I castellieri preistorici di Trieste e della regione Giulia

del Dr. Carlo Marchesetti

[Tratto da Atti del Museo civico di storia naturale. Volume IV. della Serie Nuova - 1903.]

ra i monumenti lasciatici dai nostri maggiori, posto  ragguardevolissimo occupano i castellieri, sebbene finora assai poco venissero studiati. Eppure anch'essi, al pari delle palafitte e delle terramare, hanno diritto a tutta la nostra attenzione, contenendo documenti di grande importanza per ricostruire la storia di epoche lontanissime, delle quali nessun autore ci ha tramandato notizie. Secondo la natura del paese che sceglieva a sua dimora, l'uomo doveva adattare le sue costruzioni: ove c'erano laghi si sviluppavano le palafitte, che essendo circondate dall'acqua, porgevano il duplice vantaggio della sicurezza contro gli attacchi nemici e della facilità di procurarsi i necessari mezzi di sussistenza nei molteplici prodotti acquatici sia animali che vegetali; ove stendevansi vaste pianure, soggette talora ad inondazioni, si ricorreva ad analoghe costruzioni, ma all'asciutto, alle terramare, e per difenderle maggiormente, si circondavano d'un fosso; ove, come da noi, la regione era montuosa, si presceglievano le vette emergenti, cingendole di robuste mura e rendendole per tal modo atte a resistere agli urti più formidabili. E su questi monti fortificati, su questi castellieri, i nostri [2] progenitori trassero la loro esistenza per migliaia e migliaia di anni: le generazioni si succedettero alle generazioni, depositando le loro reliquie nel grembo della terra, quasi in sacro volume, scritto a caratteri indelebili, che noi appena ora cominciamo a sfogliare e comprendere.

Sono oramai trascorsi quasi sei lustri dacchè in compagnia di Riccardo Burton, di Tomaso Luciani e di Muzio Tommasini, io visitai per la prima volta un castelliere, quello di Cunzi presso Albona. Queste costruzioni particolari erano allora avvolte nel mistero, e chi ne parlava veniva tacciato di visionario. (1) A quel tempo sulla nostra preistoria incombeva ancora la nebbia più fitta, attraverso la quale ci giungevano solo poche notizie vaghe ed incerte, adombrate per lo più da qualche mito favoloso. Nessuno aveva ancora interrogato i misteri delle caverne, le quali in tanta copia perforano le viscere de' nostri monti, nessuno aveva esplorato i recinti che incoronano le vette de' nostri monti, nessuno aveva osato violare le vaste necropoli, in cui i nostri padri dormivano quietamente i loro sonni più volte millennari, conservandoci gelosamente tante pagine smarrite del nostro remotissimo passato. Gli archeologi classici, usi per lo più a studiare la storia al tavolino, suggendo la scienza quasi esclusivamente dai libri, riguardavano con una specie di sdegnosa noncuranza tutto quello che non era romano o riferivano a questo popolo tutti i monumenti antichi della nostra provincia.  Lo stesso Kandler. l'accuratissimo esploratore dell'Istria, il padre della nostra archeologia, tutto compreso della grandezza della civiltà romana e de' gloriosi monumenti, ch'essa per ogni dove aveva seminato nella nostra provincia, non ebbe una visione chiara degli avanzi che ci lasciarono le popolazioni anteriori. Devesi però notare che al tempo del Kandler la paletnologia era ancora una scienza bambina, che appena nell'Italia settentrionale e centrale tentava i primi passi [3] incerti, rovistando nei tumuli e nelle terremare o pescando gli incompresi documenti dal fondo dei laghi. E quindi naturale che sebbene avesse visitato un considerevole numero di castellieri, notandoli nella sua grande carta archeologica dell'Istria, (2) egli li riguardasse come costruzioni romane. Ed ancora nel 1869 egli esprimeva in tal modo la sua opinione in proposito.

"Ove esistono strade romane o luoghi abitati in antico, si rinvengono i cosi detti Castellari, i quali sono recinti rotondi, circondati da vallo tumultuario, di rado da muraglie, del diametro solito di quaranta tese viennesi, talvolta hanno doppia, talvolta tripla cinta a distanza di 25 tese, anche di 60. Nell'interno il terriccio è nerastro, quasi terra da orti, vi si rinvengono armi, proiettili rotondi di cotto della grandezza di noci, con un buco per passarvi la funicella, si rinvengono cotti, stoviglie di cotto, idoletti di metallo. Talvolta entro il recinto sta cappella cristiana, spesso contengono cisterne.

Siffatti Castellari si costruivano lungo le strade, su altura, a distanza di due miglia, due miglia e mezzo. Talvolta ogni quinto Castellaro è maggiore. Servivano a stazione di soldati per presidiare le strade; servivano anche di rifugio a coloni per le persone e per le derrate in caso di scorrerie di nemici; se murati, si vede talvolta la rottura patita per assaltamento.

La loro distribuzione lungo le vie è sì regolare, che i soli Castellari indicano la direzione delle strade, ove queste sieno sparite.

La serie di questi Castellari guida anche ai porti di mare frequentati; i Castellari erano pure destinati alla custodia de' porti.

Avverto che i Castellari hanno talvolta forma quadrata, ed in tale caso sono murati, talvolta (ciò mi è accaduto raramente), il quadrato principale ha intorno a sè ed alli angoli, quadrati minori, che sono pure Castellari di piccole dimensioni.

Questi Castellari, ove sieno collocati in più serie, hanno il loro centro, dal quale si dipartono come fossero centri di [4] raggi, il che potrebbe essere di Caroiba, che è Quadruvio, centro di strada.

Avverto che dai Castellari si davano segnali a modo di telegrafo, di giorno con fumo, di notte con fuoco; così che il segnale passava celeremente da punti distanti, anche molto distanti; telegrafi che durarono nella Carniola e si rinnovarono ai tempi delle scorrerie turchesche." (3)

Ho creduto opportuno citare per esteso le parole dell'illustre archeologo, per dimostrare quale fosse la sua opinione intorno ai nostri castellieri, opinione che le ricerche posteriori hanno dimostrato in buona parte erronee. (4) Lungo tempo prima che la nostra provincia fosse percorsa da una rete di strade, esistevano già i castellieri, nè servivano punto da semplici stazioni di soldati per tutelare le comunicazioni. Kandler ha evidentemente confuso i castri romani coi castellieri preistorici, a ciò forse tratto dalla volgare designazione comune degli stessi. La loro disposizione non era sì regolare com'egli supponeva, non trovandosi essi a determinate distanze, perchè non erano costruiti allo scopo precipuo di trasmettersi l'un l'altro segnali, il che non aveva che un'importanza secondaria. Del pari la loro costruzione e le loro dimensioni non sono sì uniformi come le ammetteva il nostro Kandler, dipendendo esse anzitutto dalle condizioni locali del terreno e dal maggiore o minore numero di famiglie, che vi andavano a coabitare. Partendo da una falsa premessa, era naturale ch'egli cercasse in tutti i modi di coordinarvi logicamente le osservazioni, purtroppo alquanto superficiali, che vi aveva fatte, per darsi ragione delle varie particolarità offerte dai castellieri.

Nè gli fu dato ricredersi, dappoichè poco appresso l'inesorabile parca troncò quella esistenza attivissima, tutta dedicata [5] alla ricerca delle patrie antichità. (5) Nè è punto da mettersi in dubbio che se crudo morbo non l'avesse inchiodato per lungo tempo al letto, egli col suo occhio acutissimo, sarebbe giunto a conoscere la vera essenza de' nostri castellieri ed a discernere le varie epoche che vi si sovrapposero.

Questo merito spetta a due solerti indagatori della nostra storia, al prenominato Tomaso Luciani di Albona e ad Antonio Covaz di Pisino, che fin dal 1870 esposero la loro opinione in proposito. (6) Essi riconobbero che quelle costruzioni, che generalmente si ascrivevano ai romani, erano di epoca ben anteriore, appartenenti ad un popolo che abitava la nostra provincia molto prima che le aquile romane vi giungessero, apportatrici di una novella civiltà. Essi non videro nei castellieri soltanto semplici fortilizi o luoghi di rifugio temporaneo, ma le stabili [6] dimore di genti, che per lungo volgere di secoli vi si succedettero fin dalle epoche più remote.

Se non che l'opinione di questi valent'uomini, espressa modestamente in una lettera privata ed in un giornale di provincia, non poteva certamente richiamare l'attenzione degli studiosi sui nostri castellieri. A ciò provvide l'illustre Riccardo Burton, l'ardito esploratore dell'Africa e per molti anni console britannico a Trieste, che nel 1874 presentò un dotto lavoro alla Società antropologica di Londra, parlando in generale de' nostri castellieri e descrivendo più diffusamente quello già nominato di Cunzi, ed il Moncastello di Cervera nel distretto di Parenzo. (7)

Tuttavia lo studio de' castellieri rimase ancora per lungo tempo negletto, come in generale tutto ciò che riguardava le epoche preistoriche della nostra provincia.

Appena dopo il 1883 s'iniziò la loro vera esplorazione scientifica, che non accontentandosi di rilevarne semplicemente la forma e di raccogliere gli scarsi avanzi, che casualmente vi si trovavano sparsi alla superfice, si mise attivamente a ricercare nel loro seno le reliquie delle spente generazioni, spiando i loro riti, i loro costumi, la loro civiltà; che non s'arrestò dinanzi ai campi della morte, ma frugando per entro alle tombe ed interrogando quelle fredde ceneri, le costrinse a rivelarci un mondo ignorato, a popolarlo di genti travolte nell'oblìo dei secoli, a farci vivere della loro vita. Perchè lo studio de' nostri castellieri è la storia primitiva del nostro paese, i cui documenti non si trovano in alcun archivio, ma ad uno ad uno devono venir strappati faticosamente al grembo geloso della terra. Pur troppo moltissimi di essi andarono inesorabilmente perduti, altri sono siffattamente monchi, che a prima vista sembrano del tutto indecifrabili, e richieggono studi accuratissimi [7] e pazienti e confronti non pochi, per essere completati e resi intelligibili. Come il geologo, che da poche ossa frammentate o da qualche impronta appena percettibile, deve ricomporre gli animali e le piante che avvivavano l'alba della creazione, così il paletnologo è spesso costretto da pochi avanzi dell'uomo e delle sue industrie, a ricostruire stentatamente e con lungo lavorìo la storia smarrita del nostro passato. A lui non monete, non iscrizioni, non memorie storiche vengono a facilitare l'arduo lavoro: egli deve limitarsi unicamente alle proprie osservazioni, interrogando gli avanzi che giacciono qua e là dispersi o che la sua zappa fa tornare alla luce.

Tuttavia è con intima soddisfazione che possiamo riguardare i risultati ottenuti da questi pochi lustri di ricerche. Si constatò una numerosa popolazione di trogloditi, dei quali si negava persino l'esistenza;(8) ai castellieri già noti se ne aggiunsero centinaia di nuovi finora sconosciuti; si scopersero vastissime necropoli, nelle quali si sterrarono oltre a 9000 tombe, traendo alla luce un materiale vario, ricco, multiforme, che fu una vera rivelazione insperata, uno sprazzo di luce scintillante nella densa tenebria che ci avvolgeva.

Nè lo studio dei castellieri può andare disgiunto da quello delle necropoli: le dimore dei morti sono il complemento indispensabile di quelle dei vivi. Anzi da quelle noi possiamo trarre un numero assai più grande ed importante di documenti, che ben a ragione la paletnologia fu definita la scienza delle tombe. Quanto si rinviene nei castellieri non sono che i rifiuti gettati via come inservibili od i pochi oggetti casualmente perduti, un materiale quindi frammentato, incompleto; nelle necropoli invece noi troviamo il ricco corredo funerario, onde la pietà de' superstiti forniva i defunti, i loro vasi, le loro armi, i loro ornamenti, tuttociò insomma che possedevano in vita. E questo corredo fu deposto talora con tanta cura e venne circondato e coperto da pietre, che si conservò egregiamente, quasichè vi fosse stato appena sotterrato, presentandoci tuttora inalterati persino gli oggetti più labili, le ampolle di legno, i più fini tessuti.

[8] È quindi naturale che finora si prescegliesse l'esplorazione dei cimiteri, come quelli che forniscono più ricco bottino, e si negligessero i castellieri, il cui scavo per la povertà e l'uniformità degli oggetti, riesce di gran lunga meno attraente e meno produttivo. Per conoscere più esattamente la vita che si agitava in quelle prime dimore epigee dell'uomo, farebbe mestieri intraprendere estesi scavi in un gran numero di castellieri, notando esattamente ogni più piccola particolarità: lavoro oltremodo lungo e faticoso, richiedente mezzi di cui pur troppo non possiamo disporre. Il grande numero di essi nella nostra provincia, disseminati dalle alpi all'estreme isole del Quarnero, rende assai difficile la loro completa e sistematica esplorazione, giacendo molti di essi in luoghi remoti ed inospiti. Tuttavia gli scavi che potei finora eseguire e che amerei chiamare semplici assaggi, ci hanno fornito parecchie interessanti notizie intorno ai nostri castricoli ed ai loro costumi, e quindi non credo fuor di luogo di darne una relazione, tanto più che fino ad oggi non esiste alcuna opera generale in proposito. Il lavoro è tutt'altro che ultimato, dappoich'esso eccede le forze del singolo, e domanda l'opera concorde di molti esploratori ed il sussidio di larghi mezzi. S'investigarono sì parecchi castellieri, si apersero migliaia di tombe, traendone alla luce preziosi documenti, ma quante rivelazioni non sono da attendersi da uno scavo sistematico dei tanti castellieri, non tocchi per anco dalla zappa del paletnologo, dalle innumerevoli necropoli celate sotto le zolle protettrici! È questo dunque un primo tentativo di scrivere la storia remota del nostro paese in base ai resultati ottenuti colle ricerche paletnologiche, una storia senza avvenimenti particolari, in cui l'uomo entra come quantità generica senza individualità speciale, senza nomi, senza eroi; una storia che è rappresentata quasi unicamente dallo svolgersi della coltura e delle sue fasi progressive.

Ed io riguarderò quale il più gradito guiderdone alle ardue fatiche sopportate, se il mio lavoro varrà a richiamare l'attenzione degli studiosi su questi venerandi monumenti, in cui si compendia tanta parte del nostro non inglorioso passato.

[9] Prima di trattare dei castellieri non sarà superfluo di volgere un rapido sguardo; ai primi abitatori della nostra provincia. È molto dubbio se l'uomo vi fosse già arrivato al tempo, che vide aggirarsi per le nostre contrade il mammut ed il rinoceronte, dei quali si rinvennero le spoglie in parecchi luoghi, come ad Opicina presso Trieste, a Punta del Dente presso Cittanova, a Dignano, a Preluca non lungi da Volosca, a Gorizia, sull'isola di Lussino. (9) Nessun fatto è venuto finora a provarci con sicurezza s'egli contendesse il dominio delle loro dimore tenebrose al leone ed all'orso delle caverne (10) e se, indomito cacciatore, si lanciasse dietro all'impaurite torme di cavalli selvaggi, che pascevano sui nostri altipiani e le cui ossa accatastate nelle fovee perpendicolari del Carso, ci raccontano delle loro fughe impazzate e del loro precipitare nelle voragini del suolo. (11)

Ad ogni modo non lungo tempo era trascorso dal giorno, che gli antri avevano echeggiato all'ultimo bramito dell'orso delle caverne, allorchè il nuovo signore apparve al loro limitare per prenderne possesso. Poche ed incerte sono ancora le tracce [10] dell'uomo archeolitico nella nostra provincia, del quale solo nella caverna di S. Canziano trovammo alcuni avanzi in uno strato di cenere e carboni alla profondità di 5 metri, contenente selci scheggiate e resti d'animali esclusivamente selvaggi, senza alcuna traccia di manufatti d'argilla. Qualche accenno si ebbe pure nella caverna di Gabrovizza, ove raccolsi alcune falangi tagliate longitudinalmente dell'orso speleo. (12) Non è però da dubitarsi che continuando assiduamente le esplorazioni degli strati più profondi delle caverne, si rinvengano altre e più sicure prove di que' prischi abitatori.

All'incontro nell'epoca neolitica noi troviamo già abitata la maggior parte delle nostre spelonche. Una regione calcare, come la nostra, ove il suolo è tutto foracchiato, doveva offrire certamente un gradito soggiorno a quei primi nomadi cacciatori o pastori, venuti nelle nostre contrade, allettandoli a prendervi stabile dimora. Qui abitazioni ampie, spaziose, tiepide d'inverno, porgenti dolce frescura nei calori estivi; qui gemitìo continuo d'acqua, prezioso dono nelle siccità perduranti, in un paese privo di ruscelli e di sorgenti; qui negli oscuri recessi ignorati sicurezza personale nelle incursioni di nemici, facile difesa contro le fiere de' boschi. E di fatti, durante l'epoca neolitica le nostre caverne si andarono popolando rapidamente, e non soltanto quelle di facile accesso ed asciutte, ma talvolta anche quelle che a primo aspetto ci si mostrano assai disadatte a tale scopo, e nelle quali non si sarebbe neppur creduto possibile l'esistenza dell'uomo. Cosi noi trovammo resti della sua dimora, non solo transitoria od accidentale ma di lunga permanenza, in spelonche in cui un ripidissimo pendio roccioso ne rendeva assai malagevole l'accesso, o nelle quali faceva addirittura mestieri calarsi con corde [11] o con scale per decine di metri. (13) Naturalmente preferiti erano gli antri pianeggianti o con dolce pendenza e non soggetti a troppo copioso stillicidio. Ed è in questi principalmente che noi troviamo alle volte strati poderosi di cenere, grossi due e più metri, ricoprenti il loro fondo per centinaia di metri quadrati: testimoni eloquenti del lungo soggiorno fattovi dai trogloditi e del loro numero considerevole.

Più volte anzichè nell'interno delle caverne essi prendevano stanza al riparo di rocce perpendicolari od a strapiombo, specialmente durante la buona stagione, offrendo questi luoghi il vantaggio di una maggiore illuminazione e di un'aria più pura. E come gl'ingressi delle dimore ipogee venivano difese da muri o da palizzate, altrettanto probabilmente aveva luogo per questi ripari, aggiungendovi forse una specie di tetto per premunirsi contro la pioggia.

Quando e d'onde giungessero nella nostra provincia questi primi abitatori, non è possibile rintracciare, che la loro origine si perde nella notte dei tempi. Intorno alle loro sedi originarie si hanno le più disparate ipotesi, ricercando gli uni il loro centro di diffusione nell'Asia, altri nell'Africa, altri infine nelle regioni settentrionali d'Europa. (14) Il problema è assai complesso ed i tentativi per risolverlo non hanno approdato ancora ad un resultato soddisfacente. Ad ogni modo pare che nelle nostre contrade venissero ad incontrarsi due correnti della grande migrazione primitiva, quella de' Liguri diffusi per l'Italia, dalla Sicilia alle Alpi, e quella dei Pelasgi che si estesero per la penisola balcanica. Di questo popolo antichissimo, che abitava le caverne, noi troviamo larghe tracce lungo tutto il versante meridionale delle Alpi, lungo tutte le coste bagnate dal [12] Mediterraneo, e dappertutto con un'uniformità meravigliosa di costumi, di riti, di civiltà. Nè di esso mancano accenni nelle opere degli antichi scrittori, che ce li descrivono con abbastanza chiarezza, sicchè non riesce difficile il riconoscervi i nostri trogloditi.

Ignari dell'uso de' metalli, essi chiedevano unicamente alle pietre e all'osso i loro scarsi utensili, le loro armi primitive. Cacciatori e pastori, poco si curavano dell'agricoltura, contenti di quanto loro forniva il suolo senza alcuna fatica. (15) Quelli dimoranti non troppo lungi dal mare, scendevano spesso alla riva per raccogliervi molluschi, (16) di cui erano ghiottissimi, ma non conoscevano ancora l'arte della pesca, nè pare s'avventurassero sul mobile flutto. Maestri invece ci si dimostrano nel plasmare l'argilla, onde traevano la svariata serie de' loro vasi, adornandoli talora assai vagamente con graffiti o con impressioni.

Così essi vissero lunghi secoli nell'infanzia della coltura, poco avanzando in progresso, dispersi com'erano in caverne isolate, che tutt'al più davano ricetto a poche famiglie, ma non potevano determinare la convivenza di un numero maggiore di genti in un villaggio comune, nè potevano dare un impulso alla vita sociale, fomite precipuo dell'umano incivilimento.

Ma quale causa venne a turbare bruscamente la tranquillità de' loro recessi tenebrosi, spingendoli a lasciare le dimore ipogee?

Il costume di passare la vita nel cavo delle grotte, ove l'uomo senza alcuna fatica trova un naturale rifugio, in cui facilmente può celarsi a' suoi nemici ed in cui, riparato dai rigori invernali e dagli eccessivi calori della state, fruisce di una temperie mite, uniforme, è sì diverso da quello di scegliersi per dimora il vertice de' monti, ov'è costretto ad edificarsi le sue case ed a difendersi dai nemici colla costruzione di argini [13] poderosi, ove trovasi esposto al vento ed al gelo, alla pioggia ed all'infuriare delle procelle, che riescirebbe incomprensibile il perchè di questo mutamento radicale, senza una suprema necessità impellente o senza ammettere la venuta di un popolo diverso, già più avanzato in coltura e proveniente forse da regioni prive di caverne, nelle quali avesse potuto esplicarsi l'uso di abitazioni ipogee.

E ben vero che i nostri trogloditi sebbene dimorassero sotterra, prediligevano tuttavia gli atri rischiarati delle spelonche, approfittando pure degli spiazzi innanzi al loro ingresso, come pure, ove ne avevano la possibilità, dei ripari sotto rocce sporgenti, costruendovi non di rado muri e recinti di difesa. Sappiamo inoltre ch'essi si dedicavano oltrechè alla caccia alla pastorizia, possedendo numerose greggi di capre e di pecore, come pure buon numero di bovini. Essendo il nostro Carso in gran parte rivestito da dense foreste, essi dovevano ricercare spesso pascoli lontani, ove in mancanza di

 (il che era il caso in tutta la vasta zona marno-arenacea), si saranno costruite rozze capanne, circondandole da muri o da palizzate per tenervi al sicuro durante la notte i loro animali. Ed ecco per tal modo che il bisogno poteva tramutare, almeno per una parte dell'anno, i trogloditi in abitatori all'aperto. Così nel progresso del tempo, allorchè le caverne non potevano più bastare all'accresciuta popolazione, una parte di questa avrà dovuto ricercare altre sedi più vaste per sé e per gli animali domestici, dai quali ritraeva il suo principale sostentamento.

Ma dal dimorare semplicemente all'aperto, allorchè il bisogno lo richiedeva, all'innalzare quelle grandiose costruzioni, quali sono i castellieri, ci corre tanto divario, che noi siamo costretti ad ammettere un'immigrazione di nuove genti più progredite, che già nella loro patria originaria usavano circondare le loro case di simili baluardi. E di fatti sebbene gli oggetti fornitici dagli strati più profondi de' castellieri ci offrano parecchie analogie con quelli delle caverne, non si possono tuttavia disconoscere differenze notevolissime, che ci dimostrano in quelli una coltura assai più avanzata. Nelle ricerche delle nostre caverne abbiamo inoltre fatto più volte l'osservazione, [14] che mentre le grotte più piccole e più recondite continuarono ad esser abitate per un periodo più o meno lungo anche in epoche posteriori, le più grandi e di più facile accesso, vennero per lo più abbandonate allo scorcio dell'epoca della pietra quali dimore stabili e solo occasionalmente adoperate più tardi da rifugio temporaneo. Quale fu la causa di questo improvviso abbandono di vaste caverne, largamente illuminate, che offrivano tutte le comodità possibili ed ove l'uomo avrebbe potuto continuare la sua esistenza assai meglio che negli antri oscuri, disagevoli, nascosti in luoghi selvaggi? La spiegazione di questo fatto noi la dobbiamo ricercare nell'immigrazione di una gente straniera, la quale impossessatasi violentemente del paese, cacciò dalle caverne maggiormente accessibili e quindi più esposte agli attacchi nemici, i loro prischi abitatori, laddove quelli delle spelonche meno appariscenti, poterono più facilmente sottrarsi ai nuovi conquistatori e, non molestati, continuare a dimorarvi.

Va pure notato che meno poche eccezioni, i castellieri possedono sempre dimensioni abbastanza considerevoli e quindi fanno presupporre un numero di abitanti ben più rilevante di quello, che poteva fornire l'eccedenza di popolazione d'una caverna. Avrebbero potuto poche famiglie, stabilitesi sopra un monte, erigere cogli scarsi mezzi che stavano a loro disposizione, quelle opere colossali, che sfidarono vittoriose le furie struggitrici di trenta e più secoli? E quale scopo avrebbero avuto di costruire que' vasti recinti, che poi non sarebbero stati neppure in caso di difendere?

Ma più ancora di queste considerazioni, viene a provarci che l'erezione de' castellieri sia dovuta ad un popolo forestiero il fatto importantissimo, ch'essi non sono punto una specialità del nostro paese, ma che si trovano sparsi sur un'area vastissima nella penisola balcanica, presentandosi dovunque identici, sia per il modo di costruzione, che per riguardo cronologico, che per le reliquie delle colture ch'essi rinserrano.

Le condizioni del nostro paese erano a quel tempo ben diverse dalle odierne. Immense foreste vergini ondeggiavano sugli altipiani del Carso, scendevano giù per i fianchi delle montagne, ravvolgendo tutta la nostra regione in un fitto [15] padiglione di verzura. E vasti interminabili boschi ricoprivano pure i nostri colli arenacei, ove al fondo delle valli, romorosi torrenti balzavano spumeggianti di sasso in sasso, finchè allamavano nelle pianure più prossime al mare. E per quelle selve s'aggiravano cignali ed orsi e lupi, cui forse s'associava talvolta l'uro, abitatore della propinqua Carniola. (17)

In tali contingenze era naturale che le parti piane del nostro territorio non presentassero le desiderate condizioni di comodità e di sicurezza, e quindi venissero preferite le vette emergenti, ove il bosco per la natura più rocciosa del suolo, non era sì fitto ed ove più facili riescivano le opere di difesa. Si aggiunga che da que' luoghi elevati si poteva dominare un vasto tratto di terreno avvistando l'avvicinarsi di un nemico, prevenendone l'attacco. In pari tempo, siccome da un castelliere erano solitamente visibili parecchi altri, vi era data la possibilità di farsi vicendevolmente segnali ed, in caso di bisogno, prestarsi l'un l'altro soccorso.

In questo riguardo i nostri proavi non differivano punto dagli abitatori di altre regioni. Lasciate le sue sedi primitive, le caverne, fu in alto, sulle eminenze che l'uomo fondò le sue prime capanne. Così noi vediamo le prime città della Grecia e dell'Etruria edificate sulle cime delle montagne, costumanza seguita anche nei tempi posteriori e fin nel tardo evo medio, ove le case raggruppate strettamente intorno ai turriti castelli e circondate da valide mura, potevano esser difese con maggior successo, di quanto se fossero state costruite in pianura, a somiglianza delle nostre città moderne.

Perocchè se anche il nome di castellieri per designare queste antiche costruzioni, trovasi limitato alle nostre contrade, essi sono diffusi per buona parte d'Europa (18 ove variamente [16] vengono appellati. (19) La loro costruzione non era però ovunque la stessa, ma differiva secondo le condizioni fisiche del terreno. In regioni ricche di pietre, come da noi, in Carinola, nella penisola balcanica, essi venivano eretti con questo materiale, mentre ove c'era penuria di sassi, si circondavano d'argini di terra, come nella maggior parte della Germania. (20) Egualmente diverso era il modo di costruire le opere di difesa, che da noi consistevano in muri regolari, con pietre però non lavorate, a differenza delle mura erette con pietre riquadre, nei così detti monumenti ciclopici, o dei valli tumultuari con sassi gettativi senza alcun ordine, quali s'incontrano nelle costruzioni della bassa Etruria.(21) Nei paesi ove la coltura ebbe uno sviluppo precoce e molto intenso, come in Grecia ed in Italia, le costruzioni posteriori modificarono non poco l'aspetto dei prischi castellieri, sebbene spesso non riesca difficile il riconoscerne le tracce. Così l'antica Atene stendentesi sul Museion, non era altro che un castelliere, al pari di Acrocorinto, di Micene, e di molte altre città divenute poi famose.(22)

[17] Non credo qui fuor di luogo accennare che un castelliere non corrisponde punto, come forse potrebbe farlo supporre il nome, ad un semplice fortilizio, nel quale avesse da prender stanza un presidio militare più o meno numeroso a difesa di un villaggio sottostante. No, esso non è solamente l'arce tutelatrice, ma è lo stesso villaggio fortificato, munito di valido muro che lo cinge tutto intorno, occupante talora un'area estesissima.

Tuttavia parecchie caverne, di preferenza quelle che giacevano in vicinanza de' castellieri, continuarono ad essere abitate fin nell'epoche più tarde, se anche per lo più solo temporaneamente, sia quale rifugio durante la fredda stagione, sia durante incursioni nemiche.

Nel corso de' secoli il numero de' castellieri andò continuamente accrescendosi e la nostra provincia si ricopri di un'estesa rete di queste costruzioni. In molti luoghi essi sono ancora benissimo conservati, sicchè riescono riconoscibili ad ognuno; in altri l'edace dente del tempo vi ha esercitato più o meno profondamente la sua azione distruggitrice, onde a mala pena un occhio esercitato vi può constatare la loro antica esistenza. Nè solo le influenze atmosferiche determinarono la loro rovina, chè anzi più di frequente essa fu causata dall'uomo, sia che continuasse ad abitarvi anche ne' tempi successivi, tramutando il primitivo castelliere in un villaggio od in una città, sia che approfittando della fertilità del terreno, lo riducesse a coltura. Così noi abbiamo nella provincia numerose ville e cittadette costruite alla sommità de' monti, per le quali potemmo accertare che sono sorte sopra castellieri preistorici, laddove per altre, causa i profondi mutamenti del suolo, riesce [18] molto difficile e spesso anche del tutto impossibile, constatare con sicurezza la loro prisca origine. Più spesso ancora, abbandonata la ventosa cima, l'odierno villaggio si adagia ai fianchi del monte sul quale giaceva l'antico, che per lo più venne ridotto a campo od a prato.

Dal numero de' castellieri si tentò stabilire il numero della popolazione della nostra provincia, il che riesce tuttavia alquanto incerto, considerata la grande diversità che presentano le dimensioni dei singoli castellieri e la nostra ignoranza riguardo alla densità delle genti che vi tenevano dimora. Prescindendo però da una determinazione anche approssimativa della quantità degli abitanti, noi possiamo dedurre dall'ingente copia dei castellieri, che le nostre contrade fossero largamente popolate, il che ci viene confermato indirettamente dall'esercito poderoso de' romani che fu necessario per impadronirsi dell'Istria e debellare la resistenza de' suoi difensori.

Nella sua grande carta archeologica dell'Istria, Kandler aveva notati, secondo l'estratto del Dr. Amoroso, 821 castellieri di cui 42 nell'Istria superiore, 123 nella media, 141 nell'inferiore e 15 nelle isole del Quarnero. (23) In questo numero sono però compresi anche i castri romani, coi quali, come si è detto, il nostro archeologo confondeva le costruzioni primitive, e vi figurano pine parecchi fortilizi medioevali.

Ve ne sono pine parecchi segnati in luoghi ove non si trova assolutamente alcuna traccia di antiche abitazioni, sicchè pare ch'egli ve li notasse unicamente perchè li credeva necessari a completamento della rete strategica da lui supposta. Viceversa poi vi mancano moltissimi altri, di cui non ebbe contezza.(24) Non si può quindi servirsi della carta del Kandler che quale scorta per ulteriori ricerche, facendo mestieri rivisitare uno per mio tutti quelli da lui indicati, rifacendo addirittura il lavoro e completandolo. Poichè se è vero che i [19] romani impossessandosi della nostra provincia, approfittassero il più delle volte dell'eccellenti posizioni strategiche dei castellieri per erigervi le loro fortificazioni, non va dimenticato che spesso le costruivano anche altrove su altre eminenze, specialmente ove si rendevano necessarie per tutelare la sicurezza delle comunicazioni. Devesi quindi far distinzione tra i castri puramente romani ed i castellieri preistorici, sia per l'epoca in cui furono eretti che per lo scopo diverso cui servivano. Nè tale distinzione riesce punto difficile vuoi per la forma differente di queste costruzioni, vuoi per essere le mura preistoriche sempre a secco senza traccia di cemento. Basta del resto un semplice assaggio, allorchè per avventura si fosse in dubbio, per stabilire con certezza l'epoca cui devesi riferire una data costruzione, poichè i cocci preistorici, ond'è disseminato il terreno del castelliere, sono tanto differenti dai romani, che non è affatto possibile una confusione in proposito.

La ricerca dei castellieri non è tuttavia sì facile, come parrebbe a prima vista, giacendo essi talora in regioni inospiti, lontani dagli abitati o nascosti nel fitto de' boschi. Ed appunto coll'estendersi del rimboschimento del nostro Carso, sempre più difficile riesce la constatazione dei castellieri, perchè mentre un occhio esercitato può spesso anche a distanze notevoli, riconoscere l'esistenza di un castelliere sur una vetta denudata, ciò diviene per lo più impossibile allorchè una fitta vegetazione arborea, specialmente di conifere, abbia velato le disuguaglianze caratteristiche del suolo. Più ancora malagevole riesce la loro misurazione se ricoperti, come ha luogo specialmente nell'Istria meridionale, da sterpi e piante spinose, che alle volte ne impediscono l'accesso o rendono impossibile il seguire il decorso del vallo.

Alle volte degli argini e delle cinte più non esiste vestigio alcuno, caso non raro principalmente in quelli della regione marno-arenacea, ove le pietre disgregandosi con maggiore facilità si ricoprono di terriccio, sicchè talora fa d'uopo praticare scavi più o meno estesi per accertare la loro esistenza. Così p. e. del castelliere di Montebello presso Trieste, ove più [20] non scorgevasi alcuna traccia nè di muri nè di ripiani, ed i fianchi uniformemente arrotondati erano rivestiti da un denso tappeto erbaceo, si ebbe appena contezza, allorchè aprendosi una cava, venne intaccata la sua cinta, mettendo a giorno lo strato antropozoico.

Del pari non è raro il caso, in ispecie quando la vegetazione è molto rigogliosa, che non ci si accorga del vallo esterno, prendendosi per castelliere ad una sola cinta quello che ne ha due. Viceversa le rocce naturali imitano talora, col decorso dei loro strati, siffattamente un vallo rovesciato, che si richiede molta circospezione per non prendere abbaglio e ritenerlo manufatto umano. Dappoichè anche il terriccio nero che alle volte vi si trova, non è caratteristico, potendo esso derivare dalla decomposizione di vegetali, principalmente quando il monte era prima ricoperto da bosco.

Molto spesso i castellieri ci vengono rivelati unicamente dalla presenza de' cocci, il cui valore archeologico e cronologico, è della massima importanza nelle esplorazioni preistoriche. Nel lungo volgere de' secoli tutto scompare, tutto perisce: città e borgate vanno distrutte, regni ed imperi piombano nell'obblio, senza lasciar traccia di loro antica esistenza, interi popoli passano inavvertiti sulla faccia della terra, persino i monti cambiano la loro forma, i fiumi mutano il loro corso, vaste isole emergono dai salsi flutti o scompaiono negli abissi, ma il coccio, questo misero avanzo della più fragile opera umana, perdura inalterato a dispetto del tempo e resta lì, testimone eloquente delle estinte generazioni, ad additarci le sedi ignorate de' nostri lontanissimi progenitori! Mercè sua noi siamo in grado di riconoscere non solamente l'esistenza di un castelliere, ma talora eziandio di determinare l'epoca a cui apparteneva!

E qui non credo inopportuno ricordare un'alleata del paletnologo, la talpa, che sovente riesce di grande vantaggio nella ricerca di castellieri, specialmente ove una vegetazione rigogliosa non permette riconoscere la natura del terreno, e non si abbia la possibilità di praticare uno scavo. È allora che dai mucchi sollevati da questa instancabile nostra collaboratrice, noi possiamo riconoscere il caratteristico terriccio del castelliere, [21] tra il quale non di rado si trovano pezzetti di cocci e di ossa e persino alle volte frammenti di bronzo.

Il ricordo di queste antiche sedi si mantenne inalterato attraverso la lunga serie de' secoli, collegandovisi spesso tradizioni di città scomparse, di castelli diruti, di tesori nascosti. Ed è veramente strano che certi luoghi, ove appena una ricerca più accurata può scoprire qualche traccia di vetuste costruzioni, sieno noti quali dimore dell'uomo e conservino ancora il nome di castellieri, il che ci dimostra come i vecchi ricordi vengano tramandati religiosamente da generazione in generazione e con quanta tenacia il popolo si attenga alle primitive denominazioni. Così noi troviamo un Monte Castellier presso Muggia, altro monte d'egual nome sorge poco lungi da Umago, una località Castellier giace a nord di Visignano, altro M. Castellier rinviensi tra Rovigno e Valle, la stanzia Castellier tra Filippano e Cernizza, un M. Castellier presso Dignano, un altro poco discosto ad est di Galesano, uno ad Altura, un altro sull'isola Brioni maggiore, ecc. Appartengono pur quivi il Moncastello di Cervera (Parenzo), il M. Castril presso Promontore, il Moncas (evidentemente contratto da Moncastello) tra Valle e Villa di Rovigno, Castelz presso S. Servolo (Trieste), Castellazzo di Doberdò (Monfalcone), il M. Castion ed il M. Buoncastel nell'agro di Pola, ecc.

