i vari accessi, già per sè difficili, che vi
mettevano. Così poco lungi da quello di S. Servolo ne troviamo due
altri al di sopra di Castelz, poi uno sul M. Hradisce presso
Cernical, quello di S. Maria di Cernotich, ed un altro sul colle di
faccia, poi uno sopra Besovizza, uno sopra Popecchio, uno tra
Zanigrad e Zasid ed infine uno sul terrazzo a ridosso di
quest'ultimo villaggio. E se vi aggiungiamo ancora parecchi altri,
che se anche alquanto più discosti sulle vette circostanti, (come
può vedersi dall'annessa carta topografica), pur in caso di bisogno
potevano rendere valido aiuto a quelli dell'altipiano, dobbiamo
convenire che la scelta del
castelliere del M. Grisa quale base di
un operazione guerresca, si offriva opportunissima, presentando
difficoltà enormi agli assalitori, ed in pari tempo agli assediati
la possibilità di una ritirata facilissima al centro dell'Istria,
rispettivamente ai monti più elevati, lungo l'altipiano in caso di
sconfitta. Ed io [60] sono d'avviso
che appunto quivi si accampasse l'esercito istriano, dopo la
sconfìtta loro apportata dal console Manlio nel 178 a. C. colla
ripresa degli alloggiamenti perduti, impedendo, grazie alla forte
posizione, di avanzarsi all'esercito vincitore ed obbligandolo a
ritornarsene ad Aquileja. Chè sebbene l'espugnazione di queste
posizioni fortificate, gli avrebbe aperta la via all'Istria, si
stimò opera troppo ardua l'attaccarle, bastando tra quelle strette
gole e tra que' dirupi, un manipolo di intrepidi difensori per
opporsi all'impeto delle legioni irruenti.
Descritto il
castelliere principale, vediamo quali fossero gli
altri che circondavano l'altipiano. Risalendo l'angusta valle della
Rosandra, limitata d'ambo i lati da rocce inaccessibili, nelle quali
s'aprono numerose
caverne, già abitate da' nostri trogloditi,
s'incontra a circa due chilometri e mezzo da Bagnoli, la spaccatura
percorsa dal torrentello Grisa, che scende dall'altipiano di Becca
(418 metri). E quivi sur un maminellone isolato, un po' più basso,
circondato da profondi burroni, giace il
castelliere di S. Lorenzo,
che aveva una periferia di 320 metri (T. V, f. 10). La costruzione
di un castello medioevale col relativo fosso circolare, che ora
occupa con un ammasso di rovine il centro del
castelliere sopra una
rupe elevata di 8 a 10 metri sul ripiano, ha oltremodo alterato
l'aspetto primitivo del
castelliere per modo, che si sarebbe in
dubbio se realmente fosse quivi esistita una sede de' nostri
preistorici, tanto più che vi manca completamente qualsiasi traccia
di muro o di vallo. Tuttavia mercè un piccolo assaggio praticatovi,
potei accertarmi della presenza di cocci preistorici. Sul ripiano
sorgono, dalla parte di settentrione, i resti di un fabbricato alto
oltre a due metri in pietra riquadra, appartenenti forse ad una
torre poligona.
La vasta pianura di Zaule, percorsa dal fiumiciattolo Rosandra,
viene limitata a mezzogiorno da uno sperone dei monti marnosi, che
staccandosi dall'altipiano di S. Servolo si protende fino al mare,
dividendo questa valle da quella di Ospo, percorsa dal torrente
Recca. E quivi noi troviamo a poca distanza tra di loro tre
castellieri, di cui uno sulle rupe di S. Servolo,
[61] un altro d'appresso, sur un
mammellone un po' inferiore, sovrastante al villaggio di Prebeneg ed
il terzo più in basso al M. d'Oro.
Il primo di questi (T. VI, f. 3) è di piccole dimensioni ed assai
alterato dalle opere di fortificazione del castello medioevale di S.
Servolo, i cui avanzi torreggiano ancora sull'alta roccia sporgente
(circa 450 metri). Il suo vallo semicircolare alto da 3 a 4 metri e
largo circa 20, fu senza dubbio utilizzato in tempi posteriori a
scopo di difesa, essendo superiormente appianato ed ingombro da una
massa di rottami d'arenaria e di tegole. Esso ha una lunghezza di
135 metri e racchiude uno spazio largo 30 a 60 metri, che dal lato
opposto scende con rocce a perpendicolo sul sottoposto villaggio di
S. Servolo, rendendo quivi inutile ogni opera artificiale. Il fosso
scavato a difesa del castello, come pure la costruzione del cimitero
del villaggio, che presentemente vi si trova, hanno contribuito non
poco ad alterarne l'aspetto primitivo. Tuttavia non vi mancano i
cocci, se anche per lo più nei tratti dilavati.
A poca distanza dal
castelliere, apresi nel terreno la nota
grotta di S. Servolo, nella quale raccolsi numerosi resti umani e di
animali, come pure una fibula di bronzo del tipo
La Tene.
Costruendosi recentemente una nuova strada per Castelz, si scopri
una vasta necropoli, nella quale alle preistoriche sono
frammischiate tombe romane. Le prime sono di un periodo tardo, con
fibule della Certosa e
La Tene, lunghe spade di ferro, celt e lance dell'istesso
metallo, ecc.
Il
castelliere inferiore, che per distinguerlo da quello di S.
Servolo, nominerò di Prebeneg, dal sottoposto villaggio, è ancora
più distrutto, causa i lavori agricoli, che ridussero il terreno ad
una serie di ripiani, asportandone naturalmente il vallo. Con molta
fatica si può ancora riconoscere la testata del muro, dalla parte di
mezzogiorno per una lunghezza di circa 190 metri, in un lungo rialzo
del terreno, che ci rappresenta l'antico vallo. Pare fosse molto
ampio, quantunque riesca impossibile misurarne la periferia. Di
conseguenza anche i cocci sono molto scarsi. Presentemente viene
intersecato dalla strada che da S. Servolo conduce a Prebeneg.
[62] All'incontro, perchè
rimasto incolto, egregiamente si conservò il
castelliere del M.
d'Oro sopra un lungo dorso che sporge verso la valle di Ospo (T. VI,
f. 4). Di forma elittica, la sua cinta misura 300 metri di
circonferenza ed è quasi piano, eccetto un piccolo cocuzzolo di
circa 6 metri d'altezza, nel quale si veggono tracce di costruzioni
posteriori. Dal lato di nord-est ove si annoda alla continuazione
del dosso ed ove erano necessarie speciali opere fortificatorie,
causa la mancanza di declivio, il vallo ci si presenta per una
lunghezza di 85 metri, quale un enorme ammasso di sfasciume, alto 4
a 5 metri e largo 16, che deve la sua origine alla distruzione di un
muro della grossezza di 1.50 metri.
Il resto della cinta, che per il ripido pendìo non richiedeva
d'esser munita sì validamente, possedeva un muro meno alto, per la
massima parte ora distrutto. Il
castelliere è ricoperto da
rigogliosa vegetazione, sicchè i cocci non sono visibili che al
vallo e nei lunghi declivi denudati. Alla distanza di 320 metri
trovansi sul pianoro numeroso rovine provenienti da antichi edifizi.
Ma anche a mezzogiorno di S. Servolo noi ritroviamo numerosi
castellieri. Uno, di minuscole dimensioni, quasi del tutto
scomparso, giace sulla roccia isolata che s'alza al di sopra di
Castelz, d'onde forse questo villaggio trasse il suo nome (T. V, f.
11). Di faccia a questo, sul monte Hrib se ne trova un altro, anch'esso non grande, misurando 300 metri di circonferenza, e molto
deteriorato (T. V, f. 12). Più importante era quello che tuttora
porta il nome di Hradisce (T. VI, f. 5), a triplice cinta
parzialmente conservata, della circonferenza di circa 300 metri; se
anche in seguito alle influenze atmosferiche l'intero monte venne
trasformato in un ammasso di rocce corrose e dentellate per modo,
che si dura fatica a persuadersi come mai esseri umani vi abbiano
potuto dimorare. Eppure i numerosi cocci preistorici sono là a
testimoniarci la loro antica esistenza, dimostrandoci in pari tempo
quanti mutamenti e quanto profondi, ebbe a subire il nostro paese
nel corso de' lunghi secoli da allora trascorsi. Denudati i nostri
monti del loro manto di selve, flagellati dalle pioggie che
[63] dilavarono le loro pendici, esposti alle brusche
differenze di temperatura, che facevano screpolare e sminuzzare le
rocce, seminando la superfice de' loro frammenti aguzzi, percossi
dal turbinare del vento ch'asportava gli ultimi residui di
terriccio, non è difficile a comprendere come intenso divenisse il
processo di corrosione del nostro altipiano calcare ed a quali
alterazioni andasse soggetto. (45)
Migliore stato di conservazione presenta il
castelliere che
incorona un monte di 465 metri, a mezzogiorno di Cernotich, e che
dalla cappella tuttora esistente, ebbe il nome di Madonna della Neve
(T. VI, f. 6). La sua cinta di circa 620 metri, con un bel ripiano
circolare di 8 a 15 metri, possiede un vallo robusto, alto 1 a 2
metri e largo 10 a 15, che cominciando presso alla vetta scende pel
fianco vòlto a meriggio, ove diviene più debole. Se ne è conservato
per una lunghezza di 420 metri e manca dalla parte di settentrione e
ponente, ove il pendio è più ripido e roccioso. Grazie all'abbondantissimo terriccio nero, la maggior parte della sua area
venne ridotta a prato.
Immediatamente di faccia, sopra una elevazione un po' più bassa
(448 metri), trovasi un altro
castelliere di piccole dimensioni (T.
VI, f. 7). Giacendo al margine del terrazzo, come parecchi dei
seguenti, non è completo, ma dal lato di sud-ovest è bruscamente
dimezzato dal precipitare della roccia sul terrazzo sottoposto, alla
cui base si adagia il villaggio di Lonche.
È
naturale che da questo
lato vi manchi ogni opera [64] di
difesa, rendendosi sufficiente un vallo semicircolare per munirlo
dalle altre parti. Questo è assai robusto, alto tuttora 2 a 3 metri
e largo 10 a 25, nel cui centro si scorge un muro della grossezza di
1.75 metri. La sua lunghezza totale è di 180 metri. Lo due porte
d'accesso apronsi, come nella maggior parte de'
castellieri di
questa specie, presso al margine del terrazzo.
Quantunque a pochissima distanza dal precedente e fabbricato
sopra un terreno della stessa formazione geognostica, il suo aspetto
è del tutto diverso. Mentre quello è totalmente ricoperto da una
vegetazione lussureggiante, specialmente di papiglionacee, questo si
presenta triste e selvaggio, scomparendo il terriccio sotto alle
infinite pietre ond'è ricoperto il terreno. La sua vegetazione è di
conseguenza assai misera e consta quasi esclusivamente di Festuca
ovina L. e di Stipa pennata L. frammista ai grigi cespiti
dell'Elicriso {Helichrysum angustifolium DC.), carattere
comune anche ai due altri
castellieri del terrazzo sottostante, di
cui si dirà qui appresso. Causa di questa diversità sì inarcata è il
pascolo delle innumerevoli greggi di ovini, che in esso vanno
brucando ogni filo d'erba. E ciò che avviene in questo
castelliere
ha luogo in quasi tutta la circostante regione e giù giù per molte
miglia attraverso buona parte dell'Istria centrale. Così
l'imprevidenza ed il mal governo, che da secoli prevalgono nel
nostro paese e pur troppo non accennano a cessare, hanno ridotto in
un deserto di sassi le nostre già fertili terre. Dall'un lato
l'ignoranza più crassa e la susseguente fatale indolenza, dall'altro l'incuria di chi con energici provvedimenti dovrebbe
apportarvi un rimedio radicale, abbandonando invece alla rovina
estesi territori, che giornalmente si fanno più sterili ed in breve
non daranno più nemmeno lo scarso alimento alle greggi all'amate.
Ancora più selvaggio e rupestre è l'aspetto del
castelliere, che
sovrasta al villaggio di Besovizza (T. VII, f. 1). Anche questo è
semicircolare, giacendo al margine d'un terrazzo, possiede però
duplice vallo, di cui l'interno assai forte, alto 1 a 2 metri e
largo 10 a 30, l'esterno debole e male conservato, alto appena mezzo
metro e largo circa 6. Nell'interno, [65]
lungo 350 metri, vedesi a sud-ovest un allargamento a foggia di
tumolo, alto 2.5 metri Una particolarità interessante di questo
castelliere, che finora non incontrai in alcun altro, consiste nello
schermo della porta, ch'era difesa da due muri paralleli, grossi
1.20 metri, i quali lasciano tra di loro uno spazio di 6 metri,
decorrendo a semicerchio dal vallo interno all'esterno ed anzi
ancora un po' oltre allo stesso. Presso a questo ingresso cosi
protetto, sonvi tre muri, che dividono trasversalmente lo spazio tra
i due valli, alla distanza di 10 a 25 metri tra di loro. Lo spazio
inchiuso nella cinta interna è per un tratto di 30 metri piano,
fortemente declive per 40 e limitato anch'esso da pareti che
scendono a perpendicolo sul terrazzo inferiore. In queste si aprono
parecchie grotte, di cui alcune con tracce di antiche abitazioni.
Malissimo conservato è un altro
castelliere a circa un chilometro
di distanza, giacente sul medesimo terrazzo immediatamente al di
sopra del villaggio di Popecchio (T. VII, f. 7). Del vallo non
esiste più che un tratto di 120 metri dal lato di levante, alto
tuttora 2 metri e largo 10, ricoperto parzialmente d'erba. Alla
parte settentrionale si riconosce ancora la spianata, mentre dall'opposta assai incerti sono i suoi confini. Se non vi fossero cocci,
si resterebbe incerti se realmente si tratti d'un
castelliere
preistorico, tanto più che al pezzo di vallo esistente, fu aggiunto
in epoca posteriore un piccolo recinto quadrilatero, probabilmente
per racchiudervi le greggi. Anche questo
castelliere era
semicircolare, essendo limitato a ponente da pareti perpendicolari.
Il terriccio vi è quasi totalmente asportato e le nude rocce fanno
irta la sua superfice, specialmente verso l'estremità meridionale,
ove sorgono orribili scogli.
Il villaggio di Popecchio è rimarchevole pel castello medioevale
fabbricato entro una grotta, del quale esiste ancora la facciata
esterna. (46) Appresso, sopra una
rupe, s'erge una torre
[66] circolare. Anche dalla parte
opposta del villaggio osservasi un antro in una rupe isolata, nel
quale raccolsi numerosi cocci preistorici e romani ed avanzi
d'animali.
La regione prende quivi un aspetto del tutto particolare. I
terrazzi che prima formavano una serie di vasti pianori sovrapposti
e limitati da pareti a perpendicolo o da chine dirupate, si
sciolgono ora in u
na quantità di strette catene parallele, tra le
quali decorrono altrettante valli longitudinali. I monti di calcare
nummulitico salgono dal lato orientale con pendìo più o meno ripido,
per precipitare a piombo dalla parte opposta nelle valli
sottostanti, occupate per lo più da terreni marnosi.
Abbandonando l'altipiano superiore, che va sempre più elevandosi
verso i fianchi scoscesi del M. Coinig (803 metri), poco adatto
quindi allo stabilimento de'
castellieri, i nostri proavi
prescelsero queste catene isolate, che offrivano maggior facilità di
difesa. Arrogi la frequenza delle sorgenti, che sgorgano qua e là al
contatto dell'arenaria col calcare. Così sul monte (485 metri) che
a perpendicolo s'alza immediatamente sopra il villaggio di Sasid
(Xaxid della carta dello St. M.), noi incontriamo un piccolo
castelliere semicircolare, non molto forte, con un vallo largo 6 a 8
metri ed alto 1 a 1.50 (T. VII, f. 3). Questo ha una lunghezza di
280 metri e trovasi solo dalla parte declive, mancando naturalmente
dall'opposta, ove, solo all'estremità meridionale, si prolunga per
22 metri a difesa di un piccolo terrazzo di qualche metro
sottostante al
castelliere. Ad eccezione della spianata che è
erbosa, il resto della sua superfice è rupestre ed incolto, denudato
del tutto di alberi e d'arbusti. Abbastanza frequenti sono i cocci
alla sua superficie.
Ancora meno esteso era il
castelliere che giace sulla vetta di
un'altra catena tra Sasid e Sanigrad (T. VI, f. 8), non possedendo
che un vallo semicircolare di 110 metri di lunghezza alla falda
vôlta verso Sanigrad, mentre all'opposta anch'esso è limitato da
una parete, che scende a piombo nella vallata di
Cristoglie. Il
vallo è alto appena 1 metro e largo 5 a 8. Esternamente giacciono
grandi macie di pietre, per le quali è difficile giudicare se sieno
naturali o provenienti da mura crollate. Anche
[67]
quivi l'unico tratto erboso è la piccola spianata semicircolare;
il resto del
castelliere è nuda roccia dentellata ed orribilmente
corrosa.
Sul monte, segnato nella carta dello Stato Maggiore col nome di
Grades (509 metri) al di sopra di Valmorasa, sonvi resti molto
incerti di un
castelliere, del quale si conservò soltanto qualche
traccia d'un vallo tra i due tumoli, che giacciono sulla vetta, 70
metri distanti tra di loro. Il maggiore di questi è alto 1.50 metri
e ne misura in periferia 56, l'altro, appianato ed alto solo mezzo
metro, ne ha 45 di circonferenza. Altri tre tumoli sono disseminati
sull'altipiano, che stendesi verso Valmorasa, ed un sesto sulla cima
del M. Gabrio (512) che vi sorge di faccia. Su alcuni di questi
tumoli i pastori, approfittando dei sassi, hanno costruiti piccoli
ripari contro il vento.
All'incontro in molto miglior stato trovasi il
castelliere,
chiamato pure Gradez (T. VIII, f. 4), che giace due chilometri più
ad oriente, poco lungi dalla strada ferrata di Rachitovich, sur un
monte di circa 550 metri d'altezza. Il suo vallo, alto 1 a 2 metri e
largo 6 ad 8, formato da grossi blocchi, è in buona parte conservato
ed ha quasi 400 metri di circonferenza. Dal lato di nord-est partono
due argini trasversali che lo dividono in tre sezioni. E strano che
il vallo manchi precisamente nella parte più depressa di sud-ovest,
dove non esiste che una bella spianata, la quale si eleva di appena
un paio di metri sul sottostante pianoro. Il
castelliere è
ricoperto, specialmente dal lato settentrionale, di fittissimo
bosco, che rende difficile la sua misurazione. Il terriccio è
nerissimo e nei mucchi sollevati dalle talpe si vede una grande
quantità di cocci.
Un piccolo ma interessante
castelliere per la sua speciale
costruzione è quello di Gracisce tra Rachitovich e Brest (f. 5), che
giace sur un monte a dolce declivio dalla parte di sud-est,
ripidissimo e roccioso dall'opposta. Il vertice è circondato da un
robusto vallo circolare della periferia di 100 metri, laddove i due
argini esterni, che stendonsi alla distanza di 20, rispettivamente
di 100 metri, non hanno che 50 metri di lunghezza, destinati a
munire il lungo dorso digradante,
[68] essendovi i fianchi difesi a sufficenza dalle due
profonde vallecole laterali.
Due de' più grandiosi
castellieri giacenti a poca distanza l'uno
dall'altro, noi incontriamo tra i villaggi di
Cristoglie e
Gracischie, sulla cima del M. Lacina (453 metri), e sopra un dosso
una trentina di metri più basso. Il superiore (T. VII, f. 6), della
circonferenza di circa 1270 metri, è molto alterato, non essendo più
visibili che due tratti del vallo, quello di sud-est lungo 220 metri
e quello dal lato opposto di 290. Dalla parte
vôlta
verso Gracischie pare aver sempre mancato, perchè quivi la china è
assai ripida, laddove da quella che guarda
Cristoglie, si scorgono
qua e là tracce dell'antico vallo. Ad ogni modo non sembra esser
stato molto forte, perchè nei lembi esistenti ha appena un'altezza
di 0.30 a 0.50 metri ed una larghezza di 2 a 4 metri, facendo così
strano contrasto con quelli poderosissimi del
castelliere adiacente.
Il terreno vi è sterilissimo con rovi e ginepri, che stentamente
allignano tra le nude rocce.
L'altro
castelliere giace circa mezzo chilometro a sudest ed è di
forma semicircolare, venendo limitato a ponente dalle pareti
perpendicolari, che scendono nella valle di
Gracischie ed ove, per
conseguenza, manca ogni opera di difesa. Del pari di dimensioni
considerevoli, misurando in periferia 1260 metri, differisce per
costruzione dalla maggior parte dei nostri
castellieri, per esser
diviso trasversalmente da un enorme vallo, della lunghezza di 180
metri, alto 4 metri e largo 30 a 40. Siccome la parte più
vulnerabile era quella ov'esso si unisce al dorso del monte ed ove
la pendenza è assai piccola, così quivi gli abitanti si diedero cura
speciale nell'erigere i valli più forti (alti 2 a 3 metri e larghi
15 a 30), limitandosi dalla parte vòlta a nord-est, ove il monte
scende assai ripido verso
Cristoglie, alla costruzione di un muro
più debole, ora rovesciato sulla china. Lungo la cinta corre
tutt'intorno un bel ripiano della larghezza di 10 a 15 metri, ora
ridotto a prato, con terriccio nerissimo assai grosso e ricco di
cocci. Nel secondo recinto, al di là del vallo trasversale, vi è
altro vallo interno più debole, che circonda semicircolarmente una
spianata un po' più alta, totalmente priva di sassi.
[69] A 140 metri circa dal
castelliere e ad una trentina di metri più in basso, s'incontrano
per una lunghezza di 150 metri i resti di un forte argine esterno,
largo 5 a 10 metri ed alto 0.5, destinato a difficoltarne l'accesso.
Procedendo più oltre e seguendo il ciglio dell'altipiano calcare,
che limita la valle superiore del torrente Brazzana, noi incontriamo
tre
castellieri: quello di Gradisce sul M. Jasmovizza al di sopra
del villaggio di Carnizza, un altro presso Duori a poca distanza dal
varco, che da Valmorasa mette alla valle sunnominata, ed il terzo,
detto Gradaz di S. Quirico, di faccia a Socerga. Tutti e tre sono di
forma semicircolare, essendo limitati dal lato di ponente da rupi
perpendicolari o da ripidissimi pendii. Il primo (T. VIII, f. 1)
giace sur un mammellone di 465 metri, staccato da una profonda
depressione dal pianoro di Rachitovich. Il suo vallo, lungo 330
metri, lo chiude dal lato di nord-est, lasciando due passaggi al
margine delle rupi. Numerosi sonvi i cocci alla superfice, di cui
buon numero appartenenti a vasi di considerevoli dimensioni. Le
sottoposte rupi sono foracchiate da parecchie grotte, che
probabilmente avranno servito d'abitazione ai nostri trogloditi.
Il
castelliere di Duori (f. 2), sorge sur un dosso dirupato ed è
a duplice cinta, di cui l'esterna misura 320 metri, l'interna soli
70. Il suo vallo è quasi dovunque rovesciato e solo dal lato di
nord-ovest è alto tuttora circa 1.50 metri. La spianata,
specialmente l'esterna, è spaziosa ed in declivio, sicchè
l'estremità inferiore trovasi 20 a 30 metri più bassa della
superiore. Anche quivi spesseggiano i cocci.
