|
Data |
Abitanti |
Croati |
Italiani |
Serbi |
Non dichiarati |
FIUME |
1981 |
193.044 |
130.068 |
1.940 |
16.277 |
31.960 |
1991 |
206.229 |
148.047 |
3.300 |
23.669 |
17.300 |
ABBAZIA |
1981 |
29.274 |
22.220 |
133 |
1.034 |
3.887 |
1991 |
29.799 |
23.574 |
321 |
1.153 |
2.555 |
POLA |
1981 |
77.278 |
48.284 |
3.225 |
5.347 |
14.614 |
1991 |
85.326 |
47.359 |
5.375 |
6.242 |
17.694 |
ROVIGNO |
1981 |
18.277 |
13.540 |
1.505 |
584 |
1.757 |
1991 |
19.727 |
11.290 |
2.166 |
749 |
4.312 |
CHERSO - LUSSINO |
1981 |
10.361 |
7.948 |
93 |
537 |
1.336 |
1991 |
11.796 |
8.917 |
256 |
777 |
1.027 |
PARENZO |
1981 |
15.558 |
15.558 |
389 |
519 |
2.652 |
1991 |
22.988 |
12.535 |
1.336 |
900 |
6.637 |
PISINO |
1981 |
19.412 |
17.088 |
67 |
141 |
1.801 |
1991 |
19.006 |
15.026 |
272 |
100 |
3.236 |
ALBONA |
1981 |
25.500 |
20.079 |
148 |
522 |
2.737 |
1991 |
25.9839 |
11.545 |
421 |
523 |
10.580 |
PINGUENTE |
1981 |
7.342 |
6.846 |
25 |
55 |
153 |
1991 |
7.439 |
4.419 |
205 |
58 |
2.389 |
BUIE |
1981 |
20.577 |
13.497 |
2.367 |
634 |
2.570 |
1991 |
23.877 |
9.42 |
5.528 |
1.000 |
5.594 |
ISTRIA |
1981 |
540.485 |
388.872 |
9.963 |
40.171 |
71.761 |
1991 |
673.745 |
390.121 |
19.283 |
48.527 |
73.745 |
Istriani senza colpa
Quando, quasi un anno fa, ho
letto che al comizio a
Pisino, nel cuore dell'Istria, il presidente Croato Tudjman,
commovendosi davanti alla «NUOVA PATRIA ISTRIANA», aveva detto, in
modo definitivo e perentorio — com'è nel suo costume — che coloro che
non erano contenti di questa nuova «PATRIA CROATA CHE HA LIBERATO
L'ISTRA POTEVA ANDARE VIA», allora ho pensato che per la mia terra
natale incominciava una fase nazionalistica più dolorosa, più insidiosa
di quella del passato, e non sono ritornato per un intero anno, preso
dalla paura e da una ripulsa profonda, che scavava antiche piaghe.
Perciò, quando ho letto due giorni fa,
nella prima pagina del «Piccolo», il fondo di Paolo Rumiz, che da anni
vive intensamente la nuova realtà balcanica, ho colto una verità che si
fa luce nei maggiori giornali di tutto il mondo. «Sono anche i croati a
soffiare sul fuoco» — afferma Paolo Rumiz — e aggiunge: «C'è del marcio
in Jugoslavia, il fango inghiotte tutti, il più pulito ha la rogna in
questa sporca guerra di bugie. Ora l'aggressione serba è bastata a dare
a Tudjman la patente di democratico, eppure non vi è niente di più
simile a Milosevic di Tudjman. Stesso nazionalismo (gli italiani di
Croazia ne sanno qualcosa), stessa intolleranza, stessa censura, stessa
ossessione di una missione storica da compiere, stessa collusione con le
frange guerrafondaie. Tudjman basa il suo potere sulla demonizzazione
dei serbi, come Milosevic su quella dei croati».