Altro nome caratteristico con cui gli abitanti, specialmente nella parte più meridionale della penisola istriana e sulle isole del Quarnero, sogliono dinotare i castellieri, è quello di grumazzo o gromazzo (24) corrispondente a grumo o mucchio di sassi, come p. e. uno ad oriente di Gimino, un altro presso Cavrano, uno a Castelmuschio sull'isola di Veglia, uno (Gromacina) a levante di Malinsca sulla stessa isola.

Del pari la presenza di un Castelnovo o di Villanova, di cui sono parecchi nella nostra provincia, lascia presupporre l'esistenza di un Castelvecchio o di una Villa più vecchia, e difatti nelle loro vicinanze noi troviamo sempre i resti di qualche antico castelliere.

[22] Corrispondentemente nei territori dell'interno abitati da slavi, noi troviamo numerosi monti coi nomi di Grad, Gradina, Gradec, Gradaz, Gradisce, Hradisce, Zagrad, (25) ecc., che hanno il medesimo significato del nostro Castelliere. (26) Talora incontriamo invece il nome di Gomila come p. e. a Villa di Rovigno, a Promontore, a Castelnuovo, ecc. per indicare il Castelliere, specialmente quando entro il suo recinto trovansi uno o più tumoli. (27) Del pari non raro è il nome di Tabor, specialmente sull'altipiano del Carso, ove per lo più riscontransi nel castelliere avanzi di fortilizi medioevali.

Spesso i nostri castellieri portano il nome di santi, da antiche cappelle o chiese che vi vennero costrutte, quasi a dimostrare la potenza trionfatrice del cristianesimo sopra l'abbattuta dominazione pagana. Tuttavia nella nostra provincia non possiamo constatare un predominio di santi battaglieri, come S. Vito, S. Michele, S. Giorgio, S.ta Margherita (28) che più frequenti s'incontrano nella propinqua Carniola, perchè appresso a questi noi troviamo numerosi altri santi del tutto pacifici ed il cui nome non ci rappresenta punto un simbolo di lotte e di vittorie. Così tenendo solamente conto dei castellieri dei quali ho potuto accertare io stesso l'esistenza, se ne riscontrano nella nostra provincia otto che portano il nome di S. Croce, sette di S. Martino, cinque di S. Giorgio, quattro di S. Pietro e S. Catterina, tre di S. Giovanni, S. Michele e S. Maria, due di S. Antonio, S. Bartolomeo, S. Canziano, S. Daniele, S. Lorenzo, S. Primo e S. Tomaso, ed uno quelli di S. Acazio, Ambrogio, Angelo, Dionisio, Gallo, Ilario, Leonardo, Marco, Mauro, Paolo, Quirico, Servolo, Spirito, Stefano e Vito, e delle sante Agata, Elena e Maddalena.

[23] Così anche i nomi ci sono non di rado utili ausiliari nella ricerca de' castellieri e ne rendono più facile la loro constatazione. Ma ve ne sono altri moltissimi dei quali andò completamente perduta la memoria e che non portano alcun nome, sia per giacere lontani dagli abitati, sia per essere stati distrutti prima che l'odierna popolazione prendesse stanza in loro prossimità. Sono questi che presentano perciò difficoltà maggiori al loro rinvenimento e che richiedono spesso indagini lunghe e faticose, per poter accertare la loro esistenza. Per essi non abbiamo alcun accenno che guidi i nostri passi e quante vette non ci è d'uopo salire, per quante pendici dirupate non dobbiamo inerpicarci, prima di aver la ventura di scoprirne qualcuno! E ben vero che i nostri castricoli sceglievano di preferenza le vette culminanti, ma di questa regola generale noi abbiamo non poche eccezioni, e quindi non si può limitarsi unicamente all'esplorazione di quelle, ma fa mestieri visitare accuratamente anche i dossi meno elevati. Più volte la forma particolare di qualche monte od il decorso de' suoi strati rocciosi, ci danno in distanza l'illusione di un castelliere, obbligandoci ad una salita altrettato faticosa che inutile. La scoperta poi di castellieri in piano viene a dimostrarci che, date certe condizioni, que' prischi abitanti anzichè le ventose cime, ricercavano talora luoghi più riparati, sicchè non ai soli monti devono essere rivolte le nostre indagini, ma eziandio alle vaste distese pianeggianti, il che rende naturalmente ancor più ardua e difficile una esauriente e completa investigazione di questi monumenti preistorici.

Sarebbe stato mio desiderio di comprendere nel presente lavoro tutti i castellieri della regione delle Alpi Giulie, dandone la descrizione ed i relativi piani. Se non che per una sì estesa monografia, si sarebbero richiesti ancora parecchi anni di ricerche e di faticose misurazioni, accrescendosi di troppo la mole dell'opera e rendendo necessario un numero considerevole di tavole. Stimai quindi miglior consiglio di limitarmi, per ora, all'illustrazione particolareggiata di quelli dei dintorni [24] di Trieste, che sommano a ben 118, aggiungendovi l'enumerazione di quelli del resto della provincia. In quanto all'area di Trieste, è naturale che non si poteva restringersi agli angusti confini del territorio politico della nostra città, il quale misura in superfice appena 94 chilometri quadrati ed in cui non trovasi che un numero limitatissimo di castellieri, ed anche questi per la massima parte assai deteriorati. Gli attuali confini politici non possono certamente avere alcun valore per un'epoca sì remota, in cui il nucleo della futura Trieste era forse rappresentato da un umile castelliere sul colle di S. Giusto, (del quale però non esiste più alcuna traccia), alle cui falde crebbe più tardi e si distese la colonia romana di Tergeste.(29) E quindi opportuno allargare i termini ad una zona più vasta, comprendendovi buona parte dell'altipiano del Carso e la limitrofa regione marno-arenacea coi distretti di Capodistria e d'un tratto di quello di Pirano. Per tal modo si ha un territorio di circa 1200 chilometri quadrati, limitato da un lato dalla pianura friulana, dall'altro dal fiume Dragogna e dall'emersione del calcare che forma l'ossatura delle colline istriane. Il lato settentrionale viene chiuso dall'affiorare della zona arenaria della vallata del Vippacco, mentre per l'orientale abbiamo scelto una linea che a semicerchio stendesi dalla Dragogna a Senosecchia.

Questo territorio costituito per lo più da monti di mediocre altezza, doveva offrire condizioni eccellenti allo stabilimento di castellieri. E di fatti noi vi troviamo un numero considerevole, sebbene parecchi, senza dubbio, specialmente in vicinanza della città, saranno stati distratti causa le costruzioni posteriori. Solamente nei due vasti tratti ad oriente del nostro distretto, ove si trovano le maggiori elevazioni del M. Tajano e del M. d'Auremio, superanti i 1000 metri, essi fanno totalmente difetto. L'asprezza del suolo e l'inclemenza del clima avranno certamente distolto i nostri proavi dal prendervi stabile dimora, sebbene non puossi dubitare che dai propinqui [25] castellieri, giacenti sulle minori eminenze, vi abbiano condotte a pascere le greggi durante la buona stagione, precisamente come ha luogo ancora al dì d'oggi.

Nel ristretto territorio politico di Trieste esistono otto castellieri, dei quali la metà nella zona marno-arenacea, gli altri sui monti calcari che a semicerchio si stringono intorno alla città. Nei primi non si vede più esternamente alcuna traccia di cinta e sono assai alterati dal tempo, essendo stato quello di Montebello ridotto a fortezza, ora abbandonata, quello di Cattinara servendo tuttora ad uso di polveriera, ed essendo fabbricati in quelli di Conconello e di Contovello gli attuali villaggi omonimi.

I castellieri di Montebello e di Cattinara, distanti poco tra di loro, giacciono sul largo dosso che chiude a mezzogiorno la valle di Rozzol, ad un'altezza di 269, rispettivamente di 255 metri sul livello del mare. Da quello fu levato il materiale occorrente alla costruzione dei terrapieni della sottostante strada ferrata, sicchè venne profondamente inciso in più luoghi del suo versante meridionale, mettendo allo scoperto lo strato antropozoico di terriccio accumulatosi entro la cinta. Le gravi alterazioni subite non permettono una misurazione precisa dell'area occupata da questo castelliere, che pare esser stato di mediocre estensione ed abitato per lungo periodo di tempo, come lo indica la quantità e varietà delle stoviglie e di altri prodotti dell'industria umana.

Gli estesi scavi che vi praticai, diedero gran copia di cocci appartenenti a vasi di dimensioni per lo più considerevoli, ornati con impressioni digitali, con graffiti, con bugnette, con bitorzoli, ecc. Assai numerosi sonvi i resti d'animali tanto domestici che selvatici, quali il bue, il maiale, la capra, la pecora, il capriuolo e specialmente il cervo, le cui corna servivano a molteplici istrumenti, che si raccolsero copiosi in tutti gli stadi di lavorazione. (30) Rari all'incontro apparvero gli avanzi del cavallo, [26] dell'asino e del cane. Frequenti sono pure i molluschi marini, che servivano ai pasti de' nostri castricoli. Si raccolsero inoltre molte fusaiuole, pesi da telaio, grossi anelli di argilla, una grande quantità di cote e di pestelli d'arenaria, e vari oggetti di bronzo, come coltelli, spilloni, armille, anelli, bottoncini, saltaleoni, pendagli, ecc.

Il castelliere di Cattinara, (T. I, f.1) (31) che fu uno dei primi castellieri da me esplorati, (32) presenta dal lato strategico un'eccellente posizione, chiudendo esso le due valli di Longera e di Rozzol, delle quali sta a cavaliere, e dominando sulla vasta pianura solcata dal fiumicello Rosandra, onde il colle su cui giace trasse il nome di monte Chiave. Meno manomesso di quello di Montebello, permise un rilievo topografico, dal quale risultò la sua periferia di oltre mezzo chilometro. (33) Le indagini fattevi con una serie di scavi praticati in più punti, ci fecero conoscere ch'esso fu abitato tanto all'epoca preistorica che ai tempi romani, nei quali si preferì il versante meridionale meglio riparato dai venti, ove spesseggiano appunto i manufatti appartenenti a quest'ultimi, laddove le genti anteriori avevano fissato la loro dimora sulla vetta, che a tal uopo era stata spianata. Anche in questo castelliere la messe di cocci, di resti di animali e di svariati utensili fu molto ricca, corrispondendo su per giù a quella di Montebello, sicchè per non incorrere in troppe ripetizioni ne tralascio la specificazione. Noterò solo che tra gli oggetti di bronzo si raccolsero due fibule, una della Certosa l'altra del tipo La Tene, quindi di epoca relativamente tarda. Non ostante vari assaggi fatti qua e là alle falde della collina, [27] non mi riesci di rintracciare la necropoli, dalla quale si avrebbe potuto trarre un materiale prezioso per l'illustrazione di questo castelliere.

Come questi due castellieri erano posti a velettare ad oriente le valli che conducevano a Trieste, cosi anche dalla parte opposta all'estremo limite dell'arenaria, sorgeva un castelliere sul colle di Contovello (259 metri), (34) chiudente l'accesso dalla parte di nord-ovest. Le costruzioni posteriori e la riduzione del terreno a fertili vigneti, lo hanno scomposto completamente, sicchè a mala pena si trova qualche coccio qua e là per i campi. Tuttavia sebbene vi manchi qualsiasi traccia del muro di cinta, si può ancora riconoscere in parte la sua forma originaria di un'ovoide allungata con un restringimento verso la metà.

Altrettanto distrutto è quello di Conconello (411 m.), del quale non scorgesi quasi più alcun vestigio e la cui esistenza ci viene rivelata unicamente dal terriccio nero e dagli scarsi cocci in esso contenuti.

Il castelliere del M. Cal (f. 2) giace sulla maggiore eminenza, a 448 metri, di quel complesso di vette, che comunemente viene compreso sotto il nome di M. Spaccato. Esso si estende su ambidue i versanti del monte ed ha una cinta di circa 330 m. di periferia, di cui buona parte ancora munita di vallo, robusto specialmente dal lato di nord-ovest, ove giunge ad una largezza di 15 a 25 metri. Dolcemente inclinato al versante orientale, scende dall'opposto, vôlto verso la città di Trieste, ripidissimo per guisa, che non si comprende come fosse stato possibile l'abitarvi. Causa la forte pendenza, il terriccio vi è in gran parte asportato al pari della cinta. Tracce di un muro si prolungano per circa 80 metri lungo il dorso calcare, che scende [28] verso levante ad un varco più basso, ove in una piccola insenatura giacciono numerosi mucchi di sassi in forma di tumoli. Il ritrovarvi dappresso alcuni cocci mi fe' supporre ch'essi fossero veri tumuli sepolcrali e quindi ne feci aprire tre dei maggiori, dai quali m'ebbi un risultato perfettamente negativo. E probabile quindi ch'essi non sieno altro che gli acervi di pietre raccolte per nettare il terreno circostante.

Assai meglio conservati sono all'incontro i due castellieri, che trovansi l'uno appresso dell'altro su due vette del Monte Grisa ad un altezza di 323 metri (f. 3). La loro posizione è oltremodo pittoresca ed assai bene scelta, precipitando la roccia su cui furono fabbricati quasi a strapiombo dal lato vòlto verso il mare, sicchè da questa parte erano affatto innaccessibili e rendevano quindi superflua qualunque opera di difesa. Al versante opposto invece, ove il monte va abbassandosi meno bruscamente, il castelliere inferiore possiede tre cinte concentriche, con ripiani corrispondenti. La cinta esterna non giunge a chiuderlo completamente, ma gira prima di arrivare al ciglio della roccia, lungo la vallecola interposta tra il castelliere inferiore ed il superiore, distanti tra di loro 170 metri, per modo che ambidue vengono compresi dal medesimo vallo comune. All'incontro il vallo medio e V interno giungono fin quasi alla roccia perpendicolare, lasciando solamente in prossimità di questa due aperture per gl'ingressi ai lati opposti. Il vallo interno, lungo 128 metri, è assai bene conservato e completo, alto 1-1.5 metri, laddove il medio, distante da esso 30 metri e della lunghezza di 225 metri, trovasi più alterato. In quest'ultimo scorgonsi ancora chiaramente gli avanzi di una porta.

Meno esteso è il castelliere superiore, non avendo che una cinta della lunghezza di 138 metri. Il suo muro, solo parzialmente conservato, ha una grossezza di 1.40 metri ed al pari di quello dell'inferiore è semicircolare mancando del tutto dalla parte vòlta al mare. Il lungo e stretto dorso calcare inchiuso da esso è assai rupestre e non presenta che una spianata della larghezza di 3 a 6 metri girante lungo il muro, ove si raccolse uno strato poderoso di terriccio. È caratteristica in questo castellierre la presenza di un muro interno della grossezza di 140 metri [29] costruito da grandi blocchi, che decorre parallelo al vallo, alla distanza di 2.30 metri da esso, al quale s'unisce di tanto in tanto con muri trasversali. Verso l'estremità orientale ergesi un tumolo alto 3 metri, formato di sassi accatastati senza alcun ordine.

Gli scavi praticati in questo e nel castelliere inferiore diedero, come sempre, una grande quantità di cocci, spesso ornati d'impressioni digitali. S'ebbero pure parecchi vasi interi, tra i quali alcuni piccolissimi, che non possono aver servito che da ballocchi. Nel castelliere superiore si trovarono sopra un letto di sabbia gli avanzi di un inumato con un anellino di bronzo.

Simile ai due castellieri testè descritti, è quello del M. S. Primo (279 metri) poco lungi da S. Croce (f. 4), non avendo anch'esso che una cinta semicircolare dalla parte di terra, laddove dal lato opposto il ripidissimo declivio roccioso, che scende al mare, la rendeva superflua. Esso è di piccole dimensioni misurando in larghezza 90 ed in larghezza 35 metri, sebbene a giudicare dalla grossezza del muro (2 metri), ancora parzialmente in piedi, e dall'ampia zona di sfasciume variante da 12 a 16 metri, appaia esser stato assai validamente munito. Il terreno racchiuso dal vallo è piano, ricoperto in buona parte di terriccio nerissimo, e venne recentemente imboscate a conifere. Della cappella dedicata a S. Primo non restano che pochi avanzi.

Kandler segna inoltre un castelliere sul monte di Opicina, ove ora sorge la vedetta della Società Alpina. Vi esistono sì resti di grosse muraglie, che si prolungano lungo parecchie vette in direzione di Contovello, però io credo che si tratti piuttosto di mura divisorie di confine, anzichè di castelliere, non essendomi riescito di ritrovarvi alcun coccio, nonostante ripetute accuratissime ricerche. Del pari non ebbi alcun risultato dall'esplorazione di alcuni colli dei nostri dintorni, che per la loro posizione si sarebbero prestati egregiamente alla costruzione di castellieri, come quello di Metlica, sul quale si trovano tracce di vecchi edifizi, quello di Timignano, di Triestinicco, del Farneto e di altri.

I castellieri sono legati intimamente ai rilievi orografici, dai quali dipende in primo luogo la loro distribuzione topografica. Noi li riscontriamo quindi allineati solitamente lungo [30] le catene montuose, mancando quasi totalmente nelle regioni pianeggianti o poco elevate. Essi presentano perciò una certa regolarità nella disposizione, ove le catene hanno un decorso regolare, com'è il caso sull'altipiano del Carso, si trovano all'incontro sparsi per lo più senz'ordine nella zona arenaria, in cui i monti seguono le tortuosità delle valli. Se osserviamo l'altipiano del Carso, che si estende tra Trieste e la conca arenacea della vallata del Vippacco, noi vi vediamo abbozzate due valli longitudinali, che seguono l'asse di sollevamento da sud-est a nord-ovest, divise da una catena montuosa, che cominciando nei pressi di Divaccia, decorre con un'altezza di oltre 500 metri, ossia di 100 el50 metri superiore al piano circostante, digradando a poco a poco in una serie di dossi minori fino a morire nella pianura friulana. I lati esterni di queste due lunghe valli, che probabilmente corrispondono alle due correnti sotterranee, in cui si raccolgono le acque meteoriche, che cadono sull'altipiano del Carso, ingrossate da quelle che vengono assorbite dalle voragini di S. Canziano e da altri imbuti minori, sono formati dalle elevazioni marginali, che accompagnano il ciglio dei due versanti. La catena centrale nel suo decorso verso nord-ovest va a poco a poco avvicinandosi al ciglio meridionale, fino a fondersi collo stesso nell'ultimo tratto verso Monfalcone. In quella vece a restringere la vallata opposta s'interpone una serie di dossi, dapprima con rilievi incerti, poi raggruppati al di là di Comen e di Goriansca, in un increspamento generale del terreno, della media altezza di 300 a 350 metri sul livello del mare e culminante al monte Terstel con 644 metri.

Appunto su questi rilievi noi incontriamo la maggior parte dei castellieri dell'altipiano calcare, disposti con una certa regolarità, dovuta più che altro alle accidentalità al suolo.

Si è già trattato di quelli che giacciono sul ciglio meridionale, compresi nel territorio politico di Trieste e quindi resta da dire di quelli distesi lungo la catena centrale ed il margine settentrionale.

Ma prima di volgerci a questi, credo opportuno di parlare qui di due altri castellieri, che trovansi a poca distanza dal [31] confine del nostro territorio. Quello di Nasirz (T. I, f. 5) è uno de' più piccoli, non misurando che soli 192 metri di periferia, ed occupa una rupe isolata a ponente dell'omonimo villaggio. Circondato da due lati da pareti che scendono a perpendicolo per 5 a 10 metri sul sottostante declivio, esso non andava fornito di vallo che dagli altri due, ove se ne conserva ancora un resto per la lunghezza di 41 metri. Il terreno venne recentemente imboscato a pini, meno la parte più elevata che è tutta rupestre. Del resto pare abbia servito d'abitazione anche in tempi posteriori, trovandovisi misti ai cocci preistorici anche frammenti di tegole.

Ben più vasto è il castelliere che sorge sulla vetta principale della catena, che si estende tra Basovizza e Roditti (Rodig), sul M. di Grociana (742 metri), conosciuto generalmente sotto il nome di Castellaro maggiore (f. 6). Sebbene tutto intorno il terreno sia formato da calcare nummulitico, il cocuzzolo su cui venne costruito, consta di arenaria, la presenza della quale fa sì ch'esso fruisca di quel raro benefizio de' nostri monti, di possedere cioè sorgenti d'acqua, delle quali le due principali scaturiscono al suo lato orientale. Questa particolarità oltre alla posizione elevata, d'onde si domina un vastissimo territorio, e la fertilità delle due valli che s'insinuano al suo piede, determinò i nostri progenitori a fissarvi la loro dimora. Il muro di cinta, che a giudicare dai pochi avanzi aveva una grossezza di metri 1.40 andò completamente distrutto, ed anche i cocci alla superfice sono molto scarsi, essendo imboscato e ricoperto da lussureggiante vegetazione. Tuttavia il grosso strato di terriccio nero, in cui non difettano punto, ci dimostra che esso fu per lunghissimo tempo abitato. Si conservò anzi tra il popolo la tradizione ch'ivi sorgesse in antico una grande città, della cui distruzione, come al solito, viene fatto carico ad Attila.

Di forma irregolare, il castelliere ha una circonferenza di 870 metri e viene diviso in due parti da un'elevazione trasversale del terreno, sul cui vertice innalzasi un cono erboso, alto circa 10 metri, che ha tutta l'apparenza di un tumolo artificiale. Dal lato nord-ovest vi si annoda un piccolo ripiano di circa 160 metri, che però causa la densa sterpaja che al presente [32] l''ingombra, non è possibile misurare con precisione. Sulla vetta del M. Cocusso, che più si spinge verso Basovizza, ergesi un colossale tumolo di sassi, non per anco esplorato.

Sulla catena centrale, che cominciando nei pressi di Corgnale e di Divaccia si estende per circa 25 chilometri fino alle foci del Timavo, noi incontriamo ben 13 castellieri. Nel primo tratto che si estolle tra Corgnale e Sesana ad un'altezza di 5 a 600 metri e da un lato si annoda ai monti che accompagnano la valle del Recca, dall'altro, dopo la stretta depressione del varco di Sesana (369 metri), continua in una serie di vette alte 450 a 500, verso Repentabor, trovansi quattro castellieri.

Il primo (T. I, f. 7) giace immediatamente sopra Corgnale, al vertice del M. Clemenoga (567 metri), che è diviso dal resto della catena da una profonda valle. Esso presenta una cinta circolare benissimo conservata della lunghezza di 440 metri, racchiudente uno spazio quasi piano, ove il terriccio nero trovasi sparso dovunque abbondantissimo, producendovi un'ubertosa vegetazione di magnifici prati. Non essendo stato smosso il terreno, non si rinvengono cocci, che però devono essere molto copiosi, scorgendosene frequenti pezzetti nei mucchi sollevati dalle talpe.

Dalla parte orientale si vede un'altra cinta circolare ancora più vasta, misurando 502 metri di circonferenza, che scende sul declivio del monte. Siccome però essa non è concentrica al castelliere, ma lo tocca solo tangenzialmente suppongo ch'essa non vi appartenga, ma fosse fabbricata più tardi per recintare un pezzo di terreno, forse allo scopo di tenervi animali, tanto più che anche più in basso veggonsi tracce di altri consimili spazi recintati, se anche di dimensioni minori.

Ben diverso è l'aspetto del castelliere che incorona il monte al disopra della Grotta di Corgnale, conosciuto nel paese col nome di Tabor di Corgnale (605 metri). Non offriva certamente la comodità di quello toste descritto, ma per converso si prestava assai bene quale punto strategico per la sua posizione eminente e per le sue pendici dirupate ed in alcuni punti addirittura innaccessibili. Lo spazio che si può dominare dalla sua vetta è estesissimo, abbracciando buona parte del Carso ed arrivando fino al mare. Questa fu la ragione [33] ch'esso non venne abbandonato, ma fu ridotto a castro romano e nelle varie incursioni turchesche del medio evo servì quale luogo di ricovero per gli abitanti del villaggio sottostante. Vi troviamo perciò oltre agli avanzi del castelliere preistorico, anche numerose tracce di costruzioni posteriori, tra cui le forti mura a cemento, che ne cingono la vetta.

Del vallo inferiore, che correva circolarmente a due terzi circa dell'altezza, è ancora benissimo conservato il muro dal lato orientale, che ha una grossezza di 1.40 metri, laddove il pendio ripidissimo dirupato, scendente nella valle dal lato opposto, lo rendeva superfluo. L'esplorazione vi è difficoltata dalle rocce e dalla fitta sterpaja, che impediscono in più tratti l'avanzarsi. Nei luoghi dilavati si trovano unitamente a cocci preistorici, anche frammenti di vasi e di embrici romani.

Molto più vasto è il castelliere di Povir (T. I, f. 8) che comprende tre vette, misurando 1350 metri di periferia. Anche questo restò munito in epoca romana e nell'evo medio (Tabor di Povir), conservandosi sino ai nostri giorni la torre circolare ed alcuni muri del castello, sorgenti sul cocuzzolo di nord-ovest, ove trovasi una spianata rocciosa della superficie di circa 5500 metri quadrati. Da questo tratto più elevato (523 metri) si discende dolcemente per 75 metri fino al punto più basso del castelliere, ove comincia la parte più vasta, che s'innalza alla seconda vetta, culminante in un ammasso di pietre in forma di tumolo e racchiusa colla prima da una cinta comune. Alla seconda vetta si annoda un altro dorso un po' inferiore, conservante tracce di un muro di cinta, che termina a levante con alcuni avanzi di fabbricati posteriori. Presso la seconda vetta trovasi pure un'ampia cisterna e resti di costruzioni. Il vallo è parzialmente conservato, in parte rovesciato e formante una cinta di 5 a 12 metri di larghezza. Il terriccio vi è nerissimo con molti cocci di pentole preistoriche e romane, come pure di embrici. Vi raccolsi pure una grande lancia di ferro. Presentemente il castelliere è totalmente imboscato. (35)

[34] Dopo il castelliere di Povir seguono parecchie vette, sulle quali non mi riesci di trovare alcuna traccia di sedi preistoriche, sebbene nelle sottostanti vallate frequenti sieno le grotte già abitate dai nostri trogloditi. Appena ad una distanza di circa 5 chilometri, ci si affaccia un altro castelliere sul monte su cui si appoggia il villaggio di Sesana (Tabor di Sesana). Anche questo è un castelliere assai vasto (f. 9), constante di due parti, cioè della vetta principale chiusa da un vallo circolare della lunghezza di 550 metri, e di un dorso inferiore quasi piano, che vi si annoda dal lato di nord-ovest della periferia anch'esso di 550 metri. Del vallo non si è conservato che il tratto ove si uniscono le due parti del castelliere, ed ov'esso è tuttora alto 2 a 5 metri. Il resto della cinta è visibilissimo, quale una fascia di sassi franati della larghezza di 5 a 10 metri, che tutto intorno circonda il monte. Entro la cinta trovasi un ripiano circolare largo 5 a 8 metri. La vetta è occupata dalle rovine di un edifizio medioevale, del quale si conserva ancora la torre rotonda.

Anche la parte aggiunta possiede un ripiano circolare, però il suo muro più debole trovasi (piasi totalmente rovesciato all'infuori. Al suo punto estremo e più elevato sorge un ammasso di sassi in forma di tumolo. Il terriccio copioso, assai nero, è disseminato di cocci. Anch'esso è totalmente imboscato, parte ad alberi a foglia caduca, parte a pini.

Come ad oriente così anche ad occidente noi non troviamo per cinque chilometri alcun castelliere, sebbene sopra una vetta intermedia, sul Medevediak (475 metri), sorga un grande tumolo, presso al quale venne raccolto uno spillone a globetti di bronzo.

Appena a Monrupino (Repentabor) noi incontriamo nuove sedi de' nostri castricoli, le quali diventano sempre più spesse. Quivi noi ne troviamo due a pochissima distanza tra di loro: il castelliere di Monrupino (424 metri) e quello di Zolla. Il primo di questi (T. II, f. 1) possiede una forma piuttosto irregolare, come lo richiedeva la natura del monte, che dal lato di nord-est scende ripidissimo in una profonda vallata, mentre da quello vòlto a meriggio si allarga in un mammellone [35] sporgente. La costruzione complessa di questo castelliere ne rende alquanto difficile la descrizione, sicchè meglio che da questa si potrà farsene un'idea dalla relativa pianta.

La cinta esterna, in parte assai bene conservata, che si può seguire per 720 metri, manca dal lato settentrionale, ove il pendio rupestre porgeva sufficente difesa. Il vallo è tuttora alto 1 a 1.50 metri e ci mostra un muro della grossezza di metri 2.70, formato da grandi blocchi, che all'estremità del mammellone presenta un allargamento a guisa di tumolo, alto circa 5 metri. A poca distanza da questo si stacca la cinta interna e circondando dal lato nord-ovest il precitato mammellone, si prolunga per 230 metri e va ad inserirsi alla parte opposta del vallo esterno. Dalla metà circa di questa cinta interna, ove trovasi un secondo allargamento, si diparte un altro vallo in direzione di ponente per una lunghezza di 160 metri, che va del pari ad unirsi all'argine esterno. Un ripiano, largo da 3 a 10 metri, segue quasi dovunque il decorso del vallo ed in più luoghi venne ridotto a campi. La vetta del monte è formata da un'alta rupe, sulla quale torreggiano ancora le mura esterne di un castello medioevale, entro le quali fu edificata l'attuale chiesa colla relativa canonica. Alla base di questa rupe gira tutt'intorno una spianata circolare. Il terriccio nerissimo e la notevole quantità di cocci, che vi si ritrovano, ci fanno fede della lunga dimora dell'uomo su questo monte, che presentava per la sua posizione elevata, d'onde si domina un vastissimo territorio del Carso, e per la difficoltà dell'ascesa, condizioni eccezionalmente favorevoli.

Molto più piccolo era il castelliere di Zolla (T. I, f. 10) che è di forma ovale e circonda l'apice del monte, che s'erge di faccia a Monrupino. Anch'esso non possiede una cinta completa, facendo questa difetto dal lato di sud-ovest assai declive e rupestre ed ora fittamente imboscato. Il vallo alto 1 a 1.50 metri, ha una lunghezza di 240 e lascia benissimo scorgere un muro poderoso di 2.50 e 2.75 metri di grossezza. Lungo il vallo decorre una spianata circolare larga 5 ad 8 metri, cui sovrasta la vetta per una ventina di metri.

[36] Un terzo castelliere sorge pure poco lungi sur una collina di mediocre altezza a ridosso del villaggio di Repenpiccolo (T. II, f. 2). In parte alterato dalle cave di pietra e dal susseguente deposito del materiale di rifiuto, specialmente dal lato vòlto verso il villaggio e verso settentrione, esso conservò benissimo la sua cinta verso sud e sud-est per una lunghezza di 180 metri, ov'essa presenta un vallo della larghezza di 10 a 15 metri con un'altezza media di 2 a 3, risultante dallo sfasciarsi di un muro di quasi 2 metri di grossezza. Rimarchevole è specialmente la difesa dal lato di nord-est, ov'ergesi una specie di enorme tumolo allungato, alto 8 a 10 metri e misurante in periferia oltre a 200, composto di pietre e di blocchi calcari di varia grandezza. Questa costruzione che è una delle più formidabili, che abbia finora riscontrato in un castelliere, e che non trova riscontro che in quello di Redipuglie, fu determinata dalla necessità della difesa di quel lato, ove il terreno non offre quasi alcun declivio e quindi si rendeva indispensabile di fortificare maggiormente con sassi ammucchiati l'accesso al castelliere. Inoltre vedesi tuttora a metà circa di questo, un muro trasversale che lo divideva in due parti. Le fitte sterpaje spinose, ond'è densamente ricoperto, vi rendono malagevoli le indagini.

Sui monti selvosi che s'innalzano a tergo di Repenpiccolo, culminanti con 545 metri al M. Volnig (M. Lanaro), trovasi sur una vetta di poco a quella inferiore (524 metri), il castelliere di Nivize, detto anche Aidovskigrad (T. II, f. 3). Esso è a doppia cinta rientrante e totalmente imboscato, ad eccezione dei ripiani circolari, assai bene conservati e larghi 6 a 10 metri. La cinta intema, della periferia di 140 metri, ha un vallo parzialmente conservato, alto 0.5 ad 1 metro e della larghezza di 3 a 4. L'esterna che si annoda a questa in direzione di sudest, scende alla falda del monte con un largo ripiano, e misura 300 metri di lunghezza, mancando però per buon tratto di vallo visibile. Essendo i ripiani ridotti a prato non vi si trovano alla superficie che pochissimi cocci. Uno scavo però praticatovi, ci diede tramezzo al terriccio nerissimo, grande copia di resti di fittili, corna di cervo ecc.

[37] Sopra una cima di faccia al castelliere vidi un grande tumolo appiattito, all'incontro nessuna traccia di abitazioni osservai sulla vetta principale. Probabilmente venne prescelta la vetta inferiore, perchè da questa si gode una vista più libera e più ampia sull'altipiano del Carso, specialmente dal lato di oriente e di settentrione.

Procedendo più oltre ci si affacciano presso al villaggio di Salles due castellieri, uno ad oriente detto Gradisce, sopra una piccola eminenza, segnata sulla carta dello Stato maggiore con 316 metri, immediatamente sopra il villaggio; l'altro un po' più lontano, sulla vetta più alta (M. Dernovcah, 407 metri), nominato dai terrazzani Gradez. Il primo (T. II, f. 4), di forma quadrilatera arrotondata, ad una sola cinta della lunghezza di 410 metri, occupa il vertice del monte ed è al pari di questo imboscato, ad eccezione di un piccolo tratto ridotto a vigna. Il suo vallo, benissimo conservato, vi gira tutt'intorno ed è in alcuni punti alto tuttora 2 e più metri; la relativa spianata circolare misura in larghezza 6 a 8 metri.

L'altro castelliere (f. 5) ha una doppia cinta, formata di grossi blocchi, di cui l'interna lunga appena 190 metri e quasi circolare, è in buonissimo stato; l'esterna di 240 metri è mancante invece in alcuni tratti ed un po' meno grossa di quella. Anche questo è totalmente imboscato.

Uno de' castellieri più rimarchevoli e per costruzione e per la sua posizione elevata (401 metri), d'onde si gode una vista libera da ogni lato, è quello di S. Leonardo al disopra di Samatorza (f. 6). Un vallo robusto circonda per 260 metri l'apice del monte, cui si annoda la cinta esterna, che si distende per 600 metri intorno al dosso sottostante. Questa cinta presenta inoltre due valli trasversali, venendo l'area rinchiusa divisa per tal modo in tre parti. Sul punto culminante scorgonsi le rovine di antica cappella dedicata al santo, d'onde il monte trasse il suo nome. I ripiani entro le cinte sono bene conservati e constano di terriccio nerissimo con numerosi cocci, tra i quali non rari gli anelli d'argilla. Una piccola grotta trovasi entro la cinta esterna e parecchie altre sono sparse nei dintorni, delle quali alcune abitate in antico, come la Grotta [38] azzurra, dalla quale trassi una bella collezione di oggetti neolitici.(36)

A poca distanza da questo castelliere, dal quale viene diviso da una piccola sella, havvene un altro, detto Gradine (T. II, f. 7), sul colle che s'eleva a tergo del villaggio di Ternovizza, a circa 340 metri d'altezza. Esso è ad un'unica cinta lunga 380 metri con vallo largo 3 a 6 metri e mancante dalla parte di ponente, ove il monte scende a precipizio, e di mezzogiorno ove trovasi un piccolo campo coltivato. Sembra non esser stato lungamente abitato, essendo il terriccio poco nero ed assai scarsi i cocci.

Non sull'asse principale della catena, ma spostato alquanto verso mezzogiorno, sorge sopra una collina di circa 200 metri il castelliere di Slivno (f. 8.), che giacendo a poca distanza dal viadotto di Aurisina, viene rimarcato da ognuno per la sua forma caratteristica e per il suo vallo egregiamente conservato, che gli danno l'aspetto di una fortezza. Esso possiede una cinta interna quasi circolare di 270 metri con un vallo che dal lato orientale è alto tuttora circa 8 metri ed il cui muro riconoscibile nella massa di sfasciume, ha una grossezza di metri 2.15. A questa parte più elevata del castelliere si aggiunge un vallo esterno di circa 300 metri, che lo cinge dal lato settentrionale. Nei dintorni apresi nel calcare ippuritico un gran numero di grotte, la maggior parte delle quali con copiosi resti di trogloditi.

La catena montuosa va quindi perdendo a poco a poco il suo carattere, allargandosi in un altipiano accidentato di 160 a 200 metri d'altezza con poche elevazioni maggiori. Appena cinque chilometri più a ponente, nei pressi di Duino, noi troviamo un increspamento più considerevole al M. Ermada, che s'inalza fino a 325 metri, per poi declinare gradatamente con una serie di dossi fino alla profonda spaccatura del vallone tra Duino e Gabria, lunga oltre 14 chilometri, che mette in comunicazione la valle del Vippacco coll'estuario monfalconese.

Sulla vetta principale del M. Ermada trovasi un piccolo castelliere (T. III. f. 1) ad un'unica cinta circolare di appena [39] 130 metri di periferia. Ilsuo vallo largo 8 a 12 metri ed alto 1, abbastanza bene conservato, proviene da un muro della grossezza di 1.60 metri. Imboscato al pari di tutto il monte, esso è pianeggiante e possiede nel mezzo un tumolo di sassi, alto 2 metri e del diametro di 12. Il terriccio è assai nero e ricco di cocci.