Il
castelliere di S. Quirico (f. 3), posto sur un monte denudato
di 407 metri a cavaliere delle valli di Valmorasa e di Socerga, è il
più vasto di tutto il nostro distretto, misurando oltre due
chilometri di circonferenza. Esso consta di due parti speciali:
l'orientale, più ampia con un argine rovesciato non molto forte ed
in parte mancante, l'occidentale più piccola ma fortemente munita
d'un vallo, alto tuttora 5 a 6 metri e largo 20 a 30, costruito di
blocchi calcari e d'arenaria.
Il tratto orientale è superiormente pianeggiante e verso
l'estremità inchiude la chiesetta di S. Quirico, circondata da
[70] un cimitero, d'onde si protende uno
sperone, che va abbassandosi verso Socerga. Un piccolo avvallamento
sotto la cappella, ridotto in parte a campi, in cui trovasi uno
stagno, divide il
castelliere inferiore dal superiore. L'area
inchiusa in questo è totalmente piana.
I
castellieri della zona arenaria, come s'ebbe già a notare, sono
generalmente meno bene conservati di quelli del terreno calcare.
Spesso il sito dell'antico
castelliere venne occupato più tardi da
qualche villaggio, sicchè al deperimento naturale si aggiunse anche
la distruzione per mano dell'uomo. Così pare che Muggia vecchia,
distrutta nel 1354 dai Genovesi sotto Paganino Doria, e che nelle
sue immani rovine sta ancora lì a testimonio delle funeste guerre
fratricide, fosse edificata sopra un antico
castelliere, del quale
naturalmente restarono ben poche tracce. (47)
All'incontro in molto migliore stato è quello posto sopra un
monte (286 metri), che tuttora porta il nome di Castellier (f. 4), a
ponente del villaggio di Elleri. Esso occupa il vertice appianato di
un rialzo, che s'eleva di 8 a 12 metri sul pianoro circostante, ed
ha una periferia di 330 metri. Il vallo è ancora parzialmente
riconoscibile, specialmente dal lato che guarda i casolari di Monti.
La parte più depressa è ridotta a campo, laddove l'opposta che
s'innalza di qualche metro, è incolta ed occupata in buona parte da
macerie, terminando a meriggio con una serie di rupi scoscese.
Copiosi vi sono i cocci, come pure i molluschi marini, che in grande
quantità giacciono disseminati per i campi e che ancora in maggior
copia rinvengonsi praticando qualche scavo. E molto dubbio se il
pianoro circostante appartenesse pure al
castelliere e fosse
circondato da un vallo. I muri che presentemente vi si veggono, come
pure i mucchi di macerie, hanno un aspetto piuttosto moderno, e
devono, con tutta probabilità, la loro origine ai sassi gettati
fuori dai campi. Del pari il terriccio non è punto nero, mancandovi
i caratteristici cocci.
[71] Al di là della
profonda depressione che mette in comunicazione la valle
di S. Clemente presso Muggia, con quella di
Capodistria,
noi troviamo due altri
castellieri, quello di Scoffie
superiore e quello di Antignano.
Il primo (T. VIII, f. 5) giace sur un mammellone sporgente al di
sopra di Villa Decani, ad un'altezza di circa 250 metri. Il suo
perimetro è di 510 metri e possiede dal lato di settentrione e di
ponente, per una lunghezza di 220 metri, un vallo molto robusto ed
alto in alcuni tratti da 4 a 6 metri e largo 5 a 10, dovuto allo
sfasciarsi di un muro di 1.50 metri di grossezza. Forse a
settentrione, ov'esso congiungesi alla schiena del monte, che
s'innalza alla vetta di Antignano, ed ove l'accesso era molto facile
per mancanza di pendìo, sorgevano due torri a difesa della porta,
trovandosi quivi due enormi cumoli di sfasciume.
Il
castelliere viene diviso trasversalmente da un vallo non molto
forte, lungo 160 metri, sotto al quale stendesi una larga spianata,
ora ridotta a campo, mentre la parte più elevata è rupestre ed
incolta. Oltre ai cocci preistorici, vi si trovano pure romani, dal
che emerge ch'esso rimase abitato anche in tempi posteriori. Qualche
anno fa nei lavori agricoli si trovò una pentola e resti di ossa.
Il
castelliere di Antignano (f. 6) torreggiava sulla vetta
culminante di tutta la catena, a 372 metri, a cavaliere di due
valli, di quella di Ospo e di quella del Risano, in una posizione
che meglio non si potrebbe ideare, dominando da quell'altezza non
solo quasi tutto il territorio di
Capodistria, ma potendo spingere
lo sguardo fino a
Trieste ed a suoi dintorni. L'odierno villaggio di
440 abitanti colla relativa chiesa, ne occupa una parte della
superfice. Causa le distruzioni avvenute e la presenza di
fabbricati, non è possibile determinare con precisione la sua
periferia, che dovrebbe esser stata di 550 a 600 metri. Dell'antico
vallo, solo la parte che guarda la valle di Ospo è parzialmente
conservata per una lunghezza di circa 320 metri, in cui sono aperti
i due varchi delle strade che menano a Scoffie e dalla parte
opposta, ad Ospo. Nei campi si trovano frequenti cocci. Da notizie
raccolte si sarebbe rinvenuto uno scheletro sotto una grande pietra.
l'odierna chiesa occupa il punto più [72]
elevato, ove anticamente sorgeva un fortilizio, di cui scorgesi
ancora la base della torre rotonda.
In mezzo alla vasta pianura alluvionale, che s'allarga presso
alla foce del fiume Risano, s'innalza il colle isolato di Sermino
(f. 7), sul quale, a soli 87 metri, trovasi il
castelliere meno
elevato di tutto il nostro distretto. Di piccole dimensioni, non
avendo che una periferia di 230 metri, esso occupa la spianata
elittica della vetta, totalmente ridotta a coltura, che sovrasta di
3 a 6 metri i circostanti ripiani, e va privo di vallo. Sebbene il
terriccio sia poco nero, pure incontransi frequenti cocci e gusci di
molluschi marini. Vi raccolsi pure un pendaglio di bronzo in forma
di secchiello.
Chiunque si reca a
Capodistria, scorge sopra un monte a
mezzogiorno della città, una elevazione conica particolare. È il
tumolo di S. Marco (226 metri), il più grande de' nostri tumoli,
misurando 210 metri di circonferenza ed alzandosi di circa 12 metri
dal piano circostante. Lo riveste una vegetazione rigogliosa ed alla
sua sommità giacciono le rovine di una vecchia cappella. Da un lato
vi fu praticato uno scavo, col quale, a quanto mi venne raccontato,
si sarebbero trovati carboni.
Nei campi intorno al tumolo veggonsi grandi ammassi di pietre,
derivanti probabilmente dall'antico
castelliere che vi sorgeva e che
fu. completamente distrutto in seguito alle colture secolari, cui
andò soggetto il terreno. In una vigna presso al tumolo, vidi un
grosso strato di cenere e carboni con qualche coccio.(48)
Riesce strana la scarsezza di
castellieri nella zona arenaria di
Capodistria e di
Pirano in confronto al numero considerevole, che se
ne incontra sui monti calcari e nel tratto di terreno marnoso a nord
del Risano. Può darsi che parecchi sieno andati distrutti nel corso
de' secoli, per guisa che, non ostante accurate indagini, ora riesce
impossibile constatarne l'esistenza. Ed appunto considerando quali
tenui rimasugli mi riesci scoprire [73]
al M. S. Antonio ed a Paugnano, mercè dei quali potei stabilire la
loro antica presenza, non credo improbabile che qualche altro ancora
più deteriorato, sia sfuggito alle mie ricerche e che forse più
tardi dalla fortuita scoperta di avanzi possa venir accertato. I
territori di
Capodistria e di Risano, colla loro alternanza di
fertili valli, solcate da parecchi corsi d'acqua e di dossi
interposti, che a poco a poco vanno elevandosi fino 300 a 400 metri
d'altezza, offrivano certamente posizioni opportunissime allo
stabilimento di
castellieri. Ben poco, come dissi, si conservò del
castelliere di S. Antonio, posto al di sopra dell'omonimo villaggio
(357 metri). Ridotto in buona parte a coltura, le sue cinte sono
quasi completamente distrutte, sicchè non è possibile rilevarne la
forma. Solo i cocci disseminati scarsamente per i campi, ci fanno
fede dell'esistenza dell'uomo preistorico. (49)
Non molto in migliore stato trovasi il
castelliere di Paugnano,
un po' a ponente della vetta culminante (406), ove in un bosco si
possono seguire per circa 200 metri gli avanzi dell'argine, quale
piccola elevazione del terreno ricoperta da erba, dalla quale solo
qua e là sporgono le pietre. Esso era perfettamente piano ed aveva
una periferia di circa 450 metri, per quanto le poche tracce
esistenti ne permettano una misurazione approssimativa.
Presso Paugnano sporge un largo dosso arrotondato verso la valle
sottostante, nominato M. Romano, ora ridotto a coltura sul quale
scorgonsi enormi masse di macerie, ed ove scopronsi spesso resti di
costruzioni romane. Per quanto cercassi però nei campi, non mi
riesci di trovare alcun coccio preistorico.
Anche ad oriente del villaggio di Paugnano trovasi un grosso
vallo, quasi trincea attraverso il dosso del monte. Non saprei a
quale epoca riferire questo muro, eretto per impedire l'accesso al
villaggio.
[74]
Il
castelliere d'Albuzzano (T. IX, f. 1) presso Corte d'Isola,
resistette assai meglio, di quelli testè accennati, alle
vicissitudini del tempo. Posto sul monte segnato sulla carta dello
Stato Magg. col nome di M. Cedola (269 metri), ne occupa la vasta
spianata della vetta, misurante circa 1250 metri in periferia. Al
pari di quello del M. Lacina presso
Gracischie, di cui abbiamo
parlato più sopra, anche questo è un castelliere gemino, ossia
diviso in due parti da un vallo trasversale per modo, che ha
l'apparenza di due
castellieri posti l'uno accanto all'altro ed
uniti dal vallo centrale comune. Il ripido pendìo che riscontrasi a
nord-ovest e nord-est, come pure il rialzo di terra di 5 a 10 metri
sulla spianata sottostante a ponente ed a meriggio, non resero
necessarie grandi opere di difesa da queste parti, laddove a sud-est
ove continua il dosso del monte dolcemente declinando verso Corte
d'Isola, venne costruito un argine robusto. Più ancora formidabile è
il vallo centrale, alto 3 a 6 metri e largo 10 a 20 (forse
accresciuto dalle pietre gettatevi per nettare i campi), che si
estende per 140 metri, e nel quale i cerca-tesori vanno spesso a
frugare. Presentemente questo vasto
castelliere è quasi totalmente
ridotto a coltura e pei campi veggonsi cocci abbastanza frequenti.
Qualche anno fa vi si rinvenne una bella lancia di bronzo.
Nell'ampio tratto collinesco, intersecato da numerosi ruscelli,
che s'estende fino al ciglio calcare, onde sono limitate l'estesa
valle di Sicciole e le alluvioni del fiume Dragogna, non vennero
constatati finora che due
castellieri, di cui uno alle falde del M.
Sella (183 metri) presso S. Pietro dell'Amata, assai deteriorato e
difficile ad esplorarsi, causa il fitto bosco che lo ricopre. Solo
in un punto ove venne intaccato dalla nuova strada, che svolgesi su
pel suo fianco meridionale, si scorge lo strato di terriccio nero
coi caratteristici cocci L'altro incorona la vetta del M. Dovina
(123 metri), che si spinge verso la valle del Dragogna,
restringendola fortemente a mezzo d'un dosso calcare emergente alla
sua base. Il
castelliere è di forma elittica a duplice cinta ed
ostende ancora qualche traccia di vallo. Nel terriccio nero vi
abbondano i cocci.
[75]
Forse un altro ne esisteva sur un'eminenza tra Monte e Puzzole,
avendovi raccolto sopra un pendìo argilloso un pajo di coltellini di
selce, che giacevano alla superfice, dilavati dalla pioggia. La
difficoltà di visitare accuratamente questa regione inospite,
lontana da centri maggiori, ove si possa trovare ricovero, formata
da un succedersi continuo di monti alti 300 a 450 metri e di
profonde vallate, che obbligano ad un continuo faticosissimo salire
e scendere, non mi permise un'indagine minuziosa, come sarebbe stato
mio desiderio, di ogni eminenza, per vedere di riconoscervi tracce
di qualche altro
castelliere. Così da indicazioni raccolte, ch'io
finora non ho potuto controllare, ne dovrebbe esistere uno presso
Svabi a levante di Carcauzze, uno al di sopra di Costabona, uno sul
monte che s'innalza a 340 metri tra Oscurus di sopra e di sotto, uno
sul monte di 404 metri presso Berda, tra Cortivi e Brich, uno a
Gradistia presso Chervoi ed uno a Gradigne.
Kandler ne
nota ancora uno a Momiano, uno presso Geme ed un terzo presso
Trusche.
All'incontro parecchi ne incontriamo sul predetto ciglio calcare,
che chiude a mezzogiorno la valle del Dragogna. Il torrente Argilla,
influente in quest'ultimo, poco dopo Momiano trova sbarrato il suo
corso dalle rocce calcari del M. Fineda, ma a differenza di parecchi
altri corsi d'acqua di questo versante, che appena giungono a
toccare le pendici calcari, s'inabissano nelle viscere della terra,
esso, sforzando il passaggio, muta bruscamente direzione piegando
verso nord-ovest. Per tal modo viene a circondare da tre lati il
monte, che sorge quindi isolato e non trovasi unito al resto della
catena che da un ripido pendìo. È naturale che l'uomo preistorico
scegliesse questa posizione eccezionale per sua dimora, offrendogli,
oltrechè un sicuro rifugio, acqua abbondante e pascoli ubertosi
nella valle sottostante. Il
castelliere (f. 2) che incorona questo
monte è di forma ovale allungata (190 X 100 metri) ed ha una doppia
cinta. L'interna circonda per 530 metri la vetta pianeggiante, ove
si conservò il muro grosso 1.50 metri per una lunghezza di 230 metri
dal lato orientale, laddove dall'opposto più non esiste che il
ripiano di 8 a 10 metri di larghezza, che vi gira
[76] tutt'intomo. La cinta esterna fascia
la falda del monte ad una distanza di 30 a 40 metri dall'interna per
una lunghezza di circa 630 metri, e dal lato settentrionale risale
ad unirsi a quest'ultima. Dal lato di ponente però, causa il
ripidissimo pendio roccioso, essa cessa a circa un centinaio di
metri prima di congiungervisi. Dalla cinta esterna all'interna si
prolunga a mezzogiorno un muro lungo 40 metri, dividendo lo spazio
rinchiuso in due parti. Il suolo è ricoperto da copioso terriccio
assai nero, ed i cocci vi si trovano in copia.
Del pari sur un colle isolato (144 metri) sporgente verso la
pianura, sorge Castelvenere. Il castello medioevale costruitovi in
cima, di cui rimangono solo pochi avanzi, ed il piccolo villaggio
tuttora esistente, hanno assai alterato l'aspetto del
castelliere,
sicchè non riesce possibile una misurazione dello stesso. Dai pochi
resti conservatisi del vallo, che giaceva a mezza costa del monte,
si può dedurre ch' esso era di vaste dimensioni e dal terriccio
nerissimo de' suoi campi e dalla quantità considerevole di cocci e
di altri resti dell'industria primitiva, lice arguire che la sua
popolazione fosse molto numerosa. Le sue pendici sono in buona parte
ridotte a scaglioni ed occupate da varie colture.
Scavandosi più profondamente in un campo per piantarvi viti, si
scopersero, tre anni fa, alcune tombe preistoriche, con pentole di
mezzana grandezza, assai rozze, contenenti ossa cremate e talora
qualche raro bronzo, coperte da grandi lastre calcari. In un campo
propinquo si rinvennero alcuni scheletri ed anfore romane.
Negli scavi che vi praticai, raccolsi parecchi frammenti di
pentole vagamente disegnate, anse di forme differenti, parecchi pesi
da telaio molto grandi, anelli di argilla ed un numero considerevole
di fusaiuole. Ebbi pure molti resti
d'animali ed alcuni oggetti di bronzo,
Lontano dagli abitati, si conservò molto meglio il
castelliere
della Chia (T. IX, f. 3), giacente a 163 metri sul M. Marcovaz. Di
mediocri dimensioni, misurando 380 metri di periferia, è di forma
ovale e possiede un'unica cinta che si annoda ad un grande tumolo.
Il vallo, in buono stato, specialmente a nord ed
[77]
a levante, ha un'altezza di 1 a 1.50
metri, ed è largo da 10 a 20 metri, lasciando distinguere benissimo
qua e là il muro grosso 2 metri. Questo è stato anzi denudato dalle
macerie in un punto presso la porta, permettendo vedere la sua
costruzione.
Il tumolo formato di grossi blocchi calcari, è alto
7 metri e ne ha
in circonferenza 110. Dalla parte meridionale trovasi intaccato,
probabilmente dai cerca-tesori, non però sino al centro. Il terreno
inchiuso nel
castelliere è oltremodo rupestre con poco terriccio.
Tuttavia non vi mancano i cocci.
Altri due tumoli minori sorgono sopra una vetta ad oriente al di
là della strada erariale. Uno, alto 1 metro, ne ha 40 di periferia,
l'altro, un po' più grande, misura 1.50 metri in altezza e 45 di
circonferenza. Noterò ancora che a poca distanza da questi due
tumoli, apresi nel fianco del monte una spaziosa
caverna con un bel
vestibolo di circa 200 metri quadrati, che a mezzo di uno stretto
corridojo discendente metto in una sottostante stanza, lunga circa
15 e larga 20 a 22 metri, perfettamente piana ed alquanto umida.
Alcuni buchi d'assaggio, praticati nell'atrio, rivelarono strati di
cenere grossi oltre un metro e mezzo con cocci preistorici e resti
d'animali.
Immediatamente dietro a quello di Marcovaz, e da questo diviso da
una piccola depressione, trovasi sur un dosso arrotondato il
castelliere Mira, che essendo stato ridotto a belvedere, venne quasi
completamente distrutto. I muri recenti furono costruiti sull'antico
vallo, di cui si scorgono alla base le vestigia. Inoltre vi fanno
fede della sua antica esistenza il nero terriccio ed i cocci
d'impasto grossolano.
Seguendo la serie di vette, per lo più densamente imboscate a
querce, carpini e ginepri, che si succedono in direzione di ponente,
incontriamo a circa un chilometro e mezzo da quello di Marcovaz, un
altro
castelliere, che s'erge sulla valle di Sicciole al di sopra
della stanzia Gabrielli, presso Colomban ía
(T. IX, f. 4), e che è di mediocri dimensioni e molto bene
conservato. Di forma ovale (diametro 190 metri per 90) possiede una
cinta lunga 410 metri, alla quale se ne aggiunge un'altra dalla
parte prospettante il mare, distante da quella solo 20 [78]
metri.
Il vallo, largo 5 ad 8 metri ed alto 1 ad 1.50, lascia riconoscere
un muro della grossezza di metri l.50. Il terreno inchiuso nella
cinta, ripido dalla parte di terra, quasi piano dall'opposta, è
oltremodo rupestre e con poco terriccio, sebbene i cocci sieno
piuttosto frequenti.
Credo opportuno di non estendere maggiormente da questo lato i
confini del distretto, che mi proposi di trattare nel presente
lavoro, tralasciando quindi di parlare dei
castellieri di Salvore e
di Umago, sebbene giacenti a non molta distanza.
Ritornando all'altipiano, che s'estende ad oriente di
Trieste,
noi troviamo un paese che presenta due aspetti del tutto diversi,
secondo che il suolo consta di arenaria o di calcare. La zona
marno-arenacea occupa un territorio largo da 10 a 12 chilometri, che
va sempre più restringendosi verso sud-est, ove si riduce ad una
striscia di neppure mezzo chilometro, limitata ancor maggiormente
dall'emersione di alcuni banchi di calcare numinolitico nei pressi
di Studena. Questa zona ci rappresenta dall'un lato l'ampia valle
del fiume Recca o Timavo superiore, che dopo un corso di 48
chilometri, s'inabissa nella voragine di S. Canziano; dall'altro
quella del fiume Recina, che rinserrato tra monti scoscesi, scorre a
mezzogiorno, sboccando in mare nel porto di Fiume. Il Recca riceve
numerosi affluenti alla sponda sinistra, pochissimi all'incontro
alla destra, essendo da questo lato molto più ristretto il suo
territorio idrico. Ma non tutte le acque in esso si versano, chè
quelle che scendono dal versante meridionale dei monti, che
accompagnano la sua sponda sinistra, si raccolgono in una serie di
piccoli ruscelli, che dopo aver solcato altrettante vallicelle,
giunti che sono a toccare il terreno calcare, ripetono, se anche in
proporzioni meno grandiose, quanto avviene colla corrente
principale, inabissandosi cioè in più o meno ampie
caverne, o
perdendosi tra le screpolature del suolo.
Questa regione, che consta di monti alti 600 a 800 e più metri,
con profonde valli spesso assai tortuose, è per la maggior parte
densamente imboscata di querce e d'olmi nei tratti inferiori, di
faggi e di betulle nei superiori.
[79]
Ben
diverso ci si presenta il terreno calcare colle sue distese pietrose
senza sviluppo di valli, colle sue numerose voragini inbutiformi,
colla sua assoluta mancanza d'acqua.
È
quindi una regione oltremodo sterile con vegetazione stentata, ove
dominano le nude rocce dentellate. Essa viene limitata a mezzogiorno
da monti elevati di 800 a 1000 metri, ove appena a quest'altezza si
trovano boschi estesi di faggi e vasti prati con carattere quasi
subalpino.
La depressione tra Cosina e Divaccia, per la quale passa la
strada ferrata, segna il principio della zona marno-arenacea. E
quivi presso Rodig (Roditti) s'alza il monte Ciucco (753 metri)
tutto imboscato, sul quale trovasi un ampio
castelliere. Quantunque
qua e là si scorgano distintamente gli avanzi dell'argine, non è
possibile una misurazione più precisa causa la fitta vegetazione,
che impedisce di seguire il suo decorso. Un piccolo assaggio
praticatovi, mi diede parecchi cocci preistorici e resti di animali,
come pure frammenti di anfore romane ed una fibula provinciale a
balestra di bronzo. Qualche anno fa da un contadino si rinvennero
alcune pentole e qualche oggetto di bronzo, che però andarono
perduti.
In istato molto migliore, per giacere in terreno calcare, è il
castelliere (T. IX, f. 5) che sorge di faccia sul lungo dorso (609
metri), che si stende lungo la linea della ferrata tra il villaggio
di Cacice e Rodig. (50) Esso
comprende tre vette ed è quindi di considerevoli dimensioni, avendo
una lunghezza di quasi 500 metri, ed una larghezza di 60 a 100. La
sua costruzione è un po' complicata e differisce alquanto dal solito
tipo. Le due vette più meridionali sono circondate tutt'all'intorno da un vallo della lunghezza di 550 metri, alto 0.5 ad 1
metro e largo 6 a 15, mancante solo per brevi tratti. Lo spazio
racchiuso viene diviso da un forte argine trasversale, che si
prolunga ancora per 40 metri fuori del
castelliere giù pel pendìo
del monte. Resti di un altro vallo interno più debole scorgonsi pure
sul versante vòlto a ponente. Lungo il dorso che va
[80]
dolcemente elevandosi verso l'estremità settentrionale, non esiste
il vallo che dal lato occidentale per una lunghezza di 210 metri,
laddove dall'opposto, assai ripido, non se ne vede che qualche
traccia.