Queste le riflessioni dell'inviato del
«Piccolo»: un mese fa, circa, avevo letto lo stesso amaro giudizio da
parte del più grande storico jugoslavo, il prof. Kosic, che aveva
rievocato i fantasmi degli ustascia da una parte, e dei cetnici
dall'altra, che stavano venendo avanti per riportare l'antico odio anche
tra chi per secoli aveva abitato gli stessi luoghi. Ancora le parole di
Rumiz da rimeditare, perchè colgono una verità profonda, vissuta anche
da noi istriani, e tale da spaventarci ancora, quasi cinquant'anni dopo
il nostro esodo biblico:
«L'apocalisse è il grande vuoto, la
distruzione del tessuto sociale sia serbo che croato, la bomba
demografica che svuota di gente civile aree di secolare convivenza
etnica per riempirle di banditi, mercenari e fanatici immigrati. Non
esiste solo la fuga dei croati, sono anche i serbi a scappare, spesso
terrorizzati dalla loro stessa gente. Ma di questo nessuno parla». Le
stesse cose accadevano nell'Istria, nel Quarnero, e diciamo pure a Zara,
a
Lussino, nella Dalmazia, con la disfatta politica e militare
dell'Italia: ricordo come un incubo l'odio scatenato dai vincitori, il
terrore dei vinti, la paura di vivere, che nei primi tempi ci faceva
cambiare casa, per non essere portati via. I confini chiusi,
impenetrabili, che fanno della tua casa un carcere, non sapere quello
che domani sarà di tè, della tua famiglia. E niente è tanto amaro come
sentirsi esclusi nei luoghi in cui sei nato, dove hai la tua casa, il
tuo cimitero, le tue radici immerse nei secoli della storia, delle
vicende degli uomini. Tante volte l'ho detto e l'ho scritto in questi
decenni: la fuga dalla terra in cui sei nato viene prima di tutto da
questo senso di estraneità; prima ancora che dalla naturale solidarietà
con una patria nazionale. E allora l'Italia non era in grado di
percepire la tragedia istro-quarnerina, come non aveva percepito prima
il dramma della Dalmazia, o di ciò che, nella Dalmazia e nell'Istria,
Venezia aveva lasciato in tanti secoli di civiltà. L'Italia ufficiale,
ma anche tanta parte dell'opinione pubblica, avevano confuso la politica
di Mussolini, e di D'Annunzio, con una linea europea di altissime
tradizioni civili, che qui si erano manifestate con gli Asburgo e con la
Repubblica di Venezia.
Alcune sere fa, ho assistito alla
presentazione del libro «I giorni della Slovenia», ed ero seduto a un
metro dal presidente sloveno Kucan: lo osservavo mentre gli oratori
parlavano, gli sloveni con una grande serietà e pensosità, qualche
italiano ridendo in mezzo alle parole; e io pensavo che proprio non
c'era niente da ridere di fronte agli avvenimenti sconvolgenti della
Croazia, e prima di tutto a quelli delle nostre terre perdute fra
l'indifferenza quasi totale. Avrei voluto intervenire, ma il dibattito
promesso non fu mantenuto, non so perchè. Davanti al volto preoccupato
del presidente sloveno, davanti alla commozione di un uomo giusto come
il poeta del Carso Ciril Zlobec, che è il vicepresidente della Slovenia,
avrei voluto ricordare quell'articolo del quotidiano croato di
Pola, il
«Glas Istre», in cui si afferma con disprezzo che «L'Istria è sempre
stata e sempre sarà croata». Avrei voluto dire che chi si batte con
dignità e consapevolezza per la propria patria slovena, deve subito
contrastare con tutta la forza queste affermazioni che offendono tutte
le coscienze libere e nette, perchè affermano un tremendo falso: anche
su questi falsi storici è cresciuto il presidente croato, e ha creato la
paura e il silenzio da parte degli istriani, sia di quelli slavi che di
quelli italiani.
Nel mio breve ritorno in Istria, dopo
l'assenza di un anno, un contadino assai civile mi ha detto: «Noi non
siamo amici di Milosevic, ma neanche di Tudjman». E alcuni pescatori
istro-veneti, che pulivano le loro reti in uno dei tanti porticcioli
omerici della costa, mi hanno pregato di riferire, a tutti i livelli,
che l'Italia, che gli uomini di potere, cerchino di dire soltanto delle
cose giuste, e comprendano finalmente la tragedia che c'è dietro gli
avvenimenti istriani: altrimenti — essi hanno aggiunto — è meglio che
stiano zitti.
Riflettendo su queste cose, credo anche a
nome di tanti istriani senza colpa, io devo dire l'angoscia che mi
prende ogni volta che vedo uomini di potere anche importanti, che si
schierano con la superficialità italiana da una parte, condannando
l'altra: secondo una vecchia abitudine, dura a morire dalle nostre
parti, di mettere in un piatto tutti i buoni, e nell'altro tutti i
cattivi. Mentre da noi i problemi sono assai complessi, e vanno
esaminati nelle sfumature, e non a blocchi, come sempre fanno i
superficiali, o coloro che non conoscono la storia, vogliono parlare di
tutto, e ci vogliono fare quello che non siamo mai stati, e mai saremo,
all'infuori di ISTRIANI.