Questa vetta fu prescelta quale sede dai nostri castricoli principalmente per la sua posizione elevata e dominante su tutte le circostanti, per modo che lo sguardo può spaziare sur un vastissimo territorio e quindi presentavasi quale un'eccellente vedetta. Ma l'area di essa, troppo ristretta, non poteva certamente offrire spazio sufficiente ad una popolazione numerosa, la quale si stabilì perciò sur un ampio dosso arrotondato, che trovasi dappresso, una cinquantina di metri più in basso. E quivi sorse un castelliere assai vasto (T. III, f. 2), del pari ad una sola cinta, che misura in circonferenza 800 metri e della quale si conservarono ancora benissimo 510 metri, parte quale muro della grossezza di ben 3.10 metri e parte rovesciato quale vallo di 4 a 6 metri di larghezza. A nord-est può riconoscersi ancora chiaramente la porta larga 3.60 metri. Manca il vallo dal lato di ponente e settentrione, ove il suolo è molto roccioso ed il pendìo assai ripido ed imboscato. Fra i castellieri da me visitati, questo va fornito d'uno dei muri più grossi e più poderosi.

Un chilometro più a nord della vetta principale giace sur un monte roccioso, detto Nad Ulinca (248 metri), di faccia al villaggio di Brestovizza, uno dei castellieri più formidabili del nostro distretto, visibile già da lontano per la grandiosità del suo vallo. Esso (T. III, f. 3) è a doppia cinta, di cui l'interna più debole, lunga 270 metri, è alquanto deteriorata, laddove l'esterna misurante 710 metri ci presenta un vallo alto 5 a 8 metri, formato dal rovesciamento di un muro grosso 2.50 metri. Dall'enorme massa di sfasciume che circonda tutto intorno il monte come una zona larga 25 a 30 metri, si può farsi di leggeri un'idea della robustezza delle sue opere fortificatorie. Solamente al lato settentrionale, ove il castelliere scende assai ripido e roccioso, manca quasi totalmente il vallo od appare [40] meno forte. Tanto entro la cinta interna che esterna, corre tutt'all'ingiro un ripiano circolare, che specialmente in quest'ultima, ha una larghezza di 10 a 15 metri e per un tratto di 25. La cinta esterna comunica coll'interna a mezzo di una rampa ascendente lunga 112 metri, che metteva pure alla porta principale del castelliere, vôlta verso Bresovizza, che presenta ai lati due enormi ammassi di blocchi calcari, alti 3 a 5 metri, provenienti forse dallo sfasciarsi di due torri, che ne difendevano l'ingresso. Altre due porte sono tuttora visibili nel vallo esterno, d'onde partono i viottoli che conducono al basso. L'apice che sovrasta di 50 a 60 metri la cinta esterna, consta di nude rocce corrose. Il terriccio nerissimo abbonda di cocci. Il castelliere fu senza dubbio abitato anche in epoche posteriori, trovandosi tracce di edifici a mura con calce. Del pari il vallo esterno, dal lato di mezzogiorno, appare rafforzato da costruzioni in cemento.

Procedendo verso ponente noi incontriamo un altro castelliere a due chilometri di distanza, presso i casali di Flondar, sur un colle alto 149 metri, e pur questo di dimensioni considerevoli (T. II, f. 9). Anch'esso è a due cinte, che però, a differenza di quello testè descritto, non girano intorno al monte, ma cominciando alla vetta, oltremodo rocciosa, circondano la falda vôlta verso sud-ovest. La cinta interna, della periferia di 370 metri, consta a sud-est, per una lunghezza di 180 metri, di un vallo poderoso, proveniente dalla distruzione di un muro grosso 2 metri, mentre dal lato opposto vi manca o non è che parzialmente conservato. Il suo ripiano è largo 8 a 12 metri. La cinta esterna comincia egualmente alla vetta ed, altrettanto poderosa, si prolunga in direzione sud-est per 250 metri, ove cessa in una depressione del terreno, laddove quella del lato opposto, formata da grossi blocchi rovesciati, scende giù per la china per un'ottantina di metri e si perde nel bosco, senza permettere di seguirla più oltre. Tuttavia tenendo conto delle tracce del ripiano esterno, si può calcolare a circa 600 metri la sua periferia. Il terriccio vi è nero con cocci numerosi ed è totalmente imboscato. Innicchiata nel muro si trovò una pentola contenente le ossa di un combusto.

[41] Il castelliere di Flondar aveva certamente un'importanza speciale, per la sua posizione all'ingresso del Vallone di Duino. Più importanti ancora devono esser stati altri due, quello di Vertace presso Jamiano, ove colla strada del Vallone s'incrocia quella che segue la forte depressione di Goriansca-Brestovizza, ed il Castellazzo di Doberdò, che sorge immediatamente dal lago omonimo e domina la stretta gola per la quale si svolge la via.

Il primo di questi sorge sur un colle isolato di 145 metri, (nominato sulla carta dello St. Magg. Nad Cherupa Kupa), che s'interpone tra il laghetto di Pietra Rossa e quello di Doberdò. Parte imboscato e parte ridotto a prato, esso comprende oltre che la vetta anche il sottostante pianoro, di circa 80 metri più basso (T. III, f. 4). E uno de' più vasti, misurando la sua cinta esterna oltre ad un chilometro. Per la sua forma ricorda quello di Flondar, cominciando all'apice del monte, ove trovasi un allargamento derivante forse da una torre crollata, e stendendosi sulla falda di sud-ovest, come quella che era meglio riparata dai venti impetuosi. Il vallo conservato tuttora per una lunghezza di 720 metri, ne ha in larghezza 5 a 10 ed è in media alto 1 metro. Causa il pendìo roccioso esso manca al lato di nord-ovest. A 00 metri dall'apice è diviso trasversalmente da un altro vallo, però molto più debole. Nella parte più depressa, ove viene tagliato da una strada, evvi una vallicella con molta argilla, sicché l'acqua vi ristagna facilmente, Causa la fitta vegetazione, sebbene il terriccio sia nerissimo, si veggono solo pochi cocci.

Il Castellazzo di Doberdò (160 metri) era una posizione fortissima, essendo da tre lati limitato da pendici ripidissime ed in più luoghi da rocce perpendicolari (f. 5). Per tal motivo rimase abitato anche in epoche posteriori, come ci fanno fede le varie costruzioni e specialmente i resti di un castello medioevale con una torre ed il forte muro a cemento, grosso 2.50 metri, sovrapposto all'antico vallo. Questo ha tuttora una lunghezza di mezzo chilometro e manca solamente a sud-ovest essendovi affatto superfluo per la ripidità della china rocciosa che tuffa la sua base nel sottostante lago. Un piccolo assaggio [42] praticatovi ci diede oltre a parecchi cocci preistorici e romani, un coltellino di selce, frammenti di bronzo ed alcune frecce di ferro.

Giacchè abbiamo parlato dei tre castellieri, che velettano l'ingresso meridionale del così detto Vallone, credo opportuno di aggiungervi tosto quello di Brestovec (f. 6) che ne difendeva l'accesso dal lato opposto non lungi da Gabria. Molto più piccolo dei precedenti, esso giace sopra un cocuzzolo di 209 metri ed è a duplice cinta, mancante di vallo dalla parte di mezzogiorno, ove trova validissima difesa nelle aspre rocce dentellate. La sommità del monte, del pari totalmente rocciosa, presenta un vallo parzialmente conservato di 2 a 3 metri di grossezza e della periferia di soli 75. In miglior stato trovasi il vallo esterno, largo 4 a 6 metri, del quale esistono ancora 160 metri, con un bel ripiano di fi a 8 metri che si restringe e cessa al lato meridionale. La nativa rocciosa e la fitta vegetazione ne rendono alquanto malagevole una misurazione precisa. Nei punti dilavati veggonsi abbondanti cocci di rozzo impasto.

Opportunissime quali sedi de' nostri proavi, si presentavano le colline estreme che limitano la pianura friulana, offrendo queste oltrechè vaste distese di prati e di fertili campi, anche copia inesauribile d'acqua. E qui troviamo presso a Monfalcone allineati l'uno appresso l'altro, non meno di quattro castellieri. Il primo più ad oriente sulla eminenza maggiore di questa serie di colli (122 metri) detta M. Golas, che forma un dosso arrotondato totalmente nudo, è assai deteriorato, non essendovi visibili che poche tracce del vallo e della relativa spianata (f. 7). E quasi rotondo e misura circa 170 metri di circonferenza. Molto meglio conservato è quello che sorge immediatamente a tergo di Monfalcone, alto 85 metri, su cui torreggia ancora la Rocca attribuita a Teodorico ed in cui si vuol vedere l'antico castello della Verucca (f. 8). Già dalla stazione della ferrata si scorge la cinta biancheggiante, che fascia il monte a mezza costa e che è il vallo preistorico, sussistente ancora per una lunghezza di 140 metri, ai lati di levante, mezzogiorno e ponente, laddove solo qualche traccia se ne conservò dalla parte settentrionale, ove non si può seguirlo che assai [43] diffìcilmente causa la fitta sterpaja, che ne impedisce il passaggio. Esso comincia al punto culminante, occupato dalla Rocca, la quale è circondata da un ampio fosso circolare di 210 metri di periferia, e si distende alla falda vòlta a meriggio. Il muro aveva una grossezza di 1.80 metri, ed il vallo risultante dallo sfasciarsi dello stesso, misura 10 a 15 metri. Però anche dal lato opposto veggonsi resti di mura, forse aggiuntevi più tardi per amplificare il castelliere, quando non poteva capire l'accresciuta popolazione. Nel terriccio assai nero, come pure alla superficie, giacciono numerosi cocci.

A poca distanza dalla Rocca stendesi un altro castelliere, detto delle Forcate (T. III, f. 9), con vallo in parte tuttora esistente, largo 5 a 10 metri ed alto 0.5 ad 1, mancante dal lato di nord-ovest, ove il terreno è assai rupestre e quindi non possiede che appena qualche traccia della spianata. La sua circonferenza è di circa 600 metri.

Un quarto castelliere (f. 10), il più vasto ed il meglio conservato sulla vetta adiacente, quello della Gradiscata o di S. Polo, è a duplice cinta, di cui l'esterna lunga 510 metri, l'interna 390, con bei ripiani circolari larghi 10 a 15 metri. Il vallo è assai robusto, specialmente dalla parte di sud-ovest, ove ha un'altezza di 2 a 5 metri. Nello scavo che vi praticai alcuni anni or sono, raccolsi parecchi frammenti di stoviglie preistoriche ornate e resti d'animali. Nel ripiano della cinta esterna m'imbattei in un gruppo d'inumati d'epoca romana. (37)

Al piede del castelliere esiste un pianoro con piccola grotta, al cui fondo trovasi una raccolta d'acqua perenne, [44] comunicante con un grande deposito sotterraneo, come ce lo dimostra l'apparire reiterato di protei. Così gli antichi abitanti non erano costretti a scendere fin alla pianura per attingere l'acqua, trovandone di eccellente in questa caverna.

Il castelliere del nostro Carso che più si spinge ad occidente è quello di Redipuglia (f. 11), del pari al margine della pianura friulana, giacente a tergo del villaggio omonimo sopra un colle di 92 metri d'altezza. Di forma quadrilatera, cogli angoli arrotondati, possiede duplice cinta, l'esterna misurante 760 metri, l'interna 450. Dalla parte di nord-est, ove si annoda all'altipiano del Carso, quasi allo stesso livello, si rendeva necessaria più valida opera di difesa, e quivi troviamo di fatti un formidabile argine formato da un largo ammasso di blocchi, che s'erge tuttora a 6 od 8 metri d'altezza e ci fa arguire quanto robusto fosse il muro dal cui sfasciamento trasse origine. Più debole naturalmente è il vallo dalle altre parti, ove il maggior declivio naturale suppliva alla men forte costruzione. Da un lato la cinta esterna ed il relativo ripiano furono profondamente intaccati da una cava, d'onde si estrae il materiale per la vicina fornace di calce. In questa occasione si rinvennero parecchi utensili, dei quali mi riesci di ricuperare una parte, mercè la gentilezza del proprietario. Vi praticai pure alcuni scavi, che mi fornirono numerosi frammenti di pentole, cote d'arenaria, pestelli, macine di trachite, resti d'animali, ecc.

Recentemente, in occasione dei lavori per il canale d'irrigazione dell'agro monfalconese, si scoprirono anche le necropoli appartenenti a questo castelliere, di cui una presso al villaggio di Redipuglia, l'altra un po' più distante verso Ronchi. Mentre la prima giace a circa un metro di profondità, la seconda è ricoperta da uno strato di terreno alluvionale alto tre metri In quella apersi nove tombe, in questa 65, cui devesi aggiungere circa una quarantina, che andarono precedentemente distrutte dai lavoranti. Meno tre, tutte le altre erano ad incinerazione e constavano solitamente di un grande vaso-tomba o ziro d'argilla, coperto da un pezzo di pietra. Le necropoli appartengono ad un periodo tardo della prima epoca del ferro e sono piuttosto povere d'oggetti, tra i quali ricorderò alcune fibule [45] serpeggianti e della Certosa, parecchi spilloni a globetti ed a riccio, forniti talora di schermo per la punta, armille, anelli, frammenti di cinture, saltaleoni, pendagli, perfette di vetro e di bronzo, fusaiuole, ecc.

Anni fa, a poca distanza tra Fogliano e Pollazzo, si rinvennero alcune accette di rame, di cui potei averne una, e due belle ascie di pietra dura, che vennero acquistate dal nostro museo di archeologia.

Un ultimo castelliere, del quale però assai poche tracce sono visibili, trovasi presso S. Martino (199 metri) al di sopra di Sdraussina. In un campo attiguo si rinvenne, un paio d'anni fa, un vaso con ossa di combusto, senza alcuna aggiunta.

Il pianoro, variamente accidentato, tra la catena centrale ed il margine settentrionale del nostro Carso, non offriva condizioni molto opportune allo stabilimento di castellieri e quindi non ne troviamo che un numero piuttosto limitato.

Vasto ma in buona parte distrutto dalle colture posteriori e dall'erezione di un castello medioevale, di cui esistono ancora due torrioni, è il castelliere di Tomai (T. IV, f. 1), che aveva una circonferenza di oltre un chilometro. La sua posizione eminente (382 metri) sur un monte isolato in mezzo ad una campagna assai fertile, dal quale si domina tutt'intorno un estesissimo territorio, lo rendeva certamente uno de' più importanti del nostro Carso. La parte vòlta a mezzogiorno ed a ponente è occupata dall'odierno villaggio e da campi e vigneti, e quindi poche tracce conserva dell'antico vallo, laddove dall'opposta, rivestita da un bel bosco di castagni, questo è visibile per oltre 200 metri. Il pianoro superiore ove sorgono la chiesa ed altri edifizi, è per la massima parte ridotto a campi ubertosi, dai quali, mercè le cure dell'egregio parroco-decano M. Siila, ebbi nunerosi cimeli preistorici. Qualche anno fa, scavandosi il terreno più profondamente per costruirvi una scuola, si rinvennero parecchi scheletri del Vili o IX secolo, con orecchini, anelli ed armille di bronzo.

Del pari il villaggio di Scopo trovasi fabbricato entro un castelliere (300 metri), che per tal modo andò quasi totalmente distrutto, e del quale più non si scorge che un breve tratto di vallo.[46] Altro minuscolo castelliere, egualmente assai deteriorato, sorge sopra una piccola eminenza isolata tra Copriva e Cobillaglava. Poco lungi da questo, al M. Jelenca, apresi nel suolo una voragine che mette in una caverna spaziosa, la quale sebbene giaccia ad una profondità di 38 metri, era anticamente abitata, avendovi rinvenuto resti di focolai con cocci, manufatti d'ossa e due ascie di pietra dura. (38)

Ben diverso per forma è l'ampio castelliere di Vucigrad (T. IV, f. 2), il quale, a differenza degli altri, non giace sopra un monte, ma trovasi sur una piccola elevazione del terreno appena appena accennata. Ciò determinò una costruzione particolare, per munire sufficientemente il luogo, specialmente alle due estremità di sud-ovest e nord-est, laddove agli altri lati, per la presenza di alcune delle solite vallicelle del Carso, non rendevansi necessarie altre opere fortificatorie all'infuori del solito vallo. A quelle due estremità la cinta possiede un raddoppiamento in forma di un secondo argine della lunghezza di 220 metri, che staccandosi dal vallo interno, si protende all'infuori per 40, rispettivamente 38 metri. Così la periferia totale del castelliere è di 850 metri, laddove la cinta interna è di 680. Essendo la difesa di questo luogo affidata principalmente alle opere artificiali, anzichè alla propizia posizione, è naturale che i valli fossero assai robusti — il mino aveva una grossezza di 2 metri, — e difatti anche al presente essi hanno un'altezza di 2 a 4 metri, sebbene le enormi masse di sfasciume, larghe 8 a 15 metri, ci dimostrino, che ben più alti ancora s'ergessero in antico. Il castelliere è attualmente ridotto in buona parte a coltura e viene attraversato in tutta la sua lunghezza dalla vecchia strada che da Vucigrad mette a Comen. Il grosso strato di terriccio nero e la quantità di cocci, ci fanno fede della lunga dimora dell'uomo in questo castelliere.

Quattro chilometri più a ponente trovasi il castelliere di Zagraiz (T. III, f. 12 ), del pari bene conservato, ma molto più piccolo, non misurando in periferia che 370 metri. Esso sorge a ridosso dell'omonimo villaggio sopra un colle di [47] mediocre altezza e non possede che un'unica cinta, più forte dal lato orientale, ove ha tuttora un'altezza di 3 a 4 metri ed una larghezza di 10 a lo, laddove il muro originario era grosso 1.50 metri. In buona parte coltivato, ha dovuto subire parecchie alterazioni nel corso de' secoli, essendo stato abitato tanto in epoca romana che più tardi, come ci attestano le rovine di un castello medioevale e di altri edifizi. Perciò ai cocci preistorici vi sono frammisti pure altri di tempi posteriori.

In una vigna di Zagraiz si rinvennero, non è guari, pentole frammentate e parecchie fusaiuole preistoriche. Dalla parte opposta verso Goriansca esistono in tre campi gruppi di tombe romane a cassetta, di cui ne apersi tre, contenenti resti d'inumati. (39)

Molto deteriorato e quindi difficilmente riconoscibile, è il castelliere di Voischizza (327 metri), per esservi stato costruito in esso un castello medioevale, che ancora presentemente serve da casa parrocchiale ed una parte del villaggio. Non si conservarono che poche tracce del vallo e gli scarsi cocci che qua e là trovansi sparsi pei campi.

Assai meglio conservato all'incontro è il castelliere di Martinischie (345 metri), presso Slitta, che è uno de' più vasti del nostro Carso, misurando quasi un chilometro e mezzo di periferia (T. IV, f. 3). Esso giace sur un'elevazione poco emergente dalle circostanti campagne e comprende due collinette, tra cui si stende una vallicella imboscata. Di forma alquanto irregolare, si compone di due parti distinte: l'orientale, più piccola (periferia 790 metri), ma con vallo assai forte, alto 5 a 6 metri e largo 8 a 20, mimita inoltre di un avancorpo semicircolare, del pari robustissimo, ed attraversata dalla strada regionale che da Slitta conduce a Scherbina; e l'occidentale [48] molto vasta (perif. 1200 metri), però maggiormente alterata dalla riduzione del terreno a campi ed a prati.

Di questo castelliere mi riesci di scoprire la relativa necropoli, se anche pur troppo per la massima parte distrutta dai lavori agricoli. Essa giace a circa mezzo chilometro di distanza in alcuni campi del villaggio di Slitta e consta di tombe di combusti ricoperte da lastre di pietra. Oltre ad alcuni spilloni a globetti, ad anelli, ad armille, a coltellini di ferro, ecc. noterò un bel lebete di bronzo ed una fibula conservatissima con pendagli a catenella.

In maggior numero noi incontriamo i castellieri presso al ciglio settentrionale del Carso, ove se ne contano 12 lungo un tratto di circa 30 chilometri tra Storie (Saturiano) e S. Maria di Merna.

Primo ci si affaccia quello di S. Michele di Storie (T. V, f. 1), giacente a circa due chilometri da questo villaggio sur una vetta di 445 metri, d'onde lo sguardo può spaziare sopra un ampio territorio, comprendente buona parte dell'altipiano del Carso ed i monti che si stendono al di là della valle della Rassa. Costruito al margine di questa, ove il monte presenta un ripido declivio di circa 200 metri, non veniva protetto da questo lato che da un debole vallo, al presente rovesciato, al pari di quello della parte opposta, ch'era però assai più robusto. All'incontro ergesi ancora maestoso per 6 metri l'argine formidabile, che lo chiude a sud-est, della larghezza di 15 a 25 metri. La periferia di questo castelliere è di 450 metri. All'estremità di nord-ovest veggonsi le rovine della chiesa dedicata a S. Michele, mentre all'opposta vi si annoda una spianata esterna semicircolare di 220 metri però senza alcuna traccia di vallo.

Più vasto ed ancor meglio conservato è il castelliere del M. Vachta o M. Guardia (T. IV, f. 4), giacente sur un dosso di 400 metri, immediatamente sopra il villaggio di Casle. Per la robustezza del vallo, formato da grossi blocchi, è questa una delle più grandiose costruzioni preistoriche del nostro distretto, che misura in circonferenza 850 metri. Il vallo che manca solo per un'estensione di 200 metri della cinta esterna, [49] ove fu asportato per ridurre il terreno a prato, ha quasi dovunque 10 a 25 metri di larghezza e 5 a 6 di altezza, lasciando scorgere un muro grosso 340 metri, dal cui crollo parziale esso ebbe origine. Essendo il castelliere parte imboscato e parte ridotto a prato, i cocci visibili sono assai scarsi.

Solo poche tracce incerte rimasero di quello di Auber, posto sur un'eminenza attualmente occupata dalle case del villaggio e dai campi, sui quali, testimoni del prisco castelliere, rinvengonsi pochi cocci sparsi.

All'incontro benissimo conservossi quello di Cobdil (T. IV, f. 5), che porta tuttora il nome di Gradisce e che realmente consta di due castellieri divisi da una piccola vallicella ed uniti tra di loro da un vallo comune. Nascosto in un magnifico bosco di querce, il maggiore di essi, di forma quasi circolare, ha una periferia di circa 360 metri ed è tuttora difeso da un vallo robusto alto 2 a 3 metri per quasi tutta la sua estensione. Solo dal lato di ponente esso vi fa difetto per un tratto di 80 metri, mentre la spianata, larga 6 a 8 metri, vi gira ininterrotta tutt'intorno. La parte centrale va leggermente elevandosi e sovrasta la cinta di 6 a 10 metri.

Da questo castelliere si allunga in direzione di oriente un grosso muraglione, lungo 180 metri, che sale ad una vetta un po' più alta (411 metri), annodandosi ad un altro castelliere del pari circolare ma di dimensioni minori, non misurando che 116 metri di circonferenza. Anche questo trovasi in buono stato e possiede un vallo alto 1 a 1.50 metri, formato da grossi blocchi ed è perfettamente piano. Del vallo comune, che univa i due castellieri, non si conservò che quello rivolto verso la valle della Branizza.

A poca distanza sorgeva un altro castelliere, quello di S. Daniele, che andò però in buona parte distrutto, per essere stato abitato dalle epoche remotissime fino al presente, sicchè vi si trovano numerosi avanzi della dominazione romana e dei tempi feudali. Stanno ancora parzialmente in piedi le sue mura colle porte ed i baluardi e sul suo vertice s'ergono ancora i resti di un torrione. Di conseguenza è naturale che andassero distrutte le cinte dell'antico castelliere, dell'interna [50] delle quali non rimase che un tratto di ripiano, e dell'esterna i resti del vallo rovesciato per una lunghezza di circa 200 metri.

Fin dal 1878 ci venne fatto di trovare un pajo di tombe della necropoli appartenente a questo castelliere, in un campo sottostante. Vi si raccolsero allora una bella cista a cordoni, la prima rinvenuta nella nostra provincia, qualche fibula della Certosa e ad arco laminare, alcuni anelli ed armille. (40) Non essendosi praticati scavi sistematici, non è possibile stabilire se la necropoli si estenda maggiormente o se sia stata già distrutta coi lavori agricoli. Forse ricercando tra i filari di viti, si avrebbe la ventura di trovare altri sepolcri.

Oltre a queste tombe piane esistono nelle vicinanze due glandi tumoli, di cui uno sul M. Ostri al disopra dei casali di Cipi (diametro 25 metri, altezza 2 metri), che sembra ancora intatto, ed un altro ancora più colossale sul M. Skerlevec (430 metri), formato da grossi blocchi, del diametro di 31 metri ed alto 6 a 8 metri portante tracco evidenti di antica manomissione, crescendo alcuni alberi nella depressione centrale derivante dallo scavo.

Il colle isolato su cui torreggia il castello dei conti Lantieri a Reifenberg (1.50 metri), era pure in antico un castelliere, del quale però ben poco rimase fino ai giorni nostri, sicchè ove non vi si incontrassero cocci preistorici nel nero terriccio, difficilmente si potrebbe constatare la sua esistenza.

Un tumolo colossale sorge poco lontano sul monte di Rabotniza (433 metri), che aperto qualche anno fa dai cerca tesori, presentò al suo centro una cassetta formata da lastre di pietra e contenente resti di un inumato e frammenti di pentole di argilla.

Chi da Comen si reca a Reifenberg scorge a sinistra, a metà circa del cammino, un colle sporgente, alto 478 metri, colla caratteristica cinta, che incorona il vertice, su cui si scorgono le rovine di una vecchia chiesuola. È il monte di S. Martino (T. IV, f. 6), che prende appunto il nome dal santo, cui essa era dedicata. Il castelliere, della periferia di 240 metri, possiede [51]un vallo circolare, che a giudicare dall'enorme massa di sfasciume rovesciata sui fianchi del monte, dev'essere stato molto poderoso. La sua spianata ha una larghezza di 8 a 10 metri. Dal lato di nord-ovest scende giù dal monte un'altra cinta non troppo bene conservata, che s'allontana dall'interna di 80 metri e che si può seguire per 380 metri. Sul vallo antico vedesi costruito a settentrione un muro posteriore a cemento, lungo 60 metri. Il terriccio vi è nerissimo e numerosi i cocci.

Sebbene elevato, S. Martino non permette la visione libera che verso mezzogiorno e ponente, laddove dai lati opposti essa viene ristretta da una catena montuosa, che lo sovrasta per una quarantina di metri. Per ovviare a questo inconveniente venne costruito sur una dell'eminenze maggiori, al disopra dei casolari Mihali, un altro castelliere in miniatura, perfettamente circolare, che doveva servire da vedetta. E il più piccolo de' castellieri finora conosciuti, non avendo che 97 metri di circonferenza, sebbene la sua costruzione sia identica agli altri, ed abbia una cinta larga 10 a 15 metri ed alta 1. La mancanza di terriccio nero e di cocci, fa supporre ch'esso sia stato abitato, o piuttosto presidiato, solo in caso di guerra, godendosi da esso una vista illimitata su tutta la vallata del Vippacco fino ai piedi delle prealpi.

Tanto sulla vetta del monte Sunka (41) (519 metri), che sorge a levante, che su quella del M. Vousniac (573 metri) a ponente, e sopra un'altra che trovasi appresso, giacciono tre tumoli di mediocre altezza.

Uno de' castellieri più vasti trovasi di faccia sur un dorso montuoso, chiamato M. Lipovnic (T. V, f. 2), che si protende per una lunghezza di quasi un chilometro, a nord del villaggio di Scherbina. Esso consta in realtà di due castellieri giacenti sulle due vette estreme, uniti tra di loro a mezzo di due lunghi muraglioni, che comprendono la parte mediana, e corrisponde quindi per costruzione a quello di Cobdil. Il castelliere [52] principale, che sorge sulla vetta orientale, alta 489 metri, ha una circonferenza di circa 500 metri e possiede un robusto vallo, formato da grossi blocchi, alto 1 a 3 metri e grosso 8 a 15, che lo cinge tutt'intorno meno che dal lato ove la ripida china si allunga nel dorso del monte. Esso viene ancora maggiormente rafforzato da un altro vallo, che partendo dalla periferia settentrionale, sale alla vetta rocciosa e va ad inserirsi alla parte opposta. La natura rupestre del suolo non permise la formazione della spianata, che solo in alcuni tratti. Al versante meridionale trovasi una bella e comoda grotta di facile accesso, lunga una ventina di metri, che senza dubbio avrà fornito un ricovero gradito agli antichi abitatori. Dei due muraglioni, che partendo da questa vetta principale, si estendevano per una lunghezza di circa 500 metri fino all'estremità occidentale, non si conservarono che poche tracce dal lato rivolto a meriggio, ove però per buon tratto è tuttora visibile la spianata, mentre di quello del lato opposto esistono notevoli avanzi per oltre 300 metri. Queste due muraglie fanno capo ad una vetta un po' più bassa della principale, sulla quale trovasi altro recinto circolare, con vallo rovesciato, di dimensioni però assai piccole, non misurando che soli 70 metri di perimetro, entro il quale si scorgono le rovine di una cappella dedicata a S. Martino.

Già da lungi visibile per la sua cinta formidabile, è il castelliere di S. Ambrogio (T. V, f. 3), sorgente sur un colle di 534 metri, che si stacca dal massivo del M. Terstel. La sua periferia è di G30 metri, dei quali 470 muniti di robustissimo vallo, alto dalla parte interna 2 metri e dall'esterna ben 10 a 12. La massa di sfasciume proveniente da un muro grosso 2 metri, ha una larghezza di 15 a 35 metri. Il vallo mancava a sud-ovest, ove le rupi rendevano superflua qualsiasi opera di difesa. Sul punto culminante esistono le rovine di una cappella dedicata a S. Ambrogio. Esso servì anche in tempi posteriori quale luogo di rifugio in caso di guerra, il che ci viene dimostrato dai resti di costruzioni, che qua e là si veggono e dal grosso muro a cemento costruito a difesa del lato di levante e di settentrione sul vallo preistorico, per una lunghezza di

[53] 340 metri. Molto grosso è lo strato di terriccio nero, accumulatosi nel corso de' secoli e copiosi vi sono i cocci. Presentemente esso è ridotto a prato boschivo. L'ampia e fertile pianura, che si stende alla sua base, avrà senza dubbio allettato a prendervi stanza una popolazione numerosa.

Di faccia a Castagnovizza sorgono due colli isolati, al cui piede si allarga del pari un piano ubertoso, detto Valle di Sottocastello (Podgrac dolina). Il primo di questi, sebbene veduto dal basso abbia tutta l'apparenza di andar fornito di un vallo, non possiede alcun avanzo preistorico, ma consta alla cima di nuda roccia orribilmente sgretolata, l'altro invece, un po' più basso ed imboscato, è un bel castelliere (T. V, f. 4) a doppia cinta parziale, benissimo conservata, della periferia di 550 metri, che dalla parte di nord-est si annoda ad un pianoro, mentre la parte di sud-ovest si va leggermente abbassando verso la valle sottostante. Il vallo, specialmente dal lato settentrionale ed orientale è fortissimo, alto fino 6 metri e largo 10 a 20 metri, che lascia scorgere quale nucleo un muro di 2.20 metri di grossezza. Il vallo interno è molto più debole e si stende attraverso il castelliere, dividendo dalla parte maggiore un piccolo segmento inferiore pianeggiante di 18 metri di diametro. Anche il vallo esterno dal lato di sud-ovest è meno forte che dal lato opposto, in cui non essendovi pendio, tutta l'opera di difesa era da esso rappresentata. Ed è probabile che quivi si trovasse pure una specie di torrione centrale, presso l'ingresso, a giudicare da un allargamento del vallo. Il castelliere è totalmente imboscato, sicchè dal lato di nord-ovest, causa gli sterpi, riesce in più luoghi difficile seguirne la cinta.

Dalla catena calcare, che limita a mezzogiorno l'ultimo tratto della valle del Vippacco, sporgono alcune colline arrotondate, sull'estrema delle quali, alta 120 metri, sorge il santuario della Madonna di Grado (T. V, f. 5). Alterato dagli edifizi recenti, che incoronano la vetta del colle, come pure dal tracciamento della strada che vi conduce e da costruzioni medioevali di difesa, di cui si vedono ancora gli avanzi, riconoscesi tuttavia l'esistenza di antico castelliere nelle reliquie della cinta, nei cocci e nel terriccio nero. Dei muri è oramai scomparsa [54] quasi ogni traccia, e solo rimane il ripiano circolare, ora imboscato a pini, che si può seguire per circa 500 metri.

Avendo stabilito quale limite del nostro distretto il corso del Vippacco, ci resta da descrivere ancora alcuni castellieri, che giacciono al di là della profonda spaccatura del torrente Rassa. Da S. Michele di Storie so ne scorge benissimo uno colla sua cinta conservatissima, sorgente al disopra del villaggio Grise (T. V, f. 6). E questo un castelliere ad una sola cinta costrutto all'apice del monte, di mediocri dimensioni, misurando 420 metri di circonferenza. Il vallo alto 1.50 metri e largo 8 a 10, formato da grossi blocchi calcari, è specialmente poderoso dal lato di nord-ovest, che è il punto più alto del castelliere, ove si riconosce ancora assai bene il muro della grossezza di 3.30 metri. Il terreno vi è rupestre, con pochissimo terriccio, ed è occupato da ginepri ed arbusti di quercia.

Presso a questo castelliere trovansi all'apice de' due colli due tumoli, di cui uno di soli 12 metri di circonferenza ed alto 1 metro, l'altro rovesciato di quasi 100 metri.

Più esteso è un altro castelliere a duplice cinta, che giace di faccia a poca distanza, entro il quale è costruito il villaggio di Tabor (T. V, f. 7). La sua circonferenza totale è di 680 metri, quello della sola cinta interna di 550. Sebbene sia stato utilizzato nell'evo medio quale fortilizio, di cui sussiste tuttavia una torre circolare e tuttora serva da dimora all'uomo, che lo ridusse quasi totalmente a fertili campi, il vallo vi è in buona parte conservato ed assai robusto, specialmente l'esterno, che è alto 1 a 1.50 metri ed ha una larghezza di 10 a 15 metri Al suo piede giace il villaggio di Jacovize.

Cinque chilometri circa a ponente noi incontriamo un altro castelliere a Gradisco presso Stiac, del quale però non si conservano che tracce molto incerte, essendo ridotto a prati ed a campi, nei quali non mi riesci di trovare alcun coccio. Per la sua posizione elevata di quasi 600 metri, dominante le valli dei torrenti Rassa e Branizza, come pure buon tratto di quella del Vippacco, vi si sarebbe prestato assai bene, al pari che il propinquo Tabor, ove si veggono i resti di un castello medioevale, ma non si può più riconoscere alcun vestigio di una [55] stazione preistorica. L'esplorazione accurata della vasta zona di monti arenacei, che fiancheggiano la valle del Vippacco fino alla pianura friulana, darà senza dubbio la scoperta di parecchi altri castellieri, quantunque per la natura del terreno poco propizio alla loro conservazione, alquanto difficoltato ne sia l'accertamento. Così pare ne esista uno sopra la vetta, che si protende dal villaggio di Ersel, posto anch'esso in cima di un monte; altri forse giacciono sul lungo dosso di S. Pietro presso Gabria e su quello di S. Tibot presso Samarie, ecc.

La fertile vallata che si stende presso Senosecchia, racchiusa tutt'intorno da monti ricoperti di dense foreste, tra le quali serpeggiano numerosi ruscelli, offriva non ostante la sua notevole elevazione di oltre 500 metri, condizioni opportunissime allo stabilimento di castellieri, tanto più che il propinquo passo di Prevald rendeva facili le comunicazioni verso Postumia e la Carniola inferiore. Così noi troviamo quivi un gruppo di quattro castellieri sur una linea di poco più di tre chilometri.

Il primo giace sur un colle di circa 700 metri d'altezza, che s'eleva a tergo di Senosecchia. Causa la costruzione di un vasto fortilizio medioevale, che ingombra tutta la vetta con un enorme ammasso di rovine, l'antico castelliere andò in buona parte distrutto, sicchè solo dal lato di sud-est si può riconoscere l'argine per una lunghezza di circa 150 metri.

All'incontro in ottimo stato si presenta quello di S. Giorgio (T. IV, f. 8), che si protende immediatamente sopra Potoce, ed è a duplice cinta, del perimetro di 300 metri, con un vallo alto 0.5 ad 1 metro e largo 5 a 10. Il nero terriccio abbonda di cocci.

Assai più vasto è quello del M. Bandiera (T. V, f. 8), del pari in prossimità di Potoce, ma dall'altra parte del ruscello sopra un monte più elevato, che s'estolle a settentrione. È rimarchevole questo castelliere per andar fornito di un grandioso argine di blocchi calcari, sebbene giaccia su terreno arenario, sicchè i suoi costruttori dovettero trascinarvi il materiale occorrente da un colle inferiore: lavoro colossale, data la grande estensione della cinta, che misura ben 650 metri di [56] circonferenza, ed i mezzi primitivi di escavazione e di trasporto, dei quali potevano disporre quegli antichi abitanti. L'aggere è specialmente robusto dalla parte di nord-est, ove per una lunghezza di 50 metri ha tuttora un'altezza di 6 metri ed una larghezza di 20 a 25. Dagli altri lati è più debole ed in buona parte rovesciato e ricoperto di erba. Il castelliere possiede una bella spianata circolare, larga 15 a 20 metri, ed occupa il vertice del monte. Il tratto superiore, in cui scorgonsi le fondamenta di alcuni vecchi edifizi ed un piccolo stagno, è quasi piano e limitato dall'inferiore, un po' declive, da un vallo quasi scomparso. Dalle falde del monte, ricoperte da bellissimi boschi di querce e di betulle, sgorgano parecchie sorgenti d'acqua.