Presso alla vecchia strada che da Rodig conduce ad Erpelle,
incontriamo poco lungi da quest'ultimo villaggio un
castelliere, che
presenta la particolarità di esser costruito quasi in piano (T. IX,
f. 6). Esso è circondato tutt'intorno da sette vallicelle
imbutiformi, tra le quali una colossale di circa 100 metri di
diametro a pareti perpendicolari, sicchè quantunque non costruito su
alcuna vetta emergente, riesciva a sufficenza munito dalla natura
del circostante terreno. I tratti tra le singole vallicelle erano
difesi da un robustissimo muro della grossezza di due metri, che
collo sfasciarsi produsse un argine largo 8 a 15 metri, ed alto
tuttora 2 a 3 metri. H
castelliere del perimetro di 450 metri, è
quasi piano e presenta una bella spianata circolare, con terriccio
nerissimo e cocci copiosi. Va inoltre notato che la precitata
vallicella o piuttosto voragine, possiede al fondo una grotta bene
illuminata, alla cui entrata vedonsi tracce di antico muro, e
parecchi ripari sotto le alte rocce a strapiombo, che, come al
presente ai pastori, offrivano certamente, all'occasione, anche agli
abitanti del
castelliere, rifugio e gradito ricovero.
A mezzogiorno del M. Ciucco veggonsi le tracce incerte di un
altro piccolo
castelliere sulla collina di S. Croce (669 metri)
presso Slope, ove tuttora sorge una chiesuola. Il forte medioevale,
di cui esistono i resti del muro circolare ed il relativo fosso, ha
cancellato quasi del tutto le costruzioni anteriori, delle quali a
mala pena si può accertare un tratto del ripiano che vi girava
intorno.
Meglio riconoscibile, se anche fortemente deteriorato in seguito
alle influenze atmosferiche, è il
castelliere che circondava
l'opposta vetta, detta M. Grisa, a poca distanza da Bresovizza (T.
IX, f. 7). Quantunque le cinte sieno visibili specialmente da
lontano, esse si confondono colle rocce che fanno irti i fianchi e
la vetta del monte, denudato di vegetazione, meno che al lato
orientale, ove i pini piantativi, formano già un bel bosco. Di non
vaste dimensioni, misurando solo [81]
270 metri di circonferenza, esso sovrasta
da un lato la fertile valle di Bresovizza, il cui ruscello forniva
V acqua necessaria a' suoi abitanti. In corrispondenza alla
sua natura rupestre, anche la spianata è strettissima e poco
appariscente. Il terriccio vi è per la massima parte asportato ed i
cocci sminuzzati giacciono qua e là tra le pietre.
Ancora più scarsi avanzi di sua antica esistenza, ci presenta il
castelliere presso Gradisiza, sul colle segnato con 673 metri, sul
quale sorge una cappella. Costruito su terreno arenario, il suo
vallo andò completamento distrutto e solo vi limane qualche traccia
dei ripiani, sui quali rinvengonsi scarsissimi cocci. Quale
posizione era ad ogni modo assai bene scelta, giacendo esso tra le
valli di Bresovizza e di Odollina, percorse da due ruscelli d'acqua
perenne.
Nè maggiori tracce restarono del
castelliere, che forse esisteva
presso Artuise, ove intorno alla cappella di S. Servolo scorgesi
qualche avanzo di muro. Questo sarebbe il più alto
castelliere del
nostro distretto, giacendo ben 817 metri sul livello del mare, punto
del pari culminante, cui giunge l'arenaria della nostra formazione
eocenica.
All'incontro un bellissimo aspetto offre ancora il
castelliere
di Oticina (663 metri), posto anch'esso tra le due valli di Oticina
e di Slivie (T. IX, f. 8).
È un
castelliere di 500 metri di
circonferenza a duplice cinta, di cui l'interna assai deteriorata,
l'esterna invece con un vallo in massima parte rovesciato, largo 5 a
20 metri, meno che dal lato vòlto a nord-ovest. Un bel ripiano
erboso di 3 ad 8 metri segue tutt'intorno la cinta.
Quasi totalmente scomparso
è un altro
castelliere
che sorgeva un
po' più basso di questo, verso Marcussina, del quale però non
restano che qualche traccia del vallo e pochi cocci sparsi sul
terreno.
Del pari avanzi molto incerti si conservarono di un
castelliere,
che pare esser esistito sul M. Gerestie (748 metri), giacente presso
alla strada che conduce a Tatre. Questo dosso marnoso arrotondato, è
messo in coltura, e solo qualche coccio ci fa supporre d'aver
servito da dimora a genti preistoriche. [82]
A cavaliere della romantica valle di
Obrou, percorsa da due torrentelli, tra il villaggio omonimo e
quello di Gradisce giace sul M. Orlic (666 metri) un ampio
castelliere, alquanto male andato, non essendosi conservate che
parte del vallo e la spianata della cinta superiore, laddove dell'esterna non si veggono che poche tracce incerte (T. X, £ 1). Dalla
parte di sud-est, che scende assai ripida nella sottoposta valle,
manca ogni traccia di difesa, esistendo invece l'argine dal lato
opposto per una lunghezza di 450 metri. Il terriccio vi è molto nero
con cocci copiosi.
Infine al di sopra del villaggio di Obrou, sulla vetta segnata
con 635 metri, esiste qualche tenue traccia di un
castelliere, che
giacendo su terreno marnoso ridotto a coltura, andò totalmente
distrutto. A quanto rilevai vi si sarebbero rinvenute, qualche anno
fa, pentole con carboni. (51)
Tutti questi
castellieri trovansi a sinistra della strada che da
Cosina mena a Castelnuovo e più oltre a Fiume. Dal lato opposto il
terreno calcare, oltremodo roccioso, e le maggiori elevazioni, non
presentavano certamente condizioni favorevoli alla dimora dell'uomo,
che anche al presente lasciò quasi completamente disabitata questa
selvaggia regione. Appena verso Golaz, ove apresi il varco per cui
passa la via che conduce a Pinguente, il paese è un po' più
popolato, e noi vi incontriamo sopra un monte alto 799 metri, i
resti alquanto dubbi di un
castelliere preistorico (T. IX, f. 10).
La vetta del monto è una spianata occupata dagli avanzi di un
castello medioevale, del quale si conservano del resto poche
vestigia. Sei od otto metri più basso si trova un vallo circolare,
alto 1.50 e lungo 170 metri, col relativo fosso che gira intorno al
monte, meno che dalla parte di ponente, ove il declivio è assai
ripido. Questo vallo appare ad ogni modo d'epoca posteriore essendo
a cemento. Si scorgono ancora chiaramente le tracce d'una strada,
che conduceva alla vetta, come puro si è conservato un
[83]
pozzo.
Tra il nero terriccio mi riesci di raccogliere qualche coccio di
rozzo impasto. Una ventina di metri più basso, sten-desi una piccola
spianata sulla quale fino a circa un secolo fa sorgeva una cappella.
La visita di alcuni monti circostanti, sui quali si avrebbe potuto
attendersi resti di antiche abitazioni, mi diede un risultato
perfettamente negativo.
Difficilmente potrebbesi ideare una posizione migliore per l'erezione di
castellieri, di quella di S. Canziano e de'
suoi dintorni. Il terreno fortemente
accidentato, che richiedeva assai poca fatica per esser reso
inespugnabile, le sottostanti vaste distese di fertile terreno, la
presenza di grotte spaziose, che porgevano asilo sicuro in qualunque
emergenza, la prossimità di un fiume e di sorgenti, che assicuravano
un'acqua abbondante, prati e pascoli ubertosi per le greggi, ampie
foreste con ricca selvaggina, tutto concorreva a rendere il luogo
adattatis-simo allo stabilimento di una popolazione numerosa. Con un
lavorio lento, continuo di erosione, il fiume non solo si scavò un
profondo alveo, ma mutando in tempi remotissimi di direzione e
flagellando colle sue torbide acque le depressioni calcari, plasmò
una serie di grandiose voragini dalle pareti a picco od a
strapiombo, divise sovente tra di loro da un'unica stretta briglia
di rocce orribilmente frastagliate.
E quivi giace S. Canziano sopra un'alta rupe (426 metri), che da
tre lati scende a perpendicolo nella sottoposta voragine, sicchè non
abbisognava che da una sola parte di un breve tratto di muro per
esser munito efficacemente contro qualsiasi attacco (T. X, f. 2). Le
costruzioni posteriori hanno modificato parecchio l'aspetto
primitivo del vasto
castelliere, che misurava in periferia 950
metri; dappoichè fu successivamente arce validissima (Arae Augusti)
al tempo romano, e castello ben forte nell'evo medio, e tuttora
villaggio abitato da 136 persone. Tuttavia ancora benissimo si
scorge, per circa 70 metri, il vallo che lo chiudeva dal lato d'onde
era accessibile, ed il terriccio vi è nerissimo e ricco di resti d'animali e delle industrie primitive. Così cogli scavi praticativi in
più punti, ebbi numerosi frammenti di pentole variamente ornate,
anelli di argilla, molte corna lavorate di cervo e capriuolo, ecc.
[84]
Il
castelliere
non potendo capire l'accresciuta popolazione, si estese pure al di
là della briglia calcare che lo univa a Betania, occupando un vasto
pianoro ed un altro colle, che s'innalza sul lato opposto della
voragine minore. Anche quivi ebbi da un assaggio resti preistorici e
romani.
Diviso da un'altra grande voragine la così detta valle della
volpe (Lisizniza), s'estolle un altro monte (486 metri) sul quale
esiste il piccolo villaggio, che ancora porta il nome di Gradisce
(T. LX, f. 9). Questo è situato entro la cinta di un vasto
castelliere, di quasi un chilometro di circonferenza, del quale però
non si conservò il vallo che dal lato di settentrione e di ponente
per una lunghezza di circa 330 metri. Il vallo largo 8 a 15 metri,
lascia scorgere quale nucleo un muro di 1.5 di grossezza. A nord-est
vedesi ancora un cumolo di macerie, alto 8 a 10 metri, derivante
dalla rovina di un castello medioevale. Il centro del
castelliere è
occupato da un'ampia vallecola circolare di circa 800 metri di
periferia, ridotta a coltura, al pari di buona parte dello spazio
inchiuso nella sua cinta.
Non è in questo lavoro, destinato a trattare esclusivamente dei
nostri
castellieri e degli oggetti che vi si rinvengono, che possa
occuparmi più diffusamente delle
caverne e di chi vi teneva dimora.
Tuttavia considerando che le grotte di S. Canziano trovansi al piede
del
castelliere e che furono abitate dall'epoca paleolitica fino ai
tempi della trasmigrazione dei popoli, quindi contemporaneamente al
castelliere, i cui abitanti vi soggiornavano per tempo più o meno
lungo, non stimo fuor di luogo il farne un breve cenno, tanto più
che gli avanzi raccoltivi vengono a completare quelli delle sedi
epigee.
Gli estesi scavi praticati specialmente nella caverna Tominz, ci
fornirono un copioso materiale abbracciante parecchie decine di
secoli. Le periodiche inondazioni cui essa va soggetta e la
susseguente deposizione di melma, hanno prodotto una precisa
delimitazione dei singoli strati antropozoici, appartenenti ad
epoche diverse. Oltre a ciò noi dobbiamo ad esse la conservazione di
alcuni di quegli antichi abitatori, che sopraffatti dalle
[85]
acque
irruenti, non ebbero il tempo di mettersi in salvo, ed i cui avanzi
ci vennero così fortunatamente conservati. (52)
Ma ancora più di queste grotte vengono a completare la conoscenza
degli abitanti di S. Canziano le due necropoli che s'ebbe la ventura
di scoprire. Una di queste, posta sul pianoro tra Gradisce e S.
Canziano in una piccola insenatura per cui passa il sentiero
costruito dalla società alpina, è pur troppo quasi totalmente
distrutta e quindi non ci diede che una quantità di frammenti di
oggetti di bronzo e di ferro. Tuttavia anche da questi si potè
constatare ch'essa apparteneva ad un periodo un po' tardo
dell'epoca del ferro.
Molto bene conservata è all'incontro l'altra, che giace nella
valle tra Gradisce e Bresez, anzi alle falde del colle su cui è
fabbricato quest'ultimo. Quest'importante necropoli, nella quale
apersi finora 322 tombe, per la maggior parte arcaiche, del
principio cioè dell'epoca del ferro, ci fornì un ricco corredo
funerario, che viene ad illustrare splendidamente quell'età
remotissima e serve da complemento oltremodo pregevole a quanto ci
viene rivelato dai
castellieri. Non mi estendo qui maggiormente
sugli oggetti fornitici da questa necropoli, avendo più volte
occasione di parlarne in seguito nel corso di quest'opera, ed
essendo mio proposito di farne argomento di un lavoro speciale, nel
quale tratterò di S. Canziano, delle sue grotte, de'
suoi
castellieri e delle sue necropoli.
Altri tre
castellieri trovansi nei dintorni di S. Canziano, di
non grandi dimensioni. Il primo gli giace di faccia a mezzogiorno,
sulla vetta del primo mammellone calcare del lungo dosso che divide
la valle della Sussiza, confluente del Recca, da quella di Danne (T.
X, f. 3), e precisamente al punto segnato con 508 della carta dello
Stato Maggiore. Di forma quadrilatera-ovoidale, esso misura soli 170
metri di circonferenza ed è perfettamente piano, con un vallo bene
conservato, alto 1 a 1.50 metri. Assai scarso vi è il terriccio al
pari dei cocci, sicchè non sembra essere stato abitato per lungo
tempo.
[86]
Forse
era un semplice luogo di rifugio o serviva da vedetta, dominandosi
da questo punto elevato un vastissimo territorio. Dalla parte di S.
Canziano si scorgono alla sua base pochi resti di una cinta esterna,
che racchiude un piccolo pianoro ascendente. Dall'opposta, ove il
castelliere si annoda al dorso che protendesi verso il M. Ciucco,
trovai alla distanza di circa mezzo chilometro presso un'altra
vetta, alta 518 metri, qualche traccia indistinta di grosse mura,
senza però rinvenirvi alcun coccio.
Gli altri due giacciono un po' più distanti e precisamente vicino
al villaggio di Scofle. L'uno trovasi sul declivio di un monte di
454 metri, immediatamente sopra il villaggio di Famle, alla sponda
destra del fiume Recca (T. X, f. 4). Là dove si unisce all'altipiano del Carso che s'estende verso Divaccia, sorge un grande
ammasso di pietre a forma di tumolo del diametro di 20 metri ed alto
più di 8, d'onde scende d'ambo i lati il vallo per circa 100 metri,
fino al ciglio delle rupi a mezzogiorno, che sovrastano al villaggio
e dove per un tratto di 70 metri manca qualsiasi traccia di difesa
artificiale. Il vallo è molto robusto ed alto 1.50 a 2 metri. Mentre
un braccio di esso si arresta alle rupi, quello di ponente continua
girandovi al disotto per un tratto di 35 metri. Nell'interno del
castelliere, che è di forma ovale, nonostante la forte pendenza, si
raccolse copioso terriccio, sicchè in parte venne utilizzato per
formare alcuni campicelli.
l'altro si stende sulla collina alta 488 metri, che s'innalza a
tergo del villaggio di Vrem inferiore (f. 5). Esso è ad una sola
cinta, che se anche in buona parte ancora conservata, ed alta per lo
più un metro e larga 8, porta tracce evidenti di aver servito anche
in epoche posteriori per racchiudere il villaggio e l'antico
castello, del quale si possono ancora riconoscere le fondamenta
nella parte più elevata e pianeggiante del
castelliere. Da ciò
predominio di cocci romani e medioevali. La sua periferia è di circa
500 metri. Dal lato occidentale più depresso, ove il terreno è
scaglionato e ridotto a prati, l'argine fu asportato; tutto il
resto dello spazio inchiuso è rupestre ed abbandonato e viene ora
imboscato a pini.
[87]
Forse esisteva un
castelliere anche
presso Barca, la cui posizione sarebbe eccellentemente scelta,
offrendo quella eminenza marnosa una bellissima spianata, culminante
a 692 metri sul livello del mare. Ridotta com'è ora a scaglioni,
occupati da fertili campi, ogni traccia di antiche abitazioni è
scomparsa, mancandovi anche il terriccio nero. Non vi rinvenni che
un pezzettino di coccio preistorico.(53)
Kandler
segna ancora un altro
castelliere su quel lungo dorso che si
prolunga da Cosiane tra i due torrenti Pades e Sucoriza.
Dei 118
castellieri sparsi pei dintorni di
Trieste, che potei
verificare, (54) 55 sono di grandi
dimensioni, ossia di oltre mezzo chilometro di circonferenza, 39 di
media grandezza e 24 piccoli. In quanto alla natura geologica del
terreno su cui furono edificati, 89 sono sul calcare e soli 29 sull'arenaria. Circa alla loro conservazione, sono 88 più o meno in buono
stato e quindi poterono venir misurati e figurati, laddove gli altri
30, tra cui quasi due terzi (18) di quelli fabbricati sull'arenaria,
trovansi assai deteriorati, sicchè non fu possibile rilevarne il
piano. La maggior parte de' nostri
castellieri (81) giace su monti
di 100 a 500 metri, all'incontro 32 sorgono ad altezze maggiori e
soli 5 su colline di minore elevazione. Di duplice o triplice cinta
ne vanno forniti 53, gli altri non ne hanno che una sola. In 17 essa
è a vallo semicircolare, perchè costruiti al margine di terrazzi o
su monti che da un lato scendono a picco o con ripidissimo pendìo.
[88]
Se ragioni di opportunità mi
persuasero a limitarmi alla descrizione dei
castellieri dei dintorni
di
Trieste, non sarà fuor di proposito di dare un breve cenno anche
degli altri, che mi riesci di constatare nella nostra provincia
delle Giulie, non fosse che per spingere gli studiosi a colmare le
lacune, che senza dubbio presenterà la seguente enumerazione. (55)
Scarsi assai sono i
castellieri nella regione alpina, non
prestandosi a tal uopo il terreno che in poche località delle
vallate principali. Ma se anche non numerosi, essi erano fittamente
abitati, come ce lo dimostrano l'estesissime necropoli esplorate.
Per genti dedite principalmente alla pastorizia, quelle ubertose
pendici dei colli e dei monti, che s'interpongono alle catene
alpine, dovevano presentare un forte allettamento a prendervi
stabile dimora. Non può del pari sottacersi l'importanza che avevano
quelle valli, come le vie naturali di comunicazione tra la Carinzia
e la Carniola da un lato ed i paesi litorani dall'altro, attraverso
passi più o meno facili a valicarsi. L'importanza di queste antiche
vie commerciali era accresciuta dall'esistenza delle miniere di
ferro della vicina Vochinia, in esercizio fin dai tempi più remoti,
e da quelle di piombo della Carinzia, che sembra fossero del pari
conosciute. E di fatti il ricco corredo funerario tratto dalle
numerose tombe, ci fornisce una prova luminosa dell'opulenza degli
abitanti di allora e dell'alto grado di coltura, che fioriva in
quelle valli romite.
Già nella parte più settentrionale della provincia, là ove le
giovani acque dell'Isonzo vanno a mescersi a quelle della Coritenza,
noi troviamo presso la borgata di Plezzo un mammellone isolato, il
M. Ravelnic (520 metri), (56)
sovrastante d'una [89] sessantina di metri sulla circostante pianura, sul
quale, sebbene molto alterato da costruzioni posteriori, si possono
ancora riconoscere le tracce di un antico
castelliere. (57)
Seguendo il corso dell'Isonzo, ci si presenta un altro
castelliere, ben più vasto, sul colle di S. Antonio (309 metri), ai
cui fianchi si appoggia l'odierno villaggio di Caporetto. Esso era
di speciale importanza, dominando tanto la valle dell'Isonzo che
quella del Natisone, che quivi viene a confluire colla prima
attraverso il bassissimo spartiacque di Starosello. Non è qui il
luogo di parlare degli scavi che vi feci e della vasta necropoli,
ch'ebbi la ventura di scoprire a' suoi piedi e nella quale apersi
finora 1079 tombe, traendone un ricchissimo materiale funerario. (58)
Cinque chilometri a ponente di Caporetto, ove il Natisone piega
bruscamente verso mezzogiorno, cacciandosi in una strettissima gola,
tra gli ultimi contrafforti del Matajuro e del Mia sorgono due
castellieri, uno più piccolo sul M. Der presso Robig, l'altro più
ampio e meglio conservato sopra una vetta rocciosa (329 metri), che
si estolle di faccia, e nel quale trovasi la cappella di S. Ilario.
(59)
[90]
Alterato grandemente dalla costruzione d'un castello del patriarca
d'Aquileja, quasi totalmente è scomparso il
castelliere, che
coronava la vetta del colle isolato di Tolmino (428 metri), del
quale a malapena tra la fìtta boscaglia che lo riveste, si rinviene
qualche raro coccio preistorico.
All'incontro, se anche abitato durante l'epoca romana, nell'evo
medio e fin al presente, quello di S. Lucia (206 metri) (60)
non andò del tutto distrutto, e riesce ancora parzialmente
riconoscibile. La sua importanza era senza dubbio pari se non ancora
maggiore di quella di Caporetto, poichè quivi viene a sboccare in
quella dell'Isonzo la valle dell'Idria, per la quale passava
l'importante via, che per il passo di Podberda (1273 metri), metteva
nella Vochinia. La vasta necropoli, ove si sterrarono finora quasi
6500 tombe, ci fa fede della grande importanza di questo
castelliere. (61)
Ben poco si conservò invece di quello che giaceva sul monte (648
metri), che tutt'ora porta il nome di Moncastello (Hrad verch), al
di sopra di Podselo. Anche quivi la costruzione di un castello
medioevale, caduto esso pure completamente in rovina, cancellò ogni
traccia dell'anteriore, e solo mercè un piccolo assaggio ne potei
accertare l'esistenza.
[91]
Non conosco alcun altro
castelliere nelle nostre regioni alpine,
sebbene la presenza di parecchie necropoli farebbe supporre che ve
ne esistano. L'esplorazione completa di questo vasto territorio sì
accindentato e ricoperto per lo più da dense foreste, riesce
oltremodo difficile, tanto più che non si può trarre alcun accenno
dai nomi locali.
Appena all'estremità meridionale della lunga conca di
Chiapovano, noi troviamo un altro
castelliere presso al villaggio di
Gargaro. È probabile che la posizione elevata dell'altipiano di
Tarnova e l'asprezza del suolo, ricoperto da fittissime foreste, non
abbiano allettato le prische genti a prendervi stabile dimora. Del
pari non molto numerosi essi ci si presentano al suo versante
meridionale, ove ne incontriamo uno al M. S. Catterina (307 metri)
presso Salcano, uno al M. Gradise (205 metri) sopra Aidussina alla
sponda destra del Frigido, di cui vedesi ancora in buono stato una
parte del vallo, uno assai deteriorato a S. Paolo (368 metri) presso
Slap, quello di Gradische (166 metri), presso Vippacco, il Tabor
(244 metri) presso S. Vito ed infine uno sull'estremo mammellone
inferiore del Nanos (640 metri) che si spinge sopra Prevald. (62)
A ponente di Gorizia si stende una serie di colline marnose, il
così detto Coglio, sul quale però finora non venne accertato che ne
unico
castelliere, quello del M. Quarin (269 metri) presso Cormons.