Ignoranza antica
Oggi, secondo un vecchio stile tutto
italiano, molti giornali diranno che Francesco Cossiga non ha mai detto
quelle cose sugli italiani dell'Istria, e che queste sono le solite
superficialità del nostro giornalismo. Rileggiamo insieme le
parole dette dal Presidente della Repubblica a Budapest: «Non mi sembra
che qualcuno stia minacciando le minoranze italiane in Slovenia e in
Croazia». Ed ha aggiunto: «Minoranze che si sono ricordate della
protezione italiana solo negli ultimi anni. Sono molto contento di aver
scoperto che esistano degli italiani in Croazia e Slovenia. Nel '48, nel
'58 e nel '68 non me ne ero accorto». Queste le riflessioni di chi
rappresenta l'Italia al più alto livello, dette in una delle città più
civili dell'Europa.
Da vecchio istriano che si strugge da
cinquant'anni intorno a questi problemi, non mi meraviglio più di nulla:
ho cercato subito
Fulvio Tomizza, ma
non l'ho trovato a casa, perchè quasi certamente era nella sua casa
contadina di
Materada, a vivere nella solitudine, lontano da tutti. Alla sera mi
sono sfogato con un altro amico fraterno, Claudio Magris, che farà al
momento opportuno le sue considerazioni di livello europeo. Io dico qui
e subito le mie cose molto più piccole, ma vissute giorno per giorno.
L'Italia («Ma di quale Italia tu parli?»,
mi interrompeva tante volte Biagio Marin) delle nostre cose non sa quasi
niente, a tutti i livelli, e per colpe che sono anche nostre, di tanti
triestini e di tanti istriani, e di cui dirò tra poco. Ma prima debbo
dire che le enormi responsabilità di questa ignoranza sono della scuola
italiana, e di troppi uomini «di cultura», i quali si occupano solo di
se stessi.
Nella scuola italiana — con le piccole
eccezioni — si insegna troppo poco quasi di tutto, ma si ignora nel
profondo sia la storia sia la geografia. Già intorno al 1910 una giovane
maestra di
Fiume, Gemma Harasim, che inviava a Firenze, alla «Voce» di
Prezzolini, alcuni suoi brevi articoli, usava ripetere che quando
qualche conferenziere viene dall'Italia nelle nostre terre allora
asburgiche, consulti e si porti con sè delle carte geografiche, per non
confondere Zara con
Fiume, o
Pola con
Trieste:
perchè — aggiungeva questa giovane maestra nel candore dei suoi anni e
delle sue esperienze — qui la nostra gente rimane scandalizzata da tanta
ignoranza, e questo fa molto male al Paese verso il quale guardiamo in
molti con simpatia. Questa giovane suscitò tanta ammirazione per le sue
riflessioni, da diventare la moglie del più grande pedagogista italiano
di allora. Lombardo Radice: una loro figlia sposerà poi a Roma l'allora
giovane antifascista Pietro Ingrao.
Ed ora una testimonianza più modesta: a mio
padre, che era un povero operaio dell'Arsenale austro-ungarico di
Pola, un
gruppo di italiani appena scesi nel 1918 dal treno o dal piroscafo sulle
rive di Pola,
chiesero su quali alberi si trovassero gli ultimi impiccati di Francesco
Giuseppe. Perchè molti nostri irredentisti avevano fatto per anni questo
tipo rozzo di propaganda a gente che non sapeva nemmeno dove si trovasse
Trieste o
l'Istria, e che magari credeva che un ponte — breve — congiungesse
Trento a
Trieste.
Luigi Russo, il grande critico della Normale di Pisa e direttore di
«Belfagor» (un grande siciliano, perchè uomini superiori si trovano da
per tutto), ci raccontava, ad un congresso di professori, che il suo
maestro di scuola, a Delia di Caltanissetta dove Russo era nato, segnava
come errore la parola Austria scritta con la maiuscola, perchè quello
era un paese selvaggio che bisognava disprezzare e odiare.
Tutta questa ignoranza l'abbiamo pagata qui
fino all'ultima goccia, dopo l'aggressione fascista e la inevitabile
disfatta, noi da soli contro un mondo potentissimo, di cui ignoravamo
tutto. Nel 1937 facevo il maestro di scuola in un villaggio croato
dell'interno dell'Istria, e con entusiasmo raccontavo ai piccoli alunni,
che poco capivano la mia lingua, che in caso di guerra la sola presenza
di Mussolini al fronte avrebbe sconvolto le sorti di qualsiasi
battaglia, e ci avrebbe dato la sicura vittoria, dovunque.
E poi, alla fine, con la disfatta politica
e militare, abbiamo chiamato questo problema «il problema di
Trieste»,
proprio come volevano Tito e i suoi astuti consiglieri, e non invece il
problema del confine orientale, il problema di
Trieste e
dell'Istria quarnerina: e così tutto si è svolto intorno alla città di
Trieste,
ed il resto è rimasto nell'ombra, come se non esistesse:
Pola,
Fiume,
Lussino,
Rovigno
(solo per citare alcuni luoghi che mi sono più cari) furono cancellati
dalla coscienza di troppi italiani, politici, scrittori, e dall'opinione
pubblica comune. Quante volte mi sono inteso rimproverare, ai cosiddetti
esami di maturità: «Ma voi che cosa volete di più, se abbiamo liberato
nuovamente
Trieste».