Poco lungi da Dolegnavas giace sur un monte calcare, che sovrasta la valle del torrente Locnic, presso i casali di Hrib (T. V, f. 9), un castelliere circolare ad una sola cinta di 470 metri. Il vallo è parzialmente rovesciato, parte alto fin due metri, perù rivestito d'erba. Il terriccio vi è assai nero.

Descritti i castellieri che si trovano sul Carso a settentrione ed a ponente di Trieste, ci resta a trattare di quelli, che sono sparsi a mezzogiorno ed a levante della nostra città.

E qui, a brevissima distanza dal confine, troviamo quello di S. Michele (T. VI, f. 6) sul colle che innalzasi a 230 metri a ridosso del villaggio di Bagnoli (Boliunz). La sua posizione all'imboccatura della stretta gola del Rosandra, lo rendeva certamente di speciale importanza, tanto più che presso alla sua base sgorgano parecchie grosse sorgenti d'acqua eccellente, una delle quali fu anzi utilizzata più tardi dai romani per l'acquedotto di Trieste, del quale si conservano ancora gli avanzi. (42) Il forte pendìo dirupato del monte non richiedeva grandi opere di difesa, che anzi erano del tutto superflue dal lato di sud-est, che guarda la predetta gola, ove le rocce scendono quasi a picco. Il castelliere appartiene quindi a quelli di [57] forma semicircolare a triplice cinta, di cui la media non continua ma a differenti livelli, come lo concedeva la natura del terreno. La superiore di 210 metri di lunghezza, circonda la sommità del monte, che presenta un piccolo pianoro, lungo circa 70 metri, ove si veggono pochi avanzi di una cappelletti. La cinta media che misura 350 metri, comunica con una breve rampa colla superiore. L'inferiore non trovasi che dal lato di nord-est per una lunghezza di 260 metri. I ripiani sono larghi 5 a 10 metri, laddove il vallo è quasi completamente scomparso o rappresentato solo da una fascia di sassi rovesciati di 10 a 12 metri che segue i ripiani. Lo scavo d'assaggio praticatovi, diede resti d'animali, cocci ed una fusajuola. Immediatamente sotto la vetta, trovasi una piccola grotta ove qualche anno fa si raccolsero alcune armi di ferro. (43) Le falde inferiori del monte vennero recentemente imboscate a conifere.(44)

Di faccia a S. Michele s'innalza, dall'altra parte della Rosandra, un altipiano roccioso di 400 a 450 metri d'altezza, che a mezzogiorno digrada in una serie di terrazzi, mentre a levante va a poco a poco salendo ai contrafforti selvaggi del M. Tajano (Slaunig), punto culminante del nostro distretto (1029 metri). Quest'altipiano calcare, lungo 12 chilometri e largo 2 a 5, denudato al presente quasi del tutto di vegetazione arborea, colle sterili distese seminate di sassi, foracchiato in mille guise da spaccature e da burroni, in cui s'aprono numerose voragini e caverne: questo triste deserto con scarsi e miseri villaggi, celati in qualche depressione del terreno, offriva tuttavia nei tempi preistorici posizioni opportunissime alla costruzione di castellieri. E di fatti noi ne troviamo un numero considerevole, specialmente al lato vòlto verso mezzogiorno, ove spesso si adagiano al margine dei vari terrazzi. E sur un mammellone dirupato immediatamente al disopra di [58] Bagnoli, sul M. Grisa, alto 458 metri, giace uno de' più vasti castellieri, misurando in circonferenza oltre a 1700 metri (T. VI, f. 2). Il suo vallo robustissimo, delia lunghezza di 770 metri, lo cinge solo da una parte (da sud-est), mentre dall'opposta riesciva del tutto superfluo, precipitando il monte ripidissimo o quasi a perpendicolo, con una serie di rocce, nella sottoposta valle di Bagnoli e nella stretta gola, che è l'unica via per cui vi si può accedere. Costruito da grossi blocchi, ha presentemente un'altezza di un metro ad un metro e mezzo ed una larghezza di 20 a 30, permettendo ancora riconoscere il muro grosso 2 metri, d'onde trasse origine. Esso circonda un vasto altipiano di almeno 300.000 metri quadrati ed un monticello che ad un'estremità s'eleva di una quarantina di metri, il quale alla sua volta possiede un proprio vallo interno della lunghezza di 80 metri. Questo era meno forte, non avendo il suo muro che una grossezza di un metro e mezzo ed essendo molto meno alto dell'esterno, come ci viene dimostrato dalla cinta di sassi rovesciati di appena 4 a 6 metri di larghezza. Tuttavia pare che questa parte interna del castelliere sia stata più a lungo e più densamente abitata, trovandosi quivi il terriccio nero ed i cocci copiosi, laddove nel resto del castelliere vi difetta quello e molto scarsi rinvengonsi i secondi. E quindi probabile che questo castelliere, almeno nella sua parte più estesa, servisse anzichè d'abitazione precipuamente quale accampamento in tempo di guerra. E per vero come tale ci si presenta stupendamente scelto per la sua posizione eminentemente strategica. Posto al margine d'un elevato altipiano e circondato da due lati da rocce perpendicolari o da ripidissimi pendii, esso non presentava che un solo lato accessibile a sud-est, ove si congiunge al vasto pianoro già accennato, che si estende verso S. Servolo ed a poco a poco va elevandosi verso le pendici dirupate dei monti Tajano e Coinig. Ma per giungere a questo altipiano fa mestieri sforzare la stretta valle della Rosandra, limitata da erte e rupestri montagne e nella quale non sboccano che due anguste gole, quella che mena direttamente al castelliere e quella di Becca, Ora la prima di queste, quantunque assai erta, era stata ancora fortificata per mezzo di una grossa [59] muraglia trasversale. Questa muraglia, o piuttosto vallo tumultuario di blocchi gettativi alla rinfusa, largo 15 a 20 metri, scendeva giù dai fianchi della montagna e chiudeva perfettamente la gola fino alle rupi perpendicolari che la limitano a sinistra di chi vi ascende. Inoltre circa 30 metri innanzi di essa, si spingeva un corpo avanzato, forse una torre che accresceva ancora maggiormente la sua validità in caso di un attacco nemico. Che questo vallo sia antico e rimonti al tempo del castelliere, non è punto da mettersi in dubbio, essendo i cocci che vi si raccolgono, qua e là disseminati tra le pietre, d'una epoca anteriore alla dominazione romana, se anche forse di poco anteriore.

l'altra gola, quella di Becca, non è accessibile lungo il ruscello Grisa che la percorre, perchè questo forma frequenti cascate, ma deve esser seguita alle falde molto ripide del monte, girando intorno ad un altro castelliere, a quello di S. Lorenzo, che ne tutelava il passaggio. Dall'altro lato l'accesso al pianoro veniva vigilato da una serie di castellieri, quello del M. d'Oro, di Prebeneg e di S. Servolo. Ma anche ove il nemico fosse riescito a girare questa prima barriera e, seguendo la valle di Ospo, avesse voluto guadagnare da questo lato l'altipiano, ritrovava sbarrati da altrettanti castellieri i vari accessi, già per sè difficili, che vi mettevano. Così poco lungi da quello di S. Servolo ne troviamo due altri al di sopra di Castelz, poi uno sul M. Hradisce presso Cernical, quello di S. Maria di Cernotich, ed un altro sul colle di faccia, poi uno sopra Besovizza, uno sopra Popecchio, uno tra Zanigrad e Zasid ed infine uno sul terrazzo a ridosso di quest'ultimo villaggio. E se vi aggiungiamo ancora parecchi altri, che se anche alquanto più discosti sulle vette circostanti, (come può vedersi dall'annessa carta topografica), pur in caso di bisogno potevano rendere valido aiuto a quelli dell'altipiano, dobbiamo convenire che la scelta del castelliere del M. Grisa quale base di un operazione guerresca, si offriva opportunissima, presentando difficoltà enormi agli assalitori, ed in pari tempo agli assediati la possibilità di una ritirata facilissima al centro dell'Istria, rispettivamente ai monti più elevati, lungo l'altipiano in caso di sconfitta. Ed io [60] sono d'avviso che appunto quivi si accampasse l'esercito istriano, dopo la sconfìtta loro apportata dal console Manlio nel 178 a. C. colla ripresa degli alloggiamenti perduti, impedendo, grazie alla forte posizione, di avanzarsi all'esercito vincitore ed obbligandolo a ritornarsene ad Aquileja. Chè sebbene l'espugnazione di queste posizioni fortificate, gli avrebbe aperta la via all'Istria, si stimò opera troppo ardua l'attaccarle, bastando tra quelle strette gole e tra que' dirupi, un manipolo di intrepidi difensori per opporsi all'impeto delle legioni irruenti.

Descritto il castelliere principale, vediamo quali fossero gli altri che circondavano l'altipiano. Risalendo l'angusta valle della Rosandra, limitata d'ambo i lati da rocce inaccessibili, nelle quali s'aprono numerose caverne, già abitate da' nostri trogloditi, s'incontra a circa due chilometri e mezzo da Bagnoli, la spaccatura percorsa dal torrentello Grisa, che scende dall'altipiano di Becca (418 metri). E quivi sur un maminellone isolato, un po' più basso, circondato da profondi burroni, giace il castelliere di S. Lorenzo, che aveva una periferia di 320 metri (T. V, f. 10). La costruzione di un castello medioevale col relativo fosso circolare, che ora occupa con un ammasso di rovine il centro del castelliere sopra una rupe elevata di 8 a 10 metri sul ripiano, ha oltremodo alterato l'aspetto primitivo del castelliere per modo, che si sarebbe in dubbio se realmente fosse quivi esistita una sede de' nostri preistorici, tanto più che vi manca completamente qualsiasi traccia di muro o di vallo. Tuttavia mercè un piccolo assaggio praticatovi, potei accertarmi della presenza di cocci preistorici. Sul ripiano sorgono, dalla parte di settentrione, i resti di un fabbricato alto oltre a due metri in pietra riquadra, appartenenti forse ad una torre poligona.

La vasta pianura di Zaule, percorsa dal fiumiciattolo Rosandra, viene limitata a mezzogiorno da uno sperone dei monti marnosi, che staccandosi dall'altipiano di S. Servolo si protende fino al mare, dividendo questa valle da quella di Ospo, percorsa dal torrente Recca. E quivi noi troviamo a poca distanza tra di loro tre castellieri, di cui uno sulle rupe di S. Servolo, [61] un altro d'appresso, sur un mammellone un po' inferiore, sovrastante al villaggio di Prebeneg ed il terzo più in basso al M. d'Oro.

Il primo di questi (T. VI, f. 3) è di piccole dimensioni ed assai alterato dalle opere di fortificazione del castello medioevale di S. Servolo, i cui avanzi torreggiano ancora sull'alta roccia sporgente (circa 450 metri). Il suo vallo semicircolare alto da 3 a 4 metri e largo circa 20, fu senza dubbio utilizzato in tempi posteriori a scopo di difesa, essendo superiormente appianato ed ingombro da una massa di rottami d'arenaria e di tegole. Esso ha una lunghezza di 135 metri e racchiude uno spazio largo 30 a 60 metri, che dal lato opposto scende con rocce a perpendicolo sul sottoposto villaggio di S. Servolo, rendendo quivi inutile ogni opera artificiale. Il fosso scavato a difesa del castello, come pure la costruzione del cimitero del villaggio, che presentemente vi si trova, hanno contribuito non poco ad alterarne l'aspetto primitivo. Tuttavia non vi mancano i cocci, se anche per lo più nei tratti dilavati.

A poca distanza dal castelliere, apresi nel terreno la nota grotta di S. Servolo, nella quale raccolsi numerosi resti umani e di animali, come pure una fibula di bronzo del tipo La Tene.

Costruendosi recentemente una nuova strada per Castelz, si scopri una vasta necropoli, nella quale alle preistoriche sono frammischiate tombe romane. Le prime sono di un periodo tardo, con fibule della Certosa e La Tene, lunghe spade di ferro, celt e lance dell'istesso metallo, ecc.

Il castelliere inferiore, che per distinguerlo da quello di S. Servolo, nominerò di Prebeneg, dal sottoposto villaggio, è ancora più distrutto, causa i lavori agricoli, che ridussero il terreno ad una serie di ripiani, asportandone naturalmente il vallo. Con molta fatica si può ancora riconoscere la testata del muro, dalla parte di mezzogiorno per una lunghezza di circa 190 metri, in un lungo rialzo del terreno, che ci rappresenta l'antico vallo. Pare fosse molto ampio, quantunque riesca impossibile misurarne la periferia. Di conseguenza anche i cocci sono molto scarsi. Presentemente viene intersecato dalla strada che da S. Servolo conduce a Prebeneg.

[62] All'incontro, perchè rimasto incolto, egregiamente si conservò il castelliere del M. d'Oro sopra un lungo dorso che sporge verso la valle di Ospo (T. VI, f. 4). Di forma elittica, la sua cinta misura 300 metri di circonferenza ed è quasi piano, eccetto un piccolo cocuzzolo di circa 6 metri d'altezza, nel quale si veggono tracce di costruzioni posteriori. Dal lato di nord-est ove si annoda alla continuazione del dosso ed ove erano necessarie speciali opere fortificatorie, causa la mancanza di declivio, il vallo ci si presenta per una lunghezza di 85 metri, quale un enorme ammasso di sfasciume, alto 4 a 5 metri e largo 16, che deve la sua origine alla distruzione di un muro della grossezza di 1.50 metri.

Il resto della cinta, che per il ripido pendìo non richiedeva d'esser munita sì validamente, possedeva un muro meno alto, per la massima parte ora distrutto. Il castelliere è ricoperto da rigogliosa vegetazione, sicchè i cocci non sono visibili che al vallo e nei lunghi declivi denudati. Alla distanza di 320 metri trovansi sul pianoro numeroso rovine provenienti da antichi edifizi.

Ma anche a mezzogiorno di S. Servolo noi ritroviamo numerosi castellieri. Uno, di minuscole dimensioni, quasi del tutto scomparso, giace sulla roccia isolata che s'alza al di sopra di Castelz, d'onde forse questo villaggio trasse il suo nome (T. V, f. 11). Di faccia a questo, sul monte Hrib se ne trova un altro, anch'esso non grande, misurando 300 metri di circonferenza, e molto deteriorato (T. V, f. 12). Più importante era quello che tuttora porta il nome di Hradisce (T. VI, f. 5), a triplice cinta parzialmente conservata, della circonferenza di circa 300 metri; se anche in seguito alle influenze atmosferiche l'intero monte venne trasformato in un ammasso di rocce corrose e dentellate per modo, che si dura fatica a persuadersi come mai esseri umani vi abbiano potuto dimorare. Eppure i numerosi cocci preistorici sono là a testimoniarci la loro antica esistenza, dimostrandoci in pari tempo quanti mutamenti e quanto profondi, ebbe a subire il nostro paese nel corso de' lunghi secoli da allora trascorsi. Denudati i nostri monti del loro manto di selve, flagellati dalle pioggie che [63] dilavarono le loro pendici, esposti alle brusche differenze di temperatura, che facevano screpolare e sminuzzare le rocce, seminando la superfice de' loro frammenti aguzzi, percossi dal turbinare del vento ch'asportava gli ultimi residui di terriccio, non è difficile a comprendere come intenso divenisse il processo di corrosione del nostro altipiano calcare ed a quali alterazioni andasse soggetto. (45)

Migliore stato di conservazione presenta il castelliere che incorona un monte di 465 metri, a mezzogiorno di Cernotich, e che dalla cappella tuttora esistente, ebbe il nome di Madonna della Neve (T. VI, f. 6). La sua cinta di circa 620 metri, con un bel ripiano circolare di 8 a 15 metri, possiede un vallo robusto, alto 1 a 2 metri e largo 10 a 15, che cominciando presso alla vetta scende pel fianco vòlto a meriggio, ove diviene più debole. Se ne è conservato per una lunghezza di 420 metri e manca dalla parte di settentrione e ponente, ove il pendio è più ripido e roccioso. Grazie all'abbondantissimo terriccio nero, la maggior parte della sua area venne ridotta a prato.

Immediatamente di faccia, sopra una elevazione un po' più bassa (448 metri), trovasi un altro castelliere di piccole dimensioni (T. VI, f. 7). Giacendo al margine del terrazzo, come parecchi dei seguenti, non è completo, ma dal lato di sud-ovest è bruscamente dimezzato dal precipitare della roccia sul terrazzo sottoposto, alla cui base si adagia il villaggio di Lonche. È naturale che da questo lato vi manchi ogni opera [64] di difesa, rendendosi sufficiente un vallo semicircolare per munirlo dalle altre parti. Questo è assai robusto, alto tuttora 2 a 3 metri e largo 10 a 25, nel cui centro si scorge un muro della grossezza di 1.75 metri. La sua lunghezza totale è di 180 metri. Lo due porte d'accesso apronsi, come nella maggior parte de' castellieri di questa specie, presso al margine del terrazzo.

Quantunque a pochissima distanza dal precedente e fabbricato sopra un terreno della stessa formazione geognostica, il suo aspetto è del tutto diverso. Mentre quello è totalmente ricoperto da una vegetazione lussureggiante, specialmente di papiglionacee, questo si presenta triste e selvaggio, scomparendo il terriccio sotto alle infinite pietre ond'è ricoperto il terreno. La sua vegetazione è di conseguenza assai misera e consta quasi esclusivamente di Festuca ovina L. e di Stipa pennata L. frammista ai grigi cespiti dell'Elicriso {Helichrysum angustifolium DC.), carattere comune anche ai due altri castellieri del terrazzo sottostante, di cui si dirà qui appresso. Causa di questa diversità sì inarcata è il pascolo delle innumerevoli greggi di ovini, che in esso vanno brucando ogni filo d'erba. E ciò che avviene in questo castelliere ha luogo in quasi tutta la circostante regione e giù giù per molte miglia attraverso buona parte dell'Istria centrale. Così l'imprevidenza ed il mal governo, che da secoli prevalgono nel nostro paese e pur troppo non accennano a cessare, hanno ridotto in un deserto di sassi le nostre già fertili terre. Dall'un lato l'ignoranza più crassa e la susseguente fatale indolenza, dall'altro l'incuria di chi con energici provvedimenti dovrebbe apportarvi un rimedio radicale, abbandonando invece alla rovina estesi territori, che giornalmente si fanno più sterili ed in breve non daranno più nemmeno lo scarso alimento alle greggi all'amate.

Ancora più selvaggio e rupestre è l'aspetto del castelliere, che sovrasta al villaggio di Besovizza (T. VII, f. 1). Anche questo è semicircolare, giacendo al margine d'un terrazzo, possiede però duplice vallo, di cui l'interno assai forte, alto 1 a 2 metri e largo 10 a 30, l'esterno debole e male conservato, alto appena mezzo metro e largo circa 6. Nell'interno, [65] lungo 350 metri, vedesi a sud-ovest un allargamento a foggia di tumolo, alto 2.5 metri Una particolarità interessante di questo castelliere, che finora non incontrai in alcun altro, consiste nello schermo della porta, ch'era difesa da due muri paralleli, grossi 1.20 metri, i quali lasciano tra di loro uno spazio di 6 metri, decorrendo a semicerchio dal vallo interno all'esterno ed anzi ancora un po' oltre allo stesso. Presso a questo ingresso cosi protetto, sonvi tre muri, che dividono trasversalmente lo spazio tra i due valli, alla distanza di 10 a 25 metri tra di loro. Lo spazio inchiuso nella cinta interna è per un tratto di 30 metri piano, fortemente declive per 40 e limitato anch'esso da pareti che scendono a perpendicolo sul terrazzo inferiore. In queste si aprono parecchie grotte, di cui alcune con tracce di antiche abitazioni.

Malissimo conservato è un altro castelliere a circa un chilometro di distanza, giacente sul medesimo terrazzo immediatamente al di sopra del villaggio di Popecchio (T. VII, f. 7). Del vallo non esiste più che un tratto di 120 metri dal lato di levante, alto tuttora 2 metri e largo 10, ricoperto parzialmente d'erba. Alla parte settentrionale si riconosce ancora la spianata, mentre dall'opposta assai incerti sono i suoi confini. Se non vi fossero cocci, si resterebbe incerti se realmente si tratti d'un castelliere preistorico, tanto più che al pezzo di vallo esistente, fu aggiunto in epoca posteriore un piccolo recinto quadrilatero, probabilmente per racchiudervi le greggi. Anche questo castelliere era semicircolare, essendo limitato a ponente da pareti perpendicolari. Il terriccio vi è quasi totalmente asportato e le nude rocce fanno irta la sua superfice, specialmente verso l'estremità meridionale, ove sorgono orribili scogli.

Il villaggio di Popecchio è rimarchevole pel castello medioevale fabbricato entro una grotta, del quale esiste ancora la facciata esterna. (46) Appresso, sopra una rupe, s'erge una torre [66] circolare. Anche dalla parte opposta del villaggio osservasi un antro in una rupe isolata, nel quale raccolsi numerosi cocci preistorici e romani ed avanzi d'animali.

La regione prende quivi un aspetto del tutto particolare. I terrazzi che prima formavano una serie di vasti pianori sovrapposti e limitati da pareti a perpendicolo o da chine dirupate, si sciolgono ora in u

 

na quantità di strette catene parallele, tra le quali decorrono altrettante valli longitudinali. I monti di calcare nummulitico salgono dal lato orientale con pendìo più o meno ripido, per precipitare a piombo dalla parte opposta nelle valli sottostanti, occupate per lo più da terreni marnosi.

Abbandonando l'altipiano superiore, che va sempre più elevandosi verso i fianchi scoscesi del M. Coinig (803 metri), poco adatto quindi allo stabilimento de' castellieri, i nostri proavi prescelsero queste catene isolate, che offrivano maggior facilità di difesa. Arrogi la frequenza delle sorgenti, che sgorgano qua e là al contatto dell'arenaria col calcare. Così sul monte (485 metri) che a perpendicolo s'alza immediatamente sopra il villaggio di Sasid (Xaxid della carta dello St. M.), noi incontriamo un piccolo castelliere semicircolare, non molto forte, con un vallo largo 6 a 8 metri ed alto 1 a 1.50 (T. VII, f. 3). Questo ha una lunghezza di 280 metri e trovasi solo dalla parte declive, mancando naturalmente dall'opposta, ove, solo all'estremità meridionale, si prolunga per 22 metri a difesa di un piccolo terrazzo di qualche metro sottostante al castelliere. Ad eccezione della spianata che è erbosa, il resto della sua superfice è rupestre ed incolto, denudato del tutto di alberi e d'arbusti. Abbastanza frequenti sono i cocci alla sua superficie.

Ancora meno esteso era il castelliere che giace sulla vetta di un'altra catena tra Sasid e Sanigrad (T. VI, f. 8), non possedendo che un vallo semicircolare di 110 metri di lunghezza alla falda vôlta verso Sanigrad, mentre all'opposta anch'esso è limitato da una parete, che scende a piombo nella vallata di Cristoglie. Il vallo è alto appena 1 metro e largo 5 a 8. Esternamente giacciono grandi macie di pietre, per le quali è difficile giudicare se sieno naturali o provenienti da mura crollate. Anche [67] quivi l'unico tratto erboso è la piccola spianata semicircolare; il resto del castelliere è nuda roccia dentellata ed orribilmente corrosa.

Sul monte, segnato nella carta dello Stato Maggiore col nome di Grades (509 metri) al di sopra di Valmorasa, sonvi resti molto incerti di un castelliere, del quale si conservò soltanto qualche traccia d'un vallo tra i due tumoli, che giacciono sulla vetta, 70 metri distanti tra di loro. Il maggiore di questi è alto 1.50 metri e ne misura in periferia 56, l'altro, appianato ed alto solo mezzo metro, ne ha 45 di circonferenza. Altri tre tumoli sono disseminati sull'altipiano, che stendesi verso Valmorasa, ed un sesto sulla cima del M. Gabrio (512) che vi sorge di faccia. Su alcuni di questi tumoli i pastori, approfittando dei sassi, hanno costruiti piccoli ripari contro il vento.

All'incontro in molto miglior stato trovasi il castelliere, chiamato pure Gradez (T. VIII, f. 4), che giace due chilometri più ad oriente, poco lungi dalla strada ferrata di Rachitovich, sur un monte di circa 550 metri d'altezza. Il suo vallo, alto 1 a 2 metri e largo 6 ad 8, formato da grossi blocchi, è in buona parte conservato ed ha quasi 400 metri di circonferenza. Dal lato di nord-est partono due argini trasversali che lo dividono in tre sezioni. E strano che il vallo manchi precisamente nella parte più depressa di sud-ovest, dove non esiste che una bella spianata, la quale si eleva di appena un paio di metri sul sottostante pianoro. Il castelliere è ricoperto, specialmente dal lato settentrionale, di fittissimo bosco, che rende difficile la sua misurazione. Il terriccio è nerissimo e nei mucchi sollevati dalle talpe si vede una grande quantità di cocci.

Un piccolo ma interessante castelliere per la sua speciale costruzione è quello di Gracisce tra Rachitovich e Brest (f. 5), che giace sur un monte a dolce declivio dalla parte di sud-est, ripidissimo e roccioso dall'opposta. Il vertice è circondato da un robusto vallo circolare della periferia di 100 metri, laddove i due argini esterni, che stendonsi alla distanza di 20, rispettivamente di 100 metri, non hanno che 50 metri di lunghezza, destinati a munire il lungo dorso digradante, [68] essendovi i fianchi difesi a sufficenza dalle due profonde vallecole laterali.

Due de' più grandiosi castellieri giacenti a poca distanza l'uno dall'altro, noi incontriamo tra i villaggi di Cristoglie e Gracischie, sulla cima del M. Lacina (453 metri), e sopra un dosso una trentina di metri più basso. Il superiore (T. VII, f. 6), della circonferenza di circa 1270 metri, è molto alterato, non essendo più visibili che due tratti del vallo, quello di sud-est lungo 220 metri e quello dal lato opposto di 290. Dalla parte vôlta verso Gracischie pare aver sempre mancato, perchè quivi la china è assai ripida, laddove da quella che guarda Cristoglie, si scorgono qua e là tracce dell'antico vallo. Ad ogni modo non sembra esser stato molto forte, perchè nei lembi esistenti ha appena un'altezza di 0.30 a 0.50 metri ed una larghezza di 2 a 4 metri, facendo così strano contrasto con quelli poderosissimi del castelliere adiacente. Il terreno vi è sterilissimo con rovi e ginepri, che stentamente allignano tra le nude rocce.

L'altro castelliere giace circa mezzo chilometro a sudest ed è di forma semicircolare, venendo limitato a ponente dalle pareti perpendicolari, che scendono nella valle di Gracischie ed ove, per conseguenza, manca ogni opera di difesa. Del pari di dimensioni considerevoli, misurando in periferia 1260 metri, differisce per costruzione dalla maggior parte dei nostri castellieri, per esser diviso trasversalmente da un enorme vallo, della lunghezza di 180 metri, alto 4 metri e largo 30 a 40. Siccome la parte più vulnerabile era quella ov'esso si unisce al dorso del monte ed ove la pendenza è assai piccola, così quivi gli abitanti si diedero cura speciale nell'erigere i valli più forti (alti 2 a 3 metri e larghi 15 a 30), limitandosi dalla parte vòlta a nord-est, ove il monte scende assai ripido verso Cristoglie, alla costruzione di un muro più debole, ora rovesciato sulla china. Lungo la cinta corre tutt'intorno un bel ripiano della larghezza di 10 a 15 metri, ora ridotto a prato, con terriccio nerissimo assai grosso e ricco di cocci. Nel secondo recinto, al di là del vallo trasversale, vi è altro vallo interno più debole, che circonda semicircolarmente una spianata un po' più alta, totalmente priva di sassi.

[69] A 140 metri circa dal castelliere e ad una trentina di metri più in basso, s'incontrano per una lunghezza di 150 metri i resti di un forte argine esterno, largo 5 a 10 metri ed alto 0.5, destinato a difficoltarne l'accesso.

Procedendo più oltre e seguendo il ciglio dell'altipiano calcare, che limita la valle superiore del torrente Brazzana, noi incontriamo tre castellieri: quello di Gradisce sul M. Jasmovizza al di sopra del villaggio di Carnizza, un altro presso Duori a poca distanza dal varco, che da Valmorasa mette alla valle sunnominata, ed il terzo, detto Gradaz di S. Quirico, di faccia a Socerga. Tutti e tre sono di forma semicircolare, essendo limitati dal lato di ponente da rupi perpendicolari o da ripidissimi pendii. Il primo (T. VIII, f. 1) giace sur un mammellone di 465 metri, staccato da una profonda depressione dal pianoro di Rachitovich. Il suo vallo, lungo 330 metri, lo chiude dal lato di nord-est, lasciando due passaggi al margine delle rupi. Numerosi sonvi i cocci alla superfice, di cui buon numero appartenenti a vasi di considerevoli dimensioni. Le sottoposte rupi sono foracchiate da parecchie grotte, che probabilmente avranno servito d'abitazione ai nostri trogloditi.

Il castelliere di Duori (f. 2), sorge sur un dosso dirupato ed è a duplice cinta, di cui l'esterna misura 320 metri, l'interna soli 70. Il suo vallo è quasi dovunque rovesciato e solo dal lato di nord-ovest è alto tuttora circa 1.50 metri. La spianata, specialmente l'esterna, è spaziosa ed in declivio, sicchè l'estremità inferiore trovasi 20 a 30 metri più bassa della superiore. Anche quivi spesseggiano i cocci.

Il castelliere di S. Quirico (f. 3), posto sur un monte denudato di 407 metri a cavaliere delle valli di Valmorasa e di Socerga, è il più vasto di tutto il nostro distretto, misurando oltre due chilometri di circonferenza. Esso consta di due parti speciali: l'orientale, più ampia con un argine rovesciato non molto forte ed in parte mancante, l'occidentale più piccola ma fortemente munita d'un vallo, alto tuttora 5 a 6 metri e largo 20 a 30, costruito di blocchi calcari e d'arenaria.

Il tratto orientale è superiormente pianeggiante e verso l'estremità inchiude la chiesetta di S. Quirico, circondata da [70] un cimitero, d'onde si protende uno sperone, che va abbassandosi verso Socerga. Un piccolo avvallamento sotto la cappella, ridotto in parte a campi, in cui trovasi uno stagno, divide il castelliere inferiore dal superiore. L'area inchiusa in questo è totalmente piana.

I castellieri della zona arenaria, come s'ebbe già a notare, sono generalmente meno bene conservati di quelli del terreno calcare. Spesso il sito dell'antico castelliere venne occupato più tardi da qualche villaggio, sicchè al deperimento naturale si aggiunse anche la distruzione per mano dell'uomo. Così pare che Muggia vecchia, distrutta nel 1354 dai Genovesi sotto Paganino Doria, e che nelle sue immani rovine sta ancora lì a testimonio delle funeste guerre fratricide, fosse edificata sopra un antico castelliere, del quale naturalmente restarono ben poche tracce. (47)

All'incontro in molto migliore stato è quello posto sopra un monte (286 metri), che tuttora porta il nome di Castellier (f. 4), a ponente del villaggio di Elleri. Esso occupa il vertice appianato di un rialzo, che s'eleva di 8 a 12 metri sul pianoro circostante, ed ha una periferia di 330 metri. Il vallo è ancora parzialmente riconoscibile, specialmente dal lato che guarda i casolari di Monti. La parte più depressa è ridotta a campo, laddove l'opposta che s'innalza di qualche metro, è incolta ed occupata in buona parte da macerie, terminando a meriggio con una serie di rupi scoscese. Copiosi vi sono i cocci, come pure i molluschi marini, che in grande quantità giacciono disseminati per i campi e che ancora in maggior copia rinvengonsi praticando qualche scavo. E molto dubbio se il pianoro circostante appartenesse pure al castelliere e fosse circondato da un vallo. I muri che presentemente vi si veggono, come pure i mucchi di macerie, hanno un aspetto piuttosto moderno, e devono, con tutta probabilità, la loro origine ai sassi gettati fuori dai campi. Del pari il terriccio non è punto nero, mancandovi i caratteristici cocci.

[71] Al di là della profonda depressione che mette in comunicazione la valle di S. Clemente presso Muggia, con quella di Capodistria, noi troviamo due altri castellieri, quello di Scoffie superiore e quello di Antignano.

Il primo (T. VIII, f. 5) giace sur un mammellone sporgente al di sopra di Villa Decani, ad un'altezza di circa 250 metri. Il suo perimetro è di 510 metri e possiede dal lato di settentrione e di ponente, per una lunghezza di 220 metri, un vallo molto robusto ed alto in alcuni tratti da 4 a 6 metri e largo 5 a 10, dovuto allo sfasciarsi di un muro di 1.50 metri di grossezza. Forse a settentrione, ov'esso congiungesi alla schiena del monte, che s'innalza alla vetta di Antignano, ed ove l'accesso era molto facile per mancanza di pendìo, sorgevano due torri a difesa della porta, trovandosi quivi due enormi cumoli di sfasciume.

Il castelliere viene diviso trasversalmente da un vallo non molto forte, lungo 160 metri, sotto al quale stendesi una larga spianata, ora ridotta a campo, mentre la parte più elevata è rupestre ed incolta. Oltre ai cocci preistorici, vi si trovano pure romani, dal che emerge ch'esso rimase abitato anche in tempi posteriori. Qualche anno fa nei lavori agricoli si trovò una pentola e resti di ossa.

Il castelliere di Antignano (f. 6) torreggiava sulla vetta culminante di tutta la catena, a 372 metri, a cavaliere di due valli, di quella di Ospo e di quella del Risano, in una posizione che meglio non si potrebbe ideare, dominando da quell'altezza non solo quasi tutto il territorio di Capodistria, ma potendo spingere lo sguardo fino a Trieste ed a suoi dintorni. L'odierno villaggio di 440 abitanti colla relativa chiesa, ne occupa una parte della superfice. Causa le distruzioni avvenute e la presenza di fabbricati, non è possibile determinare con precisione la sua periferia, che dovrebbe esser stata di 550 a 600 metri. Dell'antico vallo, solo la parte che guarda la valle di Ospo è parzialmente conservata per una lunghezza di circa 320 metri, in cui sono aperti i due varchi delle strade che menano a Scoffie e dalla parte opposta, ad Ospo. Nei campi si trovano frequenti cocci. Da notizie raccolte si sarebbe rinvenuto uno scheletro sotto una grande pietra. l'odierna chiesa occupa il punto più [72] elevato, ove anticamente sorgeva un fortilizio, di cui scorgesi ancora la base della torre rotonda.

In mezzo alla vasta pianura alluvionale, che s'allarga presso alla foce del fiume Risano, s'innalza il colle isolato di Sermino (f. 7), sul quale, a soli 87 metri, trovasi il castelliere meno elevato di tutto il nostro distretto. Di piccole dimensioni, non avendo che una periferia di 230 metri, esso occupa la spianata elittica della vetta, totalmente ridotta a coltura, che sovrasta di 3 a 6 metri i circostanti ripiani, e va privo di vallo. Sebbene il terriccio sia poco nero, pure incontransi frequenti cocci e gusci di molluschi marini. Vi raccolsi pure un pendaglio di bronzo in forma di secchiello.

Chiunque si reca a Capodistria, scorge sopra un monte a mezzogiorno della città, una elevazione conica particolare. È il tumolo di S. Marco (226 metri), il più grande de' nostri tumoli, misurando 210 metri di circonferenza ed alzandosi di circa 12 metri dal piano circostante. Lo riveste una vegetazione rigogliosa ed alla sua sommità giacciono le rovine di una vecchia cappella. Da un lato vi fu praticato uno scavo, col quale, a quanto mi venne raccontato, si sarebbero trovati carboni.

Nei campi intorno al tumolo veggonsi grandi ammassi di pietre, derivanti probabilmente dall'antico castelliere che vi sorgeva e che fu. completamente distrutto in seguito alle colture secolari, cui andò soggetto il terreno. In una vigna presso al tumolo, vidi un grosso strato di cenere e carboni con qualche coccio.(48)

Riesce strana la scarsezza di castellieri nella zona arenaria di Capodistria e di Pirano in confronto al numero considerevole, che se ne incontra sui monti calcari e nel tratto di terreno marnoso a nord del Risano. Può darsi che parecchi sieno andati distrutti nel corso de' secoli, per guisa che, non ostante accurate indagini, ora riesce impossibile constatarne l'esistenza. Ed appunto considerando quali tenui rimasugli mi riesci scoprire [73] al M. S. Antonio ed a Paugnano, mercè dei quali potei stabilire la loro antica presenza, non credo improbabile che qualche altro ancora più deteriorato, sia sfuggito alle mie ricerche e che forse più tardi dalla fortuita scoperta di avanzi possa venir accertato. I territori di Capodistria e di Risano, colla loro alternanza di fertili valli, solcate da parecchi corsi d'acqua e di dossi interposti, che a poco a poco vanno elevandosi fino 300 a 400 metri d'altezza, offrivano certamente posizioni opportunissime allo stabilimento di castellieri. Ben poco, come dissi, si conservò del castelliere di S. Antonio, posto al di sopra dell'omonimo villaggio (357 metri). Ridotto in buona parte a coltura, le sue cinte sono quasi completamente distrutte, sicchè non è possibile rilevarne la forma. Solo i cocci disseminati scarsamente per i campi, ci fanno fede dell'esistenza dell'uomo preistorico. (49)

Non molto in migliore stato trovasi il castelliere di Paugnano, un po' a ponente della vetta culminante (406), ove in un bosco si possono seguire per circa 200 metri gli avanzi dell'argine, quale piccola elevazione del terreno ricoperta da erba, dalla quale solo qua e là sporgono le pietre. Esso era perfettamente piano ed aveva una periferia di circa 450 metri, per quanto le poche tracce esistenti ne permettano una misurazione approssimativa.