È probabile che anche su altre vette di questa fertile regione,
abbiano soggiornato i nostri maggiori, ma la natura del suolo
facilmente erodibile e l'estese colture, vi hanno concorso a
cancellarne le tracce.
La pianura friulana soggetta a frequenti innondazioni da parte
dei numerosi corsi d'acqua, non ancora infrenati da argini, non si
prestava in antico alla dimora dell'uomo. Così solo sul colle
isolato di Medea noi troviamo un
castelliere, abbastanza bene
conservato, del quale qualche anno fa venne [92]
scoperta la necropoli appartenente alla prima età del ferro. (63)
All'incontro sui colli di Farra, non ostante accurate ricerche, non
mi riesci di trovare alcun vestigio di antiche costruzioni, sebbene
egregiamente vi si sarebbero prestati. Che però anche la pianura non
fosse del tutto disabitata, se pure, forse, non stabilmente, si può
argomentare dai rinvenimenti, che talora vi si fanno casualmente di
oggetti preistorici. (64)
Gli altri
castellieri del Goriziano che trovansi sull'altipiano
del Carso e sulle colline marnose della Valle del Vip-pacco, li
abbiamo già compresi tra quelli de' dintorni di
Trieste, e quindi
passeremo ad enumerare brevemente quelli dell'Istria, che sono molto
più numerosi. Ed anche di questi i più prossimi alla nostra città
furono del pari già descritti tra quelli del distretto amplificato
di Trieste, che abbiamo creduto opportuno estendere fino
all'emersione dei colli calcari di Salvore.
Questa vaghissima plaga dell'Istria settentrionale, che si
protende in mare in forma di vasto promontorio triangolare,
prescelta per l'amenità del suolo e per la mitezza del clima quale
sito di villeggiatura dai romani, del che ci fanno fede i resti di
numerosi edifizi, che quasi senza interruzione si stendono da
Salvore ad
Umago, era pure ricercata dai più remoti abitatori, che
vi costruirono parecchi
castellieri. Così uno ne sorge a S. Pietro
(78 metri), assai rovinato da costruzioni posteriori; un altro assai
meglio conservato e più ampio a triplice vallo, sul monte di Romania
(40 metri) presso Sipar, l'antica città di Sibaris, distrutta nel
nono secolo dai pirati narentani, un terzo, del pari in ottimo
stato, poco lungi da
Umago, che tuttora porta il nome di M.
Castelliere (56 metri). All'incontro il vasto tratto, che stendesi
a mezzogiorno di
Umago fino a
Cittanova e ad oriente fin a
Buje,
sebbene occupato da terreni fertilissimi, va privo di
castellieri,
forse perchè non presenta [93]
alcuna elevazione maggiore, che vi si presti alla loro erezione.
I pochi punti che sovrastano alquanto al piano leggermente ondulato,
sono per lo più larghi dossi arrotondati, poco acconci a tale scopo.
Cosi mentre vi spesseggiano gli avanzi di costruzioni romane, non mi
avvenne di trovarvi traccia di resti preistorici. (65)
In questa regione, forse la sola
Buje, che alta torreggia su tutte
le cime circostanti (222 metri), ond'ebbe il nome di spia
dell'Istria, era in antico un
castelliere, quantunque le costruzioni
posteriori vi abbiano cancellato qualsiasi traccia. Del pari
l'adiacente collina di S. Margherita, che presenta alla cima una
spianata, della quale i bujesi un tempo si servivano per cimitero,
potrebbe essere stata abitata dai nostri preistorici, sebbene
presentemente non vi si trovi alcun resto.
Molto bene conservato è invece il
castelliere del M. Kroh (308
metri) presso Tribano, che giace su terreno calcare, ad una sola
cinta della periferia di 440, metri e totalmente piano. Una delle
regioni ove spesseggiano i
castellieri, sono le rive del fiume
Quieto, che offrivano posizioni eccezionalmente favorevoli. Il mare
si estendeva allora assai più entro terra, formando un fjord lungo
parecchi chilometri, presso a poco come il canale di Leme. Le
torbide del fiume, trasportando continuamente enormi quantità di
fanghiglia, andarono a poco a poco colmando l'ampio bacino e
formarono vaste distese di terreno alluvionale, in parte tuttora
paludoso, pel quale scorrono lentamente le acque del Quieto. Allora
le falde di questi
castellieri, al cui piede sgorgano spesso
sorgenti d'acqua dolce, erano lambite dal mare, che offriva agli
abitanti larga messe de'suoi prodotti. E di fatti quelle genti si
occupavano attivamente colla pesca, come ci fanno fede gli utensili
pescherecci che qua e là si rinvengono, ed i resti de' loro pasti,
che consistono in grandi quantità di molluschi, in frammenti di
crostacei, in [94]
vertebre di pesci, ecc. I
castellieri si stendono ad ambedue le
sponde del fiume, più o meno bene conservati. Già alla sua
imboccatura ne troviamo uno alla sponda destra, quello di S. Spirito
presso Cittanova, e due alla sinistra presso Torre, cui si può
aggiungere ancora un terzo sul colle che s'eleva in mezzo ai tre
contermini villaggi di Torre, Fratta ed Abrega. Quello di S. Spirito
riesce interessante per possedere il vallo solo dal lato di terra,
mentre dall'altro il ripido declivio rupestre e l'onde marine gli
erano sufficiente difesa. Presso a questo castelliere giace una
grande quantità di tumoli, dei quali ne esplorai parecchi. Alcuni
sorgono pure entro la sua cinta.
Quasi di faccia a S. Spirito sorge,
sulla sponda sinistra del Quieto, immediatamente sopra il porto
Torre, il castelliere di S. Martino a duplice cinta. Gli scavi
praticati in vicinanza della cappella, diedero per risultato la
scoperta di alcune tombe della prima epoca del ferro, contenenti
parecchi vasi di bronzo. Altro castelliere, quello di S. Croce (70
metri), giace a ponente di questo, presso Klek.
Risalendo un po' il fiume, ritroviamo
alla sua sponda destra un altro gruppo di quattro
castellieri presso
Villanova di Verteneglio. Il più grande di questi, che appunto
prende il nome da Villanova, era di speciale importanza per la sua
ampiezza e per la posizione sopra un promontorio sporgente nella
valle (120 m.). Gli scavi che vi vennero eseguiti in più riprese,
diedero larga messe d'importanti documenti, facendoci pure conoscere
le tombe d'un periodo arcaico della prima epoca del ferro. (66)
Tombe ed altri oggetti interessanti vennero pure forniti dalle
esplorazioni fatte nel castelliere di S. Dionisio, che a poca
distanza sorge sur un altro promontorio (123 m.). (67)
E poco lungi da questo, a S. Giorgio (62 m.), scorgonsi i resti di
un altro castelliere, alterato però parecchio dalla costruzione di
un castello medioevale, andato pur esso in rovina. Infine il
[95] quarto trovasi sur un dosso, che sporge d'appresso
sopra una piccola insenatura della valle.
Quasi di faccia al castelliere di
Villanova, dall'altra parte del Quieto, veggonsi gli avanzi di un
altro fortilizio, del castello del Frumento, ove scorgesi qualche
traccia incerta di sedi preistoriche, al pari che sul M. Verbanovice
(169 m.).
Continuando a risalire la valle, i
castellieri si ritirano più entro terra, allontanandosi dal Quieto,
cosi quello del M. Radanich presso Crassiza, quello di Cagnola a
duplice cinta presso Grisignana, quello di S. Giorgio (386 m.), ad
est della stessa borgata, completamente distrutto dai lavori
campestri, quello di S. Croce sopra Piemonte a doppio vallo, con
resti di numerose costruzioni posteriori, quello di S. Elena al M.
Chersonze (421 m.) presso Portole, pur esso totalmente scomposto
dalle colture; Portole stessa (380 m.), la cui origine preistorica
ci viene attestata dal rinvenimento di cocci e di fusajuole, quello
di Cucui presso Sdregna, giacente ancor più lontano dal fiume sopra
un cocuzzolo roccioso (434 m.); quelli del M. Badegone (289 m.) o
del M. d'Oro, come l'appellano i paesani, e di S. Lorenzo (346 m.)
non lungi da Visinada, un altro al M. Visinal, sul dosso segnato con
124 metri sotto il M. S. Tomà (e non M. Tomio come sulla carta dello
Stato Magg.), che si estende verso il punto di confluenza del
torrente Chervar col Quieto, quello del M. Subiente (352 m.) con
tracce preistoriche un po' incerte ma con molti avanzi romani, a
mezzogiorno di Montona, e probabilmente quest'ultima pure, che per
la sua posizione eminente sur un alto cono isolato (277 m.) offriva
tutta la opportunità per l'erezione di validissimo castelliere.
Nel tratto superiore i
castellieri
tornano ad avvicinarsi alla valle, cosi quello di Beninich (322 m.)
presso Gradigne, i due di S. Stefano, che alti torreggiano sulle
rocce perpendicolari, (68) quello di Sovignacco
(293 m.), molto alterato dalle colture agricole, quello vastissimo
di S. Croce (280 m.) a duplice cinta, poco lungi da Pinguente, cui
si può aggiungere quest'ultimo, [96] sebbene quasi
cancellato dalle costruzioni posteriori che si succedettero senza
interruzione dai tempi romani in poi.
Oltre a questi va notato il grandioso
castelliere di S. Giorgio (416 m.), presso Salise a doppia cinta,
che maestosamente s'innalza sulla valle del Brazzana, affluente del
Quieto, e forse ancor quello, un po' dubbio, di Pietra Pelosa, su
cui si veggono tuttora le rovine del forte castello medioevale dei
Gravisi.
A completamento dei
castellieri di
questa regione aggiungerò ancora quelli dei dintorni di Rozzo e
Lupoglavo, quello cioè del M. Gradez (455 m.) con cinta circolare e
quello di S. Tomaso o di Nigrignano (Cernigrad, 563 m.), che per
esser costruito sopra terreno arenario, non conserva che pochi resti
delle sue mura. Assai in migliore stato è quello di Albiniano o
Bieligrad (sul Semichbreg, 541 m., della carta dello Stato Magg.) a
duplice cinta semicircolare, che vi giace di faccia e serve col
precedente a velettare la strada conducente a Lanischie. Un po' più
in alto trovasi il castelliere di Gradina sur un mammellone che si
stacca dal M. Osebnik, a triplice cinta incompleta. Infine presso il
villaggio di Semich giacciono due altri
castellieri, ambidue
chiamati Gradisce, l'uno sur una brulla eminenza a 773 metri che
sovrasta il villaggio, l'altro a ponente sulla vetta segnata con 509
metri. (69) E probabile che sul ciglio superiore
dell'altipiano calcare che sovrasta le valli di Rozzo e di
Pinguente, e ch'io non ebbi la possibilità di percorrere in tutta la
sua estensione di oltre 10 chilometri, se ne rinvenga ancora
qualcuno. Uno ne scopersi ultimamente sul M. Kuk (532 m.) al di
sopra della stazione della ferrata di Pinguente, di forma
semicircolare a vallo robusto costruito da grossi blocchi.
Il distretto di
Parenzo formato nella
parte litoranea da un terreno basso leggermente ondulato, che
s'incurva in una serie di collinette alte 30 a 60 metri, tra le
quali si protendono lunghe e fertili vallicelle, va a poco a poco
elevandosi verso [97] l'interno, ove, presso al
confine orientale, giunge ad un'altezza di 400 e più metri. Esso
consta quasi totalmente di terreni calcari, che specialmente nella
zona litorale trovansi ricoperti da un grosso strato di terriccio,
d'onde la rigogliosa vegetazione che li riveste. Estesi boschi di
carpini e di querce, cui nelle parti più prossime al mare cominciano
già ad associarsi parecchie specie di sempreverdi, s'alternano con
ridenti praterie. Queste condizioni favorevoli del suolo, cui va
aggiunta la mitezza del clima, dovuta principalmente alla poca
frequenza dei venti dal nord e dal nord-est, che non hanno mai
quella violenza, che fin da' tempi più remoti rese tristamente
famosa la nostra patria Bora, influirono senza dubbio potentemente
ad attirarvi una popolazione numerosa, persuadendola a prendervi
stabile dimora. E di fatti l'agro parentino possiede un numero
considerevole di
castellieri, talora anche aggruppati a due o tre,
il che ci fa fede del progressivo accrescimento dei loro abitanti,
che non potendo più trovar posto nella sede primitiva, erano
costretti ad occupare anche i monti circostanti. Grazie alle
indagini della Società archeologica istriana, che appunto a
Parenzo
tiene la sua sede, parecchi di essi vennero esplorati accuratamente,
disseppellendosi del pari le loro necropoli, d'onde si estrasse un
ricco e svariatissimo corredo funebre, che di somma importanza
riesce per la conoscenza della proto-istoria della nostra penisola.
Le frequenti gite intraprese, mi diedero agio di visitare buon
numero dei
castellieri di questo distretto e di praticarvi pure qua
e là qualche piccolo assaggio. Di alcuni venne già fatta menzione,
parlandosi di quelli situati in prossimità della valle del Quieto.
Molti sono egregiamente conservati, come quello di S. Angelo (137
m.) visibile da lungi e riconoscibile per la sua forma
caratteristica.
Nella parte settentrionale del
distretto noi ritroviamo il Moncastello di Cervera (51 m.), già
illustrato dal
Burton, il Momperlon (85 m.) tra Fratta e Villanova
di
Parenzo ed uno presso quest'ultima (138 m.), quello del M.
Rompelac (161 m.), del M. Petrovaz (221 m.) e d'un'altra vetta
dappresso, segnata alla quota 226 metri, poco lungi dai casolari
Raffaelli, il M. Puncan o Talian (246 m.) di Catunni presso
Mompaderno, quelli [98] del M. Seni e del M. Scander
(284 m.) nelle vicinanze di S. Giovanni di Sterna, quello di
Montauro (272 m.) presso Mondellebotte, quello di Bercich (349 m.) e
del M. Glaviza (373 m.) presso Montreo, con vallo bene conservato,
quello del M. Glagovaz (377 m.) a settentrione di quest'ultimo,
quello di Cerneca (237 m.) presso Visignano, quello spazioso di
Moncitto, di S. Maddalena, di Rosgnac (214 m.) e del M. Cadum (376
m.) nei dintorni di Raccotole. (70)
A mezzogiorno di
Parenzo, oltre al
già nominato di S. Angelo ed a quelli delle Mordelle su due eminenze
adiacenti un po' più basso (93 m.), al piccolo castelliere di
Bejachi (86 m,) ed ai tre bellissimi de' Pizzughi (108 a 110 m.),
giacenti due chilometri più oltre, di cui uno a triplice cinta, i
quali diedero sì largo contributo colle loro ricche necropoli, (71)
noi ne incontriamo parimenti un numero considerevole, così uno assai
deteriorato sulla Punta Brullo (37 m.), uno a Monghebbo (82 m.)
egualmente alterato da fabbriche posteriori, un altro al M. Martuzol
(112 m.), uno a Montisana (150 m.) presso Dracevaz, uno un po'
incerto al M. Glaviza (150 m.) a sud di Sbandati, uno al M. Dodin
(181 m.) ed uno al M. Maggiore (189 m.) tra Geroldia e S. Lorenzo
del Pasenatico, uno grandissimo al M. Corona (328 m.) ed uno ancor
più vasto a Corridico (303 m.), entro cui giace l'omonimo villaggio,
uno a Gradistie (243 m.) presso Villanova di Leme, uno al M. Ricco o
di S. Martino (80 m.) con vallo megalitico presso Orsera ed alcuni
altri lungo il canale di Leme, di cui si parlerà in seguito.
Come a settentrione il distretto di
Parenzo viene chiuso dalla valle del Quieto, a mezzogiorno è il
canale di Leme che ne segna il confine, formando un fjord lungo ben
sette [99] chilometri, il quale avendo notevole
profondità (20 a 31 passi), nè alcun fiume mettendovi foce, non fu
colmato dalle alluvioni, come avvenne per quello del Quieto. Ma se
le sponde di quest'ultimo offrivano eccellenti località per
l'erezione di
castellieri, altrettanto e forse ancor più era il caso
per i monti che rinserrano il canale di Leme, specialmente nella sua
parte più interna, ove alla prossimità di un seno di mare riparato e
ricco di molteplici produzioni animali, si aggiungeva la presenza di
numerose sorgenti d'acqua dolce. Così mentre verso la sua
imboccatura noi troviamo alla sponda settentrionale il castelliere
Moncalvo (121 m.) di Orsera ed un altro quasi distrutto presso i
casolari di Jugovaz ed all'opposta quelli di Monmajor (72 m.) e di
Monterò (124 m), presso l'altra estremità ne vediamo sorgere due
immediatamente al disopra dell'intimo seno, quello grandioso di S.
Martino (230 m.) ed un altro sul monte segnato con 149 metri sopra
Cul di Leme, ai quali a poca distanza si aggiungono quelli del M.
Bumberich (180 m.) presso Matassovich, del M. Petrovaz (156 m.) un
po' più a ponente, e del M. Gradina (256 m.) presso Rujal da un
lato, e dall'altro i numerosi dei dintorni di Villa di Rovigno,
quelli cioè del M. Gradina (209 m.), di Carastac, del M. Gomilla o
di Periciza Glavizza, di S. Canziano a doppia cinta formata da
grossi blocchi, di Monversino (205 m.) e di Moncas (171 m.). Il
territorio di Villa di Rovigno è pure ricco di tumoli, tanto isolati
sulle cime dei monti e talora assai grandi, quanto aggruppati e di
minori dimensioni. Dei primi innalzasi uno nelle immediate vicinanze
della Villa, scavato qualche anno fa dalla Società d'archeologia, un
altro sul Mompeter, tuttora intatto, uno sul M. Maclavun, uno presso
Stanza Pedona, d'onde potei salvare un teschio in buono stato,
colla preminenza occipitale pronunciatissima.
Dei minori, che trovansi in maggior
copia anche, entro la cinta dei
castellieri, ne apersi otto (72)
qualche anno fa, per [100] riconoscere la loro
costruzione e raccogliervi il contenuto. Formati da sassi
accatastati senza traccia di cassetta in cui fosse stato deposto il
cadavere, essi sono pur troppo poverissimi, non contenendo che pochi
avanzi dello scheletro e frammenti di pentole ad impressioni
digitali.
Anche sui monti che accompagnano la
conca, che dal canale di Leme si prolunga fin oltre a Vermo, noi
incontriamo parecchi
castellieri, così quello di Due Castelli,
appena riconoscibile causa le posteriori costruzioni, quello di S.
Agata presso Canfanaro, assai bene conservato, quello di S. Tomaso
presso S. Pietro in Selve, quello di Corridico, già ricordato più
sopra ed infine quello di Vermo (325 m.) presso Pisino, dalla cui
necropoli si ebbero interessantissimi cimeli della prima età del
ferro. (73)
La zona eocenica, che s'estende tra
la valle del Quieto e quella del torrente Foiba, il quale va ad
inabissarsi nella voragine di Pisino, offre una successione di monti
elevati fin oltre a 500 metri intersecati da profonde vallate, onde
grandemente vengono difficoltate le ricerche preistoriche. La natura
del suolo arenaceo assai suscettibile ad alterarsi alle influenze
atmosferiche, rese spesso quasi irreconoscibili le antiche
costruzioni, sicchè non è da meravigliarsi dello scarso numero di
castellieri che mi riesci di constatare. Relativamente bene
conservato è quello di Draguccio, punto culminante (504 m.) di tutta
questa regione. (74) Altro castelliere pare
sorgesse sul M. S. Lorenzo (422 m.) presso Novacco, come pure la
scoperta di tombe del tipo di quelle di Vermo a Caschierga, ci fa
presupporre l'esistenza di castelliere in quelle vicinanze. (75)
[101] Al di là del
torrente Foiba ritroviamo presso Moncalvo (Gollogorizza) il
castelliere di S. Croce (383 m.), cui forse potrebbe aggiungersi un
altro presso Gradigne, come sembra indicarne il nome. Parimenti a
giudicare dai nome e dalla forma spianata dell'apice del M.
Gardini, che s'alza a 498 metri tra Ceroglie e Paas, sarebbero da
ricercarsi anche su questa vetta tracce di costruzioni primitive.
Volgendoci a mezzogiorno, noi
incontriamo un bel castelliere, ora ridotto a coltura, presso i
casolari di Bertossi a sud di Pisino. E probabile che anche Pisino
vecchio, giacente sur un'eminenza (361 m.), sia stato in antico un
castelliere, di cui le costruzioni posteriori hanno cancellato ogni
traccia. Egual sorte ebbero quelli di Gallignana (454 m.), che in
slavo porta ancora il nome di Gradisce, e di Pedena (360 m.), che ci
vengono attestati unicamente dalla presenza de' cocci.
Il canale di Leme non è solamente un'ampia spaccatura, che interseca profondamente la penisola istriana,
ma è pure una barriera naturale all'avanzarsi dei sempreverdi di
massa. (76) E qui che comincia il dominio delle
macchie, di quelle inestricabili foreste di elci, di fìlliree, di
eriche, di cisti, di ginepri, cui si associano i paliuri ed i
corbezzoli, che spesso sono del tutto impenetrabili e rendono quindi
assai malagevole, se non addirittura impossibile, la visita di
parecchi monti, senza la scorta di una pratica guida, che conosca
bene i sentieri tortuosi quasi impercettibili attraverso quelle
fitte sterpaje. Esse si estendono dal canale di Leme per tutta
l'Istria meridionale e sulle isole maggiori, limitate però alle
parti più prossime al mare e meno elevate. Per esse è difficoltata
naturalmente la ricerca dei
castellieri, che nascosti da quel denso
intreccio di rami, si sottraggono spesso all'occhio indagatore anche
il più esperto. In queste condizioni si trovano parecchi
castellieri
dei territori di Rovigno e di Valle, la cui esplorazione riesce
quindi tutt'altro che piacevole.
[102] Il numero dei
castellieri di questa regione è assai rilevante, dimostrandoci che
numerosa vi era la popolazione. Oltre a quelli già citati delle
sponde del canale di Leme, noterò qui quello conservatissimo di
Mompaderno (63 m.), quello sopra il monte che sorge immediatamente
sulla stazione della ferrata di Rovigno (alla quota 60 m.), ridotto
a coltura, quello della Torre di Boraso (106 m.) con resti di
costruzioni romane, quello di Monvé (52 m.) presso Montauro, appena
riconoscibile, quello dell'isola S. Caterina (23 m.) di forma
irregolare, (77) quello di M. Rovinale (39 m. — e
non Bovinale come sulla carta dello Stato Magg.), del M. Canna, di
Valteda (85 m.), di Monsporco (83 m.), di M. dell'Arche, di M.
Castellier (76 m.), del M. Canonica, del M. Leme (124 m.), di S.
Croce, di Starigrad (231 m.), di Mombrovaz (244 m.), di S. Michele
di Valle (206 m.), di M. Massimo, di Turnina (165 m.) presso Gajan,
del M. Magnan (79 m.), del M. Mandriol (74 m.).
La regione oltremodo selvaggia,
lontana da maggiori centri abitati, in cui si abbia la possibilità
di pernottare, che s'estende a mezzogiorno di Pedena, rende
piuttosto malagevole l'esplorazione sistematica di questo esteso
territorio, ove sulle numerose punte che si spingono lungo il canale
dell'Arsa, si scopriranno certamente ancora parecchi
castellieri.
Così uno ne esisteva a S. Caterina (346 m.) presso Andretici, un
altro, detto Castelvecchio (Starigrad) ad Oriz, che alto s'estolle a
404 metri sulla valle e su due profondi burroni, che gli si aprono
ai fianchi; un terzo, un po' più entro terra, detto Gromazza (401
m.) presso Ballici.
Kandler ne nota pure uno al M. Bavici (434 m.),
poco lungi da Pedena, uno al M. Bresnizza (417 m.) presso S. Ivanaz,
uno al M. Kuharia (332 m.) sopra Porgnana ed uno al M. Vadrich (339
m.) a ponente di Barbana, che però richiedono d'esser accertati.
Presso quest'ultima località c'è il
castelliere di S. Croce a duplice cinta, entro al quale giace l'attuale cimitero, e quello molto più grande di Presenik (252 m.)
poco lungi da Pontera [103] il cui perimetro misura
quasi un chilometro. Sopra una sporgenza presso S. Trinità, trovasi
un grande tumolo rovesciato detto Velika Crassa.
A ponente della Val d'Arsa il terreno
va a poco a poco abbassandosi verso Gimino e S. Vincenti, formando
un altipiano leggermente ondulato, con numerose vallicelle
circolari, dal quale emergono poche vette più elevate. Sopra una
delle maggiori di queste (374 m.), si veggono le tracce di un antico
castelliere, assai alterato dalle costruzioni del villaggio, ora
abbandonato, di Golzana vecchia, dei ruderi del quale è tutto
disseminato il terreno. Sur un colle dappresso, detto Rogatize (348
m.), veggonsi pure alcuni resti di una stazione preistorica,
utilizzata più tardi quale cimitero, come ce lo attestano le
numerose ossa d'inumati, che vennero sparpagliate, allorchè
recentemente per la costruzione della nuova strada tra S. Vincenti e
Barbana, si trasse da questo luogo il materiale occorrente. Altro
castelliere sorgeva sopra una piccola elevazione a fianco di
Gradisce, a mezzogiorno di Gimino, (78) ove nei
mucchi di terra nerissima, sollevati dalle talpe, assai copiosi
riscontransi i cocci. Se ne trova uno a metà strada circa tra S.
Vincenti e Canfanaro al M. Cergnic (314 m.). Bene conservato è
ancora il vallo di quello di Terli (306 m.), tra Orehi e Skitaza,
presso al quale sorge pure una trentina di tumoli. Altri tre
castellieri giacciono nei dintorni di Filippano e precisamente uno
tra Glavani (e non Glavini come sulla carta dello Stato Magg.) e
Perdici, uno presso Bratelich ed un terzo poco lungi da S. Vito a
Divissich.
Parecchi
castellieri esistono nei
dintorni di Dignano, così uno che tuttora porta il nome di
Castellier (125 m), ridotto a coltura, un altro di cui poche tracce
sono visibili al M. Molino (178 m.), e quello, benissimo conservato,
di M. Orcin (M Orsini della Carta stabale, 256 metri), a duplice
cinta dal quale trassi parecchi oggetti interessanti in un piccolo
scavo che vi potei praticare. (79)
[104] Nella parte più meridionale
della nostra provincia, i
castellieri erano assai numerosi, favoriti dalla
conformazione fisica del territorio quasi piano o solo dolcemente ondulato con
eminenze isolate qua e là sporgenti. Nei dintorni di
Pola essi andarono per la
massima parte distrutti in seguito alle costruzioni recenti de' molti forti, che
in ampio cerchio circondano questo porto militare principale e per i quali si
prescelsero naturalmente le vette più alte. Così la batteria Castellier sul M.
Stignano che ricorda ancora nel nome la sua prisca origine, così il M. Musil, il
M. S. Daniele, il M. Castion, il colle più elevato dell'isole Brioni e forse
qualche altro ancora. Sfuggirono alla distruzione, almeno per ora, uno presso
Stignano al punto segnato con 26 metri, un altro a nord-est di Galesano, detto
pure Castellier (162 m.), quello di Buoncastello, che occupa il dosso
pianeggiante di un colle (161 m.) presso Monticchio, quello del M. Gromazza
presso Lavarigo, quello del M. Vintian (50 m.) presso le cave romane di
Pola,
quello del M. Turcian (70 m.) ed infine quello del M. Cipri (30 m.) sull'isola
maggiore di Brioni.
Una serie di quattro
castellieri, uno appresso
all'altro, ritroviamo al principio della lunga e stretta lingua di terra, che
si protende verso Promontore, quello cioè del M. Rosso (69 m.), assai mal
conservato, quello del M. Gomila (74 m., e non Ganilla come indicato sulla carta
dello Stato Magg.), uno sul M. Ronzi ed uno sul M. Gradina (75 m.), a duplice
cinta. Nel centro di ognuno di questi sorge un grande tumolo, che specialmente
in quello detto Gomila, attinge dimensioni considerevoli. Quest'ultimo, da me
scavato nel 1898, presentò nel suo centro una tomba a cassetta d'inumato, senza
però alcuna aggiunta particolare. Infine è da notare il M. Castril (36 m.) a
mezzogiorno di Promontore, nelle cui vicinanze sopra un altro colle, sorgono i
resti di un grande castro romano.
Al di là di Promontore la costa istriana piega
bruscamente verso oriente e settentrione, con una serie di punte sporgenti e di
profondi seni, flagellati dalle torbide acque del Quarnero. La regione dapprima
pianeggiante va a poco a poco elevandosi, non superando però i 200 metri, fino
alla foce dell'Arsa. Al di [105] là di questo fiume il paese
diviene più accidentato ed i monti s'innalzano rapidamente, fino all'eminenze
più eccelse della riviera liburnica, culminanti con 1396 metri nel M. Maggiore.
Nel primo tratto fino all'Arsa, noi troviamo un
castelliere al M. Vercivan (71 m.) al di sopra di Medolino e quello di S. Pietro
(50 m.), poco lungi da questo, un altro di considerevoli dimensioni ed a duplice
cinta al M. Bianco o della Madonna (89 m.) a levante di Sissano, quello
colossale del M. Gradina presso Altura, ove sorgeva l'antica Nesazio, la
capitale degli Istriani; altri quattro
castellieri, di cui uno nominato
Castellier (93 m.), l'altro Chittiza, il terzo Za Na Puf (82 m.), allineati su
altrettante sporgenze del fianco occidentale della Val Badò ed il quarto sulla
Punta Zuffo (53 m.). Dall'altro lato di questa valle s'erge il grandioso
castelliere di Momorano (189 in.), poi quelli del M. Bubain (185 m.), di Casali
con parecchi resti di costruzioni posteriori, e finalmente di Gromazza (157 m.)
presso Cavrano, la cui natura preistorica mi sembra tuttavia alquanto
problematica. Forse sono pure
castellieri il M. Glaviza (210 m.) presso Carnizza
e la Stanzia Castellier (209 m.), come lo indicherebbe il nome, tra questa
località e Filippano. Presso Castelnuovo dell'Arsa va notato il castelliere al
M. Gomilla (85 m.) sopra il Molino Blas, ove lo Stancovich ricercava l'antica
Nesazio. Può darsi che anche al colle di S. Agnese, ove trovansi le rovine di
Castelvecchio (Castel Rachele), esistesse una stazione preistorica.
Al di là dell'Arsa si stende il territorio di
Albona, che possiede un numero abbastanza considerevole di
castellieri. Esso
venne esplorato diligentemente dal Luciani e dal Scampicchio, il qual ultimo
comunicò al Burton una lista di 15 stazioni preistoriche. Altre erano state
anteriormente indicate dal Luciani; (80) non tutte però riferisconsi a
castellieri preistorici, nè sono sempre esatte, a quanto gentilmente mi avverte
il prelodato Dr. Scampicchio, tanto più che al tempo in cui Luciani scriveva
quell'articolo "egli non aveva ancora un'idea [106] precisa dei
castellieri e
come
Kandler, li riteneva opere romane militari provvisorie."
Nel distretto di
Albona noi troviamo quattro
castellieri lungo la sponda sinistra dell'Arsa, quello di Sumberg (177 m.) ora
quasi scomparso; un altro due chilometri distante presso i casali di Lizzul (282
m.), poi uno detto Starigrad a Ruzici (o Russich) ed uno alla Punta S. Croce
(268 m.) presso Zampavorizza in quel di S. Martino. Un po' a levante di questi,
c'è la Gradina o Straza di Sumberg (307 m.) ed il castelliere di Ersischie
(Ersić) a tramontana di S. Domenica.
Albona stessa era in antico un
castelliere
(320 m.), come ne fanno fede i molti avanzi preistorici che vi si rinvennero.
(81) Poco più di due chilometri distante in direzione di nord-est, sorge di
fronte al Monte della Croce (Krisni Breg, 336 m.) il
castelliere di
Cunzi, a
duplice cinta, assai bene conservato, già illustrato dal
Burton. Egualmente
presso Albona ma verso scirocco, trovasi il
castelliere di S. Gallo (278 m.),
rovinato coi lavori agricoli. Più in giù verso la Punta Lunga vedesi un muro
costruito attraverso la stretta lingua, ove misti a cocci romani se ne trovano
pure preistorici. Nella parte più meridionale del territorio sonvi duo
castellieri, di cui uno detto Gradina (86 m.), del quale più non si veggono che
pochi resti, al Porto Gradaz di faccia a Castelvecchio, l'altro, chiamato Gradaz
(102 m.) presso la Punta Cromaz a mezzogiorno di Skitaka, entro il quale venne
eretto il castello medioevale, pur esso ora diroccato, di S. Giovanni in Besca.
Presso alla sponda orientale del lago di Cepich esistono del pari due
castellieri, quello di Gorinci o di Malacrasca e quello di Gradina di Cosliacco.
Ad oriente di Fianona sorgono quattro
castellieri, poco tra di loro discosti
: uno, assai deteriorato, presso il M.
Kolich, [107] uno presso Lokva e due poco
lungi dal villaggio di Selo nel territorio di Bersez. Da informazioni avute, un
altro ne esisterebbe sulla vetta del M. Sissol, a ben 833 metri d'altezza.
Gli alti monti che si appressano alla costa
liburnica, tuffando le loro radici in mare, non offrivano molta opportunità all'erezione di
castellieri sui loro ripidi fianchi. Questi tuttavia, se anche
scarsi, non vi fanno del tutto difetto, così uno trovasi al M. Gradez presso
Martina, uno al M. Gradina presso Moschienizze, uno al Knesgrad (612 m.) sopra
Lovrana, uno a Veprinaz (519 m.) ed uno al M. Graciste di Rucavaz (465 m.), ove
i monti declinando, vanno ad allargarsi nell'altipiano di Castua. Anche
quest'ultima fu indubbiamente
castelliere, quantunque dalle costruzioni
posteriori ne sia stato cancellato, quasi ogni vestigio. In un fondo, detto
Bergudi, si rinvennero parecchi coltellini di selce, ed in una vallecola detta
Moscinzi si dissotterrarono tombe di combusti con numerosi bronzi, come fibule
della Certosa, (82) tra le quali alcune colossali lunghe 20 centimetri e di La
Tène, armille ed anelli a spirale, perle di vetro e d'ambra, bottoncini,
magnifici pendagli di varie forme, ecc.
Al di là di Castua noi troviamo due
castellieri
nei dintorni di Fiume, quello di Stupniac presso Rastocine e quello del M.
Belleri (377 m.) sovrastante la valle del Recina. (83) All'incontro alquanto
dubbio riesce quello che
Kandler indica a S. Croce presso Blazici. (84) Il Carso
liburnico che s'innalza verso i maggiori corrugamenti montuosi, formanti il
confine orientale della nostra provincia, molto aspro e dirupato, rivestito
ancor al presente da fitte boscaglie, non era troppo favorevole alla
[108] fondazione di
castellieri,
dei quali uno solo viene notato sul M. Zidovie (660 m.) poco lungi da Ciana.
Il passaggio del M. Maggiore era velettato,
secondo il De Franceschi, (85) da cinque
castellieri, uno sotto il giogo di
Galimbreg, un altro sulla costa detta Orliac, sotto la Fontana, cui dirimpetto
s'ergeva quello di Nessiel a cavaliere di profondo burrone, un quarto detto
Gradaz, un po' più in basso ed infine quello di Vragna (Aurania). Non potei
accertare se tutti questi sieno di epoca preistorica o se non debbano piuttosto
la loro origine a fortilizi romani : quello di Nessiel, come già venne
constatato dal
Burton, possiede ancora una cinta formidabile.
Altri
castellieri di questa regione, indicati
pure dal De Franceschi, trovansi a Bogliuno (253 m.), a Paas (346 m.), sopra un
colle isolato (221 m.) al termine del filone che separa le valli di Bogliuno e
di Susgnevizza, a Berdo (242 m.), al margine del ciglione Crog sotto Brest,
detto Gradaz (590 m.) ed altro Gradaz presso il Planik tra Ulaka e Sinoset, e
precisamente in mezzo alle due vette segnate sulla carta dello Stato Magg. coi
nomi di Kupic e di Ostai verch.
Dal M. Maggiore si estende verso settentrione per
una lunghezza di oltre venti chilometri un territorio oltremodo selvaggio, alto
900 a 1200 metri, per la massima parte ricoperto da dense foreste di faggi. In
questa regione naturalmente si ricercherebbero indarno tracce di antiche dimore,
essendo anche al presente del tutto disabitata, o visitata tutt'al più dai
pastori che d'estate vi conducono le loro greggi. Solo ove verso oriente ed
occidente i monti vanno abbassandosi a 500 o 600 metri, noi ritroviamo
nuovamente resti di costruzioni preistoriche. Quelli che trovansi alle falde
meridionali ed occidentali, furono già nominati più sopra, vi aggiungo qui
quello di Gradinova di Zvoneca (650 m.) presso Mucici ad oriente, e più a
settentrione uno presso Mune, quello di Gradina (561 m.) presso Sapiane, ove
potei scavare un piccolo ma interessante sepolcreto, ricco di bronzi, quello di
S. Caterina (689 m.) presso [109] Jelsane, (86) la cui vasta
necropoli venne pur troppo distrutta dalla crassa ignoranza del proprietario,
sicchè non mi riesci di trovarvi che un'unica tomba intatta, quello del M. Cel
(644 m.) parimenti presso Jelsane, quello di Starada (797 m.) e forse uno a
Castelnuovo. (87) A nord-ovest vanno notati ancora quello di Raspo, ove sorgono
le rovine del noto castello, già sede de' capitani veneti, quello di Gradischie
sopra Praparchie, quello di S. Bartolomeo di Cerneca presso Brest, assai
deteriorato, e quello di S. Martino di Vodizze.
A complemento dei nostri
castellieri di terra ferma, ci resta da accennare
ancora quelli della vallata superiore del Recca (88) e dell'adiacente territorio,
appartenenti in parte alla Carniola, ma che trovandosi al versante adriatico
devono ancora comprendersi nella regione Giulia. Va qui notato il Gradisce di
Semon, quello elevatissimo di S. Acazio (801 m.) presso Jassen, quello grandioso
di Torno va o Dornegg (638 m.) con resti di un castello romano, quello di Sembie
(655 m.) alquanto deteriorato, nei cui pressi trovansi parecchi tumoli, quello
di Obrobi (646 m.) presso Grafenbrunn, sopra un colle isolato, quello di Watsch
a poca distanza, altri due al margine di una specie di terrazzo, di cui l'uno
(740 m.) tra Sembie e Grafenbrunn, l'altro, nominato Gradisce (794 m.), tra
quest'ultimo e Sagurie, ambidue di tipo semicircolare, il Silertabor (747 m.) a
nord-ovest di Sagurie, con resti di fortilizi posteriori, il Gradisce di S.
Primo (721 m.), e finalmente quello di S. Pietro (658 m.)
[110] a duplice cinta, immediatamente sopra l'omonima stazione della ferrata.
Pochissimo esplorata fu la vasta zona, che si estende alla sponda sinistra del
Recca, occupata da monti arenacei, alti 450 a 750 metri, per la massima parte
ricoperti da dense boscaglie, che rendono difficili le indagini.
Kandler
vi nota
nel tratto meridionale alcuni
castellieri, che però richieggono un'accurata
revisione. Così ne dovrebbe esistere uno a Veloberdo, uno a S. Stefano di
Racize, uno a Sabogne, uno a Podbeze, uno a Pregarie ed uno a Javorie. Per
quelli di Hrussiza e di Tatre, da lui pure indicati, potei constatare che non
sono punto castellieri.
Non però solamente sulla terraferma, ma anche sulle isole del Quarnero, tanto
sulle maggiori che sulle minori, noi incontriamo numerosi
castellieri. Quelle
terre circondate d'ogni lato dal mare, porgevano ai nostri proavi le migliori
condizioni di sicurezza, sicchè assai di buon ora vi si stabilirono, innalzando
sui vertici de' monti le loro ciclopiche costruzioni.
L'isola di Veglia, il cui accesso non porgeva alcuna difficoltà attraverso lo
stretto canale di Maltempo, è specialmente ricca di
castellieri. Alla sua
estremità settentrionale sorgeva sopra un'alta rupe, al fondo d'un ampio seno di
mare, quello di Castelmuschio (82 m.) che, tramutato più tardi in castello
romano, fu luogo fortificato nell'evo medio, del quale esistono ancora i
torrioni, ed è abitato pure al presente.
Sebbene nella propinqua località, chiamata Gromasiza (124 m.), esistano copiosi
avanzi di muraglie e di edifizi circondati da vallo, non mi azzardo di
ascriverli all'epoca preistorica, mancandovi il caratteristico terriccio nero,
nè avendovi raccolto alcun coccio. Sull'isola di Veglia s'incontrano frequenti
rovine di villaggi abbandonati, per lo più causa la febbre malarica, che v'infierisce con speciale violenza.
Un bel castelliere a forte vallo trovasi sulla punta Zuffo (30 m.), che
protendesi in mare a mezzogiorno di Nivize. Altro fortissimo a duplice vallo con
grande tumolo nel mezzo, è quello di Gradina, a sud-est di Malinsca (107 m.). Se
anche alterato dalle costruzioni posteriori, i cui avanzi per ampio
[111] tratto occupano i fianchi del monte, si può tuttavia riconoscere abbastanza
bene il triplice muro che cingeva quello di S. Pietro presso Gabogne, che
giacendo sur un'eminenza isolata di 255 metri, è visibile da ogni lato da
grandissima distanza.
Sopra una vetta adiacente, chiamata Gromacina (252 m.), sorgono due grandi
tumoli, di cui uno recentemente aperto, conteneva una cassetta formata da lastre
di pietra, in cui non si rinvennero che pochi resti di uno scheletro.
Un po' più a levante verso Dobrigno, sorge il M. Gracisce (266 m.), (e non
Krasisce come sulla carta dello Stato Magg.), con un
castelliere a doppia cinta,
formata da grossi blocchi di 1-2 metri di diametro. Di faccia a questo scorgesi
la sommità spianata del M. S. Giorgio (328 m.) del pari con tracce di
castelliere. L'odierno Verbenico (49 m.), sembra egualmente essere stato un
castelliere, e così pure il M. Costriz che sorge dappresso (90 m.). Altri
castellieri trovansi sul M. Kersovan (256 m.), M. Krasini, detto Gromacine (164
m.) con due tumoli, sul M. Klam (449 m.) e sul M. Maligrac (212 m.),
quest'ultimo vastissimo con muraglioni bene conservati, grossi 3 metri, e con
terriccio nerissimo zeppo di cocci.
Frequenti sono i tumoli nel territorio di Verbenico, così sopra una vetta (183
m.) presso il castelliere di Maligrac, presso Colmanicee, presso la chiesa di
Garizze, di cui uno aperto qualche anno fa, conteneva oltre ad alcuni bronzi,
una collana di oro.
Le parti meridionali dell'isola, per lo più estremamente rocciose, non potevano
allettare i nostri maggiori a prendervi dimora. Tuttavia un bel
castelliere
esiste sul monte Mizza (338 m.), a sud-est di Ponte, e tracce di un altro mi
riesci scoprire sul M. S. Giovanni presso Besca nuova, al di sopra del nuovo
cimitero. Sul monte Sokota a levante di Besca nuova trovansi molte rovine, che
gli abitanti riferiscono ad una città distrutta, da essi nomata Corintia. Per la
sua posizione potrebbe essere stato pure antico
castelliere. E forse tale era
anche Gradaz, vetta di 270 m., tra Besca nuova e Besca vecchia, che non ebbi
possibilità di visitare.
Alta e rupestre stendesi per una lunghezza di oltre 67 chilometri l'isola di
Cherso, e se anche la sterilità del suo [112] suolo, che in alcune parti può senza esagerazione paragonarsi ai deserti
petrosi della Libia, non offre le migliori condizioni d'esistenza, tuttavia e
per l'eminenti posizioni e per la conseseguente sicurezza, anch'essa fu abitata
fin da' tempi remotissimi ed ebbe parecchi
castellieri. Persino sul monte Sys,
che attinge un'altezza di 638 metri, se ne rinvennero tracce e si raccolsero
cocci. La grande estensione dell'isola, l'asprezza del terreno e la deficenza di
strade, rendono oltremodo difficile e faticosa la sua esplorazione, sicchè non è
improbabile che parecchi
castellieri sieno sfuggiti alle mie ricerche. Un bel
castelliere, con vallo parzialmente conservato, è quello di S. Bartolomeo (314
m.) tra Cherso e Smergo. Pare che anche il mammellone sporgente (130 in.), su
cui giace Caisole, fosse in antico un
castelliere. Altri due s'innalzano a
meriggio del villaggio di Losnati, sul M. Ciule (314 m.), e sopra una eminenza
vicina (289 m.): quest'ultimo detto Pukoina, con mura robustissime. Un
castelliere a duplice cinta, formata di grossi blocchi, è quello del M. Sculki
(322 m.) presso il villaggio di Orlez. Da lungi visibile torreggia quello del M.
Chelm sopra Lubenizze, alto ben 483 metri. Sopra l'estremità meridionale del
lago di Vrana ergesi quello del M. Germov (328 m.), mentre un altro, detto
Gracische, s'innalza tra S. Giovanni ed Ustrine. Forse evvi pure un
castelliere
sul M. Nielovize (163 m.) a levante di Vrana, dove sorgono due grandi tumoli. Un
tumulo colossale alto 6 metri e misurante in periferia circa 200, s'incontra sul
M. Sillaz presso Bellei. Al di sopra della vetusta città d'Ossero, trovasi il
castelliere di Pescenie (178 m.), con tumolo nel mezzo.