Presso Paugnano sporge un largo dosso arrotondato verso la valle sottostante, nominato M. Romano, ora ridotto a coltura sul quale scorgonsi enormi masse di macerie, ed ove scopronsi spesso resti di costruzioni romane. Per quanto cercassi però nei campi, non mi riesci di trovare alcun coccio preistorico.

Anche ad oriente del villaggio di Paugnano trovasi un grosso vallo, quasi trincea attraverso il dosso del monte. Non saprei a quale epoca riferire questo muro, eretto per impedire l'accesso al villaggio.

[74] Il castelliere d'Albuzzano (T. IX, f. 1) presso Corte d'Isola, resistette assai meglio, di quelli testè accennati, alle vicissitudini del tempo. Posto sul monte segnato sulla carta dello Stato Magg. col nome di M. Cedola (269 metri), ne occupa la vasta spianata della vetta, misurante circa 1250 metri in periferia. Al pari di quello del M. Lacina presso Gracischie, di cui abbiamo parlato più sopra, anche questo è un castelliere gemino, ossia diviso in due parti da un vallo trasversale per modo, che ha l'apparenza di due castellieri posti l'uno accanto all'altro ed uniti dal vallo centrale comune. Il ripido pendìo che riscontrasi a nord-ovest e nord-est, come pure il rialzo di terra di 5 a 10 metri sulla spianata sottostante a ponente ed a meriggio, non resero necessarie grandi opere di difesa da queste parti, laddove a sud-est ove continua il dosso del monte dolcemente declinando verso Corte d'Isola, venne costruito un argine robusto. Più ancora formidabile è il vallo centrale, alto 3 a 6 metri e largo 10 a 20 (forse accresciuto dalle pietre gettatevi per nettare i campi), che si estende per 140 metri, e nel quale i cerca-tesori vanno spesso a frugare. Presentemente questo vasto castelliere è quasi totalmente ridotto a coltura e pei campi veggonsi cocci abbastanza frequenti. Qualche anno fa vi si rinvenne una bella lancia di bronzo.

Nell'ampio tratto collinesco, intersecato da numerosi ruscelli, che s'estende fino al ciglio calcare, onde sono limitate l'estesa valle di Sicciole e le alluvioni del fiume Dragogna, non vennero constatati finora che due castellieri, di cui uno alle falde del M. Sella (183 metri) presso S. Pietro dell'Amata, assai deteriorato e difficile ad esplorarsi, causa il fitto bosco che lo ricopre. Solo in un punto ove venne intaccato dalla nuova strada, che svolgesi su pel suo fianco meridionale, si scorge lo strato di terriccio nero coi caratteristici cocci L'altro incorona la vetta del M. Dovina (123 metri), che si spinge verso la valle del Dragogna, restringendola fortemente a mezzo d'un dosso calcare emergente alla sua base. Il castelliere è di forma elittica a duplice cinta ed ostende ancora qualche traccia di vallo. Nel terriccio nero vi abbondano i cocci.

[75] Forse un altro ne esisteva sur un'eminenza tra Monte e Puzzole, avendovi raccolto sopra un pendìo argilloso un pajo di coltellini di selce, che giacevano alla superfice, dilavati dalla pioggia. La difficoltà di visitare accuratamente questa regione inospite, lontana da centri maggiori, ove si possa trovare ricovero, formata da un succedersi continuo di monti alti 300 a 450 metri e di profonde vallate, che obbligano ad un continuo faticosissimo salire e scendere, non mi permise un'indagine minuziosa, come sarebbe stato mio desiderio, di ogni eminenza, per vedere di riconoscervi tracce di qualche altro castelliere. Così da indicazioni raccolte, ch'io finora non ho potuto controllare, ne dovrebbe esistere uno presso Svabi a levante di Carcauzze, uno al di sopra di Costabona, uno sul monte che s'innalza a 340 metri tra Oscurus di sopra e di sotto, uno sul monte di 404 metri presso Berda, tra Cortivi e Brich, uno a Gradistia presso Chervoi ed uno a Gradigne. Kandler ne nota ancora uno a Momiano, uno presso Geme ed un terzo presso Trusche.

All'incontro parecchi ne incontriamo sul predetto ciglio calcare, che chiude a mezzogiorno la valle del Dragogna. Il torrente Argilla, influente in quest'ultimo, poco dopo Momiano trova sbarrato il suo corso dalle rocce calcari del M. Fineda, ma a differenza di parecchi altri corsi d'acqua di questo versante, che appena giungono a toccare le pendici calcari, s'inabissano nelle viscere della terra, esso, sforzando il passaggio, muta bruscamente direzione piegando verso nord-ovest. Per tal modo viene a circondare da tre lati il monte, che sorge quindi isolato e non trovasi unito al resto della catena che da un ripido pendìo. È naturale che l'uomo preistorico scegliesse questa posizione eccezionale per sua dimora, offrendogli, oltrechè un sicuro rifugio, acqua abbondante e pascoli ubertosi nella valle sottostante. Il castelliere (f. 2) che incorona questo monte è di forma ovale allungata (190 X 100 metri) ed ha una doppia cinta. L'interna circonda per 530 metri la vetta pianeggiante, ove si conservò il muro grosso 1.50 metri per una lunghezza di 230 metri dal lato orientale, laddove dall'opposto più non esiste che il ripiano di 8 a 10 metri di larghezza, che vi gira [76] tutt'intomo. La cinta esterna fascia la falda del monte ad una distanza di 30 a 40 metri dall'interna per una lunghezza di circa 630 metri, e dal lato settentrionale risale ad unirsi a quest'ultima. Dal lato di ponente però, causa il ripidissimo pendio roccioso, essa cessa a circa un centinaio di metri prima di congiungervisi. Dalla cinta esterna all'interna si prolunga a mezzogiorno un muro lungo 40 metri, dividendo lo spazio rinchiuso in due parti. Il suolo è ricoperto da copioso terriccio assai nero, ed i cocci vi si trovano in copia.

Del pari sur un colle isolato (144 metri) sporgente verso la pianura, sorge Castelvenere. Il castello medioevale costruitovi in cima, di cui rimangono solo pochi avanzi, ed il piccolo villaggio tuttora esistente, hanno assai alterato l'aspetto del castelliere, sicchè non riesce possibile una misurazione dello stesso. Dai pochi resti conservatisi del vallo, che giaceva a mezza costa del monte, si può dedurre ch' esso era di vaste dimensioni e dal terriccio nerissimo de' suoi campi e dalla quantità considerevole di cocci e di altri resti dell'industria primitiva, lice arguire che la sua popolazione fosse molto numerosa. Le sue pendici sono in buona parte ridotte a scaglioni ed occupate da varie colture.

Scavandosi più profondamente in un campo per piantarvi viti, si scopersero, tre anni fa, alcune tombe preistoriche, con pentole di mezzana grandezza, assai rozze, contenenti ossa cremate e talora qualche raro bronzo, coperte da grandi lastre calcari. In un campo propinquo si rinvennero alcuni scheletri ed anfore romane.

Negli scavi che vi praticai, raccolsi parecchi frammenti di pentole vagamente disegnate, anse di forme differenti, parecchi pesi da telaio molto grandi, anelli di argilla ed un numero considerevole di fusaiuole. Ebbi pure molti resti d'animali ed alcuni oggetti di bronzo,

Lontano dagli abitati, si conservò molto meglio il castelliere della Chia (T. IX, f. 3), giacente a 163 metri sul M. Marcovaz. Di mediocri dimensioni, misurando 380 metri di periferia, è di forma ovale e possiede un'unica cinta che si annoda ad un grande tumolo. Il vallo, in buono stato, specialmente a nord ed [77] a levante, ha un'altezza di 1 a 1.50 metri, ed è largo da 10 a 20 metri, lasciando distinguere benissimo qua e là il muro grosso 2 metri. Questo è stato anzi denudato dalle macerie in un punto presso la porta, permettendo vedere la sua costruzione.

Il tumolo formato di grossi blocchi calcari, è alto 7 metri e ne ha in circonferenza 110. Dalla parte meridionale trovasi intaccato, probabilmente dai cerca-tesori, non però sino al centro. Il terreno inchiuso nel castelliere è oltremodo rupestre con poco terriccio. Tuttavia non vi mancano i cocci.

Altri due tumoli minori sorgono sopra una vetta ad oriente al di là della strada erariale. Uno, alto 1 metro, ne ha 40 di periferia, l'altro, un po' più grande, misura 1.50 metri in altezza e 45 di circonferenza. Noterò ancora che a poca distanza da questi due tumoli, apresi nel fianco del monte una spaziosa caverna con un bel vestibolo di circa 200 metri quadrati, che a mezzo di uno stretto corridojo discendente metto in una sottostante stanza, lunga circa 15 e larga 20 a 22 metri, perfettamente piana ed alquanto umida. Alcuni buchi d'assaggio, praticati nell'atrio, rivelarono strati di cenere grossi oltre un metro e mezzo con cocci preistorici e resti d'animali.

Immediatamente dietro a quello di Marcovaz, e da questo diviso da una piccola depressione, trovasi sur un dosso arrotondato il castelliere Mira, che essendo stato ridotto a belvedere, venne quasi completamente distrutto. I muri recenti furono costruiti sull'antico vallo, di cui si scorgono alla base le vestigia. Inoltre vi fanno fede della sua antica esistenza il nero terriccio ed i cocci d'impasto grossolano.

Seguendo la serie di vette, per lo più densamente imboscate a querce, carpini e ginepri, che si succedono in direzione di ponente, incontriamo a circa un chilometro e mezzo da quello di Marcovaz, un altro castelliere, che s'erge sulla valle di Sicciole al di sopra della stanzia Gabrielli, presso Colombanía (T. IX, f. 4), e che è di mediocri dimensioni e molto bene conservato. Di forma ovale (diametro 190 metri per 90) possiede una cinta lunga 410 metri, alla quale se ne aggiunge un'altra dalla parte prospettante il mare, distante da quella solo 20 [78] metri. Il vallo, largo 5 ad 8 metri ed alto 1 ad 1.50, lascia riconoscere un muro della grossezza di metri l.50. Il terreno inchiuso nella cinta, ripido dalla parte di terra, quasi piano dall'opposta, è oltremodo rupestre e con poco terriccio, sebbene i cocci sieno piuttosto frequenti.

Credo opportuno di non estendere maggiormente da questo lato i confini del distretto, che mi proposi di trattare nel presente lavoro, tralasciando quindi di parlare dei castellieri di Salvore e di Umago, sebbene giacenti a non molta distanza.

Ritornando all'altipiano, che s'estende ad oriente di Trieste, noi troviamo un paese che presenta due aspetti del tutto diversi, secondo che il suolo consta di arenaria o di calcare. La zona marno-arenacea occupa un territorio largo da 10 a 12 chilometri, che va sempre più restringendosi verso sud-est, ove si riduce ad una striscia di neppure mezzo chilometro, limitata ancor maggiormente dall'emersione di alcuni banchi di calcare numinolitico nei pressi di Studena. Questa zona ci rappresenta dall'un lato l'ampia valle del fiume Recca o Timavo superiore, che dopo un corso di 48 chilometri, s'inabissa nella voragine di S. Canziano; dall'altro quella del fiume Recina, che rinserrato tra monti scoscesi, scorre a mezzogiorno, sboccando in mare nel porto di Fiume. Il Recca riceve numerosi affluenti alla sponda sinistra, pochissimi all'incontro alla destra, essendo da questo lato molto più ristretto il suo territorio idrico. Ma non tutte le acque in esso si versano, chè quelle che scendono dal versante meridionale dei monti, che accompagnano la sua sponda sinistra, si raccolgono in una serie di piccoli ruscelli, che dopo aver solcato altrettante vallicelle, giunti che sono a toccare il terreno calcare, ripetono, se anche in proporzioni meno grandiose, quanto avviene colla corrente principale, inabissandosi cioè in più o meno ampie caverne, o perdendosi tra le screpolature del suolo.

Questa regione, che consta di monti alti 600 a 800 e più metri, con profonde valli spesso assai tortuose, è per la maggior parte densamente imboscata di querce e d'olmi nei tratti inferiori, di faggi e di betulle nei superiori.

[79] Ben diverso ci si presenta il terreno calcare colle sue distese pietrose senza sviluppo di valli, colle sue numerose voragini inbutiformi, colla sua assoluta mancanza d'acqua. È quindi una regione oltremodo sterile con vegetazione stentata, ove dominano le nude rocce dentellate. Essa viene limitata a mezzogiorno da monti elevati di 800 a 1000 metri, ove appena a quest'altezza si trovano boschi estesi di faggi e vasti prati con carattere quasi subalpino.

La depressione tra Cosina e Divaccia, per la quale passa la strada ferrata, segna il principio della zona marno-arenacea. E quivi presso Rodig (Roditti) s'alza il monte Ciucco (753 metri) tutto imboscato, sul quale trovasi un ampio castelliere. Quantunque qua e là si scorgano distintamente gli avanzi dell'argine, non è possibile una misurazione più precisa causa la fitta vegetazione, che impedisce di seguire il suo decorso. Un piccolo assaggio praticatovi, mi diede parecchi cocci preistorici e resti di animali, come pure frammenti di anfore romane ed una fibula provinciale a balestra di bronzo. Qualche anno fa da un contadino si rinvennero alcune pentole e qualche oggetto di bronzo, che però andarono perduti.

In istato molto migliore, per giacere in terreno calcare, è il castelliere (T. IX, f. 5) che sorge di faccia sul lungo dorso (609 metri), che si stende lungo la linea della ferrata tra il villaggio di Cacice e Rodig. (50) Esso comprende tre vette ed è quindi di considerevoli dimensioni, avendo una lunghezza di quasi 500 metri, ed una larghezza di 60 a 100. La sua costruzione è un po' complicata e differisce alquanto dal solito tipo. Le due vette più meridionali sono circondate tutt'all'intorno da un vallo della lunghezza di 550 metri, alto 0.5 ad 1 metro e largo 6 a 15, mancante solo per brevi tratti. Lo spazio racchiuso viene diviso da un forte argine trasversale, che si prolunga ancora per 40 metri fuori del castelliere giù pel pendìo del monte. Resti di un altro vallo interno più debole scorgonsi pure sul versante vòlto a ponente. Lungo il dorso che va [80] dolcemente elevandosi verso l'estremità settentrionale, non esiste il vallo che dal lato occidentale per una lunghezza di 210 metri, laddove dall'opposto, assai ripido, non se ne vede che qualche traccia.

Presso alla vecchia strada che da Rodig conduce ad Erpelle, incontriamo poco lungi da quest'ultimo villaggio un castelliere, che presenta la particolarità di esser costruito quasi in piano (T. IX, f. 6). Esso è circondato tutt'intorno da sette vallicelle imbutiformi, tra le quali una colossale di circa 100 metri di diametro a pareti perpendicolari, sicchè quantunque non costruito su alcuna vetta emergente, riesciva a sufficenza munito dalla natura del circostante terreno. I tratti tra le singole vallicelle erano difesi da un robustissimo muro della grossezza di due metri, che collo sfasciarsi produsse un argine largo 8 a 15 metri, ed alto tuttora 2 a 3 metri. H castelliere del perimetro di 450 metri, è quasi piano e presenta una bella spianata circolare, con terriccio nerissimo e cocci copiosi. Va inoltre notato che la precitata vallicella o piuttosto voragine, possiede al fondo una grotta bene illuminata, alla cui entrata vedonsi tracce di antico muro, e parecchi ripari sotto le alte rocce a strapiombo, che, come al presente ai pastori, offrivano certamente, all'occasione, anche agli abitanti del castelliere, rifugio e gradito ricovero.

A mezzogiorno del M. Ciucco veggonsi le tracce incerte di un altro piccolo castelliere sulla collina di S. Croce (669 metri) presso Slope, ove tuttora sorge una chiesuola. Il forte medioevale, di cui esistono i resti del muro circolare ed il relativo fosso, ha cancellato quasi del tutto le costruzioni anteriori, delle quali a mala pena si può accertare un tratto del ripiano che vi girava intorno.

Meglio riconoscibile, se anche fortemente deteriorato in seguito alle influenze atmosferiche, è il castelliere che circondava l'opposta vetta, detta M. Grisa, a poca distanza da Bresovizza (T. IX, f. 7). Quantunque le cinte sieno visibili specialmente da lontano, esse si confondono colle rocce che fanno irti i fianchi e la vetta del monte, denudato di vegetazione, meno che al lato orientale, ove i pini piantativi, formano già un bel bosco. Di non vaste dimensioni, misurando solo [81] 270 metri di circonferenza, esso sovrasta da un lato la fertile valle di Bresovizza, il cui ruscello forniva V acqua necessaria a' suoi abitanti. In corrispondenza alla sua natura rupestre, anche la spianata è strettissima e poco appariscente. Il terriccio vi è per la massima parte asportato ed i cocci sminuzzati giacciono qua e là tra le pietre.

Ancora più scarsi avanzi di sua antica esistenza, ci presenta il castelliere presso Gradisiza, sul colle segnato con 673 metri, sul quale sorge una cappella. Costruito su terreno arenario, il suo vallo andò completamento distrutto e solo vi limane qualche traccia dei ripiani, sui quali rinvengonsi scarsissimi cocci. Quale posizione era ad ogni modo assai bene scelta, giacendo esso tra le valli di Bresovizza e di Odollina, percorse da due ruscelli d'acqua perenne.

Nè maggiori tracce restarono del castelliere, che forse esisteva presso Artuise, ove intorno alla cappella di S. Servolo scorgesi qualche avanzo di muro. Questo sarebbe il più alto castelliere del nostro distretto, giacendo ben 817 metri sul livello del mare, punto del pari culminante, cui giunge l'arenaria della nostra formazione eocenica.

All'incontro un bellissimo aspetto offre ancora il castelliere di Oticina (663 metri), posto anch'esso tra le due valli di Oticina e di Slivie (T. IX, f. 8). È un castelliere di 500 metri di circonferenza a duplice cinta, di cui l'interna assai deteriorata, l'esterna invece con un vallo in massima parte rovesciato, largo 5 a 20 metri, meno che dal lato vòlto a nord-ovest. Un bel ripiano erboso di 3 ad 8 metri segue tutt'intorno la cinta.

Quasi totalmente scomparso è un altro castelliere che sorgeva un po' più basso di questo, verso Marcussina, del quale però non restano che qualche traccia del vallo e pochi cocci sparsi sul terreno.

Del pari avanzi molto incerti si conservarono di un castelliere, che pare esser esistito sul M. Gerestie (748 metri), giacente presso alla strada che conduce a Tatre. Questo dosso marnoso arrotondato, è messo in coltura, e solo qualche coccio ci fa supporre d'aver servito da dimora a genti preistoriche. [82] A cavaliere della romantica valle di Obrou, percorsa da due torrentelli, tra il villaggio omonimo e quello di Gradisce giace sul M. Orlic (666 metri) un ampio castelliere, alquanto male andato, non essendosi conservate che parte del vallo e la spianata della cinta superiore, laddove dell'esterna non si veggono che poche tracce incerte (T. X, £ 1). Dalla parte di sud-est, che scende assai ripida nella sottoposta valle, manca ogni traccia di difesa, esistendo invece l'argine dal lato opposto per una lunghezza di 450 metri. Il terriccio vi è molto nero con cocci copiosi.

Infine al di sopra del villaggio di Obrou, sulla vetta segnata con 635 metri, esiste qualche tenue traccia di un castelliere, che giacendo su terreno marnoso ridotto a coltura, andò totalmente distrutto. A quanto rilevai vi si sarebbero rinvenute, qualche anno fa, pentole con carboni. (51)

Tutti questi castellieri trovansi a sinistra della strada che da Cosina mena a Castelnuovo e più oltre a Fiume. Dal lato opposto il terreno calcare, oltremodo roccioso, e le maggiori elevazioni, non presentavano certamente condizioni favorevoli alla dimora dell'uomo, che anche al presente lasciò quasi completamente disabitata questa selvaggia regione. Appena verso Golaz, ove apresi il varco per cui passa la via che conduce a Pinguente, il paese è un po' più popolato, e noi vi incontriamo sopra un monte alto 799 metri, i resti alquanto dubbi di un castelliere preistorico (T. IX, f. 10). La vetta del monto è una spianata occupata dagli avanzi di un castello medioevale, del quale si conservano del resto poche vestigia. Sei od otto metri più basso si trova un vallo circolare, alto 1.50 e lungo 170 metri, col relativo fosso che gira intorno al monte, meno che dalla parte di ponente, ove il declivio è assai ripido. Questo vallo appare ad ogni modo d'epoca posteriore essendo a cemento. Si scorgono ancora chiaramente le tracce d'una strada, che conduceva alla vetta, come puro si è conservato un [83] pozzo. Tra il nero terriccio mi riesci di raccogliere qualche coccio di rozzo impasto. Una ventina di metri più basso, sten-desi una piccola spianata sulla quale fino a circa un secolo fa sorgeva una cappella. La visita di alcuni monti circostanti, sui quali si avrebbe potuto attendersi resti di antiche abitazioni, mi diede un risultato perfettamente negativo.

Difficilmente potrebbesi ideare una posizione migliore per l'erezione di castellieri, di quella di S. Canziano e de' suoi dintorni. Il terreno fortemente accidentato, che richiedeva assai poca fatica per esser reso inespugnabile, le sottostanti vaste distese di fertile terreno, la presenza di grotte spaziose, che porgevano asilo sicuro in qualunque emergenza, la prossimità di un fiume e di sorgenti, che assicuravano un'acqua abbondante, prati e pascoli ubertosi per le greggi, ampie foreste con ricca selvaggina, tutto concorreva a rendere il luogo adattatis-simo allo stabilimento di una popolazione numerosa. Con un lavorio lento, continuo di erosione, il fiume non solo si scavò un profondo alveo, ma mutando in tempi remotissimi di direzione e flagellando colle sue torbide acque le depressioni calcari, plasmò una serie di grandiose voragini dalle pareti a picco od a strapiombo, divise sovente tra di loro da un'unica stretta briglia di rocce orribilmente frastagliate.

E quivi giace S. Canziano sopra un'alta rupe (426 metri), che da tre lati scende a perpendicolo nella sottoposta voragine, sicchè non abbisognava che da una sola parte di un breve tratto di muro per esser munito efficacemente contro qualsiasi attacco (T. X, f. 2). Le costruzioni posteriori hanno modificato parecchio l'aspetto primitivo del vasto castelliere, che misurava in periferia 950 metri; dappoichè fu successivamente arce validissima (Arae Augusti) al tempo romano, e castello ben forte nell'evo medio, e tuttora villaggio abitato da 136 persone. Tuttavia ancora benissimo si scorge, per circa 70 metri, il vallo che lo chiudeva dal lato d'onde era accessibile, ed il terriccio vi è nerissimo e ricco di resti d'animali e delle industrie primitive. Così cogli scavi praticativi in più punti, ebbi numerosi frammenti di pentole variamente ornate, anelli di argilla, molte corna lavorate di cervo e capriuolo, ecc.

[84] Il castelliere non potendo capire l'accresciuta popolazione, si estese pure al di là della briglia calcare che lo univa a Betania, occupando un vasto pianoro ed un altro colle, che s'innalza sul lato opposto della voragine minore. Anche quivi ebbi da un assaggio resti preistorici e romani.

Diviso da un'altra grande voragine la così detta valle della volpe (Lisizniza), s'estolle un altro monte (486 metri) sul quale esiste il piccolo villaggio, che ancora porta il nome di Gradisce (T. LX, f. 9). Questo è situato entro la cinta di un vasto castelliere, di quasi un chilometro di circonferenza, del quale però non si conservò il vallo che dal lato di settentrione e di ponente per una lunghezza di circa 330 metri. Il vallo largo 8 a 15 metri, lascia scorgere quale nucleo un muro di 1.5 di grossezza. A nord-est vedesi ancora un cumolo di macerie, alto 8 a 10 metri, derivante dalla rovina di un castello medioevale. Il centro del castelliere è occupato da un'ampia vallecola circolare di circa 800 metri di periferia, ridotta a coltura, al pari di buona parte dello spazio inchiuso nella sua cinta.

Non è in questo lavoro, destinato a trattare esclusivamente dei nostri castellieri e degli oggetti che vi si rinvengono, che possa occuparmi più diffusamente delle caverne e di chi vi teneva dimora. Tuttavia considerando che le grotte di S. Canziano trovansi al piede del castelliere e che furono abitate dall'epoca paleolitica fino ai tempi della trasmigrazione dei popoli, quindi contemporaneamente al castelliere, i cui abitanti vi soggiornavano per tempo più o meno lungo, non stimo fuor di luogo il farne un breve cenno, tanto più che gli avanzi raccoltivi vengono a completare quelli delle sedi epigee.

Gli estesi scavi praticati specialmente nella caverna Tominz, ci fornirono un copioso materiale abbracciante parecchie decine di secoli. Le periodiche inondazioni cui essa va soggetta e la susseguente deposizione di melma, hanno prodotto una precisa delimitazione dei singoli strati antropozoici, appartenenti ad epoche diverse. Oltre a ciò noi dobbiamo ad esse la conservazione di alcuni di quegli antichi abitatori, che sopraffatti dalle [85] acque irruenti, non ebbero il tempo di mettersi in salvo, ed i cui avanzi ci vennero così fortunatamente conservati. (52)

Ma ancora più di queste grotte vengono a completare la conoscenza degli abitanti di S. Canziano le due necropoli che s'ebbe la ventura di scoprire. Una di queste, posta sul pianoro tra Gradisce e S. Canziano in una piccola insenatura per cui passa il sentiero costruito dalla società alpina, è pur troppo quasi totalmente distrutta e quindi non ci diede che una quantità di frammenti di oggetti di bronzo e di ferro. Tuttavia anche da questi si potè constatare ch'essa apparteneva ad un periodo un po' tardo dell'epoca del ferro.

Molto bene conservata è all'incontro l'altra, che giace nella valle tra Gradisce e Bresez, anzi alle falde del colle su cui è fabbricato quest'ultimo. Quest'importante necropoli, nella quale apersi finora 322 tombe, per la maggior parte arcaiche, del principio cioè dell'epoca del ferro, ci fornì un ricco corredo funerario, che viene ad illustrare splendidamente quell'età remotissima e serve da complemento oltremodo pregevole a quanto ci viene rivelato dai castellieri. Non mi estendo qui maggiormente sugli oggetti fornitici da questa necropoli, avendo più volte occasione di parlarne in seguito nel corso di quest'opera, ed essendo mio proposito di farne argomento di un lavoro speciale, nel quale tratterò di S. Canziano, delle sue grotte, de' suoi castellieri e delle sue necropoli.

Altri tre castellieri trovansi nei dintorni di S. Canziano, di non grandi dimensioni. Il primo gli giace di faccia a mezzogiorno, sulla vetta del primo mammellone calcare del lungo dosso che divide la valle della Sussiza, confluente del Recca, da quella di Danne (T. X, f. 3), e precisamente al punto segnato con 508 della carta dello Stato Maggiore. Di forma quadrilatera-ovoidale, esso misura soli 170 metri di circonferenza ed è perfettamente piano, con un vallo bene conservato, alto 1 a 1.50 metri. Assai scarso vi è il terriccio al pari dei cocci, sicchè non sembra essere stato abitato per lungo tempo. [86] Forse era un semplice luogo di rifugio o serviva da vedetta, dominandosi da questo punto elevato un vastissimo territorio. Dalla parte di S. Canziano si scorgono alla sua base pochi resti di una cinta esterna, che racchiude un piccolo pianoro ascendente. Dall'opposta, ove il castelliere si annoda al dorso che protendesi verso il M. Ciucco, trovai alla distanza di circa mezzo chilometro presso un'altra vetta, alta 518 metri, qualche traccia indistinta di grosse mura, senza però rinvenirvi alcun coccio.

Gli altri due giacciono un po' più distanti e precisamente vicino al villaggio di Scofle. L'uno trovasi sul declivio di un monte di 454 metri, immediatamente sopra il villaggio di Famle, alla sponda destra del fiume Recca (T. X, f. 4). Là dove si unisce all'altipiano del Carso che s'estende verso Divaccia, sorge un grande ammasso di pietre a forma di tumolo del diametro di 20 metri ed alto più di 8, d'onde scende d'ambo i lati il vallo per circa 100 metri, fino al ciglio delle rupi a mezzogiorno, che sovrastano al villaggio e dove per un tratto di 70 metri manca qualsiasi traccia di difesa artificiale. Il vallo è molto robusto ed alto 1.50 a 2 metri. Mentre un braccio di esso si arresta alle rupi, quello di ponente continua girandovi al disotto per un tratto di 35 metri. Nell'interno del castelliere, che è di forma ovale, nonostante la forte pendenza, si raccolse copioso terriccio, sicchè in parte venne utilizzato per formare alcuni campicelli.

l'altro si stende sulla collina alta 488 metri, che s'innalza a tergo del villaggio di Vrem inferiore (f. 5). Esso è ad una sola cinta, che se anche in buona parte ancora conservata, ed alta per lo più un metro e larga 8, porta tracce evidenti di aver servito anche in epoche posteriori per racchiudere il villaggio e l'antico castello, del quale si possono ancora riconoscere le fondamenta nella parte più elevata e pianeggiante del castelliere. Da ciò predominio di cocci romani e medioevali. La sua periferia è di circa 500 metri. Dal lato occidentale più depresso, ove il terreno è scaglionato e ridotto a prati, l'argine fu asportato; tutto il resto dello spazio inchiuso è rupestre ed abbandonato e viene ora imboscato a pini.

[87] Forse esisteva un castelliere anche presso Barca, la cui posizione sarebbe eccellentemente scelta, offrendo quella eminenza marnosa una bellissima spianata, culminante a 692 metri sul livello del mare. Ridotta com'è ora a scaglioni, occupati da fertili campi, ogni traccia di antiche abitazioni è scomparsa, mancandovi anche il terriccio nero. Non vi rinvenni che un pezzettino di coccio preistorico.(53)

Kandler segna ancora un altro castelliere su quel lungo dorso che si prolunga da Cosiane tra i due torrenti Pades e Sucoriza.

Dei 118 castellieri sparsi pei dintorni di Trieste, che potei verificare, (54) 55 sono di grandi dimensioni, ossia di oltre mezzo chilometro di circonferenza, 39 di media grandezza e 24 piccoli. In quanto alla natura geologica del terreno su cui furono edificati, 89 sono sul calcare e soli 29 sull'arenaria. Circa alla loro conservazione, sono 88 più o meno in buono stato e quindi poterono venir misurati e figurati, laddove gli altri 30, tra cui quasi due terzi (18) di quelli fabbricati sull'arenaria, trovansi assai deteriorati, sicchè non fu possibile rilevarne il piano. La maggior parte de' nostri castellieri (81) giace su monti di 100 a 500 metri, all'incontro 32 sorgono ad altezze maggiori e soli 5 su colline di minore elevazione. Di duplice o triplice cinta ne vanno forniti 53, gli altri non ne hanno che una sola. In 17 essa è a vallo semicircolare, perchè costruiti al margine di terrazzi o su monti che da un lato scendono a picco o con ripidissimo pendìo.

[88] Se ragioni di opportunità mi persuasero a limitarmi alla descrizione dei castellieri dei dintorni di Trieste, non sarà fuor di proposito di dare un breve cenno anche degli altri, che mi riesci di constatare nella nostra provincia delle Giulie, non fosse che per spingere gli studiosi a colmare le lacune, che senza dubbio presenterà la seguente enumerazione. (55)

Scarsi assai sono i castellieri nella regione alpina, non prestandosi a tal uopo il terreno che in poche località delle vallate principali. Ma se anche non numerosi, essi erano fittamente abitati, come ce lo dimostrano l'estesissime necropoli esplorate. Per genti dedite principalmente alla pastorizia, quelle ubertose pendici dei colli e dei monti, che s'interpongono alle catene alpine, dovevano presentare un forte allettamento a prendervi stabile dimora. Non può del pari sottacersi l'importanza che avevano quelle valli, come le vie naturali di comunicazione tra la Carinzia e la Carniola da un lato ed i paesi litorani dall'altro, attraverso passi più o meno facili a valicarsi. L'importanza di queste antiche vie commerciali era accresciuta dall'esistenza delle miniere di ferro della vicina Vochinia, in esercizio fin dai tempi più remoti, e da quelle di piombo della Carinzia, che sembra fossero del pari conosciute. E di fatti il ricco corredo funerario tratto dalle numerose tombe, ci fornisce una prova luminosa dell'opulenza degli abitanti di allora e dell'alto grado di coltura, che fioriva in quelle valli romite.

Già nella parte più settentrionale della provincia, là ove le giovani acque dell'Isonzo vanno a mescersi a quelle della Coritenza, noi troviamo presso la borgata di Plezzo un mammellone isolato, il M. Ravelnic (520 metri), (56) sovrastante d'una [89] sessantina di metri sulla circostante pianura, sul quale, sebbene molto alterato da costruzioni posteriori, si possono ancora riconoscere le tracce di un antico castelliere. (57)

Seguendo il corso dell'Isonzo, ci si presenta un altro castelliere, ben più vasto, sul colle di S. Antonio (309 metri), ai cui fianchi si appoggia l'odierno villaggio di Caporetto. Esso era di speciale importanza, dominando tanto la valle dell'Isonzo che quella del Natisone, che quivi viene a confluire colla prima attraverso il bassissimo spartiacque di Starosello. Non è qui il luogo di parlare degli scavi che vi feci e della vasta necropoli, ch'ebbi la ventura di scoprire a' suoi piedi e nella quale apersi finora 1079 tombe, traendone un ricchissimo materiale funerario. (58)

Cinque chilometri a ponente di Caporetto, ove il Natisone piega bruscamente verso mezzogiorno, cacciandosi in una strettissima gola, tra gli ultimi contrafforti del Matajuro e del Mia sorgono due castellieri, uno più piccolo sul M. Der presso Robig, l'altro più ampio e meglio conservato sopra una vetta rocciosa (329 metri), che si estolle di faccia, e nel quale trovasi la cappella di S. Ilario. (59)

[90] Alterato grandemente dalla costruzione d'un castello del patriarca d'Aquileja, quasi totalmente è scomparso il castelliere, che coronava la vetta del colle isolato di Tolmino (428 metri), del quale a malapena tra la fìtta boscaglia che lo riveste, si rinviene qualche raro coccio preistorico.

All'incontro, se anche abitato durante l'epoca romana, nell'evo medio e fin al presente, quello di S. Lucia  (206 metri) (60) non andò del tutto distrutto, e riesce ancora parzialmente riconoscibile. La sua importanza era senza dubbio pari se non ancora maggiore di quella di Caporetto, poichè quivi viene a sboccare in quella dell'Isonzo la valle dell'Idria, per la quale passava l'importante via, che per il passo di Podberda (1273 metri), metteva nella Vochinia. La vasta necropoli, ove si sterrarono finora quasi 6500 tombe, ci fa fede della grande importanza di questo castelliere. (61)

Ben poco si conservò invece di quello che giaceva sul monte (648 metri), che tutt'ora porta il nome di Moncastello (Hrad verch), al di sopra di Podselo. Anche quivi la costruzione di un castello medioevale, caduto esso pure completamente in rovina, cancellò ogni traccia dell'anteriore, e solo mercè un piccolo assaggio ne potei accertare l'esistenza.

[91] Non conosco alcun altro castelliere nelle nostre regioni alpine, sebbene la presenza di parecchie necropoli farebbe supporre che ve ne esistano. L'esplorazione completa di questo vasto territorio sì accindentato e ricoperto per lo più da dense foreste, riesce oltremodo difficile, tanto più che non si può trarre alcun accenno dai nomi locali.

Appena all'estremità meridionale della lunga conca di Chiapovano, noi troviamo un altro castelliere presso al villaggio di Gargaro. È probabile che la posizione elevata dell'altipiano di Tarnova e l'asprezza del suolo, ricoperto da fittissime foreste, non abbiano allettato le prische genti a prendervi stabile dimora. Del pari non molto numerosi essi ci si presentano al suo versante meridionale, ove ne incontriamo uno al M. S. Catterina (307 metri) presso Salcano, uno al M. Gradise (205 metri) sopra Aidussina alla sponda destra del Frigido, di cui vedesi ancora in buono stato una parte del vallo, uno assai deteriorato a S. Paolo (368 metri) presso Slap, quello di Gradische (166 metri), presso Vippacco, il Tabor (244 metri) presso S. Vito ed infine uno sull'estremo mammellone inferiore del Nanos (640 metri) che si spinge sopra Prevald. (62)

A ponente di Gorizia si stende una serie di colline marnose, il così detto Coglio, sul quale però finora non venne accertato che ne unico castelliere, quello del M. Quarin (269 metri) presso Cormons. È probabile che anche su altre vette di questa fertile regione, abbiano soggiornato i nostri maggiori, ma la natura del suolo facilmente erodibile e l'estese colture, vi hanno concorso a cancellarne le tracce.