La parte più meridionale dell'isola ha un aspetto del tutto diverso, cedendo le
alte giogaje rupestri ad una serie di poggi, che attingono appena 50-100 metri
d'altezza, ricoperti da una lussureggiante vegetazione di sempreverdi. E qui
sopra un'elevazione di 148 m. a Vela Straza, giace un
castelliere con
fortissimo muro di grossi blocchi, alto in alcuni punti fino 4 metri e grosso
ben 5.30. (89)
[113] Altrettanto e forse più ancora, fu abitata l'isola di Lussino che per la
mitezza del suo clima, per i suoi monti ricoperti da eterna verzura, per i suoi
numerosi seni di mare, offriva eccellenti condizioni di esistenza. Così ad
eccezione delle rocciose vette della sua parte più settentrionale, ove il M.
d'Ossero s'erge a 588 metri, il resto dell'isola è disseminato di
castellieri,
alcuni dei quali ancora benissimo conservati. E sulla piccola collina che
s'innalza al di là della così detta Cavanella, presso la vetusta città di
Ossero, già fiorente ed ora ridotta, causa la malaria, in uno stato di doloroso
decadimento, venne scoperta un'interessante necropoli della prima epoca del
ferro.
Tra Ossero e Neresine presso la località Halmaz sorge una collinetta di 108
metri, detta M. Halcina, con tracce di
castelliere. Del pari un
castelliere
giace presso Neresine sur un altro colle, alto 120 metri, detto Berdo (Bardo
della Carta dello Stato Magg.).
Per un tratto di quasi sei chilometri non incontriamo alcun altro
castelliere
fino nelle vicinanze di Chiunschi, ove giace quello di Polanza sopra un monte
alto 214 metri, con poderosa cinta in parte bene conservata. Gli scavi che vi
feci praticare, mi fornirono una bella messo di oggetti paletnologici. Gii
abitanti di questo castelliere, al pari di quello del M. Stan (110 metri), su
cui pure si conservarono resti delle antiche dimore, avevano intorno a sè un
ampio territorio fertilissimo, formato da una espansione pianeggiante
dell'isola. Ove questa torna a restringersi, riducendosi ad una semplice schiena
di monte, larga appena mezzo chilometro, troviamo l'uno appresso dell'altro tre
castellieri, quello di Kabociak (102 m.), del M. Asino (125 m.) ed uno sopra la
vetta con la quota 97 metri, tutti e tre però assai malandati, specialmente
l'ultimo, ove esistono alcune tombe rettangolari.
[114]
Un altro
castelliere di non grandi dimensioni,
trovasi al M. Vela Straza (64 m.) all'estremità di quella lingua di
terra, che chiude a libeccio il golfo di Lussinpiccolo. Fra questa
città e Lussingrande, sopra un dosso che si protende dal M.
Tomosciac verso Val d'Arche, detto dai paesani Umpuliac, esiste un
bel
castelliere a duplice cinta. All'incontro ben poco si conservò
fino a' nostri giorni di quello che sorgeva sul M. Calvario o S.
Giovanni (234 m.), sopra Lussingrande. Verso l'estremità meridionale
dell'isola troviamo infine il
castelliere della Vedetta o di Pogled
(242 m.), del quale restò ancora qualche traccia di cinta.
Anche
sulle circostanti isole minori non difettano
castellieri.
Così due ne sorgono sull'isola d'Unie, di cui uno sul M. Arbit (129
m.), alla sua estremità meridionale, ed uno alla settentrionale sul
M. Malanderski (96 m.).
Forse anche sull'isola di Canidole grande
ne esisteva uno sulla vetta culminante (60 m.), come lo indicherebbe
il nome di Grande Guardia (Vela Straza). La natura del terreno
dell'isola di Sansego, consistente in mobili sabbie, non era
favorevole alla conservazione di antiche costruzioni. La presenza
però di cocci preistorici, farebbe supporvi l'esistenza di un
castelliere.
Sull'isola di S. Pier de' Nembi esistono del pari due
castellieri, di cui uno nominato pur esso Vela Straza (91 m.), a
doppia cinta, l'altro più a ponente sul M. Strizine (77 m.), del
quale solo poche vestigia si sono conservate.
Entro i limiti che ci
siamo proposti al presente studio, noi abbiamo quindi potuto
constatare l'ingente numero di 406
castellieri, aggiungendo ai quali
49, che non mi fu ancora possibile di verificare, si hanno ben 455
stazioni preistoriche, delle quali 8 trovansi nel territorio
politico di
Trieste, 74 nella provincia di Gorizia, 353 in Istria
(comprese le 46 delle isole del Quarnero) e 20 appartenenti alla
Carniola. Ma il loro numero è certamente ancora più grande,
dappoichè alcuni distretti non furono esplorati si accuratamente dà
poter escludere l'esistenza di parecchi altri, che ci verranno
senza dubbio rivelati dalle indagini avvenire. Io credo quindi di
non andare errato [115] affermando, che la nostra provincia possedeva
oltre a 500
castellieri preistorici, dal che emerge ch'essa era già
nei tempi remotissimi assai densamente abitata.
Dopo aver descritti i
castellieri dei dintorni di
Trieste
ed avervi aggiunto
l'enumerazione degli altri finora constatati nella provincia delle
Alpi Giulie, ci rimane da considerare più da vicino queste
costruzioni rimarchevoli e studiare, per quanto possibile, gli
abitanti che vi si alternarono nel lungo corso dei secoli, seguendo,
per quanto possibile, l'evoluzione delle loro colture.
Il nome di
castelliere, dato a queste costruzioni, non è forse il più
appropriato, offrendo esso l'idea di un castello o di un
fortilizio, mentre, come si disse più sopra, esso non era altro che
un villaggio circondato da uno o più argini, che ne difficoltavano
l'accesso, insomma una specie delle nostre vecchie città murate.
Per la loro erezione si adoperavano per lo più pietre di media
grossezza e solo alcuni pochi sono fabbricati con grossi blocchi,
onde appaiono vere costruzioni megalitiche. Cosi p. e. il
castelliere di M. Ricco presso Orsera, quello di Gracisce di S.
Giovanni presso Dobrigno sull'isola di Veglia, ecc., constano di
rocce del diametro di 1 a 2 metri, destando davvero meraviglia come
quelle genti primitive abbiano potuto smuovere pietre sì enormi,
disponendole in un muro regolare, alto parecchi metri. Alle volte
però le parti esterne del muro sono fatte di grosse pietre,
essendosi adoperate invece pel centro piccole scaglie, gettatevi
alla rinfusa: evidentemente in questi casi gli architetti di allora
non erano diversi dai loro colleghi di oggigiorno.
Solitamente i muri sono molto
più larghi alla base, ove misurano spesso tre e più metri in
grossezza e vanno a poco a poco restringendosi verso l'alto, il che
dava loro una robustezza maggiore. Ma per lo più il muro viene ora
completamente celato dal cumolo di macerie della parte crollata,
entro al quale esso appare quasi il nucleo, od appena se ne scorge
[116] qualche traccia (90) A giudicare dall'enorme quantità di sfasciume che molto
spesso lo circonda, si può facilmente farsi un'idea della sua
altezza considerevole, che talora giungeva senza dubbio a 10 e più
metri. Ancora al presente vi sono
castellieri che in qualche tratto
conservano mura di 6 ad 8 metri d'altezza! Naturalmente dal lato
esterno il vallo appare più alto che dall'interno, perchè quivi
venne in parte ricoperto dal terriccio, accumulatosi nel corso de'
secoli. Le opere fortificatorie erano più deboli ed anche mancavano
del tutto, ove le condizioni del terreno presentavano già
sufficiente difesa. Ma nella costruzione de'
castellieri dovevasi
tener conto oltreché dei nemici, di un altro formidabile fattore,
della patria bora cioè, contro la quale specialmente sulle vette più
esposte, era mestieri premunirsi. E ciò avveniva appunto coll'erezione di mura più robuste e più alte appunto dal lato d'onde essa
spira più impetuosa, come può constatarsi in buon numero dei nostri
castellieri. È probabile che ad accrescere la loro robustezza vi si
aggiungessero anche palizzate di legno o siepi formate di arbusti
spinosi, al qual uopo si prestava, nell'Istria specialmente, la
spina marruca (Paliurus Australis Grtn.). Ai lati dell'ingresso si
scorgono più volte ingrossamenti del vallo, sicchè pare vi si
erigessero speciali fortificazioni per munire maggiormente la porta.
Riesce interessante la costruzione particolare di difesa dell'ingresso che vedesi nel
castelliere di Besovizza (T. VII, f. 1). In
questo, dalla porta del vallo interno si stendono verso quella dell'esterno due muri paralleli un po' curvi, racchiudenti un lungo e
stretto corridoio, prolungandosi ancora per circa 6 metri oltre il
recinto esterno.
Allo scopo di guadagnare un terreno possibilmente
piano per costruirvi le case, si usava per lo più spianare una zona
della larghezza di 5 a 15 e più metri immediatamente entro le mura
di cinta. Questi ripiani, che spesso girano tutt'intorno al monte
ed, ove andarono completamente [117] distrutte le mura, restano unici
residui a rivelarci l'esistenza dell'antico
castelliere, ne sono
la parte principale, perchè in essi si addensava di preferenza la
popolazione, come quelli che offrivano maggiore comodità ed erano
più riparati. E perciò naturale che quivi coll'andare del tempo si
raccogliesse uno strato più o meno poderoso di materiale,
proveniente dai rifiuti dei pasti e dalle altre dejezioni degli
abitanti, cui si aggiungeva il terriccio trasportatovi dalle piogge
giù dalle chine sovrastanti. Esso giunge talora ad uno spessore di
parecchi metri e dovendo la sua origine quasi esclusivamente alla
decomposizione di sostanze organiche, presenta un colore oscuro, che
specialmente sul Carso, forma uno strano contrasto colla terra rossa
dei colli circostanti (il terriccio accumulatosi per tal modo nelle
terramare, viene già da più tempo utilizzato; quale concime e
venduto a parecchie lire al metro cubo.). E pel paletnologo esso
riesce della massima importanza, perchè è il geloso custode di tanti
documenti ignorati delle passate generazioni.
In quanto alla forma
dei
castellieri, essa dipendeva anzitutto dalle condizioni locali
del terreno, alle cui accidentalità i nostri maggiori sapevano
egregiamente adattare le loro costruzioni. Da ciò nasce che queste
non erano sì uniformi come a primo aspetto potrebbe sembrare: anzi
noi le possiamo dividere in parecchi gruppi principali, secondo che
si trovano all'apice od ai fianchi del monte, che possiedono una o
più cinte, che queste sono complete o solo parziali, ecc. Uno
sguardo alle annesse tavole (I—X) in cui riprodussi i piani dei
castellieri di
Trieste, ci darà tosto un'idea della varietà delle
loro forme.
Siccome si preferivano i monti isolati a pendici non
troppo scoscese, la forma più frequente de'
castellieri è la
circolare od ovale. Quando la sommità presentava un dosso
pianeggiante di sufficente estensione, il muro veniva costruito
intorno alla vetta, —
castellieri apicali; in caso diverso ai
fianchi del monte più o meno distante dall'apice, —
castellieri
laterali. Se i lati scendevano con declivio uniforme, il vallo vi
girava tutt'intorno ed il
castelliere era a cinta completa; ove però
il pendìo si
[118] faceva più ripido o roccioso, l'opere di difesa,
rendendonsi superflue, mancavano, e quindi si avevano
castellieri a
cinta incompleta. A questa categoria appartengono per eccellenza
quelli costruiti al margine dei terrazzi, che sono tutti a vallo
semicircolare.
Per rendere più valido il
castelliere, anziché una
sola cinta se ne costruiva talora una doppia od anche una tripla,
sia concentrica sia annodata alla superiore o scendente giù per un
fianco del monte. A questo ampliamento avrà spesso contribuito il
bisogno d'espansione in seguito all'accrescersi della popolazione.
Una forma particolare sono i
castellieri, ch'io chiamerei gemini,
essendo quasi due
castellieri disposti l'uno appresso l'altro nel
medesimo piano, con un grosso vallo trasversale mediano (T. VII, f.
7; T. IX, f. 1). Essi sono piuttosto rari e limitati ai dossi
allungati, che con breve pendio si annodano al resto della catena
montuosa. Ancora più rara è un'altra varietà a cui appartengono i
castellieri costrutti su piccole elevazioni del terreno, che
naturalmente richiedevano opere speciali di difesa, come p. e.
quello di Vucigrad (T. IV, f. 2). In questi, al robusto vallo che li
circonda, se ne aggiunge un altro semicircolare, quasi avancorpo da
un lato e dall'altro in corrispondenza alle due porte d'ingresso.
Talora per ripararlo dai venti del settentrione, il
castelliere non
occupa che la parte del monte vôlta a meriggio, partendo il muro
dall'apice, ove non di rado innalzasi una specie di tumolo, che
probabilmente ci rappresenta una torre crollata. Alle volte due
castellieri trovansi vicinissimi su due vette distinte, ciascuno con
proprio vallo interno, ma uniti tra di loro da un ampio vallo comune
esterno, per quali non sarebbe inopportuno adottare il nome di
castellieri doppi (T. IV, f. 5; T. V, f. 2).
Per la fondazione de'
castellieri venivano prescelte le vette più
emergenti, d'onde si poteva dominare un vasto spazio di terreno. Le
loro altezze assolute variano però moltissimo secondo le differenti
località, cosi p. e. il
castelliere più alto, 801 metri, è quello di
S. Acazio nella valle del Timavo soprano, il più basso a soli 25
metri, quello sull'isola S. Caterina di Rovigno. E del resto strano
che i nostri castricoli non temessero di [119] abitare luoghi sì elevati,
come la vetta del monte di Grociana (742 metri), quella del M.
Ciucco di Roditti (753 metri) ecc., ove il clima rigido iemale ed i
venti impetuosi che vi soffiano, non dovevano rendere certo
piacevole il soggiorno durante l'inverno. (91)
[120]
Del pari assai differenti sono
le dimensioni dei singoli
castellieri, così ne troviamo parecchi che
hanno una circonferenza di uno o due chilometri (92) ed altri che
non giungono nemmeno a 100 metri. Questi ultimi, solitamente in
vicinanza di qualche altro maggiore, non erano, realmente che
vedette, costrutte su qualche punto più elevato, d'onde meglio che
dal propinquo
castelliere, potevasi dominare il territorio
circostante, come p. e. quello sulla vetta del M. Ermada, quello
superiore di Cobdil, quello sopra i casali di Mihali presso il
castelliere di S. Martino, ecc. La mancanza o scarsità in questi di
terriccio nero e di cocci, viene ad avvalorare l'ipotesi che non
servissero da stabile dimora.
In quanto alla distribuzione de'
castellieri, basta gettare uno sguardo all'annessa carta della
nostra provincia, per vedere la grande diversità che presentano le
varie regioni. Così mancano naturalmente in tutta la regione alpina
e subalpina del
Goriziano, eccedente gli 800 metri, e solo pochi si ritrovano qua e
là sui colli, che sorgono nelle valli ad una mediocre altezza. Così
fanno pure difetto sui corrugamenti maggiori della penisola
istriana, che dal M. Tajano si stendono con numerosi gioghi fino al
M. Maggiore. Del pari non se ne trova traccia nella pianura
friulana, mancandovi l'eminenze necessarie. Ma anche nel resto del
paese si scorgono differenze notevoli, non sempre spiegabili colla
maggiore o minore fertilità del suolo, o coll'esistenza o meno di
località opportune.
Prima di considerare la vita che si svolgeva nei
castellieri, fa d'uopo trattare la questione importante
dell'approvigionamento [121] d'acqua, dal quale dipendeva in prima linea
l'abitabilità degli stessi. Fu chiesto e non senza ragione, come mai
avessero potuto esistere uomini su quelle vette aride del nostro
Carso, lontane da qualsiasi corso d'acqua, da qualsiasi fonte. In
tutta la nostra zona calcare mancano, come si sa, fiumi e ruscelli
ed i piccoli torrenti, che durante le piogge dirotte si formano
improvvisamente, altrettanto rapidamente scompaiono tra i crepacci
del suolo. Gli stessi rivi che scendono dalle pendici dei colli
marnosi e si raccolgono talora in poderose correnti al fondo delle
valli, appena giungono a toccare il terreno calcare, vengono
assorbiti dalla porosità dello stesso e si precipitano in profonde
voragini. In qual modo dunque provvedevano i nostri castricoli alla
necessità imprescindibile di procacciarsi quest'elemento
indispensabile alla vita?
A questa domanda non riesce difficile il
rispondere, osservando gli odierni abitanti dei nostri altipiani
calcari, e specialmente dell'Istria. Anche essi difettano per lo
più di sorgenti e l'unica acqua di cui possono disporre per se ed i
propri animali, è lo stagno fangoso, in cui si raccolgono le acque
piovane. Chi ha percorso quelle regioni nei mesi d'estate, quando
per più tempo non è venuta stilla ristoratrice a dissetare le aduste
campagne, ed il terreno screpolato e l'erba bruciata dal sollione e
gli arbusti e gli alberi avvizziti sono lì ad attestarci
eloquentemente la mancanza dell'umore vitale, si sarà di leggeri
persuaso quale specie d'acqua possa sopportare lo stomaco umano. In
quello stagno mezzo disseccato e ridotto ad un pantano mefitico, che
trovasi poco lungi dai casolari, nel quale diguazzano majali ed
intorno a cui si raccolgono le greggi sitibonde, viene la contadina
ad attingere l'acqua rossastra brulicante d'infusori, alla quale si
deve aggiungere una piccola quantità d'allume per renderla bevibile.
Io credo che i nostri preistorici non saranno stati in questo
riguardo più esigenti degli odierni abitanti, nè avranno curato
maggiormente l'igiene e la pulizia di quanto avviene oggigiorno.
(93)
Anch'essi
[122]
avranno avuto stagni in prossimità, de' loro
castellieri e forse
anche entro gli stessi. (94)
E come ancora al
presente per aver miglior acqua, gli abitanti coi loro somarelli si
recano talvolta ad attingerla a sorgenti lontane parecchi chilometri
(95) non trovo ragione perchè ciò non avesse potuto
avvenire anche nella remota antichità. Quelli che avevano la ventura
di abitare in prossimità di qualche
caverna fornita d'acqua, non
avranno certamente tralasciato di approfittarne in caso di bisogno,
fors'anche raccogliendo lo stillicidio in grandi recipienti. La
quantità di cocci appartenenti a vasi di dimensioni colossali, ond'è
solitamente disseminato il terriccio de'
castellieri, rende
probabile la supposizione, ch'essi tenessero presso di sè una
provvista più o meno copiosa d'acqua per averla sempre a loro
disposizione. Può darsi pure che usassero raccogliere la pioggia
defluente dai [123] loro tetti (96),
sia direttamente in grandi dogli (97), sia
mercè di speciali apparecchi, come potei constatare p. e. nel
castelliere dell'isola S. Caterina di Rovigno. (98)
Al principio del secondo millennio prima dell'Era volgare
avvenimenti grandiosi di speciale importanza, avevano cominciato a
sconvolgere i popoli dell'Asia minore e della penisola balcanica.
Sia che incalzati da nuove torme di genti da più lontane regioni,
sia che guerre disastrose o sovrabbondanza di abitanti li
obbligassero ad emigrare, noi vediamo determinarsi un movimento
progressivo verso l'occidente ed il settentrione, che avanzando
irrefrenato, viene ad apportare alle nostre contrade una nuova
popolazione. E con questa grande trasmigrazione ha principio nella
penisola balcanica una civiltà novella, [124] la civiltà dei metalli, la
cui conoscenza fornisce all'uomo i mezzi per soggiogare la natura e
rendersela docile schiava. Noi non dobbiamo figurarci queste
arcaiche migrazioni come l'esodo di un popolo con un determinato
obbiettivo di recarsi a questo od a quel paese, del quale forse non
aveva neppure contezza, come una spedizione lungamente preparata,
per andar ad impossessarsi di qualche lontana contrada. Le
migrazioni avvenivano lentamente, dapprima nella regione più
prossima, che offriva condizioni propizie d'esistenza, occupando
sempre nuove terre coll'accrescersi delle popolazioni, e così
spingendosi a poco a poco innanzi, finchè giungevano alle regioni
più remote. Questo movimento veniva alle volte accelerato dal
sopraggiungere di nuove orde vagabonde, che obbligavano i primi
venuti ad abbandonare le loro sedi, premendo cosi su altre genti,
che cacciate dalle loro dimore, dovevano continuare nella loro
peregrinazione verso altre piagge. Per tal modo il movimento si
propagava più rapido, come l'onde del mare, che l'una incalza l'altra, or procedendo in avanti, or sbandandosi da un lato o dall'altro, or retrocedendo verso le regioni già prima lasciate.
Facile
aprivasi il passaggio dall'Asia minore in Europa, tanto all'Ellesponto che al Bosforo tracico, ove i due continenti
appressandosi grandemente, non sono disgiunti che da uno
strettissimo braccio di mare. È quindi fuor di dubbio che le prime
trasmigrazioni seguissero queste vie, le quali conducevano alle
fertili pianure della Tracia, racchiusa dai Balcani e dalla catena
de' monti rodopei. E la storia e la tradizione ci presentano appunto
questo paese fin dai tempi remotissimi come il teatro, in cui si
avvicendarono continue migrazioni di popoli, sia verso occidente
alla Macedonia ed all'Epiro; sia verso meriggio alla Tessaglia ed
alla Grecia; sia a settentrione alle vallate dell'Istro e de'
numerosi suoi confluenti. Nè a quest'ultime difficile era l'accesso attraverso i valichi delle giogaje montuose, che in parecchi
luoghi sono bassissimi, oppure costeggiando le sponde del Ponto
Susino. Ed avanzando continuamente dopo aver occupato il centro
della penisola ed essersi spinte fino alle coste dell'Epiro e della
Dalmazia, quelle [125] genti arrivarono verso la metà del secondo
millennio anche alle soglie della nostra provincia. (99)
Nel loro lungo viaggio esse avevano seminato il
paese di centinaia e centinaia di
castellieri nei quali una parte
delle tribù migranti prendeva stabile dimora. E là sugli altipiani
montuosi della Bosnia e dell'Erzegovina, dischiusi recentemente in
sì splendida guisa, grazie ad un governo energico ed illuminato, (100) alle ricerche
scientifiche, noi troviamo costruzioni identiche alle nostre, con
una coltura analoga a quella che fiorì nelle nostre contrade. Lo
studio di que'
castellieri e delle vaste necropoli, ci dà la chiave
a sciogliere parecchie questioni etnografiche, dimostrandoci
eloquentemente le vie per le quali alla nostra provincia, ed alle
propinque regioni della Carniola, giunsero i nuovi abitanti. (101)
[126] Di questi ben
poche notizie ci lasciarono gli antichi storici greci e latini, i
quali, vissuti in tempi assai più tardi, non avevano in proposito
che nozioni molto vaghe e confuse. Fa d'uopo riflettere, che i più
vecchi di essi, (che del resto giungono appena al V secolo a. C.),
non possedevano alcuna precisa cognizione delle popolazioni, che
abitavano le parti settentrionali della penisola balcanica. Così p.
e. Erodoto, — nato nel 484 a. C. — dice che "pel tratto al di là
della Tracia verso borea, nessuno direbbe con certezza quali uomini
sieno gli abitanti" (V, 9). L'unico popolo, di cui avea sentito
parlare al di là dell'Istro, era quello dei siginni che
s'estendevano fino al [127] territorio de' veneti al mare Adriatico. Gli
autori che meglio conobbero queste regioni sono di epoca molto
posteriore allorchè erano già seguiti numerosi spostamenti e per la
violenta irruzione dei celti, le prische popolazioni trovavansi più
o meno disaggregate. Ne venne da ciò, che nei loro scritti
incontrarsi frequenti incertezze e contraddizioni circa alla
provenienza, alle sedi, all'etnografia dei vari popoli ed alla
limitazione dei loro territori. Così gli abitanti delle nostre
regioni erano per gli uni illirii, per gli altri traci, chi li
riguardava come provenienti dall'Asia minore, chi dalla Colchide,
chi persino dalle remote contrade dell'Armorica, facendoli giungere
ora per via di terra ora per mare. [102]
Se ancor oggigiorno col sussidio dell'antropologia riesce difficile
e non di rado addirittura impossibile il determinare l'estensione
etnografica di un popolo, precisandone i caratteri di razza, si
comprenderà di leggieri quanto vaghe ed incerte debbano essere state
in proposito le indicazioni degli antichi, specialmente allorchè
trattavasi di genti abitanti lontani paesi, ch'essi per lo più non
avevano neppur occasione di visitare. (103) Così sotto il nome di Traci e d'Illiri, non si designava
probabilmente un popolo determinato od una razza speciale, ma un
complesso di genti che occupavano una vasta zona della penisola
balcanica. (104) Erano traci gli abitanti della
regione [128] prossima alla Grecia, illiri invece quelli che più oltre
estendevansi a settentrione fino all'Istro. (105) Queste due grandi famiglie umane si frazionavano
naturalmente in una grande quantità di tribù, di cui ognuna portava
un nome speciale, e che in progresso di tempo andavano spesso
perdendo fin il ricordo dell'origine comune. Contingenze politiche
o conquiste da parte di altri popoli, concorrevano potentemente ad
accelerare questo processo di dissoluzione etnica, sicché coll'andare del tempo sempre più difficile riesciva il riconoscere
l'antico ceppo onde derivavano. Nelle nostre provincie gli autori
nominano popolazioni diverse, come veneti, istri, carni, giapidi e
liburni, senza contare altre suddivisioni quali i secussi, i
subocrini, gli atali, i menocaleni, ecc. (106)
Coll'estendersi del dominio romano e collo spostamento sempre
maggiore de' suoi limiti, pel quale venivano aggregati all'Italia
sempre nuovi territori, le antiche circoscrizioni subivano mutamenti
radicali, e quindi i vari popoli perdevano a poco a poco la loro
personalità speciale, fondendosi ed amalgamandosi nel grande
crogiuolo della latinità soverchiante. È compito della paletnologia
di ricercare le prische unità originarie, studiando le analogie e le
diversità che presentano le varie colture, e vagliando accuratamente
le parche notizie, che [129] ci lasciarono gli antichi scrittori,
scegliere quelle che meglio stanno in armonia con quanto
l'esplorazioni preistoriche ci vendono rivelando. Per tal modo sarà
possibile di trovare basi
più solide e più positive per la ricostruzione della storia
primitiva del genere umano, di quello che finora ci fosse dato col
solo sussidio d'incerte tradizioni o d'elucubrazioni, spesso
purtroppo fantastiche, della filologia comparata.
Io non trovo alcuna ragione per ammettere, almeno nei primi tempi,
una diversità etnica delle popolazioni, che vennero ad abitare la
nostra regione. Se i giapidi ed i liburni della nostra costa
orientale, per concorde giudizio degli autori, appartenevano alla
grande famiglia degli illiri, dobbiamo inferire che anche le genti
delle altre parti della nostra non vasta provincia fossero della
stessa schiatta, alla quale, del resto si ascrivevano eziandio i
veneti a' suoi confini occidentali. (107) Prescindendo dalle testimonianze storiche, questa unità ci viene
dimostrata eloquentemente dai risultati delle ricerche
paletnologiche, che ci rivelano rimarchevoli affinità nella loro
coltura. Cosi non sarà punto arbitrario l'assegnare a queste prische
popolazioni il nome di illiro-venete, col quale si designeranno
quelle tribù, che attraversata la penisola balcanica, si sparsero
per le nostre provincie e piegando verso occidente, occuparono la
vasta pianura che da loro più tardi fu detta Venezia, fino all'Adige
ed ai ridenti colli Euganei.
Pare che non molto numerosa fosse la prima immigrazione nelle
nostre provincie, scarse essendo le tracce che della stessa
[130]
[continua: pp. 130-196
+ Tavole] |
Note:
-
Ricordo in proposito un nostro distinto archeologo, solerte
indagatore di antiche tradizioni orientali, il quale dopo aver
visitato col
Burton il
castelliere di Romania presso Salvore, andava ripetendo che ci
occorreva una buona dose di fantasia per riconoscervi i resti di
antiche abitazioni.
- Questa carta conservasi inedita a
Parenzo.
- Provincia, III
, n. 5, p. 291.
- Che però egli abbia intravveduto la vera
essenza de'
castellieri, lo possiamo desumere da un brano di
lettera diretta ad
A. Covaz: "Li
castellari
che frequentissimi
si rinvengono in Istria non sono tutti romani, se ne rinvengono
dei popoli aborigeni che precedettero i romani per quell'uso che
fu conservato anche nel Carnio e nella Carsia dei Tabor e
dei Graidfeuer. I
Castellari
romani sono di migliore e
più sapiente costruzione."
(Osservatore triestino, 1870, N. 274.)
-
Pietro
Kandler
mori il 18 Gennaio 1872.
- Cosi scriveva il primo in una lettera del 17
Febbraio 1870 all'ingegnere Buzzi di
Trieste:
"Visitato poi partitamente un rilevante numero di coteste
rovine negli agri di
Albona, Cherso, Volosca,
Pisino,
Pola,
Dignano,
Rovigno e
Parenzo, vidi, o mi parve di vedere, che
non tutte sono cosa romana, che in alcune anzi nulla vi ha
di propriamente romano o d'altro popolo che possa dirsi
civile, che in altre sotto lo strato romano v'è qualche
cosa di ben più antico, di assai più antico, di quasi
ciclopico, a non dir primitivo; vidi, o mi parve di vedere,
in parecchie di esse le ultime orme di un popolo
antichissimo, povero di bisogni e di mezzi, rozzo,
selvaggio, che non aveva l'uso del metallo, che viveva,
pare, all'aperto e si trincerava in piccoli gruppi o tribù
sulle cime delle montagne, di preferenza sulle più alte."
Questa lettera venne pubblicata appena nel 1874 nel lavoro del
Burton di cui si parlerà più sotto. — La corrispondenza del
Covaz
venne inserita nella
Provincia, giornale ebdomadario che si pubblica a
Capodistria, del 1. Marzo 1870 (IV, N. 5, p. 486). Egli cosi vi
si esprime:
"I così detti
castellieri, che da venticinque anni a
questa parte si rinvennero sparsi per tutto il paese, e si
credette fossero fortilizi romani, perchè a cavaliere delle
strade e delle valli ed in posizioni dominanti; e che dopo
scopertine molti si ritennero luoghi ove pure stazionassero i
Celti, ora fu trovato essere questi contemporanei alle palafitte
o. abitazioni locustri dell'età della pietra. Codesti recinti a
vallo circolare vennero adunque piantati dai primi abitanti in
ogni buon punto del paese, poscia più o meno occupati dai Celti
ed utilizzati dai Romani, e su quelli ove chiamava
l'opportunità, si formarono in seguito le sedi stabili delle
popolazioni."
- Notes on the Castellieri or prehistoric
ruins of the Istrian peninsula. Anthrop. Soc. London, 1874,
con 4 tavole. Di questo lavoro venne pubblicata una versione
italiana dalla signora N. Gravisi-Madonizza.
Capodistria, 1877,
in cui vennero omesse le tavole ed alcune osservazioni (p.
25-27) che non suonavano troppo lusinghiere per le nostre
condizioni sociali. Un altro lavoretto sui nostri
castellieri fu
pubblicato dal
Burton
nel 1878 nel giornale dell'Anthropological Institute, col titolo
di
More Castellieri.
-
Burton: Journal Anthrop. Instit. London, 1878,
February.
- L'Elephas primigenius
Blumemb. fu trovato unitamente al Rhinoceros tichorhinus
Cuv. nelle cave di calcare cretaceo di Punta del Dente, laddove
dalle altre località non s'ebbero resti che di quest'ultimo.
Un'altra specie d'elefante di minori dimensioni (l'Elephas
antiquus
Falc. v. nana Acconci) venne raccolto nelle cave di
saldarne di
Dignano.
- Di queste fiere rinvenni gli avanzi in
parecchie
caverne
del nostro Carso. Il primo (Felis spelaea
Golf.) molto più raro, l'ebbi dalla caverna di Gabrovizza e
dalla grotta Tilde presso Brischie, l'altro (Ursus spelaeus
L.)
era assai diffuso nella nostra provincia, avendolo raccolto
oltre che nelle due
caverne
testè citate, in quella di Goregna
presso Povir, di Permani presso Sappiane, di S. Romualdo al
Canal di Leme, ed ultimamente in una fovea nella stessa città di
Rovigno. Un'altra specie affine (l'U. ligusticus Iss.)
viveva nei monti della regione subalpina, come ci fanno fede i
resti della caverna di Tribussa. (Marchesetti: Atti Mus.
Trieste,
1895, p. 265).
- Le nostre brecce ossifere ci conservarono
copiosi resti di cavalli, appartenenti a parecchie specie, come
Equus Stenonis affinis Wold., E. quajgoides affinis
Wold. ed E. caballus fossilis Rütim.
(Woldrich: Jahrb. geol. Reichsanst. XXXII., p. 440).
- Le indagini del Prof. Moser in alcune
grotte del Carso (Mitth. Anth. Ges. 1894 p. 127; Der Karst u.
s. Höhlen
p. 70) non mi sembrano eseguite con quelle cautele che si
richiedono in tali studi, nè le sue deduzioni circa ai
trogloditi dell'epoca glaciale, che avrebbero abitato le nostre
contrade, possono sostenere una rigorosa critica scientifica,
come venne rilevato già dal Much (Anth. Ges. 1. c. p. 128) e dal
Mortillet (Rev. d. l'Ec. d'Anth. Oct. 1895).
- Nella grotta di Cobillaglava fa d'uopo
attraversare un pozzo profondo ben 38 m. prima di giungere alla
caverna abitata nell'epoca neolitica (Marchesetti: Soc. Adr. di
Sc. Nat. 1879 p. 93.)
- Veggansi in proposito, tra altri, i lavori
di M. Müller:
Biographies of words and the home of the Aryans. 1888; De
Cara: Gli Hetei-Pelasgi 1894; Reinach: Le mirage
oriental
1893; Sergi: Origine e diffusione della stirpe
mediterranea,
1895; Tylor: The origin of Ariam, 1889; Poesche:
Die Arier, 1878; Penka: Die Herkunft der Arier, 1886;
Much: D. Heimat der Indogermanen, 1902, ecc.
- Contentique cibis nullo cogente coactis
Arbuteos fetus montanaque fraga legebant,
Cornaque et in duris haerentia mora rubetis, Et quae
deciderant patula Jovis arbore glandes. Ovid.
Metam. I, 103.
-
Sono tutte specie che vivono alla spiaggia od a
poca profondit
à.-
Nelle palafitte di Lubiana si raccolsero resti
tanto dell'uro
(Bos Bison
L.), quanto del Bos primigenius
Boj. (Deschmann: Sitzb. k. Akad. LXXXIV, p. 481; Mitth.
Anth. Ges. VIII, p. 76), il qual ultimo si rinvenne pure nella
grotta Tilde presso
Trieste. Oltre a questi animali viveva pure
colà l'elce
(Cervus Alces L.).
- Così trovansi oltre ai paesi già indicati
in Dalmazia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Rumenia, Russia
meridionale, Tansilvania, Ungheria,. Stiria, Austria sup. ed
inf., Moravia, Boemia, per tutta la Germania fino allo
Schleswig-Holstein, in Danimarca, Svezia, Norvegia, in Francia,
in Belgio e fino in Inghilterra.
- In Italia sono comuni i nomi di
Castellacioo
o Castelluccio, nei paesi tedeschi di Ringwall,
Burgstall, Heidenschanze, negli slavi di Gradaz, Gradische,
Hradzisze (in Boemia), Grodzisko (in Polonia) Gorodyszcze (in
Russia), Cfr. Behla: Vorgesch. Rundwälle,
p. 4, ecc.
- In Boemia, Sassonia, Lusazia, Vestfalia,
come pure nella Bretagna, Normandia e Scozia si riscontrano
castellieri a vallo vetrificato (verglaste Ringwälle,
vetrified walls), nei quali le rocce silicee onde sono
costruiti, vennero a mezzo del fuoco sottoposte ad una fusione
superficiale.
- Barnabei: Scavi nel territorio Falisco,
p. 39 f. 6, p. 46 f. 7,8, p. 47 f. 9. 22) La classica
descrizione che Omero fa della dimora di Eumeo, ci presenta un
castelliere quale meglio non potrebbe figurarsi, sicchè non
posso trattenermi dal citarla per esteso.
Trovollo assiso
nella prima entrata
D'un ampio e bello ed altamente estrutto
Recinto a un colle solitario in cima.
Il fabbricava Euméo con pietre tolte
Da una cava propinqua e.....
D'un'irta siepe ricingealo, e folto
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali frequenti vi piantava intorno.
Dodici v'eran dentro una appo l'altra
Comode stalle, che cinquanta a sera
Mandrie feconde ricevean ciascuna.
E presso lor, quando volgea la notte,
Quattro cani giacean pari a leoni.
Odis. XIV v. 7, trad. Pindemonte.
-
Atti e Mem. Soc. Istr. Arch. 1885, p. 54.
- Fa d'uopo osservare che molte indicazioni
venivano spesso fornite a
Kandler da persone non molto versate nelle discipline
archeologiche, e che quindi facilmente potevano trarlo in
errore, ov'egli non era in caso di controllarne l'esattezza.
- In realtà questo nome indicherebbe piuttosto
tumoli che solitamente non vi mancano.
- Nelle parti montuose del Friuli si usa pure
il nome di Gradiscata o di Gradiscutta, sebbene quest'ultimo
venga per lo più adoperato per designare un castello medioevale.
- Per precisarli ancora maggiormente vi
aggiungono talora l'aggettivo "vecchio" (Starigrad), o "dei pagani"
(Aidovskigrad).
- Il vero significato di gomila è
appunto tumolo.
- Deschmann und Hochstetter: Denkschr. k. Akad.
XLII, p. 3; Deschmann: Anth. Ges. Wien, X, p. 28.
- Forse anche altre colline, sulle quali si
dilatò poscia la nostra città, furono in origine
castellieri, ma a
noi non è dato provarlo perchè i lunghi secoli trascorsi vi hanno
apportato alterazioni si radicali, che affatto impossibile
riescirebbe qualsiasi ricerca in proposito. [end 24]
- La copia di corna cervine parte tagliate o
segate, parte ridotte a svariati utensili, come sgorbie,
punteruoli, raschiatoi, impugnature di ascie, manichi di
coltelli ecc. trovata quivi e nel propinquo
castelliere di
Cattinara, ci fa arguire che in quelle località esistessero
officine di questa industria. [end 25]
- I piani de'
castellieri sono tutti ridotti
alla scala di 1:5000 ed orientati per quanto possibile. In caso
diverso il nord è segnato con una freccia.
-
Boll. Soc. Adr. 1883, p. 307.
- Le misurazioni dei
castellieri da me
eseguite parte col metro parte col metodo più spiccio de' passi
(che in media dopo parecchie prove mi risultarono di 0.75 m.
l'uno), non aspirano certamente a precisione matematica, per la
quale sarebbero state necessarie lunghe e difficili operazioni
geodetiche. TV altronde per l'indole di questo lavoro, che ha lo
scopo di presentare la molteplicità delle forme de' nostri
castellieri, credo affatto indifferente un errore di qualche
metro in più od in meno.
[end 26]
- Per la sua forte posizione fu ridotto a
castello dai romani, dei quali numerose tombe rinvengonsi presso la
strada che conduce a Prosecco. H Buttazzoni volle quivi ricercare la
stazione di Avesica
(Arch. triest. II, p. 23, III, p. 53) dell'itinerario
d'Antonino. Nell'evo medio vi sorse il castello di Moncolano, (nome
che conserva tuttora una parte di Contovello), ch'ebbe non piccola
importanza nelle guerre coi veneti e del quale esistono ancora le
macerie presso all'attuale cimitero.
- Da quanto mi venne riferito, in un campo al
piede del
castelliere si sarebbero scoperte qualche anno fa
alcune tombe.
-
Atti Museo St. Nat., Trieste 1895 p. 249.
- Vi apersi cinque tombe, in cui gli scheletri
giacevano supini col capo rivolto a nord-ovest e con le braccia
incrociate sul ventre, senza alcuno schermo nè ai lati nè di sopra.
Solamente sotto la testa eravi posta una pietra. La prima tomba
conteneva uno scheletro bene conservato, fornito di una fibula di
bronzo a cerniera, di un orecchino d'argento, di una fusaiuola di
argilla e di un pezzo d'osso lavorato. Un'altra tomba aveva pure uno
scheletro in buono stato con una perla d'ambra, mentre delle altre
tre tombe, senza aggiunte, una non conteneva che la parte inferiore
dello scheletro, e due solamente resti di ossa decomposte. In
ciascuna delle cinque tombe si rinvennero frammenti di pentole
sfracellate di fine pasta.
- Marchesetti: Boll. Soc. Adr. 1879 p.
93, t. I.
- Le cassette formate da sfaldature calcari,
hanno una lunghezza di metri 2.30 e 2.50 ed una larghezza di 60 ad
80 centimetri. La prima tomba aperta, possedeva al fondo un'anfora
ed una lucerna d'argilla, la seconda una patera d'argilla rossa,
nella terza giacevano i resti di quattro individui, tra cui un
bambino, dei quali però uno solo orientato colla testa a ponente,
gli altri deposti senza alcun ordine. Di aggiunte non rinvenni che
un pezzo di vaso di vetro ed un coltello di ferro.
-
Boll. Soc. Adr. 1879, p. 101. T. II.
- Presso alla vetta di questo monte evvi una
caverna spaziosa di facile accesso, in cui possono rifuggiarsi
centinaja di
pecore. Senza dubbio anch'essa avrà servito da dimora
ai nostri trogloditi.
-
Kandler: Articolo sugli Acquedotti nella Raccolta delle
leggi, ordinanze e regolamenti speciali.
-
Kunz: Arch. Triest. IV, 371.
- Sopra una vetta propinqua esistono le
rovine del castello di Moccò, ove durante le fatali guerre
medioevali, vennero si sposso allo mani Triestini e Veneziani.
Poco discosto sorge il castello dei conti di Vinchumberg (Fünfenberg),
tramutato ora in albergo.
- Sebbene una delle vette dell'altipiano
sovrastante, che si stende verso Presnizza, porti il nome di
Soligrad, nome che farebbe supporre l'esistenza di un
castelliere,
non vi si riconosce assolutamente alcuna traccia. All'incontro sul
cocuzzolo poco distante, segnato con 471 metri al di sopra di
Petrigna, sorge un grande tumolo appiattito. Un paio di altri tumoli
minori giacciono alle falde del monte.
Kandler segna un
castelliere presso quest'ultimo villaggio:
ripetute accurate indagini su tutte l'eminenze circostanti, che
presentano per lo più dossi arrotondati e quindi poco propizi alla
fondazione, mi diedero un risultato del tutto negativo. Del pari non
ne potei trovare alcun vestigio a S. Maria di Occisla, che pur vi
avrebbe offerto una eccellente posizione, al pari di Becca.
- Non solamente a Popecchio, ma in parecchi
altri luoghi contermini, come ad Ospo, a Cernical, ad Ivanigrad,
ecc. furono nell'evo medio fortificate le
caverne, che
s'insinuano nelle pareti sottoposte ai terrazzi, a mezzo di
grossi muraglioni, che ne chiudevano l'entrata e dei quali
ancora attualmente si veggono gli avanzi più o meno bene
conservati.
- Le numerose tombe a cassetta del propinquo
monte di S. Michele sono d'epoca molto posteriore, quantunque
l'assoluta mancanza di aggiunte, renda impossibile una più
precisa determinazione cronologica.
-
Kandler dice che sullo scoglio sul quale oggidì sorge
Isola,
si trovasse amplissimo
castelliere, al pari che sul propinquo M.
Malio (Istria, III. p. 52). Sul primo, se anche esistito in
antico, più non se ne scorge traccia alcuna, causa le
costruzioni posteriori, sul secondo io non potei riscontrare che
resti di opere romane.
- Il vicino M. Varda, che per la notevole
elevazione (391 metri) e per la posizione dominante la valle
superiore del Risano, si sarebbe prestato egregiamente per un
castelliere (tanto più che il nome corrispondente a M. Guardia
parrebbe accennarvi), non presenta che un dosso a largo pianoro
ridotto a prato, senza alcuna traccia di antiche abitazioni.
- Il tratto orientale imboscato di questo
monte porta il nome di Gabrova Stran, l'opposto denudato di Na
Crasi.
-
Kandler segna pure un
castelliere a S. Primo, indottovi
probabilmente dal nome del santo, cui è dedicata la piccola
cappella presso alla quale sorge un tiglio colossale. Quantunque
il terriccio de' campi vi sia molto oscuro, non mi riesci
trovare alcuna traccia di vallo o di cocci.
- Sui primi oggetti raccolti in questa grotta
publicai una relazione nel Bollettino della Società Adriatica di
Trieste, 1889, p. 1, con 2 tav. e negli Atti della Commissione
centrale di Vienna 1889, p. 134.
- Il Castello dei pagani (Aidovski grad), che
viene notato da
Kandler
alla sponda sinistra del Recca e precisamente sul M. Borich
sopra Zaverhek, non è un
castelliere preistorico, ma un
enorme cumolo di pietre derivante dallo sfacelo totale d'un
castello, — forse romano, come farebbe supporre la denominazione
— del quale però non si riconosce più alcuna traccia di mura,
per guisa che si sarebbe tentati a riguardarlo piuttosto quale
un tumolo, se dagli scavi praticativi dai soliti cercatori di
tesori, non fosse risultato che la fabbrica era a cemento. Del
pari è un castello medioevale quello di Nigriniano
(Schwarzenegg), detto dai villici Podgrad.
- Aggiungendovi gli altri 6 che finora non
ebbi occasione di controllare, il loro numero ascenderebbe a
124. Tutti questi giacciono sul terreno arenaceo.
- Compio un grato dovere porgendo le più
sentite grazie ai signori Dr.
A. Amoroso e Prof. M. Calegari di
Parenzo, G. Cappellari di
Fiume, E. Furlani di
Pirano, Prof. A. Haracić
di
Lussino, Bar. G. Sartorio di
Trieste, Dr. A. Scampicchio di
Albona, Dr.
B. Schiavuzzi di
Pola e Mons. M. Silla di Tomai per avermi
comunicato l'esistenza di parecchi
castellieri.
- Per facilitare il rinvenimento dei singoli
castellieri sulla carta dello Stato Maggiore, ho creduto
opportuno aggiungervi l'indicazione dell'altezza della
relativa vetta, ov'essa trovasi notata. Del resto non riescirà
difficile il rintracciarli coll'aiuto della carta topografica
che vi aggiungo, se anche in scala più piccola (1,300,000).
-
Ancora più in alto, a Bret, presso il varco del
Predil, fu raccolta una bella spada di bronzo lunga 58 cent., che
nella forma dell'ansa ricorda quella di Bernate in provincia di
Como, (Bull, paletn. it. XI, T. 10) se anche non decorata si
riccamente. È un tipo comune, specialmente in Ungheria (Hampel:
Congrès Int. d'Autlirop. Budapest, II T. 21 a 25, T. 119, f. 28, T.