La pianura friulana soggetta a frequenti innondazioni da parte dei numerosi corsi d'acqua, non ancora infrenati da argini, non si prestava in antico alla dimora dell'uomo. Così solo sul colle isolato di Medea noi troviamo un castelliere, abbastanza bene conservato, del quale qualche anno fa venne [92] scoperta la necropoli appartenente alla prima età del ferro. (63) All'incontro sui colli di Farra, non ostante accurate ricerche, non mi riesci di trovare alcun vestigio di antiche costruzioni, sebbene egregiamente vi si sarebbero prestati. Che però anche la pianura non fosse del tutto disabitata, se pure, forse, non stabilmente, si può argomentare dai rinvenimenti, che talora vi si fanno casualmente di oggetti preistorici. (64)

Gli altri castellieri del Goriziano che trovansi sull'altipiano del Carso e sulle colline marnose della Valle del Vip-pacco, li abbiamo già compresi tra quelli de' dintorni di Trieste, e quindi passeremo ad enumerare brevemente quelli dell'Istria, che sono molto più numerosi. Ed anche di questi i più prossimi alla nostra città furono del pari già descritti tra quelli del distretto amplificato di Trieste, che abbiamo creduto opportuno estendere fino all'emersione dei colli calcari di Salvore.

Questa vaghissima plaga dell'Istria settentrionale, che si protende in mare in forma di vasto promontorio triangolare, prescelta per l'amenità del suolo e per la mitezza del clima quale sito di villeggiatura dai romani, del che ci fanno fede i resti di numerosi edifizi, che quasi senza interruzione si stendono da Salvore ad Umago, era pure ricercata dai più remoti abitatori, che vi costruirono parecchi castellieri. Così uno ne sorge a S. Pietro (78 metri), assai rovinato da costruzioni posteriori; un altro assai meglio conservato e più ampio a triplice vallo, sul monte di Romania (40 metri) presso Sipar, l'antica città di Sibaris, distrutta nel nono secolo dai pirati narentani, un terzo, del pari in ottimo stato, poco lungi da Umago, che tuttora porta il nome di M. Castelliere (56 metri). All'incontro il vasto tratto, che stendesi a mezzogiorno di Umago fino a Cittanova e ad oriente fin a Buje, sebbene occupato da terreni fertilissimi, va privo di castellieri, forse perchè non presenta [93] alcuna elevazione maggiore, che vi si presti alla loro erezione. I pochi punti che sovrastano alquanto al piano leggermente ondulato, sono per lo più larghi dossi arrotondati, poco acconci a tale scopo. Cosi mentre vi spesseggiano gli avanzi di costruzioni romane, non mi avvenne di trovarvi traccia di resti preistorici. (65) In questa regione, forse la sola Buje, che alta torreggia su tutte le cime circostanti (222 metri), ond'ebbe il nome di spia dell'Istria, era in antico un castelliere, quantunque le costruzioni posteriori vi abbiano cancellato qualsiasi traccia. Del pari l'adiacente collina di S. Margherita, che presenta alla cima una spianata, della quale i bujesi un tempo si servivano per cimitero, potrebbe essere stata abitata dai nostri preistorici, sebbene presentemente non vi si trovi alcun resto.

Molto bene conservato è invece il castelliere del M. Kroh (308 metri) presso Tribano, che giace su terreno calcare, ad una sola cinta della periferia di 440, metri e totalmente piano. Una delle regioni ove spesseggiano i castellieri, sono le rive del fiume Quieto, che offrivano posizioni eccezionalmente favorevoli. Il mare si estendeva allora assai più entro terra, formando un fjord lungo parecchi chilometri, presso a poco come il canale di Leme. Le torbide del fiume, trasportando continuamente enormi quantità di fanghiglia, andarono a poco a poco colmando l'ampio bacino e formarono vaste distese di terreno alluvionale, in parte tuttora paludoso, pel quale scorrono lentamente le acque del Quieto. Allora le falde di questi castellieri, al cui piede sgorgano spesso sorgenti d'acqua dolce, erano lambite dal mare, che offriva agli abitanti larga messe de'suoi prodotti. E di fatti quelle genti si occupavano attivamente colla pesca, come ci fanno fede gli utensili pescherecci che qua e là si rinvengono, ed i resti de' loro pasti, che consistono in grandi quantità di molluschi, in frammenti di crostacei, in [94] vertebre di pesci, ecc. I castellieri si stendono ad ambedue le sponde del fiume, più o meno bene conservati. Già alla sua imboccatura ne troviamo uno alla sponda destra, quello di S. Spirito presso Cittanova, e due alla sinistra presso Torre, cui si può aggiungere ancora un terzo sul colle che s'eleva in mezzo ai tre contermini villaggi di Torre, Fratta ed Abrega. Quello di S. Spirito riesce interessante per possedere il vallo solo dal lato di terra, mentre dall'altro il ripido declivio rupestre e l'onde marine gli erano sufficiente difesa. Presso a questo castelliere giace una grande quantità di tumoli, dei quali ne esplorai parecchi. Alcuni sorgono pure entro la sua cinta.

Quasi di faccia a S. Spirito sorge, sulla sponda sinistra del Quieto, immediatamente sopra il porto Torre, il castelliere di S. Martino a duplice cinta. Gli scavi praticati in vicinanza della cappella, diedero per risultato la scoperta di alcune tombe della prima epoca del ferro, contenenti parecchi vasi di bronzo. Altro castelliere, quello di S. Croce (70 metri), giace a ponente di questo, presso Klek.

Risalendo un po' il fiume, ritroviamo alla sua sponda destra un altro gruppo di quattro castellieri presso Villanova di Verteneglio. Il più grande di questi, che appunto prende il nome da Villanova, era di speciale importanza per la sua ampiezza e per la posizione sopra un promontorio sporgente nella valle (120 m.). Gli scavi che vi vennero eseguiti in più riprese, diedero larga messe d'importanti documenti, facendoci pure conoscere le tombe d'un periodo arcaico della prima epoca del ferro. (66) Tombe ed altri oggetti interessanti vennero pure forniti dalle esplorazioni fatte nel castelliere di S. Dionisio, che a poca distanza sorge sur un altro promontorio (123 m.). (67) E poco lungi da questo, a S. Giorgio (62 m.), scorgonsi i resti di un altro castelliere, alterato però parecchio dalla costruzione di un castello medioevale, andato pur esso in rovina. Infine il [95] quarto trovasi sur un dosso, che sporge d'appresso sopra una piccola insenatura della valle.

Quasi di faccia al castelliere di Villanova, dall'altra parte del Quieto, veggonsi gli avanzi di un altro fortilizio, del castello del Frumento, ove scorgesi qualche traccia incerta di sedi preistoriche, al pari che sul M. Verbanovice (169 m.).

Continuando a risalire la valle, i castellieri si ritirano più entro terra, allontanandosi dal Quieto, cosi quello del M. Radanich presso Crassiza, quello di Cagnola a duplice cinta presso Grisignana, quello di S. Giorgio (386 m.), ad est della stessa borgata, completamente distrutto dai lavori campestri, quello di S. Croce sopra Piemonte a doppio vallo, con resti di numerose costruzioni posteriori, quello di S. Elena al M. Chersonze (421 m.) presso Portole, pur esso totalmente scomposto dalle colture; Portole stessa (380 m.), la cui origine preistorica ci viene attestata dal rinvenimento di cocci e di fusajuole, quello di Cucui presso Sdregna, giacente ancor più lontano dal fiume sopra un cocuzzolo roccioso (434 m.); quelli del M. Badegone (289 m.) o del M. d'Oro, come l'appellano i paesani, e di S. Lorenzo (346 m.) non lungi da Visinada, un altro al M. Visinal, sul dosso segnato con 124 metri sotto il M. S. Tomà (e non M. Tomio come sulla carta dello Stato Magg.), che si estende verso il punto di confluenza del torrente Chervar col Quieto, quello del M. Subiente (352 m.) con tracce preistoriche un po' incerte ma con molti avanzi romani, a mezzogiorno di Montona, e probabilmente quest'ultima pure, che per la sua posizione eminente sur un alto cono isolato (277 m.) offriva tutta la opportunità per l'erezione di validissimo castelliere.

Nel tratto superiore i castellieri tornano ad avvicinarsi alla valle, cosi quello di Beninich (322 m.) presso Gradigne, i due di S. Stefano, che alti torreggiano sulle rocce perpendicolari, (68) quello di Sovignacco (293 m.), molto alterato dalle colture agricole, quello vastissimo di S. Croce (280 m.) a duplice cinta, poco lungi da Pinguente, cui si può aggiungere quest'ultimo, [96] sebbene quasi cancellato dalle costruzioni posteriori che si succedettero senza interruzione dai tempi romani in poi.

Oltre a questi va notato il grandioso castelliere di S. Giorgio (416 m.), presso Salise a doppia cinta, che maestosamente s'innalza sulla valle del Brazzana, affluente del Quieto, e forse ancor quello, un po' dubbio, di Pietra Pelosa, su cui si veggono tuttora le rovine del forte castello medioevale dei Gravisi.

A completamento dei castellieri di questa regione aggiungerò ancora quelli dei dintorni di Rozzo e Lupoglavo, quello cioè del M. Gradez (455 m.) con cinta circolare e quello di S. Tomaso o di Nigrignano (Cernigrad, 563 m.), che per esser costruito sopra terreno arenario, non conserva che pochi resti delle sue mura. Assai in migliore stato è quello di Albiniano o Bieligrad (sul Semichbreg, 541 m., della carta dello Stato Magg.) a duplice cinta semicircolare, che vi giace di faccia e serve col precedente a velettare la strada conducente a Lanischie. Un po' più in alto trovasi il castelliere di Gradina sur un mammellone che si stacca dal M. Osebnik, a triplice cinta incompleta. Infine presso il villaggio di Semich giacciono due altri castellieri, ambidue chiamati Gradisce, l'uno sur una brulla eminenza a 773 metri che sovrasta il villaggio, l'altro a ponente sulla vetta segnata con 509 metri. (69) E probabile che sul ciglio superiore dell'altipiano calcare che sovrasta le valli di Rozzo e di Pinguente, e ch'io non ebbi la possibilità di percorrere in tutta la sua estensione di oltre 10 chilometri, se ne rinvenga ancora qualcuno. Uno ne scopersi ultimamente sul M. Kuk (532 m.) al di sopra della stazione della ferrata di Pinguente, di forma semicircolare a vallo robusto costruito da grossi blocchi.

Il distretto di Parenzo formato nella parte litoranea da un terreno basso leggermente ondulato, che s'incurva in una serie di collinette alte 30 a 60 metri, tra le quali si protendono lunghe e fertili vallicelle, va a poco a poco elevandosi verso [97] l'interno, ove, presso al confine orientale, giunge ad un'altezza di 400 e più metri. Esso consta quasi totalmente di terreni calcari, che specialmente nella zona litorale trovansi ricoperti da un grosso strato di terriccio, d'onde la rigogliosa vegetazione che li riveste. Estesi boschi di carpini e di querce, cui nelle parti più prossime al mare cominciano già ad associarsi parecchie specie di sempreverdi, s'alternano con ridenti praterie. Queste condizioni favorevoli del suolo, cui va aggiunta la mitezza del clima, dovuta principalmente alla poca frequenza dei venti dal nord e dal nord-est, che non hanno mai quella violenza, che fin da' tempi più remoti rese tristamente famosa la nostra patria Bora, influirono senza dubbio potentemente ad attirarvi una popolazione numerosa, persuadendola a prendervi stabile dimora. E di fatti l'agro parentino possiede un numero considerevole di castellieri, talora anche aggruppati a due o tre, il che ci fa fede del progressivo accrescimento dei loro abitanti, che non potendo più trovar posto nella sede primitiva, erano costretti ad occupare anche i monti circostanti. Grazie alle indagini della Società archeologica istriana, che appunto a Parenzo tiene la sua sede, parecchi di essi vennero esplorati accuratamente, disseppellendosi del pari le loro necropoli, d'onde si estrasse un ricco e svariatissimo corredo funebre, che di somma importanza riesce per la conoscenza della proto-istoria della nostra penisola. Le frequenti gite intraprese, mi diedero agio di visitare buon numero dei castellieri di questo distretto e di praticarvi pure qua e là qualche piccolo assaggio. Di alcuni venne già fatta menzione, parlandosi di quelli situati in prossimità della valle del Quieto. Molti sono egregiamente conservati, come quello di S. Angelo (137 m.) visibile da lungi e riconoscibile per la sua forma caratteristica.

Nella parte settentrionale del distretto noi ritroviamo il Moncastello di Cervera (51 m.), già illustrato dal Burton, il Momperlon (85 m.) tra Fratta e Villanova di Parenzo ed uno presso quest'ultima (138 m.), quello del M. Rompelac (161 m.), del M. Petrovaz (221 m.) e d'un'altra vetta dappresso, segnata alla quota 226 metri, poco lungi dai casolari Raffaelli, il M. Puncan o Talian (246 m.) di Catunni presso Mompaderno, quelli [98] del M. Seni e del M. Scander (284 m.) nelle vicinanze di S. Giovanni di Sterna, quello di Montauro (272 m.) presso Mondellebotte, quello di Bercich (349 m.) e del M. Glaviza (373 m.) presso Montreo, con vallo bene conservato, quello del M. Glagovaz (377 m.) a settentrione di quest'ultimo, quello di Cerneca (237 m.) presso Visignano, quello spazioso di Moncitto, di S. Maddalena, di Rosgnac (214 m.) e del M. Cadum (376 m.) nei dintorni di Raccotole. (70)

A mezzogiorno di Parenzo, oltre al già nominato di S. Angelo ed a quelli delle Mordelle su due eminenze adiacenti un po' più basso (93 m.), al piccolo castelliere di Bejachi (86 m,) ed ai tre bellissimi de' Pizzughi (108 a 110 m.), giacenti due chilometri più oltre, di cui uno a triplice cinta, i quali diedero sì largo contributo colle loro ricche necropoli, (71) noi ne incontriamo parimenti un numero considerevole, così uno assai deteriorato sulla Punta Brullo (37 m.), uno a Monghebbo (82 m.) egualmente alterato da fabbriche posteriori, un altro al M. Martuzol (112 m.), uno a Montisana (150 m.) presso Dracevaz, uno un po' incerto al M. Glaviza (150 m.) a sud di Sbandati, uno al M. Dodin (181 m.) ed uno al M. Maggiore (189 m.) tra Geroldia e S. Lorenzo del Pasenatico, uno grandissimo al M. Corona (328 m.) ed uno ancor più vasto a Corridico (303 m.), entro cui giace l'omonimo villaggio, uno a Gradistie (243 m.) presso Villanova di Leme, uno al M. Ricco o di S. Martino (80 m.) con vallo megalitico presso Orsera ed alcuni altri lungo il canale di Leme, di cui si parlerà in seguito.

Come a settentrione il distretto di Parenzo viene chiuso dalla valle del Quieto, a mezzogiorno è il canale di Leme che ne segna il confine, formando un fjord lungo ben sette [99] chilometri, il quale avendo notevole profondità (20 a 31 passi), nè alcun fiume mettendovi foce, non fu colmato dalle alluvioni, come avvenne per quello del Quieto. Ma se le sponde di quest'ultimo offrivano eccellenti località per l'erezione di castellieri, altrettanto e forse ancor più era il caso per i monti che rinserrano il canale di Leme, specialmente nella sua parte più interna, ove alla prossimità di un seno di mare riparato e ricco di molteplici produzioni animali, si aggiungeva la presenza di numerose sorgenti d'acqua dolce. Così mentre verso la sua imboccatura noi troviamo alla sponda settentrionale il castelliere Moncalvo (121 m.) di Orsera ed un altro quasi distrutto presso i casolari di Jugovaz ed all'opposta quelli di Monmajor (72 m.) e di Monterò (124 m), presso l'altra estremità ne vediamo sorgere due immediatamente al disopra dell'intimo seno, quello grandioso di S. Martino (230 m.) ed un altro sul monte segnato con 149 metri sopra Cul di Leme, ai quali a poca distanza si aggiungono quelli del M. Bumberich (180 m.) presso Matassovich, del M. Petrovaz (156 m.) un po' più a ponente, e del M. Gradina (256 m.) presso Rujal da un lato, e dall'altro i numerosi dei dintorni di Villa di Rovigno, quelli cioè del M. Gradina (209 m.), di Carastac, del M. Gomilla o di Periciza Glavizza, di S. Canziano a doppia cinta formata da grossi blocchi, di Monversino (205 m.) e di Moncas (171 m.). Il territorio di Villa di Rovigno è pure ricco di tumoli, tanto isolati sulle cime dei monti e talora assai grandi, quanto aggruppati e di minori dimensioni. Dei primi innalzasi uno nelle immediate vicinanze della Villa, scavato qualche anno fa dalla Società d'archeologia, un altro sul Mompeter, tuttora intatto, uno sul M. Maclavun, uno presso Stanza Pedona, d'onde potei salvare un teschio in buono stato, colla preminenza occipitale pronunciatissima.

Dei minori, che trovansi in maggior copia anche, entro la cinta dei castellieri, ne apersi otto (72) qualche anno fa, per [100] riconoscere la loro costruzione e raccogliervi il contenuto. Formati da sassi accatastati senza traccia di cassetta in cui fosse stato deposto il cadavere, essi sono pur troppo poverissimi, non contenendo che pochi avanzi dello scheletro e frammenti di pentole ad impressioni digitali.

Anche sui monti che accompagnano la conca, che dal canale di Leme si prolunga fin oltre a Vermo, noi incontriamo parecchi castellieri, così quello di Due Castelli, appena riconoscibile causa le posteriori costruzioni, quello di S. Agata presso Canfanaro, assai bene conservato, quello di S. Tomaso presso S. Pietro in Selve, quello di Corridico, già ricordato più sopra ed infine quello di Vermo (325 m.) presso Pisino, dalla cui necropoli si ebbero interessantissimi cimeli della prima età del ferro. (73)

La zona eocenica, che s'estende tra la valle del Quieto e quella del torrente Foiba, il quale va ad inabissarsi nella voragine di Pisino, offre una successione di monti elevati fin oltre a 500 metri intersecati da profonde vallate, onde grandemente vengono difficoltate le ricerche preistoriche. La natura del suolo arenaceo assai suscettibile ad alterarsi alle influenze atmosferiche, rese spesso quasi irreconoscibili le antiche costruzioni, sicchè non è da meravigliarsi dello scarso numero di castellieri che mi riesci di constatare. Relativamente bene conservato è quello di Draguccio, punto culminante (504 m.) di tutta questa regione. (74) Altro castelliere pare sorgesse sul M. S. Lorenzo (422 m.) presso Novacco, come pure la scoperta di tombe del tipo di quelle di Vermo a Caschierga, ci fa presupporre l'esistenza di castelliere in quelle vicinanze. (75)

[101] Al di là del torrente Foiba ritroviamo presso Moncalvo (Gollogorizza) il castelliere di S. Croce (383 m.), cui forse potrebbe aggiungersi un altro presso Gradigne, come sembra indicarne il nome. Parimenti a giudicare dai nome e dalla forma spianata dell'apice del M. Gardini, che s'alza a 498 metri tra Ceroglie e Paas, sarebbero da ricercarsi anche su questa vetta tracce di costruzioni primitive.

Volgendoci a mezzogiorno, noi incontriamo un bel castelliere, ora ridotto a coltura, presso i casolari di Bertossi a sud di Pisino. E probabile che anche Pisino vecchio, giacente sur un'eminenza (361 m.), sia stato in antico un castelliere, di cui le costruzioni posteriori hanno cancellato ogni traccia. Egual sorte ebbero quelli di Gallignana (454 m.), che in slavo porta ancora il nome di Gradisce, e di Pedena (360 m.), che ci vengono attestati unicamente dalla presenza de' cocci.

Il canale di Leme non è solamente un'ampia spaccatura, che interseca profondamente la penisola istriana, ma è pure una barriera naturale all'avanzarsi dei sempreverdi di massa. (76) E qui che comincia il dominio delle macchie, di quelle inestricabili foreste di elci, di fìlliree, di eriche, di cisti, di ginepri, cui si associano i paliuri ed i corbezzoli, che spesso sono del tutto impenetrabili e rendono quindi assai malagevole, se non addirittura impossibile, la visita di parecchi monti, senza la scorta di una pratica guida, che conosca bene i sentieri tortuosi quasi impercettibili attraverso quelle fitte sterpaje. Esse si estendono dal canale di Leme per tutta l'Istria meridionale e sulle isole maggiori, limitate però alle parti più prossime al mare e meno elevate. Per esse è difficoltata naturalmente la ricerca dei castellieri, che nascosti da quel denso intreccio di rami, si sottraggono spesso all'occhio indagatore anche il più esperto. In queste condizioni si trovano parecchi castellieri dei territori di Rovigno e di Valle, la cui esplorazione riesce quindi tutt'altro che piacevole.

[102] Il numero dei castellieri di questa regione è assai rilevante, dimostrandoci che numerosa vi era la popolazione. Oltre a quelli già citati delle sponde del canale di Leme, noterò qui quello conservatissimo di Mompaderno (63 m.), quello sopra il monte che sorge immediatamente sulla stazione della ferrata di Rovigno (alla quota 60 m.), ridotto a coltura, quello della Torre di Boraso (106 m.) con resti di costruzioni romane, quello di Monvé (52 m.) presso Montauro, appena riconoscibile, quello dell'isola S. Caterina (23 m.) di forma irregolare, (77) quello di M. Rovinale (39 m. — e non Bovinale come sulla carta dello Stato Magg.), del M. Canna, di Valteda (85 m.), di Monsporco (83 m.), di M. dell'Arche, di M. Castellier (76 m.), del M. Canonica, del M. Leme (124 m.), di S. Croce, di Starigrad (231 m.), di Mombrovaz (244 m.), di S. Michele di Valle (206 m.), di M. Massimo, di Turnina (165 m.) presso Gajan, del M. Magnan (79 m.), del M. Mandriol (74 m.).

La regione oltremodo selvaggia, lontana da maggiori centri abitati, in cui si abbia la possibilità di pernottare, che s'estende a mezzogiorno di Pedena, rende piuttosto malagevole l'esplorazione sistematica di questo esteso territorio, ove sulle numerose punte che si spingono lungo il canale dell'Arsa, si scopriranno certamente ancora parecchi castellieri. Così uno ne esisteva a S. Caterina (346 m.) presso Andretici, un altro, detto Castelvecchio (Starigrad) ad Oriz, che alto s'estolle a 404 metri sulla valle e su due profondi burroni, che gli si aprono ai fianchi; un terzo, un po' più entro terra, detto Gromazza (401 m.) presso Ballici. Kandler ne nota pure uno al M. Bavici (434 m.), poco lungi da Pedena, uno al M. Bresnizza (417 m.) presso S. Ivanaz, uno al M. Kuharia (332 m.) sopra Porgnana ed uno al M. Vadrich (339 m.) a ponente di Barbana, che però richiedono d'esser accertati.

Presso quest'ultima località c'è il castelliere di S. Croce a duplice cinta, entro al quale giace l'attuale cimitero, e quello molto più grande di Presenik (252 m.) poco lungi da Pontera [103] il cui perimetro misura quasi un chilometro. Sopra una sporgenza presso S. Trinità, trovasi un grande tumolo rovesciato detto Velika Crassa.

A ponente della Val d'Arsa il terreno va a poco a poco abbassandosi verso Gimino e S. Vincenti, formando un altipiano leggermente ondulato, con numerose vallicelle circolari, dal quale emergono poche vette più elevate. Sopra una delle maggiori di queste (374 m.), si veggono le tracce di un antico castelliere, assai alterato dalle costruzioni del villaggio, ora abbandonato, di Golzana vecchia, dei ruderi del quale è tutto disseminato il terreno. Sur un colle dappresso, detto Rogatize (348 m.), veggonsi pure alcuni resti di una stazione preistorica, utilizzata più tardi quale cimitero, come ce lo attestano le numerose ossa d'inumati, che vennero sparpagliate, allorchè recentemente per la costruzione della nuova strada tra S. Vincenti e Barbana, si trasse da questo luogo il materiale occorrente. Altro castelliere sorgeva sopra una piccola elevazione a fianco di Gradisce, a mezzogiorno di Gimino, (78) ove nei mucchi di terra nerissima, sollevati dalle talpe, assai copiosi riscontransi i cocci. Se ne trova uno a metà strada circa tra S. Vincenti e Canfanaro al M. Cergnic (314 m.). Bene conservato è ancora il vallo di quello di Terli (306 m.), tra Orehi e Skitaza, presso al quale sorge pure una trentina di tumoli. Altri tre castellieri giacciono nei dintorni di Filippano e precisamente uno tra Glavani (e non Glavini come sulla carta dello Stato Magg.) e Perdici, uno presso Bratelich ed un terzo poco lungi da S. Vito a Divissich.

Parecchi castellieri esistono nei dintorni di Dignano, così uno che tuttora porta il nome di Castellier (125 m), ridotto a coltura, un altro di cui poche tracce sono visibili al M. Molino (178 m.), e quello, benissimo conservato, di M. Orcin (M Orsini della Carta stabale, 256 metri), a duplice cinta dal quale trassi parecchi oggetti interessanti in un piccolo scavo che vi potei praticare. (79)

[104] Nella parte più meridionale della nostra provincia, i castellieri erano assai numerosi, favoriti dalla conformazione fisica del territorio quasi piano o solo dolcemente ondulato con eminenze isolate qua e là sporgenti. Nei dintorni di Pola essi andarono per la massima parte distrutti in seguito alle costruzioni recenti de' molti forti, che in ampio cerchio circondano questo porto militare principale e per i quali si prescelsero naturalmente le vette più alte. Così la batteria Castellier sul M. Stignano che ricorda ancora nel nome la sua prisca origine, così il M. Musil, il M. S. Daniele, il M. Castion, il colle più elevato dell'isole Brioni e forse qualche altro ancora. Sfuggirono alla distruzione, almeno per ora, uno presso Stignano al punto segnato con 26 metri, un altro a nord-est di Galesano, detto pure Castellier (162 m.), quello di Buoncastello, che occupa il dosso pianeggiante di un colle (161 m.) presso Monticchio, quello del M. Gromazza presso Lavarigo, quello del M. Vintian (50 m.) presso le cave romane di Pola, quello del M. Turcian (70 m.) ed infine quello del M. Cipri (30 m.) sull'isola maggiore di Brioni.

Una serie di quattro castellieri, uno appresso all'altro, ritroviamo al principio della lunga e stretta lingua di terra, che si protende verso Promontore, quello cioè del M. Rosso (69 m.), assai mal conservato, quello del M. Gomila (74 m., e non Ganilla come indicato sulla carta dello Stato Magg.), uno sul M. Ronzi ed uno sul M. Gradina (75 m.), a duplice cinta. Nel centro di ognuno di questi sorge un grande tumolo, che specialmente in quello detto Gomila, attinge dimensioni considerevoli. Quest'ultimo, da me scavato nel 1898, presentò nel suo centro una tomba a cassetta d'inumato, senza però alcuna aggiunta particolare. Infine è da notare il M. Castril (36 m.) a mezzogiorno di Promontore, nelle cui vicinanze sopra un altro colle, sorgono i resti di un grande castro romano.

Al di là di Promontore la costa istriana piega bruscamente verso oriente e settentrione, con una serie di punte sporgenti e di profondi seni, flagellati dalle torbide acque del Quarnero. La regione dapprima pianeggiante va a poco a poco elevandosi, non superando però i 200 metri, fino alla foce dell'Arsa. Al di [105] là di questo fiume il paese diviene più accidentato ed i monti s'innalzano rapidamente, fino all'eminenze più eccelse della riviera liburnica, culminanti con 1396 metri nel M. Maggiore.

Nel primo tratto fino all'Arsa, noi troviamo un castelliere al M. Vercivan (71 m.) al di sopra di Medolino e quello di S. Pietro (50 m.), poco lungi da questo, un altro di considerevoli dimensioni ed a duplice cinta al M. Bianco o della Madonna (89 m.) a levante di Sissano, quello colossale del M. Gradina presso Altura, ove sorgeva l'antica Nesazio, la capitale degli Istriani; altri quattro castellieri, di cui uno nominato Castellier (93 m.), l'altro Chittiza, il terzo Za Na Puf (82 m.), allineati su altrettante sporgenze del fianco occidentale della Val Badò ed il quarto sulla Punta Zuffo (53 m.). Dall'altro lato di questa valle s'erge il grandioso castelliere di Momorano (189 in.), poi quelli del M. Bubain (185 m.), di Casali con parecchi resti di costruzioni posteriori, e finalmente di Gromazza (157 m.) presso Cavrano, la cui natura preistorica mi sembra tuttavia alquanto problematica. Forse sono pure castellieri il M. Glaviza (210 m.) presso Carnizza e la Stanzia Castellier (209 m.), come lo indicherebbe il nome, tra questa località e Filippano. Presso Castelnuovo dell'Arsa va notato il castelliere al M. Gomilla (85 m.) sopra il Molino Blas, ove lo Stancovich ricercava l'antica Nesazio. Può darsi che anche al colle di S. Agnese, ove trovansi le rovine di Castelvecchio (Castel Rachele), esistesse una stazione preistorica.

Al di là dell'Arsa si stende il territorio di Albona, che possiede un numero abbastanza considerevole di castellieri. Esso venne esplorato diligentemente dal Luciani e dal Scampicchio, il qual ultimo comunicò al Burton una lista di 15 stazioni preistoriche. Altre erano state anteriormente indicate dal Luciani; (80) non tutte però riferisconsi a castellieri preistorici, nè sono sempre esatte, a quanto gentilmente mi avverte il prelodato Dr. Scampicchio, tanto più che al tempo in cui Luciani scriveva quell'articolo "egli non aveva ancora un'idea [106] precisa dei castellieri e come Kandler, li riteneva opere romane militari provvisorie."

Nel distretto di Albona noi troviamo quattro castellieri lungo la sponda sinistra dell'Arsa, quello di Sumberg (177 m.) ora quasi scomparso; un altro due chilometri distante presso i casali di Lizzul (282 m.), poi uno detto Starigrad a Ruzici (o Russich) ed uno alla Punta S. Croce (268 m.) presso Zampavorizza in quel di S. Martino. Un po' a levante di questi, c'è la Gradina o Straza di Sumberg (307 m.) ed il castelliere di Ersischie (Ersić) a tramontana di S. Domenica. Albona stessa era in antico un castelliere (320 m.), come ne fanno fede i molti avanzi preistorici che vi si rinvennero. (81) Poco più di due chilometri distante in direzione di nord-est, sorge di fronte al Monte della Croce (Krisni Breg, 336 m.) il castelliere di Cunzi, a duplice cinta, assai bene conservato, già illustrato dal Burton. Egualmente presso Albona ma verso scirocco, trovasi il castelliere di S. Gallo (278 m.), rovinato coi lavori agricoli. Più in giù verso la Punta Lunga vedesi un muro costruito attraverso la stretta lingua, ove misti a cocci romani se ne trovano pure preistorici. Nella parte più meridionale del territorio sonvi duo castellieri, di cui uno detto Gradina (86 m.), del quale più non si veggono che pochi resti, al Porto Gradaz di faccia a Castelvecchio, l'altro, chiamato Gradaz (102 m.) presso la Punta Cromaz a mezzogiorno di Skitaka, entro il quale venne eretto il castello medioevale, pur esso ora diroccato, di S. Giovanni in Besca. Presso alla sponda orientale del lago di Cepich esistono del pari due castellieri, quello di Gorinci o di Malacrasca e quello di Gradina di Cosliacco.

Ad oriente di Fianona sorgono quattro castellieri, poco tra di loro discosti : uno, assai deteriorato, presso il M. Kolich, [107] uno presso Lokva e due poco lungi dal villaggio di Selo nel territorio di Bersez. Da informazioni avute, un altro ne esisterebbe sulla vetta del M. Sissol, a ben 833 metri d'altezza.

Gli alti monti che si appressano alla costa liburnica, tuffando le loro radici in mare, non offrivano molta opportunità all'erezione di castellieri sui loro ripidi fianchi. Questi tuttavia, se anche scarsi, non vi fanno del tutto difetto, così uno trovasi al M. Gradez presso Martina, uno al M. Gradina presso Moschienizze, uno al Knesgrad (612 m.) sopra Lovrana, uno a Veprinaz (519 m.) ed uno al M. Graciste di Rucavaz (465 m.), ove i monti declinando, vanno ad allargarsi nell'altipiano di Castua. Anche quest'ultima fu indubbiamente castelliere, quantunque dalle costruzioni posteriori ne sia stato cancellato, quasi ogni vestigio. In un fondo, detto Bergudi, si rinvennero parecchi coltellini di selce, ed in una vallecola detta Moscinzi si dissotterrarono tombe di combusti con numerosi bronzi, come fibule della Certosa, (82) tra le quali alcune colossali lunghe 20 centimetri e di La Tène, armille ed anelli a spirale, perle di vetro e d'ambra, bottoncini, magnifici pendagli di varie forme, ecc.

Al di là di Castua noi troviamo due castellieri nei dintorni di Fiume, quello di Stupniac presso Rastocine e quello del M. Belleri (377 m.) sovrastante la valle del Recina. (83) All'incontro alquanto dubbio riesce quello che Kandler indica a S. Croce presso Blazici. (84) Il Carso liburnico che s'innalza verso i maggiori corrugamenti montuosi, formanti il confine orientale della nostra provincia, molto aspro e dirupato, rivestito ancor al presente da fitte boscaglie, non era troppo favorevole alla [108] fondazione di castellieri, dei quali uno solo viene notato sul M. Zidovie (660 m.) poco lungi da Ciana.

Il passaggio del M. Maggiore era velettato, secondo il De Franceschi, (85) da cinque castellieri, uno sotto il giogo di Galimbreg, un altro sulla costa detta Orliac, sotto la Fontana, cui dirimpetto s'ergeva quello di Nessiel a cavaliere di profondo burrone, un quarto detto Gradaz, un po' più in basso ed infine quello di Vragna (Aurania). Non potei accertare se tutti questi sieno di epoca preistorica o se non debbano piuttosto la loro origine a fortilizi romani : quello di Nessiel, come già venne constatato dal Burton, possiede ancora una cinta formidabile.

Altri castellieri di questa regione, indicati pure dal De Franceschi, trovansi a Bogliuno (253 m.), a Paas (346 m.), sopra un colle isolato (221 m.) al termine del filone che separa le valli di Bogliuno e di Susgnevizza, a Berdo (242 m.), al margine del ciglione Crog sotto Brest, detto Gradaz (590 m.) ed altro Gradaz presso il Planik tra Ulaka e Sinoset, e precisamente in mezzo alle due vette segnate sulla carta dello Stato Magg. coi nomi di Kupic e di Ostai verch.

Dal M. Maggiore si estende verso settentrione per una lunghezza di oltre venti chilometri un territorio oltremodo selvaggio, alto 900 a 1200 metri, per la massima parte ricoperto da dense foreste di faggi. In questa regione naturalmente si ricercherebbero indarno tracce di antiche dimore, essendo anche al presente del tutto disabitata, o visitata tutt'al più dai pastori che d'estate vi conducono le loro greggi. Solo ove verso oriente ed occidente i monti vanno abbassandosi a 500 o 600 metri, noi ritroviamo nuovamente resti di costruzioni preistoriche. Quelli che trovansi alle falde meridionali ed occidentali, furono già nominati più sopra, vi aggiungo qui quello di Gradinova di Zvoneca (650 m.) presso Mucici ad oriente, e più a settentrione uno presso Mune, quello di Gradina (561 m.) presso Sapiane, ove potei scavare un piccolo ma interessante sepolcreto, ricco di bronzi, quello di S. Caterina (689 m.) presso [109] Jelsane, (86) la cui vasta necropoli venne pur troppo distrutta dalla crassa ignoranza del proprietario, sicchè non mi riesci di trovarvi che un'unica tomba intatta, quello del M. Cel (644 m.) parimenti presso Jelsane, quello di Starada (797 m.) e forse uno a Castelnuovo. (87) A nord-ovest vanno notati ancora quello di Raspo, ove sorgono le rovine del noto castello, già sede de' capitani veneti, quello di Gradischie sopra Praparchie, quello di S. Bartolomeo di Cerneca presso Brest, assai deteriorato, e quello di S. Martino di Vodizze.

A complemento dei nostri castellieri di terra ferma, ci resta da accennare ancora quelli della vallata superiore del Recca (88) e dell'adiacente territorio, appartenenti in parte alla Carniola, ma che trovandosi al versante adriatico devono ancora comprendersi nella regione Giulia. Va qui notato il Gradisce di Semon, quello elevatissimo di S. Acazio (801 m.) presso Jassen, quello grandioso di Torno va o Dornegg (638 m.) con resti di un castello romano, quello di Sembie (655 m.) alquanto deteriorato, nei cui pressi trovansi parecchi tumoli, quello di Obrobi (646 m.) presso Grafenbrunn, sopra un colle isolato, quello di Watsch a poca distanza, altri due al margine di una specie di terrazzo, di cui l'uno (740 m.) tra Sembie e Grafenbrunn, l'altro, nominato Gradisce (794 m.), tra quest'ultimo e Sagurie, ambidue di tipo semicircolare, il Silertabor (747 m.) a nord-ovest di Sagurie, con resti di fortilizi posteriori, il Gradisce di S. Primo (721 m.), e finalmente quello di S. Pietro (658 m.) [110] a duplice cinta, immediatamente sopra l'omonima stazione della ferrata.