1 a 3; Much: Kunsth. Atl. T. 84, f. 3, 4: Mortillet: Musée préhist.
T.81, f. 908), che però trovasi pure in Germania (Lissavier:
Alterth. Prov. Westpreuss. T. 3,f. 3, 4; Praehist. Denkm. T. 3, f.
4, 5) ed in Svizzera (Mortillet: 1. c. f. 907; Heierli: Pfahlbauber.
IX, T. 3, f. 1, T. 21, f. 1; Wallishofen, T. 1, f. 1).
- Su questa necropoli non publicai finora che
brevi relazioni annuali nel Bollettino della Società Adriatica
di scienze naturali fin dal 1887. Spero di poter dare quanto
prima estesa descrizione degl'interessanti cimeli in essa
raccolti.
- Sulla carta dello Stato Magg. notato S.
Volario. — Ai piedi di questo
castelliere apresi un'ampia
caverna con resti copiosi dell'attività umana, tra cui
specialmente frammenti di pentole, che nella parte declive,
essendo dilavato il terriccio, giacciono in grande quantità alla
superfice e possonsi raccogliere senza alcuna fatica. Vi
rinvenni pure un ago di bronzo a cruna.
- Il
castelliere in realtà dovrebbe chiamarsii di S. Mauro,
dal nome della vecchia chiesa che vi è costruita, e come si
chiamava anche il villaggio prima che venisse ribattezzato col
nome di S. Lucia.
- Intorno a questa necropoli, divenuta ormai celebre, esiste già
un'estesa letteratura. Prescindendo da altre publicazioni minori,
noterò qui le mie due relazioni nel Bollettino della Società a
Necropoli di S. Lucia, 1893. Veggasi inoltre l'interessante lavoro
del Dr. Hörnes: Zur Chronologie der Gräber von Sta. Lucia ara
Isonzo, nell'Archiv f. Anthropologie, XXIII, p. 581. Sugli scavi
eseguiti dal Cav. Szombathy in questa necropoli pel Museo di Vienna,
venne da lui pubblicata una relazione negli Atti della Società
Antropologica di Vienna, XVII, 1887, p. 26.
- Forse anche al Tabor presso Rauna ed a S. Maria di Vittuglie
si potrebbero ritrovare vestigia di
castellieri. A S. Croce
presso Aidussina, quantunque la posizione ne sarebbe stata assai
opportuna, non potei accertarne l'esistenza.
- Gli oggetti relativi, tuttora inediti, sono conservati al Museo
di Gorizia.
- Tanto nel Museo di Gorizia che in quello di
Aquileja
conservansi parecchi oggetti delle varie epoche preistoriche,
raccolti qua e là nella pianura friulana.
- Nè sul M. Cornical presso Scipiani, nè sul colle segnato con
126 metri presso Matelich (e non Maletici come erroneamente
trovasi indicato nella carta dello Stato Magg.), ambidue notati
da
Kandler, evvi alcun
indizio di
castelliere, sebbene nella seconda località il
terriccio sia molto oscuro.
- Su questo castelliere venne
pubblicato un interessante lavoro dal Dr. Hörnes negli Atti
della Società antrop. di Vienna (XXIV, 1894, p. 155).
- Una bella ascia di bronzo a
piccole alette, eguale a quella riprodotta alla tav. 9, f. XI,
proveniente da questo
castelliere, trovasi al Museo di
Parenzo.
- Su questi
castellieri veggasi la
descrizione del
Benussi nel Programma del Ginnasio comunale di
Trieste, 1888, p. 107, con 2 tav.
- Sulla vetta segnata con B08
metri, ove
Kandler notava pure un
castelliere non potei
riconoscerne alcun vestigio. De Franceschi (Istria, I, 102) nota
inoltre un altro
castelliere presso Stefancich ed uno sul M.
Orliac sopra Lanischie, che sarebbe il più alto de' nostri
castellieri, giacente a 1106 metri. Resta però da verificarsi.
- Forse anche al villaggio di
Castellier eravi una stazione preistorica, come la farebbe
arguire il nome. Per altro nè io nò il Prof. Calegari, che
diligentemente esplorò il distretto ed al quale vado debitore di
parecchie preziose indicazioni, potemmo accertarne l'esistenza.
Andò probabilmente distrutto coi lavori agricoli.
- Sulle scoperte fatte nelle
necropoli di questi
castellieri diede un'esauriente relazione
il Dr. Amoroso negli Atti e Memorie della Società Archeol.
Istr., 1889, p. 226, con 10 tav.
- Altri nove tumoli, tra i quali
alcuni grandi, forniti di loculo, furono esplorati dalla Società
Archeologica istriana, del pari con magro risultato (Atti e
Memorie della Soc. Arch. Istr., 1894, p. 437; Bull, paletnit.
XX, p. 74).
- Marchesetti: Arch. Triest. 1883,
pag. 416, con una tav., Boll. Soc. Adr., 1883, p. 265, con 10
tav.; Moser: VII. Bericht Comm. k. Akad. 1884, p. 11, con 5
tav.; Amoroso: Atti e Mem. Soc. Arch. Istr., 1885, p. 51, con 9
tav.
- In questo
castelliere si
scopersero un pugnale ed un palstab di bronzo (Luciani: Bull,
paletn. it. VI, p. 31).
- Così
Kandler ne segna uno a
Smokliani ad est di Caschierga, uno al M. Burger a tramontana di
Vermo, uno a Novacco di Caldier, uno al Starigrad di
Gherdosella, uno ad Orlichi a sud di Grimalda ed uno Marcenigla a mezzogiorno di Verch, che restano ancora da
verificare.
- Corrisponde quindi anche dal
lato fisico al suo nome di Limen, d'onde deriva l'attuale nome
di Leme.
-
Kandler
nota pure
castellieri
sulle isole di S. Andrea e di S. Giovanni, ove però non mi
riesci di trovarne traccia.
- All'incontro sul M. S. Giorgio a
tramontana di Gimino, ove il
Kandler segnava un
castelliere, non
se ne scorge alcuna traccia.
-
Forse v'era pure un
castelliere a S. Giacomo (160 m.) presso al punto,
ove si biforcano le vie, che conducono a Marzana e Filippano.
-
Istria, II (1847) p. 275.
- Così, a quanto mi comunica il Dr. Scampicchio,
alcuni anni fa, costruendosi una cantina sotto il palazzo dell'antica famiglia
Coppe, furono trovati martelli di silice, punte di freccia, ascie, ecc. Del pari
atterrandosi la chiesa di S. Sergio presso il Duomo, si rinvennero molto al di
sotto delle sepolture medioevali, un'accetta di pietra dura, una lucerna ed una
pentola preistoriche.
- Tra queste fibule vanno notate due, egualmente
di grandi dimensioni (16 cent.), il cui piede invece di terminare in un bottone,
si allunga in un'appendice laminare un po' convessa. Di questa forma, mancante
nelle nostre grandi necropoli dell'Istria e del Goriziano, ne vidi alcune dal
sepolcreto di Ossero e dai recenti scavi di Nesazio. Se ne conosce pure qualcuna
da Jeserina nella Bosnia (Radimsky: Mitth. Bosnien Hrceg. III, p. 153, f. 452).
- Di questo trattò il Prof. Bellar nell'Argo
(1895, p. 162).
- Anche ad oriente di Fiume vi sono alcuni
castellieri, come quelli di Grobnicco, di S. Croce al di sopra di Martinschiza,
ecc.
- Istria, I, p. 101.
- Questo
castelliere è certamente esteso, misurando 670 metri di circonferenza,
non è però punto il più vasto di tutti quelli dell'Istria e della Carniola, come
recentemente asserì il Prof. Moser (Anthr. Ges. 1902, p. 46), essendovene un
gran numero di altri ben più colossali. Le tombe da me scavate parecchi anni fa
su questo e sul castelliere di Sappiane, non appartengono all'epoca del bronzo,
com'è quivi asserito, ma ad un tardo periodo della prima epoca del ferro.
-
Kandler
vi nota ancora: uno sopra Lissaz, uno detto Hlocigrad, lungo la
vecchia strada, che da Racizze conduce a Mune, ed uno presso Bergud.
- Su questi
castellieri della vallata superiore del Recca fu data esauriente
relazione da Müllner negli Atti della Commissione Centrale di Vienna, 1880, p.
XXI.
- Presso a questo
castelliere trovasi la grotta di Ghermosai con numerosi resti
trogloditici. — Sull'isola di Cherso vi sono parecchie altre
località, che a giudicare dal nome (Gradaz, Gradesco, Gracische, ecc.),
farebbero presupporre l'esistenza di
castellieri. La gita però da me intrapresa
al M. Graciste, tra Cherso e Podoschizza, diede un resultato del tutto negativo,
non trovandosene alcuna traccia su quella vetta formata di nude rocce
orribilmente corroso.
-
Ciò indusse il nostro
Kandler a credere, che questi argini fossero formati da sassi
gettativi alla rinfusa senz'alcun ordine, d'onde la
designazione da lui solitamente usata di valli tumultuari.
-
Non ha alcun fondamento
la supposizione che il clima di allora fosse gran fatto differente
dell'attuale. Tutt'al più l'esistenza di estese foreste sul
nostro Carso avrà prodotto una maggiore umidità, che però non può
ammettersi eccessiva, perche in tal caso le caverne non avrebbero
potuto prestarsi quali abitazioni ai trogloditi. La determinazione
delle varie qualità di legno, con cui venivano combusti i nostri
progenitori, mi dimostrò che le specie d'alberi che allora
concorrevano a formare i boschi, non erano punto diverse delle
presenti. Vi allignavano, come ora la quercia, il carpino, il
frassino, il pero, il tiglio, il noce, e nelle regioni subalpine l'abete, il larice, il faggio. Anche gli animali erano circa gli
stessi, aggiungendovisi il cervo, il daino ed il cignale, scomparsi
non per mutamento di clima, ma pel diradamento delle selve. Sappiamo
che il primo si mantenne nella nostra provincia fino al principio
dell'evo medio, il secondo esiste tuttora, se anche in istato
semidomestico nel parco di lecci di Duino. Forse tutt'al più i
venti saranno stati un po' meno impetuosi in causa delle vaste
boscaglie, sebbene vari autori dell'antichità ci descrivano gli
effetti della nostra Bora con si vivi colori, che dobbiamo ammettere
aver essa spirato duemila anni fa con altrettanta violenza che al
giorno d'oggi. Tanto gagliardo era il vento, che secondo Procopio (De
bello goth. L. I, c. 15) "equitem cum equo in sublime rapiat."
Ed è celebre l'irresistibile procella di borea, che sorse
improvvisa durante la battaglia al Vippacco tra Teodosio ed Eugenio,
e che decise la vittoria della nuova fede della Croce sulle deità
ruinanti dell'Olimpo pagano. Della sua veemenza abbiamo una
eloquente descrizione nella Historia Miscella, (L. XIII, p.
88-89) : "Turbo ventorum vehemens a parte Theodosii in ora hostium
pectoraque illisis graviter scutis everberabat, nunc impressis
pertinaciter obstricta claudebat, nunc avulsus violenter destituta
nudabat nunc oppositis jugiter in terga tendebat, etc." E
poeticamente in Claudiano (De III. Cons. Honorii, v. 93 e
seg.)
Te propter gelidis Aquilo de
monte procellis
|
Obruit adversas acies
revolutaque tela
|
Vertit in auctores et turbine
repulit hastas. |
O nimirum dilette Deo, cui fundit ab antris |
Aeolus armatas hiemes, cui militat aether |
Et conjurati veniunt ad classica venti. |
|
- Se si considera
che le più illustri e potenti città di quest'epoche remote, non
giungevano neppure ad un chilometro di circonferenza, bisogna
convenire che i nostri
castellieri possono riguardarsi a tutto
diritto quali costruzioni di grande importanza. Cosi, secondo
Tsountas e Mannet (The Mycenaean Age p. 365), la II città
di Troja, riferibile dai calcoli di Dòrpfeld al 2500 a 3000 a.
C. non aveva che una circonferenza di 350 metri (con un'area di
8000 metri quadrati), la VI città (1500 a 1000 a. C.) di 500
metri (con un'area di 20,000 m. q.), Tirinto di 700 metri (con
un'area di 20.000 m. q.), l'Acropoli di Atene di 700 metri (con
un'area di 25.000 m. q.) e Micene di 900 m. (con un'area di
30.000 m. q.).
-
Non
bisogna giudicare i nostri castricoli alla stregua della civiltà
classica, nella quale predominava anzitutto la tendenza della
pulizia. Al pari degli abitanti delle terramare anche quelli dei
castellieri vivevano in mezzo all'immondizie, che si andavano
ammonticchiando intorno a loro. Di queste condizioni primitive noi
scorgiamo le tracce in molti luoghi dei poemi omerici ed in vari
riti religiosi, conservatisi anche in tempi posteriori.
- In molti
castellieri si veggono resti di
cisterne, talora benissimo conservate, che però sono di epoca più
tarda, parte romane, parte anche medioevali.
- Nelle grandi siccità, allorché le
cisterne sono completamente
asciutte e gli stagni non offrono che un'acqua limacciosa appena
bastevole per gli animali, gli abitanti del nostro Carso si recano
ad attingerla con botti fino al lontano Timavo od al Vippacco,
intraprendendo talora un viaggio di 40 e più chilometri. Così quelli
della costa istriana ricorrono al fiume Quieto, al quale si recano
con barche, vendendo poscia l'acqua a 10 e 20 centesimi il secchio.
Ed a
Trieste stessa, non ostante l'acquedotto ed i numerosi progetti
che da quasi un secolo si succedono, si deve giornalmente assistere,
e non solo d'estate, al triste spettacolo di quelle lunghe file di
carri che si recano con botti a fornire l'acqua necessaria ad interi
quartieri popolari del suburbio. — L'abbeveramento poi degli animali
e specialmente delle
pecore, nei luoghi posti a poca distanza dalle
rive, non richiede cure speciali, usandosi spingerli semplicemente
al mare per dissetarli. Del resto sulle isole del Quarnero vidi le
pecore che spesso vengono lasciate scorazzare libere, poi monti in
istato semiselvaggio, accontentarsi della rugiada che vanno
avidamente lambendo,
- Ammesso che le loro
capanne fossero coperte di paglia e quindi sfornite di grondaje,
non riesciva tuttavia difficile la raccolta di acqua,
sottoponendovi un pezzo di legno un po' incavato, che ne faceva
le veci e che conduceva l'acqua ad un recipiente postovi sotto.
Questo modo alquanto primitivo, vidi usato ancor al presente in
alcune località dell'altipiano calcare di Gorizia, prive di
sorgenti, che in tal guisa si procurano acqua potabile se anche
non di prima qualità.
- Oltre ai vasi d'argilla, i quali a dir il vero per la loro
porosità non dovevano prestarsi molto bene alla conservazione di
liquidi, é probabile che si avessero anche grandi utensili di legno,
come botti, secchie, ecc., i quali naturalmente andarono
completamente perduti. La mancanza di oggetti di legno forma
purtroppo una sensibile lacuna nelle nostre cognizioni
paletnologiche, non essendosene conservati in generale che quelli di
piccole dimensioni ed anche questi solo eccezionalmente nelle
palafitte e nelle terramare, o quando per esser stati parzialmente
carbonizzati, poterono sfuggire alla totale decomposizione.
- Smuovendosi il
terreno per piantarvi viti, apparve una serie di buchi quadrilateri
(1.20 x 0.80 metri) scavati nella roccia, disposti a tre a tre a
circa eguali distanze, dai quali partivano dei canaletti verso una
vaschetta o piccola cisterna rotonda, del diametro di 1.80 metri e
profonda 50 centimetri sita più in basso. Evidentemente que' buchi
erano destinati a raccogliere l'acqua defluente dai tetti,
trasmettendola a mezzo de' canali al serbatoio più grande.
- Le varie
migrazioni avvenute in tempi remotissimi nelle nostre contrade, sono
adombrate in parecchi miti e tradizioni, come in quelli di Antenore,
di Diomede, di Giasone e Medea, ecc. Ed anche alle tradizioni ed al
mito spetta il loro diritto, perché, come giustamente osserva
Contzen (Wand. d. Celten, 67), essi devono necessariamente riempire
le lacune, quando i monumenti di pietra e di pergamena ci
abbandonano e senza il loro sussidio non é possibile ottenere un
tutto armonico.
- Questa lode non può negarsi certamente al governo di quelle due
province, e chiunque ebbe occasione di visitarle, potè facilmente
persuadersi dei grandi progressi ch'esse fecero in tempo sì breve.
Il vantaggio di non dipendere dai capricci parlamentari, che in
altri paesi inceppano, purtroppo, l'attuazione de' più utili e
necessari provvedimenti, ha posto il governo delle due province
occupate nella fortunata condizione di poter introdurvi tutte quelle
innovazioni e quei miglioramenti, che fossero atti a trasformare
rapidamente in un paese civile quelle contrade immiserite durante la
lunga dominazione turca. Quanto in altri paesi si attende dall'attività privata, vi é non solo promosso ma attivato dal governo,
come ce lo attestano le numerose industrie da esso fondate. All'esplorazione scientifica viene dato il più largo appoggio si morale
che materiale, e le ricche collezioni che si ammirano nel museo
provinciale di Sarajevo, e le numerose pubblicazioni che
continuamente si susseguono, ci dimostrano la serietà de' propositi
ed i felici risultati ottenuti: Nell'interesse della civiltà e
della scienza sarebbe davvero desiderabile una simile occupazione
anche per altre regioni della penisola balcanica!
- Le
splendide scoperte paletnologiche fatte recentemente nella Bosnia ed
Erzegovina, (publicate principalmente nel Glasnik di Sarajevo, di
cui si hanno già 14 volumi, e nelle Wissenschaftliche Mittheilungen
1893 a 1901, delle quali sono usciti finora sette grossi volumi,
come pure qua e là negli Atti della Società antropologica di
Vienna), sono di tanto maggiore importanza in quanto che per le
condizioni primitive o malsicure in cui si trovano gli altri stati
balcanici, assai difficili e malagevoli vi riescono le indagini e di
conseguenza scarsissime sono le cognizioni che s'hanno in proposito.
Alcune poche esplorazioni vennero praticate in Serbia, in Rumenía ed
in Bulgaria, coronate da interessanti resultati, ma quanti preziosi
documenti non rinserrano gl'innumeri tumoli della Tracia, della
Macedonia e della Tessaglia, quante rivelazioni non ci verranno
fornite dalle classiche regioni dell'Albania? Frattanto dobbiamo
salutare con viva soddisfazione i resultati scientifici finora
ottenuti, che vengono a dimostrarci eloquentemente il nesso che
intercede tra la coltura delle due sponde dell'Adriatico e le vie
seguite nella sua diffusione. Quanto Helbig, già un ventennio fa,
aveva intraveduto in base ai pochi oggetti isolati comuni alla
civiltà italica ed orientale, che allora si conoscevano, che cioè le
relazioni fossero seguite per via di terra, attraverso i paesi posti
intorno al golfo istriano (Hom. Epos., p. 62), siamo in grado di
affermarlo con maggior sicurezza ora, che possiamo raffrontare il
complesso delle colture, che si svolgevano nelle due penisole. E non
solo ciò, ma noi vediamo la civiltà della Bosnia ed Erzegovina
collegarsi intimamente con quella ch'era diffusa nell'Asia minore
e che ora risorge dagli strati preellenici della Grecia. Così noi vi
troviamo caverne con resti neolitici, identici a quelli delle nostre
regioni, e v'incontriamo estese palafitte con avanzi, che ricordano
quelli della Carniola, del Veneto e della Lombardia, numerosissimi
castellieri che per nulla differiscono dai nostri, vaste necropoli
il cui ricco contenuto ci rivela affinità rimarchevoli non solo con
quelle del nostro paese, ma del resto dell'Italia superiore e
specialmente delle coste occidentali dell'Adriatico.
-
Sulle varie opinioni in proposito
veggasi il diligentissimo lavoro del
Benussi, L'Istria sino ad
Augusto, p. 61 e seg., pubblicato nell'Archeografo Triestino,
VIII-XI 1880-1883).
- I greci ed i latini in
generale non si curavano gran fatto di stabilire con precisione le
differenze etniche dei vari popoli, ch'essi riguardavano quali
barbari, accontentandosi per lo più di notare semplicemente alcune
delle loro particolarità principali. Meno ancora si occupavano delle
lingue da loro parlate, ch'essi probabilmente non conoscevano
affatto e delle quali ci conservarono tutt'al più alcune poche
parole. Così dell'antica lingua veneta ci furono trasmesse da
Plinio (XXVI, 7) e da Columella (VI, 27) due sole voci, cotonea,
(cotogno), e ceva (vacca), che forse neppure esse sono proprie
dell'idioma veneto.
- Secondo le più recenti ricerche il nome di Traci non
dinota una stirpe a sè, ma abbraccia piuttosto tutte quelle stirpi
che dall'aspro settentrione calarono nella Grecia e perciò dai
greci erano denominati Traci. Cosi non limitando il loro territorio
ai confini della Tracia, si comprende come Erodoto abbia potuto dire
che la nazione de' Traci dopo gl'Indi, è massima tra gli uomini
tutti (V, 3), opinione condivisa pure da Pausania, il quale dice che
niun'altra regione ha più moltitudine d'uomini eccetto i Celti (I,
9), e da Tucidide che li fa superar unicamente dagli Sciti (II,
97).
- I greci chiamavano illiri tutti i popoli i quali al di là
della Macedonia e della Tracia si stesero dai Caoni e dai
Tesprozi, fino al fiume Danubio (Appiano: Guerre illir. c. 1).
Vastissimo era il loro territorio e come doveva accadere in un
paese tanto ampio, molti i rami erano degli illiri (Op. c. cap.
3), tra i quali secondo lo stesso autore, i Triballi, gli
Scordisci, gli Ardiei, i Palari, i Dalmati, i Liburni, i
Giapidi, i Pannoni, i Rezi, i Norici ed i Misi d'Europa.
- Molti altri popoli
abitavano secondo
Plinio (L. III, 20) la nostra regione, ma questi
ne erano i principali (illustres).
-
Kandler
e
Benussi dando il
maggior peso alle affermazioni di Apollodoro (Müll. Frag. hist. gr.
I, 451) e di Scimno Chio (Peripl. v. 391) sostengono che gli
istriani fossero traci: Nota però giustamente lo Zippel (Röm.
Herrsch. p., 7), che queste notizie non ci danno sufficiente motivo
per dividere gl'istriani dagli illirî, tanto più che alle
indicazioni dei due surriferiti autori, parecchi altri si possono
contrapporre come Strabone (VII, 5), Pomponio Mela (II, 57), Appiano
(Bell. illyr. 8) ecc. cui si potrebbe aggiungere anche Erodoto (I,
196) che designa i veneti quali illirî. Non bisogna dimenticare che
gli antichi non giudicavano per lo più con criteri etnografici, ma
politici, soggetti a molteplici spostamenti in seguito alle varie
conquiste.
Tratto da:
- Atti del
Museo civico di storia naturale di Trieste, Volume 10, Arti
grafiche F. Cappelli, 1903, 206 pages + illustrations. Google
books -
https://books.google.com/books?id=f7oWAAAAYAAJ&source=gbs_navlinks_s
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Created: Sunday, January 31, 2010; Last Updated:
Tuesday, December 12, 2023
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