Pochissimo esplorata fu la vasta zona, che si estende alla sponda sinistra del Recca, occupata da monti arenacei, alti 450 a 750 metri, per la massima parte ricoperti da dense boscaglie, che rendono difficili le indagini. Kandler vi nota nel tratto meridionale alcuni castellieri, che però richieggono un'accurata revisione. Così ne dovrebbe esistere uno a Veloberdo, uno a S. Stefano di Racize, uno a Sabogne, uno a Podbeze, uno a Pregarie ed uno a Javorie. Per quelli di Hrussiza e di Tatre, da lui pure indicati, potei constatare che non sono punto castellieri.

Non però solamente sulla terraferma, ma anche sulle isole del Quarnero, tanto sulle maggiori che sulle minori, noi incontriamo numerosi castellieri. Quelle terre circondate d'ogni lato dal mare, porgevano ai nostri proavi le migliori condizioni di sicurezza, sicchè assai di buon ora vi si stabilirono, innalzando sui vertici de' monti le loro ciclopiche costruzioni.

L'isola di Veglia, il cui accesso non porgeva alcuna difficoltà attraverso lo stretto canale di Maltempo, è specialmente ricca di castellieri. Alla sua estremità settentrionale sorgeva sopra un'alta rupe, al fondo d'un ampio seno di mare, quello di Castelmuschio (82 m.) che, tramutato più tardi in castello romano, fu luogo fortificato nell'evo medio, del quale esistono ancora i torrioni, ed è abitato pure al presente.

Sebbene nella propinqua località, chiamata Gromasiza (124 m.), esistano copiosi avanzi di muraglie e di edifizi circondati da vallo, non mi azzardo di ascriverli all'epoca preistorica, mancandovi il caratteristico terriccio nero, nè avendovi raccolto alcun coccio. Sull'isola di Veglia s'incontrano frequenti rovine di villaggi abbandonati, per lo più causa la febbre malarica, che v'infierisce con speciale violenza.

Un bel castelliere a forte vallo trovasi sulla punta Zuffo (30 m.), che protendesi in mare a mezzogiorno di Nivize. Altro fortissimo a duplice vallo con grande tumolo nel mezzo, è quello di Gradina, a sud-est di Malinsca (107 m.). Se anche alterato dalle costruzioni posteriori, i cui avanzi per ampio [111] tratto occupano i fianchi del monte, si può tuttavia riconoscere abbastanza bene il triplice muro che cingeva quello di S. Pietro presso Gabogne, che giacendo sur un'eminenza isolata di 255 metri, è visibile da ogni lato da grandissima distanza.

Sopra una vetta adiacente, chiamata Gromacina (252 m.), sorgono due grandi tumoli, di cui uno recentemente aperto, conteneva una cassetta formata da lastre di pietra, in cui non si rinvennero che pochi resti di uno scheletro.

Un po' più a levante verso Dobrigno, sorge il M. Gracisce (266 m.), (e non Krasisce come sulla carta dello Stato Magg.), con un castelliere a doppia cinta, formata da grossi blocchi di 1-2 metri di diametro. Di faccia a questo scorgesi la sommità spianata del M. S. Giorgio (328 m.) del pari con tracce di castelliere. L'odierno Verbenico (49 m.), sembra egualmente essere stato un castelliere, e così pure il M. Costriz che sorge dappresso (90 m.). Altri castellieri trovansi sul M. Kersovan (256 m.), M. Krasini, detto Gromacine (164 m.) con due tumoli, sul M. Klam (449 m.) e sul M. Maligrac (212 m.), quest'ultimo vastissimo con muraglioni bene conservati, grossi 3 metri, e con terriccio nerissimo zeppo di cocci.

Frequenti sono i tumoli nel territorio di Verbenico, così sopra una vetta (183 m.) presso il castelliere di Maligrac, presso Colmanicee, presso la chiesa di Garizze, di cui uno aperto qualche anno fa, conteneva oltre ad alcuni bronzi, una collana di oro.

Le parti meridionali dell'isola, per lo più estremamente rocciose, non potevano allettare i nostri maggiori a prendervi dimora. Tuttavia un bel castelliere esiste sul monte Mizza (338 m.), a sud-est di Ponte, e tracce di un altro mi riesci scoprire sul M. S. Giovanni presso Besca nuova, al di sopra del nuovo cimitero. Sul monte Sokota a levante di Besca nuova trovansi molte rovine, che gli abitanti riferiscono ad una città distrutta, da essi nomata Corintia. Per la sua posizione potrebbe essere stato pure antico castelliere. E forse tale era anche Gradaz, vetta di 270 m., tra Besca nuova e Besca vecchia, che non ebbi possibilità di visitare.

Alta e rupestre stendesi per una lunghezza di oltre 67 chilometri l'isola di Cherso, e se anche la sterilità del suo [112] suolo, che in alcune parti può senza esagerazione paragonarsi ai deserti petrosi della Libia, non offre le migliori condizioni d'esistenza, tuttavia e per l'eminenti posizioni e per la conseseguente sicurezza, anch'essa fu abitata fin da' tempi remotissimi ed ebbe parecchi castellieri. Persino sul monte Sys, che attinge un'altezza di 638 metri, se ne rinvennero tracce e si raccolsero cocci. La grande estensione dell'isola, l'asprezza del terreno e la deficenza di strade, rendono oltremodo difficile e faticosa la sua esplorazione, sicchè non è improbabile che parecchi castellieri sieno sfuggiti alle mie ricerche. Un bel castelliere, con vallo parzialmente conservato, è quello di S. Bartolomeo (314 m.) tra Cherso e Smergo. Pare che anche il mammellone sporgente (130 in.), su cui giace Caisole, fosse in antico un castelliere. Altri due s'innalzano a meriggio del villaggio di Losnati, sul M. Ciule (314 m.), e sopra una eminenza vicina (289 m.): quest'ultimo detto Pukoina, con mura robustissime. Un castelliere a duplice cinta, formata di grossi blocchi, è quello del M. Sculki (322 m.) presso il villaggio di Orlez. Da lungi visibile torreggia quello del M. Chelm sopra Lubenizze, alto ben 483 metri. Sopra l'estremità meridionale del lago di Vrana ergesi quello del M. Germov (328 m.), mentre un altro, detto Gracische, s'innalza tra S. Giovanni ed Ustrine. Forse evvi pure un castelliere sul M. Nielovize (163 m.) a levante di Vrana, dove sorgono due grandi tumoli. Un tumulo colossale alto 6 metri e misurante in periferia circa 200, s'incontra sul M. Sillaz presso Bellei. Al di sopra della vetusta città d'Ossero, trovasi il castelliere di Pescenie (178 m.), con tumolo nel mezzo.

La parte più meridionale dell'isola ha un aspetto del tutto diverso, cedendo le alte giogaje rupestri ad una serie di poggi, che attingono appena 50-100 metri d'altezza, ricoperti da una lussureggiante vegetazione di sempreverdi. E qui sopra un'elevazione di 148 m. a Vela Straza, giace un castelliere con fortissimo muro di grossi blocchi, alto in alcuni punti fino 4 metri e grosso ben 5.30. (89)

[113] Altrettanto e forse più ancora, fu abitata l'isola di Lussino che per la mitezza del suo clima, per i suoi monti ricoperti da eterna verzura, per i suoi numerosi seni di mare, offriva eccellenti condizioni di esistenza. Così ad eccezione delle rocciose vette della sua parte più settentrionale, ove il M. d'Ossero s'erge a 588 metri, il resto dell'isola è disseminato di castellieri, alcuni dei quali ancora benissimo conservati. E sulla piccola collina che s'innalza al di là della così detta Cavanella, presso la vetusta città di Ossero, già fiorente ed ora ridotta, causa la malaria, in uno stato di doloroso decadimento, venne scoperta un'interessante necropoli della prima epoca del ferro.

Tra Ossero e Neresine presso la località Halmaz sorge una collinetta di 108 metri, detta M. Halcina, con tracce di castelliere. Del pari un castelliere giace presso Neresine sur un altro colle, alto 120 metri, detto Berdo (Bardo della Carta dello Stato Magg.).

Per un tratto di quasi sei chilometri non incontriamo alcun altro castelliere fino nelle vicinanze di Chiunschi, ove giace quello di Polanza sopra un monte alto 214 metri, con poderosa cinta in parte bene conservata. Gli scavi che vi feci praticare, mi fornirono una bella messo di oggetti paletnologici. Gii abitanti di questo castelliere, al pari di quello del M. Stan (110 metri), su cui pure si conservarono resti delle antiche dimore, avevano intorno a sè un ampio territorio fertilissimo, formato da una espansione pianeggiante dell'isola. Ove questa torna a restringersi, riducendosi ad una semplice schiena di monte, larga appena mezzo chilometro, troviamo l'uno appresso dell'altro tre castellieri, quello di Kabociak (102 m.), del M. Asino (125 m.) ed uno sopra la vetta con la quota 97 metri, tutti e tre però assai malandati, specialmente l'ultimo, ove esistono alcune tombe rettangolari.

[114] Un altro castelliere di non grandi dimensioni, trovasi al M. Vela Straza (64 m.) all'estremità di quella lingua di terra, che chiude a libeccio il golfo di Lussinpiccolo. Fra questa città e Lussingrande, sopra un dosso che si protende dal M. Tomosciac verso Val d'Arche, detto dai paesani Umpuliac, esiste un bel castelliere a duplice cinta. All'incontro ben poco si conservò fino a' nostri giorni di quello che sorgeva sul M. Calvario o S. Giovanni (234 m.), sopra Lussingrande. Verso l'estremità meridionale dell'isola troviamo infine il castelliere della Vedetta o di Pogled (242 m.), del quale restò ancora qualche traccia di cinta.

Anche sulle circostanti isole minori non difettano castellieri. Così due ne sorgono sull'isola d'Unie, di cui uno sul M. Arbit (129 m.), alla sua estremità meridionale, ed uno alla settentrionale sul M. Malanderski (96 m.).

Forse anche sull'isola di Canidole grande ne esisteva uno sulla vetta culminante (60 m.), come lo indicherebbe il nome di Grande Guardia (Vela Straza). La natura del terreno dell'isola di Sansego, consistente in mobili sabbie, non era favorevole alla conservazione di antiche costruzioni. La presenza però di cocci preistorici, farebbe supporvi l'esistenza di un castelliere.

Sull'isola di S. Pier de' Nembi esistono del pari due castellieri, di cui uno nominato pur esso Vela Straza (91 m.), a doppia cinta, l'altro più a ponente sul M. Strizine (77 m.), del quale solo poche vestigia si sono conservate.

Entro i limiti che ci siamo proposti al presente studio, noi abbiamo quindi potuto constatare l'ingente numero di 406 castellieri, aggiungendo ai quali 49, che non mi fu ancora possibile di verificare, si hanno ben 455 stazioni preistoriche, delle quali 8 trovansi nel territorio politico di Trieste, 74 nella provincia di Gorizia, 353 in Istria (comprese le 46 delle isole del Quarnero) e 20 appartenenti alla Carniola. Ma il loro numero è certamente ancora più grande, dappoichè alcuni distretti non furono esplorati si accuratamente dà poter escludere l'esistenza di parecchi altri, che ci verranno senza dubbio rivelati dalle indagini avvenire. Io credo quindi di non andare errato [115] affermando, che la nostra provincia possedeva oltre a 500 castellieri preistorici, dal che emerge ch'essa era già nei tempi remotissimi assai densamente abitata.

Dopo aver descritti i castellieri dei dintorni di Trieste ed avervi aggiunto l'enumerazione degli altri finora constatati nella provincia delle Alpi Giulie, ci rimane da considerare più da vicino queste costruzioni rimarchevoli e studiare, per quanto possibile, gli abitanti che vi si alternarono nel lungo corso dei secoli, seguendo, per quanto possibile, l'evoluzione delle loro colture.

Il nome di castelliere, dato a queste costruzioni, non è forse il più appropriato, offrendo esso l'idea di un castello o di un fortilizio, mentre, come si disse più sopra, esso non era altro che un villaggio circondato da uno o più argini, che ne difficoltavano l'accesso, insomma una specie delle nostre vecchie città murate.

Per la loro erezione si adoperavano per lo più pietre di media grossezza e solo alcuni pochi sono fabbricati con grossi blocchi, onde appaiono vere costruzioni megalitiche. Cosi p. e. il castelliere di M. Ricco presso Orsera, quello di Gracisce di S. Giovanni presso Dobrigno sull'isola di Veglia, ecc., constano di rocce del diametro di 1 a 2 metri, destando davvero meraviglia come quelle genti primitive abbiano potuto smuovere pietre sì enormi, disponendole in un muro regolare, alto parecchi metri. Alle volte però le parti esterne del muro sono fatte di grosse pietre, essendosi adoperate invece pel centro piccole scaglie, gettatevi alla rinfusa: evidentemente in questi casi gli architetti di allora non erano diversi dai loro colleghi di oggigiorno.

Solitamente i muri sono molto più larghi alla base, ove misurano spesso tre e più metri in grossezza e vanno a poco a poco restringendosi verso l'alto, il che dava loro una robustezza maggiore. Ma per lo più il muro viene ora completamente celato dal cumolo di macerie della parte crollata, entro al quale esso appare quasi il nucleo, od appena se ne scorge [116] qualche traccia (90)  A giudicare dall'enorme quantità di sfasciume che molto spesso lo circonda, si può facilmente farsi un'idea della sua altezza considerevole, che talora giungeva senza dubbio a 10 e più metri. Ancora al presente vi sono castellieri che in qualche tratto conservano mura di 6 ad 8 metri d'altezza! Naturalmente dal lato esterno il vallo appare più alto che dall'interno, perchè quivi venne in parte ricoperto dal terriccio, accumulatosi nel corso de' secoli. Le opere fortificatorie erano più deboli ed anche mancavano del tutto, ove le condizioni del terreno presentavano già sufficiente difesa. Ma nella costruzione de' castellieri dovevasi tener conto oltreché dei nemici, di un altro formidabile fattore, della patria bora cioè, contro la quale specialmente sulle vette più esposte, era mestieri premunirsi. E ciò avveniva appunto coll'erezione di mura più robuste e più alte appunto dal lato d'onde essa spira più impetuosa, come può constatarsi in buon numero dei nostri castellieri. È probabile che ad accrescere la loro robustezza vi si aggiungessero anche palizzate di legno o siepi formate di arbusti spinosi, al qual uopo si prestava, nell'Istria specialmente, la spina marruca (Paliurus Australis Grtn.). Ai lati dell'ingresso si scorgono più volte ingrossamenti del vallo, sicchè pare vi si erigessero speciali fortificazioni per munire maggiormente la porta. Riesce interessante la costruzione particolare di difesa dell'ingresso che vedesi nel castelliere di Besovizza (T. VII, f. 1). In questo, dalla porta del vallo interno si stendono verso quella dell'esterno due muri paralleli un po' curvi, racchiudenti un lungo e stretto corridoio, prolungandosi ancora per circa 6 metri oltre il recinto esterno.

Allo scopo di guadagnare un terreno possibilmente piano per costruirvi le case, si usava per lo più spianare una zona della larghezza di 5 a 15 e più metri immediatamente entro le mura di cinta. Questi ripiani, che spesso girano tutt'intorno al monte ed, ove andarono completamente [117] distrutte le mura, restano unici residui a rivelarci l'esistenza dell'antico castelliere, ne sono la parte principale, perchè in essi si addensava di preferenza la popolazione, come quelli che offrivano maggiore comodità ed erano più riparati. E perciò naturale che quivi coll'andare del tempo si raccogliesse uno strato più o meno poderoso di materiale, proveniente dai rifiuti dei pasti e dalle altre dejezioni degli abitanti, cui si aggiungeva il terriccio trasportatovi dalle piogge giù dalle chine sovrastanti. Esso giunge talora ad uno spessore di parecchi metri e dovendo la sua origine quasi esclusivamente alla decomposizione di sostanze organiche, presenta un colore oscuro, che specialmente sul Carso, forma uno strano contrasto colla terra rossa dei colli circostanti (il terriccio accumulatosi per tal modo nelle terramare, viene già da più tempo utilizzato; quale concime e venduto a parecchie lire al metro cubo.). E pel paletnologo esso riesce della massima importanza, perchè è il geloso custode di tanti documenti ignorati delle passate generazioni.

In quanto alla forma dei castellieri, essa dipendeva anzitutto dalle condizioni locali del terreno, alle cui accidentalità i nostri maggiori sapevano egregiamente adattare le loro costruzioni. Da ciò nasce che queste non erano sì uniformi come a primo aspetto potrebbe sembrare: anzi noi le possiamo dividere in parecchi gruppi principali, secondo che si trovano all'apice od ai fianchi del monte, che possiedono una o più cinte, che queste sono complete o solo parziali, ecc. Uno sguardo alle annesse tavole (I—X) in cui riprodussi i piani dei castellieri di Trieste, ci darà tosto un'idea della varietà delle loro forme.

Siccome si preferivano i monti isolati a pendici non troppo scoscese, la forma più frequente de' castellieri è la circolare od ovale. Quando la sommità presentava un dosso pianeggiante di sufficente estensione, il muro veniva costruito intorno alla vetta, — castellieri apicali; in caso diverso ai fianchi del monte più o meno distante dall'apice, — castellieri laterali. Se i lati scendevano con declivio uniforme, il vallo vi girava tutt'intorno ed il castelliere era a cinta completa; ove però il pendìo si [118] faceva più ripido o roccioso, l'opere di difesa, rendendonsi superflue, mancavano, e quindi si avevano castellieri a cinta incompleta. A questa categoria appartengono per eccellenza quelli costruiti al margine dei terrazzi, che sono tutti a vallo semicircolare.

Per rendere più valido il castelliere, anziché una sola cinta se ne costruiva talora una doppia od anche una tripla, sia concentrica sia annodata alla superiore o scendente giù per un fianco del monte. A questo ampliamento avrà spesso contribuito il bisogno d'espansione in seguito all'accrescersi della popolazione. Una forma particolare sono i castellieri, ch'io chiamerei gemini, essendo quasi due castellieri disposti l'uno appresso l'altro nel medesimo piano, con un grosso vallo trasversale mediano (T. VII, f. 7; T. IX, f. 1). Essi sono piuttosto rari e limitati ai dossi allungati, che con breve pendio si annodano al resto della catena montuosa. Ancora più rara è un'altra varietà a cui appartengono i castellieri costrutti su piccole elevazioni del terreno, che naturalmente richiedevano opere speciali di difesa, come p. e. quello di Vucigrad (T. IV, f. 2). In questi, al robusto vallo che li circonda, se ne aggiunge un altro semicircolare, quasi avancorpo da un lato e dall'altro in corrispondenza alle due porte d'ingresso. Talora per ripararlo dai venti del settentrione, il castelliere non occupa che la parte del monte vôlta a meriggio, partendo il muro dall'apice, ove non di rado innalzasi una specie di tumolo, che probabilmente ci rappresenta una torre crollata. Alle volte due castellieri trovansi vicinissimi su due vette distinte, ciascuno con proprio vallo interno, ma uniti tra di loro da un ampio vallo comune esterno, per quali non sarebbe inopportuno adottare il nome di castellieri doppi (T. IV, f. 5; T. V, f. 2).

Per la fondazione de' castellieri venivano prescelte le vette più emergenti, d'onde si poteva dominare un vasto spazio di terreno. Le loro altezze assolute variano però moltissimo secondo le differenti località, cosi p. e. il castelliere più alto, 801 metri, è quello di S. Acazio nella valle del Timavo soprano, il più basso a soli 25 metri, quello sull'isola S. Caterina di Rovigno. E del resto strano che i nostri castricoli non temessero di [119] abitare luoghi sì elevati, come la vetta del monte di Grociana (742 metri), quella del M. Ciucco di Roditti (753 metri) ecc., ove il clima rigido iemale ed i venti impetuosi che vi soffiano, non dovevano rendere certo piacevole il soggiorno durante l'inverno. (91)

[120] Del pari assai differenti sono le dimensioni dei singoli castellieri, così ne troviamo parecchi che hanno una circonferenza di uno o due chilometri (92) ed altri che non giungono nemmeno a 100 metri. Questi ultimi, solitamente in vicinanza di qualche altro maggiore, non erano, realmente che vedette, costrutte su qualche punto più elevato, d'onde meglio che dal propinquo castelliere, potevasi dominare il territorio circostante, come p. e. quello sulla vetta del M. Ermada, quello superiore di Cobdil, quello sopra i casali di Mihali presso il castelliere di S. Martino, ecc. La mancanza o scarsità in questi di terriccio nero e di cocci, viene ad avvalorare l'ipotesi che non servissero da stabile dimora.

In quanto alla distribuzione de' castellieri, basta gettare uno sguardo all'annessa carta della nostra provincia, per vedere la grande diversità che presentano le varie regioni. Così mancano naturalmente in tutta la regione alpina e subalpina del Goriziano, eccedente gli 800 metri, e solo pochi si ritrovano qua e là sui colli, che sorgono nelle valli ad una mediocre altezza. Così fanno pure difetto sui corrugamenti maggiori della penisola istriana, che dal M. Tajano si stendono con numerosi gioghi fino al M. Maggiore. Del pari non se ne trova traccia nella pianura friulana, mancandovi l'eminenze necessarie. Ma anche nel resto del paese si scorgono differenze notevoli, non sempre spiegabili colla maggiore o minore fertilità del suolo, o coll'esistenza o meno di località opportune.

Prima di considerare la vita che si svolgeva nei castellieri, fa d'uopo trattare la questione importante dell'approvigionamento [121] d'acqua, dal quale dipendeva in prima linea l'abitabilità degli stessi. Fu chiesto e non senza ragione, come mai avessero potuto esistere uomini su quelle vette aride del nostro Carso, lontane da qualsiasi corso d'acqua, da qualsiasi fonte. In tutta la nostra zona calcare mancano, come si sa, fiumi e ruscelli ed i piccoli torrenti, che durante le piogge dirotte si formano improvvisamente, altrettanto rapidamente scompaiono tra i crepacci del suolo. Gli stessi rivi che scendono dalle pendici dei colli marnosi e si raccolgono talora in poderose correnti al fondo delle valli, appena giungono a toccare il terreno calcare, vengono assorbiti dalla porosità dello stesso e si precipitano in profonde voragini. In qual modo dunque provvedevano i nostri castricoli alla necessità imprescindibile di procacciarsi quest'elemento indispensabile alla vita?

A questa domanda non riesce difficile il rispondere, osservando gli odierni abitanti dei nostri altipiani calcari, e specialmente dell'Istria. Anche essi difettano per lo più di sorgenti e l'unica acqua di cui possono disporre per se ed i propri animali, è lo stagno fangoso, in cui si raccolgono le acque piovane. Chi ha percorso quelle regioni nei mesi d'estate, quando per più tempo non è venuta stilla ristoratrice a dissetare le aduste campagne, ed il terreno screpolato e l'erba bruciata dal sollione e gli arbusti e gli alberi avvizziti sono lì ad attestarci eloquentemente la mancanza dell'umore vitale, si sarà di leggeri persuaso quale specie d'acqua possa sopportare lo stomaco umano. In quello stagno mezzo disseccato e ridotto ad un pantano mefitico, che trovasi poco lungi dai casolari, nel quale diguazzano majali ed intorno a cui si raccolgono le greggi sitibonde, viene la contadina ad attingere l'acqua rossastra brulicante d'infusori, alla quale si deve aggiungere una piccola quantità d'allume per renderla bevibile. Io credo che i nostri preistorici non saranno stati in questo riguardo più esigenti degli odierni abitanti, nè avranno curato maggiormente l'igiene e la pulizia di quanto avviene oggigiorno. (93) Anch'essi [122] avranno avuto stagni in prossimità, de' loro castellieri e forse anche entro gli stessi. (94 E come ancora al presente per aver miglior acqua, gli abitanti coi loro somarelli si recano talvolta ad attingerla a sorgenti lontane parecchi chilometri (95) non trovo ragione perchè ciò non avesse potuto avvenire anche nella remota antichità. Quelli che avevano la ventura di abitare in prossimità di qualche caverna fornita d'acqua, non avranno certamente tralasciato di approfittarne in caso di bisogno, fors'anche raccogliendo lo stillicidio in grandi recipienti. La quantità di cocci appartenenti a vasi di dimensioni colossali, ond'è solitamente disseminato il terriccio de' castellieri, rende probabile la supposizione, ch'essi tenessero presso di sè una provvista più o meno copiosa d'acqua per averla sempre a loro disposizione. Può darsi pure che usassero raccogliere la pioggia defluente dai [123] loro tetti (96), sia direttamente in grandi dogli (97), sia mercè di speciali apparecchi, come potei constatare p. e. nel castelliere dell'isola S. Caterina di Rovigno. (98)

Al principio del secondo millennio prima dell'Era volgare avvenimenti grandiosi di speciale importanza, avevano cominciato a sconvolgere i popoli dell'Asia minore e della penisola balcanica. Sia che incalzati da nuove torme di genti da più lontane regioni, sia che guerre disastrose o sovrabbondanza di abitanti li obbligassero ad emigrare, noi vediamo determinarsi un movimento progressivo verso l'occidente ed il settentrione, che avanzando irrefrenato, viene ad apportare alle nostre contrade una nuova popolazione. E con questa grande trasmigrazione ha principio nella penisola balcanica una civiltà novella, [124] la civiltà dei metalli, la cui conoscenza fornisce all'uomo i mezzi per soggiogare la natura e rendersela docile schiava. Noi non dobbiamo figurarci queste arcaiche migrazioni come l'esodo di un popolo con un determinato obbiettivo di recarsi a questo od a quel paese, del quale forse non aveva neppure contezza, come una spedizione lungamente preparata, per andar ad impossessarsi di qualche lontana contrada. Le migrazioni avvenivano lentamente, dapprima nella regione più prossima, che offriva condizioni propizie d'esistenza, occupando sempre nuove terre coll'accrescersi delle popolazioni, e così spingendosi a poco a poco innanzi, finchè giungevano alle regioni più remote. Questo movimento veniva alle volte accelerato dal sopraggiungere di nuove orde vagabonde, che obbligavano i primi venuti ad abbandonare le loro sedi, premendo cosi su altre genti, che cacciate dalle loro dimore, dovevano continuare nella loro peregrinazione verso altre piagge. Per tal modo il movimento si propagava più rapido, come l'onde del mare, che l'una incalza l'altra, or procedendo in avanti, or sbandandosi da un lato o dall'altro, or retrocedendo verso le regioni già prima lasciate.

Facile aprivasi il passaggio dall'Asia minore in Europa, tanto all'Ellesponto che al Bosforo tracico, ove i due continenti appressandosi grandemente, non sono disgiunti che da uno strettissimo braccio di mare. È quindi fuor di dubbio che le prime trasmigrazioni seguissero queste vie, le quali conducevano alle fertili pianure della Tracia, racchiusa dai Balcani e dalla catena de' monti rodopei. E la storia e la tradizione ci presentano appunto questo paese fin dai tempi remotissimi come il teatro, in cui si avvicendarono continue migrazioni di popoli, sia verso occidente alla Macedonia ed all'Epiro; sia verso meriggio alla Tessaglia ed alla Grecia; sia a settentrione alle vallate dell'Istro e de' numerosi suoi confluenti. Nè a quest'ultime difficile era l'accesso attraverso i valichi delle giogaje montuose, che in parecchi luoghi sono bassissimi, oppure costeggiando le sponde del Ponto Susino. Ed avanzando continuamente dopo aver occupato il centro della penisola ed essersi spinte fino alle coste dell'Epiro e della Dalmazia, quelle [125] genti arrivarono verso la metà del secondo millennio anche alle soglie della nostra provincia. (99)

Nel loro lungo viaggio esse avevano seminato il paese di centinaia e centinaia di castellieri nei quali una parte delle tribù migranti prendeva stabile dimora. E là sugli altipiani montuosi della Bosnia e dell'Erzegovina, dischiusi recentemente in sì splendida guisa, grazie ad un governo energico ed illuminato, (100) alle ricerche scientifiche, noi troviamo costruzioni identiche alle nostre, con una coltura analoga a quella che fiorì nelle nostre contrade. Lo studio di que' castellieri e delle vaste necropoli, ci dà la chiave a sciogliere parecchie questioni etnografiche, dimostrandoci eloquentemente le vie per le quali alla nostra provincia, ed alle propinque regioni della Carniola, giunsero i nuovi abitanti. (101)

[126] Di questi ben poche notizie ci lasciarono gli antichi storici greci e latini, i quali, vissuti in tempi assai più tardi, non avevano in proposito che nozioni molto vaghe e confuse. Fa d'uopo riflettere, che i più vecchi di essi, (che del resto giungono appena al V secolo a. C.), non possedevano alcuna precisa cognizione delle popolazioni, che abitavano le parti settentrionali della penisola balcanica. Così p. e. Erodoto, — nato nel 484 a. C. — dice che "pel tratto al di là della Tracia verso borea, nessuno direbbe con certezza quali uomini sieno gli abitanti" (V, 9). L'unico popolo, di cui avea sentito parlare al di là dell'Istro, era quello dei siginni che s'estendevano fino al [127] territorio de' veneti al mare Adriatico. Gli autori che meglio conobbero queste regioni sono di epoca molto posteriore allorchè erano già seguiti numerosi spostamenti e per la violenta irruzione dei celti, le prische popolazioni trovavansi più o meno disaggregate. Ne venne da ciò, che nei loro scritti incontrarsi frequenti incertezze e contraddizioni circa alla provenienza, alle sedi, all'etnografia dei vari popoli ed alla limitazione dei loro territori. Così gli abitanti delle nostre regioni erano per gli uni illirii, per gli altri traci, chi li riguardava come provenienti dall'Asia minore, chi dalla Colchide, chi persino dalle remote contrade dell'Armorica, facendoli giungere ora per via di terra ora per mare. [102]

Se ancor oggigiorno col sussidio dell'antropologia riesce difficile e non di rado addirittura impossibile il determinare l'estensione etnografica di un popolo, precisandone i caratteri di razza, si comprenderà di leggieri quanto vaghe ed incerte debbano essere state in proposito le indicazioni degli antichi, specialmente allorchè trattavasi di genti abitanti lontani paesi, ch'essi per lo più non avevano neppur occasione di visitare. (103) Così sotto il nome di Traci e d'Illiri, non si designava probabilmente un popolo determinato od una razza speciale, ma un complesso di genti che occupavano una vasta zona della penisola balcanica. (104) Erano traci gli abitanti della regione [128] prossima alla Grecia, illiri invece quelli che più oltre estendevansi a settentrione fino all'Istro. (105) Queste due grandi famiglie umane si frazionavano naturalmente in una grande quantità di tribù, di cui ognuna portava un nome speciale, e che in progresso di tempo andavano spesso perdendo fin il ricordo dell'origine comune. Contingenze politiche o conquiste da parte di altri popoli, concorrevano potentemente ad accelerare questo processo di dissoluzione etnica, sicché coll'andare del tempo sempre più difficile riesciva il riconoscere l'antico ceppo onde derivavano. Nelle nostre provincie gli autori nominano popolazioni diverse, come veneti, istri, carni, giapidi e liburni, senza contare altre suddivisioni quali i secussi, i subocrini, gli atali, i menocaleni, ecc. (106)

Coll'estendersi del dominio romano e collo spostamento sempre maggiore de' suoi limiti, pel quale venivano aggregati all'Italia sempre nuovi territori, le antiche circoscrizioni subivano mutamenti radicali, e quindi i vari popoli perdevano a poco a poco la loro personalità speciale, fondendosi ed amalgamandosi nel grande crogiuolo della latinità soverchiante. È compito della paletnologia di ricercare le prische unità originarie, studiando le analogie e le diversità che presentano le varie colture, e vagliando accuratamente le parche notizie, che [129] ci lasciarono gli antichi scrittori, scegliere quelle che meglio stanno in armonia con quanto l'esplorazioni preistoriche ci vendono rivelando. Per tal modo sarà possibile di trovare basi più solide e più positive per la ricostruzione della storia primitiva del genere umano, di quello che finora ci fosse dato col solo sussidio d'incerte tradizioni o d'elucubrazioni, spesso purtroppo fantastiche, della filologia comparata.

Io non trovo alcuna ragione per ammettere, almeno nei primi tempi, una diversità etnica delle popolazioni, che vennero ad abitare la nostra regione. Se i giapidi ed i liburni della nostra costa orientale, per concorde giudizio degli autori, appartenevano alla grande famiglia degli illiri, dobbiamo inferire che anche le genti delle altre parti della nostra non vasta provincia fossero della stessa schiatta, alla quale, del resto si ascrivevano eziandio i veneti a' suoi confini occidentali. (107) Prescindendo dalle testimonianze storiche, questa unità ci viene dimostrata eloquentemente dai risultati delle ricerche paletnologiche, che ci rivelano rimarchevoli affinità nella loro coltura. Cosi non sarà punto arbitrario l'assegnare a queste prische popolazioni il nome di illiro-venete, col quale si designeranno quelle tribù, che attraversata la penisola balcanica, si sparsero per le nostre provincie e piegando verso occidente, occuparono la vasta pianura che da loro più tardi fu detta Venezia, fino all'Adige ed ai ridenti colli Euganei.

Pare che non molto numerosa fosse la prima immigrazione nelle nostre provincie, scarse essendo le tracce che della stessa [130]

[continua: pp. 130-196 + Tavole]


Note:

  1. Ricordo in proposito un nostro distinto archeologo, solerte indagatore di antiche tradizioni orientali, il quale dopo aver visitato col Burton il castelliere di Romania presso Salvore, andava ripetendo che ci occorreva una buona dose di fantasia per riconoscervi i resti di antiche abitazioni.
  2. Questa carta conservasi inedita a Parenzo.
  3. Provincia, III, n. 5, p. 291.
  4. Che però egli abbia intravveduto la vera essenza de' castellieri, lo possiamo desumere da un brano di lettera diretta ad A. Covaz: "Li castellari che frequentissimi si rinvengono in Istria non sono tutti romani, se ne rinvengono dei popoli aborigeni che precedettero i romani per quell'uso che fu conservato anche nel Carnio e nella Carsia dei Tabor e dei Graidfeuer. I Castellari romani sono di migliore e più sapiente costruzione." (Osservatore triestino, 1870, N. 274.)
  5. Pietro Kandler mori il 18 Gennaio 1872.
  6. Cosi scriveva il primo in una lettera del 17 Febbraio 1870 all'ingegnere Buzzi di Trieste:
    "Visitato poi partitamente un rilevante numero di coteste rovine negli agri di Albona, Cherso, Volosca, Pisino, Pola, Dignano, Rovigno e Parenzo, vidi, o mi parve di vedere, che non tutte sono cosa romana, che in alcune anzi nulla vi ha di propriamente romano o d'altro popolo che possa dirsi civile, che in altre sotto lo strato romano v'è qualche cosa di ben più antico, di assai più antico, di quasi ciclopico, a non dir primitivo; vidi, o mi parve di vedere, in parecchie di esse le ultime orme di un popolo antichissimo, povero di bisogni e di mezzi, rozzo, selvaggio, che non aveva l'uso del metallo, che viveva, pare, all'aperto e si trincerava in piccoli gruppi o tribù sulle cime delle montagne, di preferenza sulle più alte."
    Questa lettera venne pubblicata appena nel 1874 nel lavoro del Burton di cui si parlerà più sotto. — La corrispondenza del Covaz venne inserita nella Provincia, giornale ebdomadario che si pubblica a Capodistria, del 1. Marzo 1870 (IV, N. 5, p. 486). Egli cosi vi si esprime:
    "I così detti castellieri, che da venticinque anni a questa parte si rinvennero sparsi per tutto il paese, e si credette fossero fortilizi romani, perchè a cavaliere delle strade e delle valli ed in posizioni dominanti; e che dopo scopertine molti si ritennero luoghi ove pure stazionassero i Celti, ora fu trovato essere questi contemporanei alle palafitte o. abitazioni locustri dell'età della pietra. Codesti recinti a vallo circolare vennero adunque piantati dai primi abitanti in ogni buon punto del paese, poscia più o meno occupati dai Celti ed utilizzati dai Romani, e su quelli ove chiamava l'opportunità, si formarono in seguito le sedi stabili delle popolazioni."
  7. Notes on the Castellieri or prehistoric ruins of the Istrian peninsula. Anthrop. Soc. London, 1874, con 4 tavole. Di questo lavoro venne pubblicata una versione italiana dalla signora N. Gravisi-Madonizza. Capodistria, 1877, in cui vennero omesse le tavole ed alcune osservazioni (p. 25-27) che non suonavano troppo lusinghiere per le nostre condizioni sociali. Un altro lavoretto sui nostri castellieri fu pubblicato dal Burton nel 1878 nel giornale dell'Anthropological Institute, col titolo di More Castellieri.
  8. Burton: Journal Anthrop. Instit. London, 1878, February.
  9. L'Elephas primigenius Blumemb. fu trovato unitamente al Rhinoceros tichorhinus Cuv. nelle cave di calcare cretaceo di Punta del Dente, laddove dalle altre località non s'ebbero resti che di quest'ultimo. Un'altra specie d'elefante di minori dimensioni (l'Elephas antiquus Falc. v. nana Acconci) venne raccolto nelle cave di saldarne di Dignano.
  10. Di queste fiere rinvenni gli avanzi in parecchie caverne del nostro Carso. Il primo (Felis spelaea Golf.) molto più raro, l'ebbi dalla caverna di Gabrovizza e dalla grotta Tilde presso Brischie, l'altro (Ursus spelaeus L.) era assai diffuso nella nostra provincia, avendolo raccolto oltre che nelle due caverne testè citate, in quella di Goregna presso Povir, di Permani presso Sappiane, di S. Romualdo al Canal di Leme, ed ultimamente in una fovea nella stessa città di Rovigno. Un'altra specie affine (l'U. ligusticus Iss.) viveva nei monti della regione subalpina, come ci fanno fede i resti della caverna di Tribussa. (Marchesetti: Atti Mus. Trieste, 1895, p. 265).
  11. Le nostre brecce ossifere ci conservarono copiosi resti di cavalli, appartenenti a parecchie specie, come Equus Stenonis affinis Wold., E. quajgoides affinis Wold. ed E. caballus fossilis Rütim. (Woldrich: Jahrb. geol. Reichsanst. XXXII., p. 440).
  12. Le indagini del Prof. Moser in alcune grotte del Carso (Mitth. Anth. Ges. 1894 p. 127; Der Karst u. s. Höhlen p. 70) non mi sembrano eseguite con quelle cautele che si richiedono in tali studi, nè le sue deduzioni circa ai trogloditi dell'epoca glaciale, che avrebbero abitato le nostre contrade, possono sostenere una rigorosa critica scientifica, come venne rilevato già dal Much (Anth. Ges. 1. c. p. 128) e dal Mortillet (Rev. d. l'Ec. d'Anth. Oct. 1895).
  13. Nella grotta di Cobillaglava fa d'uopo attraversare un pozzo profondo ben 38 m. prima di giungere alla caverna abitata nell'epoca neolitica (Marchesetti: Soc. Adr. di Sc. Nat. 1879 p. 93.)
  14. Veggansi in proposito, tra altri, i lavori di M. Müller: Biographies of words and the home of the Aryans. 1888; De Cara: Gli Hetei-Pelasgi 1894; Reinach: Le mirage oriental 1893; Sergi: Origine e diffusione della stirpe mediterranea, 1895; Tylor: The origin of Ariam, 1889; Poesche: Die Arier, 1878; Penka: Die Herkunft der Arier, 1886; Much: D. Heimat der Indogermanen, 1902, ecc.
  15. Contentique cibis nullo cogente coactis
    Arbuteos fetus montanaque fraga legebant,
    Cornaque et in duris haerentia mora rubetis,
    Et quae deciderant patula Jovis arbore glandes. Ovid. Metam. I, 103.
  16. Sono tutte specie che vivono alla spiaggia od a poca profondità.
  17. Nelle palafitte di Lubiana si raccolsero resti tanto dell'uro (Bos Bison L.), quanto del Bos primigenius Boj. (Deschmann: Sitzb. k. Akad. LXXXIV, p. 481; Mitth. Anth. Ges. VIII, p. 76), il qual ultimo si rinvenne pure nella grotta Tilde presso Trieste. Oltre a questi animali viveva pure colà l'elce (Cervus Alces L.).
  18. Così trovansi oltre ai paesi già indicati in Dalmazia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Rumenia, Russia meridionale, Tansilvania, Ungheria,. Stiria, Austria sup. ed inf., Moravia, Boemia, per tutta la Germania fino allo Schleswig-Holstein, in Danimarca, Svezia, Norvegia, in Francia, in Belgio e fino in Inghilterra.
  19. In Italia sono comuni i nomi di Castellacioo o Castelluccio, nei paesi tedeschi di Ringwall, Burgstall, Heidenschanze, negli slavi di Gradaz, Gradische, Hradzisze (in Boemia), Grodzisko (in Polonia) Gorodyszcze (in Russia), Cfr. Behla: Vorgesch. Rundwälle, p. 4, ecc.
  20. In Boemia, Sassonia, Lusazia, Vestfalia, come pure nella Bretagna, Normandia e Scozia si riscontrano castellieri a vallo vetrificato (verglaste Ringwälle, vetrified walls), nei quali le rocce silicee onde sono costruiti, vennero a mezzo del fuoco sottoposte ad una fusione superficiale.
  21. Barnabei: Scavi nel territorio Falisco, p. 39 f. 6, p. 46 f. 7,8, p. 47 f. 9. 22) La classica descrizione che Omero fa della dimora di Eumeo, ci presenta un castelliere quale meglio non potrebbe figurarsi, sicchè non posso trattenermi dal citarla per esteso.

    Trovollo assiso nella prima entrata
    D'un ampio e bello ed altamente estrutto
    Recinto a un colle solitario in cima.
    Il fabbricava Euméo con pietre tolte
    Da una cava propinqua e.....
    D'un'irta siepe ricingealo, e folto
    Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
    Pali frequenti vi piantava intorno.
    Dodici v'eran dentro una appo l'altra
    Comode stalle, che cinquanta a sera
    Mandrie feconde ricevean ciascuna.
    E presso lor, quando volgea la notte,
    Quattro cani giacean pari a leoni.
                           Odis. XIV v. 7, trad. Pindemonte.

  22. Atti e Mem. Soc. Istr. Arch. 1885, p. 54.
  23. Fa d'uopo osservare che molte indicazioni venivano spesso fornite a Kandler da persone non molto versate nelle discipline archeologiche, e che quindi facilmente potevano trarlo in errore, ov'egli non era in caso di controllarne l'esattezza.
  24. In realtà questo nome indicherebbe piuttosto tumoli che solitamente non vi mancano.
  25. Nelle parti montuose del Friuli si usa pure il nome di Gradiscata o di Gradiscutta, sebbene quest'ultimo venga per lo più adoperato per designare un castello medioevale.
  26. Per precisarli ancora maggiormente vi aggiungono talora l'aggettivo "vecchio" (Starigrad), o "dei pagani" (Aidovskigrad).
  27. Il vero significato di gomila è appunto tumolo.
  28. Deschmann und Hochstetter: Denkschr. k. Akad. XLII, p. 3; Deschmann: Anth. Ges. Wien, X, p. 28.
  29. Forse anche altre colline, sulle quali si dilatò poscia la nostra città, furono in origine castellieri, ma a noi non è dato provarlo perchè i lunghi secoli trascorsi vi hanno apportato alterazioni si radicali, che affatto impossibile riescirebbe qualsiasi ricerca in proposito. [end 24]
  30. La copia di corna cervine parte tagliate o segate, parte ridotte a svariati utensili, come sgorbie, punteruoli, raschiatoi, impugnature di ascie, manichi di coltelli ecc. trovata quivi e nel propinquo castelliere di Cattinara, ci fa arguire che in quelle località esistessero officine di questa industria.  [end 25]
  31. I piani de' castellieri sono tutti ridotti alla scala di 1:5000 ed orientati per quanto possibile. In caso diverso il nord è segnato con una freccia.
  32. Boll. Soc. Adr. 1883, p. 307.
  33. Le misurazioni dei castellieri da me eseguite parte col metro parte col metodo più spiccio de' passi (che in media dopo parecchie prove mi risultarono di 0.75 m. l'uno), non aspirano certamente a precisione matematica, per la quale sarebbero state necessarie lunghe e difficili operazioni geodetiche. TV altronde per l'indole di questo lavoro, che ha lo scopo di presentare la molteplicità delle forme de' nostri castellieri, credo affatto indifferente un errore di qualche metro in più od in meno. [end 26]
  34. Per la sua forte posizione fu ridotto a castello dai romani, dei quali numerose tombe rinvengonsi presso la strada che conduce a Prosecco. H Buttazzoni volle quivi ricercare la stazione di Avesica (Arch. triest. II, p. 23, III, p. 53) dell'itinerario d'Antonino. Nell'evo medio vi sorse il castello di Moncolano, (nome che conserva tuttora una parte di Contovello), ch'ebbe non piccola importanza nelle guerre coi veneti e del quale esistono ancora le macerie presso all'attuale cimitero.
  35. Da quanto mi venne riferito, in un campo al piede del castelliere si sarebbero scoperte qualche anno fa alcune tombe.
  36. Atti Museo St. Nat., Trieste 1895 p. 249.
  37. Vi apersi cinque tombe, in cui gli scheletri giacevano supini col capo rivolto a nord-ovest e con le braccia incrociate sul ventre, senza alcuno schermo nè ai lati nè di sopra. Solamente sotto la testa eravi posta una pietra. La prima tomba conteneva uno scheletro bene conservato, fornito di una fibula di bronzo a cerniera, di un orecchino d'argento, di una fusaiuola di argilla e di un pezzo d'osso lavorato. Un'altra tomba aveva pure uno scheletro in buono stato con una perla d'ambra, mentre delle altre tre tombe, senza aggiunte, una non conteneva che la parte inferiore dello scheletro, e due solamente resti di ossa decomposte. In ciascuna delle cinque tombe si rinvennero frammenti di pentole sfracellate di fine pasta.
  38. Marchesetti: Boll. Soc. Adr. 1879 p. 93, t. I.
  39. Le cassette formate da sfaldature calcari, hanno una lunghezza di metri 2.30 e 2.50 ed una larghezza di 60 ad 80 centimetri. La prima tomba aperta, possedeva al fondo un'anfora ed una lucerna d'argilla, la seconda una patera d'argilla rossa, nella terza giacevano i resti di quattro individui, tra cui un bambino, dei quali però uno solo orientato colla testa a ponente, gli altri deposti senza alcun ordine. Di aggiunte non rinvenni che un pezzo di vaso di vetro ed un coltello di ferro.
  40. Boll. Soc. Adr. 1879, p. 101. T. II.
  41. Presso alla vetta di questo monte evvi una caverna spaziosa di facile accesso, in cui possono rifuggiarsi centinaja di pecore. Senza dubbio anch'essa avrà servito da dimora ai nostri trogloditi.
  42. Kandler: Articolo sugli Acquedotti nella Raccolta delle leggi, ordinanze e regolamenti speciali.
  43. Kunz: Arch. Triest. IV, 371.
  44. Sopra una vetta propinqua esistono le rovine del castello di Moccò, ove durante le fatali guerre medioevali, vennero si sposso allo mani Triestini e Veneziani. Poco discosto sorge il castello dei conti di Vinchumberg (Fünfenberg), tramutato ora in albergo.
  45. Sebbene una delle vette dell'altipiano sovrastante, che si stende verso Presnizza, porti il nome di Soligrad, nome che farebbe supporre l'esistenza di un castelliere, non vi si riconosce assolutamente alcuna traccia. All'incontro sul cocuzzolo poco distante, segnato con 471 metri al di sopra di Petrigna, sorge un grande tumolo appiattito. Un paio di altri tumoli minori giacciono alle falde del monte. Kandler segna un castelliere presso quest'ultimo villaggio: ripetute accurate indagini su tutte l'eminenze circostanti, che presentano per lo più dossi arrotondati e quindi poco propizi alla fondazione, mi diedero un risultato del tutto negativo. Del pari non ne potei trovare alcun vestigio a S. Maria di Occisla, che pur vi avrebbe offerto una eccellente posizione, al pari di Becca.
  46. Non solamente a Popecchio, ma in parecchi altri luoghi contermini, come ad Ospo, a Cernical, ad Ivanigrad, ecc. furono nell'evo medio fortificate le caverne, che s'insinuano nelle pareti sottoposte ai terrazzi, a mezzo di grossi muraglioni, che ne chiudevano l'entrata e dei quali ancora attualmente si veggono gli avanzi più o meno bene conservati.
  47. Le numerose tombe a cassetta del propinquo monte di S. Michele sono d'epoca molto posteriore, quantunque l'assoluta mancanza di aggiunte, renda impossibile una più precisa determinazione cronologica.
  48. Kandler dice che sullo scoglio sul quale oggidì sorge Isola, si trovasse amplissimo castelliere, al pari che sul propinquo M. Malio (Istria, III. p. 52). Sul primo, se anche esistito in antico, più non se ne scorge traccia alcuna, causa le costruzioni posteriori, sul secondo io non potei riscontrare che resti di opere romane.
  49. Il vicino M. Varda, che per la notevole elevazione (391 metri) e per la posizione dominante la valle superiore del Risano, si sarebbe prestato egregiamente per un castelliere (tanto più che il nome corrispondente a M. Guardia parrebbe accennarvi), non presenta che un dosso a largo pianoro ridotto a prato, senza alcuna traccia di antiche abitazioni.
  50. Il tratto orientale imboscato di questo monte porta il nome di Gabrova Stran, l'opposto denudato di Na Crasi.
  51. Kandler segna pure un castelliere a S. Primo, indottovi probabilmente dal nome del santo, cui è dedicata la piccola cappella presso alla quale sorge un tiglio colossale. Quantunque il terriccio de' campi vi sia molto oscuro, non mi riesci trovare alcuna traccia di vallo o di cocci.
  52. Sui primi oggetti raccolti in questa grotta publicai una relazione nel Bollettino della Società Adriatica di Trieste, 1889, p. 1, con 2 tav. e negli Atti della Commissione centrale di Vienna 1889, p. 134.
  53. Il Castello dei pagani (Aidovski grad), che viene notato da Kandler alla sponda sinistra del Recca e precisamente sul M. Borich sopra Zaverhek, non è un castelliere preistorico, ma un enorme cumolo di pietre derivante dallo sfacelo totale d'un castello, — forse romano, come farebbe supporre la denominazione — del quale però non si riconosce più alcuna traccia di mura, per guisa che si sarebbe tentati a riguardarlo piuttosto quale un tumolo, se dagli scavi praticativi dai soliti cercatori di tesori, non fosse risultato che la fabbrica era a cemento. Del pari è un castello medioevale quello di Nigriniano (Schwarzenegg), detto dai villici Podgrad.
  54. Aggiungendovi gli altri 6 che finora non ebbi occasione di controllare, il loro numero ascenderebbe a 124. Tutti questi giacciono sul terreno arenaceo.
  55. Compio un grato dovere porgendo le più sentite grazie ai signori Dr. A. Amoroso e Prof. M. Calegari di Parenzo, G. Cappellari di Fiume, E. Furlani di Pirano, Prof. A. Haracić di Lussino, Bar. G. Sartorio di Trieste, Dr. A. Scampicchio di Albona, Dr. B. Schiavuzzi di Pola e Mons. M. Silla di Tomai per avermi comunicato l'esistenza di parecchi castellieri.
  56. Per facilitare il rinvenimento dei singoli castellieri sulla carta dello Stato Maggiore, ho creduto opportuno aggiungervi l'indicazione dell'altezza della relativa vetta, ov'essa trovasi notata. Del resto non riescirà difficile il rintracciarli coll'aiuto della carta topografica che vi aggiungo, se anche in scala più piccola (1,300,000).
  57. Ancora più in alto, a Bret, presso il varco del Predil, fu raccolta una bella spada di bronzo lunga 58 cent., che nella forma dell'ansa ricorda quella di Bernate in provincia di Como, (Bull, paletn. it. XI, T. 10) se anche non decorata si riccamente. È un tipo comune, specialmente in Ungheria (Hampel: Congrès Int. d'Autlirop. Budapest, II T. 21 a 25, T. 119, f. 28, T. 1 a 3; Much: Kunsth. Atl. T. 84, f. 3, 4: Mortillet: Musée préhist. T.81, f. 908), che però trovasi pure in Germania (Lissavier: Alterth. Prov. Westpreuss. T. 3,f. 3, 4; Praehist. Denkm. T. 3, f. 4, 5) ed in Svizzera (Mortillet: 1. c. f. 907; Heierli: Pfahlbauber. IX, T. 3, f. 1, T. 21, f. 1; Wallishofen, T. 1, f. 1).

  58. Su questa necropoli non publicai finora che brevi relazioni annuali nel Bollettino della Società Adriatica di scienze naturali fin dal 1887. Spero di poter dare quanto prima estesa descrizione degl'interessanti cimeli in essa raccolti.
  59. Sulla carta dello Stato Magg. notato S. Volario. — Ai piedi di questo castelliere apresi un'ampia caverna con resti copiosi dell'attività umana, tra cui specialmente frammenti di pentole, che nella parte declive, essendo dilavato il terriccio, giacciono in grande quantità alla superfice e possonsi raccogliere senza alcuna fatica. Vi rinvenni pure un ago di bronzo a cruna.
  60. Il castelliere in realtà dovrebbe chiamarsii di S. Mauro, dal nome della vecchia chiesa che vi è costruita, e come si chiamava anche il villaggio prima che venisse ribattezzato col nome di S. Lucia.
  61. Intorno a questa necropoli, divenuta ormai celebre, esiste già un'estesa letteratura. Prescindendo da altre publicazioni minori, noterò qui le mie due relazioni nel Bollettino della Società a Necropoli di S. Lucia, 1893. Veggasi inoltre l'interessante lavoro del Dr. Hörnes: Zur Chronologie der Gräber von Sta. Lucia ara Isonzo, nell'Archiv f. Anthropologie, XXIII, p. 581. Sugli scavi eseguiti dal Cav. Szombathy in questa necropoli pel Museo di Vienna, venne da lui pubblicata una relazione negli Atti della Società Antropologica di Vienna, XVII, 1887, p. 26.
  62. Forse anche al Tabor presso Rauna ed a S. Maria di Vittuglie si potrebbero ritrovare vestigia di castellieri. A S. Croce presso Aidussina, quantunque la posizione ne sarebbe stata assai opportuna, non potei accertarne l'esistenza.
  63. Gli oggetti relativi, tuttora inediti, sono conservati al Museo di Gorizia.
  64. Tanto nel Museo di Gorizia che in quello di Aquileja conservansi parecchi oggetti delle varie epoche preistoriche, raccolti qua e là nella pianura friulana.
  65. Nè sul M. Cornical presso Scipiani, nè sul colle segnato con 126 metri presso Matelich (e non Maletici come erroneamente trovasi indicato nella carta dello Stato Magg.), ambidue notati da Kandler, evvi alcun indizio di castelliere, sebbene nella seconda località il terriccio sia molto oscuro.
  66. Su questo castelliere venne pubblicato un interessante lavoro dal Dr. Hörnes negli Atti della Società antrop. di Vienna (XXIV, 1894, p. 155).
  67. Una bella ascia di bronzo a piccole alette, eguale a quella riprodotta alla tav. 9, f. XI, proveniente da questo castelliere, trovasi al Museo di Parenzo.
  68. Su questi castellieri veggasi la descrizione del Benussi nel Programma del Ginnasio comunale di Trieste, 1888, p. 107, con 2 tav.
  69. Sulla vetta segnata con B08 metri, ove Kandler notava pure un castelliere non potei riconoscerne alcun vestigio. De Franceschi (Istria, I, 102) nota inoltre un altro castelliere presso Stefancich ed uno sul M. Orliac sopra Lanischie, che sarebbe il più alto de' nostri castellieri, giacente a 1106 metri. Resta però da verificarsi.
  70. Forse anche al villaggio di Castellier eravi una stazione preistorica, come la farebbe arguire il nome. Per altro nè io nò il Prof. Calegari, che diligentemente esplorò il distretto ed al quale vado debitore di parecchie preziose indicazioni, potemmo accertarne l'esistenza. Andò probabilmente distrutto coi lavori agricoli.
  71. Sulle scoperte fatte nelle necropoli di questi castellieri diede un'esauriente relazione il Dr. Amoroso negli Atti e Memorie della Società Archeol. Istr., 1889, p. 226, con 10 tav.
  72. Altri nove tumoli, tra i quali alcuni grandi, forniti di loculo, furono esplorati dalla Società Archeologica istriana, del pari con magro risultato (Atti e Memorie della Soc. Arch. Istr., 1894, p. 437; Bull, paletnit. XX, p. 74).
  73. Marchesetti: Arch. Triest. 1883, pag. 416, con una tav., Boll. Soc. Adr., 1883, p. 265, con 10 tav.; Moser: VII. Bericht Comm. k. Akad. 1884, p. 11, con 5 tav.; Amoroso: Atti e Mem. Soc. Arch. Istr., 1885, p. 51, con 9 tav.
  74. In questo castelliere si scopersero un pugnale ed un palstab di bronzo (Luciani: Bull, paletn. it. VI, p. 31).
  75. Così Kandler ne segna uno a Smokliani ad est di Caschierga, uno al M. Burger a tramontana di Vermo, uno a Novacco di Caldier, uno al Starigrad di Gherdosella, uno ad Orlichi a sud di Grimalda ed uno Marcenigla a mezzogiorno di Verch, che restano ancora da verificare.
  76. Corrisponde quindi anche dal lato fisico al suo nome di Limen, d'onde deriva l'attuale nome di Leme.
  77. Kandler nota pure castellieri sulle isole di S. Andrea e di S. Giovanni, ove però non mi riesci di trovarne traccia.
  78. All'incontro sul M. S. Giorgio a tramontana di Gimino, ove il Kandler segnava un castelliere, non se ne scorge alcuna traccia.
  79. Forse v'era pure un castelliere a S. Giacomo (160 m.) presso al punto, ove si biforcano le vie, che conducono a Marzana e Filippano.
  80. Istria, II (1847) p. 275.

  81. Così, a quanto mi comunica il Dr. Scampicchio, alcuni anni fa, costruendosi una cantina sotto il palazzo dell'antica famiglia Coppe, furono trovati martelli di silice, punte di freccia, ascie, ecc. Del pari atterrandosi la chiesa di S. Sergio presso il Duomo, si rinvennero molto al di sotto delle sepolture medioevali, un'accetta di pietra dura, una lucerna ed una pentola preistoriche.
  82. Tra queste fibule vanno notate due, egualmente di grandi dimensioni (16 cent.), il cui piede invece di terminare in un bottone, si allunga in un'appendice laminare un po' convessa. Di questa forma, mancante nelle nostre grandi necropoli dell'Istria e del Goriziano, ne vidi alcune dal sepolcreto di Ossero e dai recenti scavi di Nesazio. Se ne conosce pure qualcuna da Jeserina nella Bosnia (Radimsky: Mitth. Bosnien Hrceg. III, p. 153, f. 452).
  83. Di questo trattò il Prof. Bellar nell'Argo (1895, p. 162).
  84. Anche ad oriente di Fiume vi sono alcuni castellieri, come quelli di Grobnicco, di S. Croce al di sopra di Martinschiza, ecc.
  85. Istria, I, p. 101.
  86. Questo castelliere è certamente esteso, misurando 670 metri di circonferenza, non è però punto il più vasto di tutti quelli dell'Istria e della Carniola, come recentemente asserì il Prof. Moser (Anthr. Ges. 1902, p. 46), essendovene un gran numero di altri ben più colossali. Le tombe da me scavate parecchi anni fa su questo e sul castelliere di Sappiane, non appartengono all'epoca del bronzo, com'è quivi asserito, ma ad un tardo periodo della prima epoca del ferro.
  87. Kandler vi nota ancora: uno sopra Lissaz, uno detto Hlocigrad, lungo la vecchia strada, che da Racizze conduce a Mune, ed uno presso Bergud.
  88. Su questi castellieri della vallata superiore del Recca fu data esauriente relazione da Müllner negli Atti della Commissione Centrale di Vienna, 1880, p. XXI.
  89. Presso a questo castelliere trovasi la grotta di Ghermosai con numerosi resti trogloditici. — Sull'isola di Cherso vi sono parecchie altre località, che a giudicare dal nome (Gradaz, Gradesco, Gracische, ecc.), farebbero presupporre l'esistenza di castellieri. La gita però da me intrapresa al M. Graciste, tra Cherso e Podoschizza, diede un resultato del tutto negativo, non trovandosene alcuna traccia su quella vetta formata di nude rocce orribilmente corroso.
  90. Ciò indusse il nostro Kandler a credere, che questi argini fossero formati da sassi gettativi alla rinfusa senz'alcun ordine, d'onde la designazione da lui solitamente usata di valli tumultuari.
  91. Non ha alcun fondamento la supposizione che il clima di allora fosse gran fatto differente dell'attuale. Tutt'al più l'esistenza di estese foreste sul nostro Carso avrà prodotto una maggiore umidità, che però non può ammettersi eccessiva, perche in tal caso le caverne non avrebbero potuto prestarsi quali abitazioni ai trogloditi. La determinazione delle varie qualità di legno, con cui venivano combusti i nostri progenitori, mi dimostrò che le specie d'alberi che allora concorrevano a formare i boschi, non erano punto diverse delle presenti. Vi allignavano, come ora la quercia, il carpino, il frassino, il pero, il tiglio, il noce, e nelle regioni subalpine l'abete, il larice, il faggio. Anche gli animali erano circa gli stessi, aggiungendovisi il cervo, il daino ed il cignale, scomparsi non per mutamento di clima, ma pel diradamento delle selve. Sappiamo che il primo si mantenne nella nostra provincia fino al principio dell'evo medio, il secondo esiste tuttora, se anche in istato semidomestico nel parco di lecci di Duino. Forse tutt'al più i venti saranno stati un po' meno impetuosi in causa delle vaste boscaglie, sebbene vari autori dell'antichità ci descrivano gli effetti della nostra Bora con si vivi colori, che dobbiamo ammettere aver essa spirato duemila anni fa con altrettanta violenza che al giorno d'oggi. Tanto gagliardo era il vento, che secondo Procopio (De bello goth. L. I, c. 15) "equitem cum equo in sublime rapiat." Ed è celebre l'irresistibile procella di borea, che sorse improvvisa durante la battaglia al Vippacco tra Teodosio ed Eugenio, e che decise la vittoria della nuova fede della Croce sulle deità ruinanti dell'Olimpo pagano. Della sua veemenza abbiamo una eloquente descrizione nella Historia Miscella, (L. XIII, p. 88-89) : "Turbo ventorum vehemens a parte Theodosii in ora hostium pectoraque illisis graviter scutis everberabat, nunc impressis pertinaciter obstricta claudebat, nunc avulsus violenter destituta nudabat nunc oppositis jugiter in terga tendebat, etc." E poeticamente in Claudiano (De III. Cons. Honorii, v. 93 e seg.)

    Te propter gelidis Aquilo de monte procellis
    Obruit adversas acies revolutaque tela
    Vertit in auctores et turbine repulit hastas.
    O nimirum dilette Deo, cui fundit ab antris
    Aeolus armatas hiemes, cui militat aether
    Et conjurati veniunt ad classica venti.
  92. Se si considera che le più illustri e potenti città di quest'epoche remote, non giungevano neppure ad un chilometro di circonferenza, bisogna convenire che i nostri castellieri possono riguardarsi a tutto diritto quali costruzioni di grande importanza. Cosi, secondo Tsountas e Mannet (The Mycenaean Age p. 365), la II città di Troja, riferibile dai calcoli di Dòrpfeld al 2500 a 3000 a. C. non aveva che una circonferenza di 350 metri (con un'area di 8000 metri quadrati), la VI città (1500 a 1000 a. C.) di 500 metri (con un'area di 20,000 m. q.), Tirinto di 700 metri (con un'area di 20.000 m. q.), l'Acropoli di Atene di 700 metri (con un'area di 25.000 m. q.) e Micene di 900 m. (con un'area di 30.000 m. q.).
  93. Non bisogna giudicare i nostri castricoli alla stregua della civiltà classica, nella quale predominava anzitutto la tendenza della pulizia. Al pari degli abitanti delle terramare anche quelli dei castellieri vivevano in mezzo all'immondizie, che si andavano ammonticchiando intorno a loro. Di queste condizioni primitive noi scorgiamo le tracce in molti luoghi dei poemi omerici ed in vari riti religiosi, conservatisi anche in tempi posteriori.

  94. In molti castellieri si veggono resti di cisterne, talora benissimo conservate, che però sono di epoca più tarda, parte romane, parte anche medioevali.
  95. Nelle grandi siccità, allorché le cisterne sono completamente asciutte e gli stagni non offrono che un'acqua limacciosa appena bastevole per gli animali, gli abitanti del nostro Carso si recano ad attingerla con botti fino al lontano Timavo od al Vippacco, intraprendendo talora un viaggio di 40 e più chilometri. Così quelli della costa istriana ricorrono al fiume Quieto, al quale si recano con barche, vendendo poscia l'acqua a 10 e 20 centesimi il secchio. Ed a Trieste stessa, non ostante l'acquedotto ed i numerosi progetti che da quasi un secolo si succedono, si deve giornalmente assistere, e non solo d'estate, al triste spettacolo di quelle lunghe file di carri che si recano con botti a fornire l'acqua necessaria ad interi quartieri popolari del suburbio. — L'abbeveramento poi degli animali e specialmente delle pecore, nei luoghi posti a poca distanza dalle rive, non richiede cure speciali, usandosi spingerli semplicemente al mare per dissetarli. Del resto sulle isole del Quarnero vidi le pecore che spesso vengono lasciate scorazzare libere, poi monti in istato semiselvaggio, accontentarsi della rugiada che vanno avidamente lambendo,
  96. Ammesso che le loro capanne fossero coperte di paglia e quindi sfornite di grondaje, non riesciva tuttavia difficile la raccolta di acqua, sottoponendovi un pezzo di legno un po' incavato, che ne faceva le veci e che conduceva l'acqua ad un recipiente postovi sotto. Questo modo alquanto primitivo, vidi usato ancor al presente in alcune località dell'altipiano calcare di Gorizia, prive di sorgenti, che in tal guisa si procurano acqua potabile se anche non di prima qualità.
  97. Oltre ai vasi d'argilla, i quali a dir il vero per la loro porosità non dovevano prestarsi molto bene alla conservazione di liquidi, é probabile che si avessero anche grandi utensili di legno, come botti, secchie, ecc., i quali naturalmente andarono completamente perduti. La mancanza di oggetti di legno forma purtroppo una sensibile lacuna nelle nostre cognizioni paletnologiche, non essendosene conservati in generale che quelli di piccole dimensioni ed anche questi solo eccezionalmente nelle palafitte e nelle terramare, o quando per esser stati parzialmente carbonizzati, poterono sfuggire alla totale decomposizione.
  98. Smuovendosi il terreno per piantarvi viti, apparve una serie di buchi quadrilateri (1.20 x 0.80 metri) scavati nella roccia, disposti a tre a tre a circa eguali distanze, dai quali partivano dei canaletti verso una vaschetta o piccola cisterna rotonda, del diametro di 1.80 metri e profonda 50 centimetri sita più in basso. Evidentemente que' buchi erano destinati a raccogliere l'acqua defluente dai tetti, trasmettendola a mezzo de' canali al serbatoio più grande.
  99. Le varie migrazioni avvenute in tempi remotissimi nelle nostre contrade, sono adombrate in parecchi miti e tradizioni, come in quelli di Antenore, di Diomede, di Giasone e Medea, ecc. Ed anche alle tradizioni ed al mito spetta il loro diritto, perché, come giustamente osserva Contzen (Wand. d. Celten, 67), essi devono necessariamente riempire le lacune, quando i monumenti di pietra e di pergamena ci abbandonano e senza il loro sussidio non é possibile ottenere un tutto armonico.
  100. Questa lode non può negarsi certamente al governo di quelle due province, e chiunque ebbe occasione di visitarle, potè facilmente persuadersi dei grandi progressi ch'esse fecero in tempo sì breve. Il vantaggio di non dipendere dai capricci parlamentari, che in altri paesi inceppano, purtroppo, l'attuazione de' più utili e necessari provvedimenti, ha posto il governo delle due province occupate nella fortunata condizione di poter introdurvi tutte quelle innovazioni e quei miglioramenti, che fossero atti a trasformare rapidamente in un paese civile quelle contrade immiserite durante la lunga dominazione turca. Quanto in altri paesi si attende dall'attività privata, vi é non solo promosso ma attivato dal governo, come ce lo attestano le numerose industrie da esso fondate. All'esplorazione scientifica viene dato il più largo appoggio si morale che materiale, e le ricche collezioni che si ammirano nel museo provinciale di Sarajevo, e le numerose pubblicazioni che continuamente si susseguono, ci dimostrano la serietà de' propositi ed i felici risultati ottenuti: Nell'interesse della civiltà e della scienza sarebbe davvero desiderabile una simile occupazione anche per altre regioni della penisola balcanica!
  101. Le splendide scoperte paletnologiche fatte recentemente nella Bosnia ed Erzegovina, (publicate principalmente nel Glasnik di Sarajevo, di cui si hanno già 14 volumi, e nelle Wissenschaftliche Mittheilungen 1893 a 1901, delle quali sono usciti finora sette grossi volumi, come pure qua e là negli Atti della Società antropologica di Vienna), sono di tanto maggiore importanza in quanto che per le condizioni primitive o malsicure in cui si trovano gli altri stati balcanici, assai difficili e malagevoli vi riescono le indagini e di conseguenza scarsissime sono le cognizioni che s'hanno in proposito. Alcune poche esplorazioni vennero praticate in Serbia, in Rumenía ed in Bulgaria, coronate da interessanti resultati, ma quanti preziosi documenti non rinserrano gl'innumeri tumoli della Tracia, della Macedonia e della Tessaglia, quante rivelazioni non ci verranno fornite dalle classiche regioni dell'Albania? Frattanto dobbiamo salutare con viva soddisfazione i resultati scientifici finora ottenuti, che vengono a dimostrarci eloquentemente il nesso che intercede tra la coltura delle due sponde dell'Adriatico e le vie seguite nella sua diffusione. Quanto Helbig, già un ventennio fa, aveva intraveduto in base ai pochi oggetti isolati comuni alla civiltà italica ed orientale, che allora si conoscevano, che cioè le relazioni fossero seguite per via di terra, attraverso i paesi posti intorno al golfo istriano (Hom. Epos., p. 62), siamo in grado di affermarlo con maggior sicurezza ora, che possiamo raffrontare il complesso delle colture, che si svolgevano nelle due penisole. E non solo ciò, ma noi vediamo la civiltà della Bosnia ed Erzegovina collegarsi intimamente con quella ch'era diffusa nell'Asia minore e che ora risorge dagli strati preellenici della Grecia. Così noi vi troviamo caverne con resti neolitici, identici a quelli delle nostre regioni, e v'incontriamo estese palafitte con avanzi, che ricordano quelli della Carniola, del Veneto e della Lombardia, numerosissimi castellieri che per nulla differiscono dai nostri, vaste necropoli il cui ricco contenuto ci rivela affinità rimarchevoli non solo con quelle del nostro paese, ma del resto dell'Italia superiore e specialmente delle coste occidentali dell'Adriatico.
  102. Sulle varie opinioni in proposito veggasi il diligentissimo lavoro del Benussi, L'Istria sino ad Augusto, p. 61 e seg., pubblicato nell'Archeografo Triestino, VIII-XI 1880-1883).
  103. I greci ed i latini in generale non si curavano gran fatto di stabilire con precisione le differenze etniche dei vari popoli, ch'essi riguardavano quali barbari, accontentandosi per lo più di notare semplicemente alcune delle loro particolarità principali. Meno ancora si occupavano delle lingue da loro parlate, ch'essi probabilmente non conoscevano affatto e delle quali ci conservarono tutt'al più alcune poche parole. Così dell'antica lingua veneta ci furono trasmesse da Plinio (XXVI, 7) e da Columella (VI, 27) due sole voci, cotonea, (cotogno), e ceva (vacca), che forse neppure esse sono proprie dell'idioma veneto.
  104. Secondo le più recenti ricerche il nome di Traci non dinota una stirpe a sè, ma abbraccia piuttosto tutte quelle stirpi che dall'aspro settentrione calarono nella Grecia e perciò dai greci erano denominati Traci. Cosi non limitando il loro territorio ai confini della Tracia, si comprende come Erodoto abbia potuto dire che la nazione de' Traci dopo gl'Indi, è massima tra gli uomini tutti (V, 3), opinione condivisa pure da Pausania, il quale dice che niun'altra regione ha più moltitudine d'uomini eccetto i Celti (I, 9), e da Tucidide che li fa superar unicamente dagli Sciti (II, 97).
  105. I greci chiamavano illiri tutti i popoli i quali al di là della Macedonia e della Tracia si stesero dai Caoni e dai Tesprozi, fino al fiume Danubio (Appiano: Guerre illir. c. 1). Vastissimo era il loro territorio e come doveva accadere in un paese tanto ampio, molti i rami erano degli illiri (Op. c. cap. 3), tra i quali secondo lo stesso autore, i Triballi, gli Scordisci, gli Ardiei, i Palari, i Dalmati, i Liburni, i Giapidi, i Pannoni, i Rezi, i Norici ed i Misi d'Europa.
  106. Molti altri popoli abitavano secondo Plinio (L. III, 20) la nostra regione, ma questi ne erano i principali (illustres).
  107. Kandler e Benussi dando il maggior peso alle affermazioni di Apollodoro (Müll. Frag. hist. gr. I, 451) e di Scimno Chio (Peripl. v. 391) sostengono che gli istriani fossero traci: Nota però giustamente lo Zippel (Röm. Herrsch. p., 7), che queste notizie non ci danno sufficiente motivo per dividere gl'istriani dagli illirî, tanto più che alle indicazioni dei due surriferiti autori, parecchi altri si possono contrapporre come Strabone (VII, 5), Pomponio Mela (II, 57), Appiano (Bell. illyr. 8) ecc. cui si potrebbe aggiungere anche Erodoto (I, 196) che designa i veneti quali illirî. Non bisogna dimenticare che gli antichi non giudicavano per lo più con criteri etnografici, ma politici, soggetti a molteplici spostamenti in seguito alle varie conquiste.
Tratto da:
  • Atti del Museo civico di storia naturale di Trieste, Volume 10, Arti grafiche F. Cappelli, 1903, 206 pages + illustrations. Google books - https://books.google.com/books?id=f7oWAAAAYAAJ&source=gbs_navlinks_s

Main Menu


Created: Sunday, January 31, 2010; Last Updated: Tuesday, December 12, 2023
Copyright © 1998 IstriaNet.org, USA