Ed il problema del confine orientale, dell'Istria e del Quarnero,
diventò un monopolio della propaganda del fascismo risorgente in Italia,
e stancò e disorientò tanta parte di italiani seri e onesti.
Ma ci furono anche colpe precise nostre,
dei nostri giornali, della parte più futile e vacua della nostra classe
politica, di tanti avventurieri che si buttarono sul problema di
Trieste
per far carriera. Considerammo per troppi decenni tutti cattivi coloro
che erano rimasti al di là del confine, e tutti buoni e bravi quelli che
avevano lasciato la loro terra natale. Ad un certo momento parlammo solo
degli esuli, e con tutte le forze volemmo far credere che al di là erano
rimasti solo i traditori, i venduti.
Abbiamo pagato anche questi errori di
prospettiva, con un piccolo provincialismo che a
Trieste
attecchisce con energia, ed ora persino il Presidente della Repubblica
italiana ignora che esistano italiani al di là di
Trieste,
dove per quasi dieci secoli la Repubblica di Venezia aveva creato una
delle più alte civiltà del mondo.
L'Italia
una madre disattentaI problemi
che l'Istria post-comunista pone ogni giorno sono di una complessità
spaventosa anche per chi li vive e li segue da quasi mezzo secolo. Ieri,
un vecchio pescatore che è rimasto a
Rovigno mi
ha detto che sta vivendo come frastornato, che ogni volta che ritorna la
sera ha paura, che non sa che cosa verrà domani, chi verrà, chi andrà
via, chi comanderà che cosa vorranno i nuovi padroni.
Ripenso a questo rileggendo alcune
riflessioni di Claudio Magris pubblicate da poco su questo giornale.
Rileggiamole insieme:
«Bisognerebbe riuscire a
disinnescare una volta per tutte i rancori tra le etnie. Non è cosa
facile. L'odio tra i popoli può assopirsi anche per decenni, per poi
riemergere improvvisamente. Nell'Istria ci sono i grandi rischi di
un nuovo esodo, soprattutto dettato da ragioni economiche. La
comunità italiana va aiutata con incentivi di tutti i tipi affinchè
riesca a dissuadere chi è intenzionato a lasciare l'Istria solo
perchè attratto in altri Paesi da opportunità economiche che qui,
per il momento, non ci sono. I vertici della minoranza italiana
hanno il dovere di darsi da fare in questo senso, ma sarebbe un
errore lasciarli da soli a combattere questa battaglia».
Da molti decenni la situazione dell'Istria
e del Quarnero era assai difficile, dopo lo sconquasso causato
dall'esodo biblico di oltre il novanta per cento dei nativi di lingua
italiana: tante volte ho affermato che la sciagura delle terre perdute
non è tanto quella dell'essere passate dall'Italia alla Jugoslavia, ma
ancora di più dal deserto che gli italiani hanno lasciato abbandonando
la terra natale, deserto riempito nel giro di pochi anni da popolazioni
venute nell'Istria e nel Quarnero da ogni parte della penisola
balcanica. Questo è lo strappo più profondo, più acuto, più denso di
avvenire: a tal punto che non soltanto i pochi italiani rimasti si sono
sentiti come sperduti in un immenso naufragio, ma la solitudine,
l'emarginazione, il senso di non appartenenza, ha toccato anche gli
slavi nativi, croati e sloveni ecc. Se non si riflettono queste
cose, è assai difficile comprendere la realtà attuale al di là del
confine.
Gli italiani contano poco, perchè la loro
voce è debole, si affievolisce di mese in mese di fronte ai nazionalismi
che emergono dai nuovi Stati creati sulle rovine del comunismo di Tito.
C'è un orgoglio che cresce di giorno in giorno dei nuovi padroni a
Lubiana e a Zagabria — la patria slovena, la patria croata — poco
disponibile a cogliere la dignità, la speranza di chi è diventato
minoranza, e che per tanti secoli, in una parte dell'Istria, era
maggioranza, e aveva dietro di sè una storia limpida, importante, tra la
Repubblica di Venezia e gli Asburgo. Contano poco questi nostri rimasti,
anche perchè sono dispersi — a macchia di leopardo, come si dice — e non
hanno nemmeno la possibilità di parlare tra loro, di confrontarsi, di
consolarsi, di sentirsi insieme, come accade per tutte le altre più
fortunate comunità, a cominciare dagli sloveni nati e rimasti nella
nostra Regione, al di qua del confine.
E all'Italia — bisogna dirlo, anche se è
molto amaro — non ha mai avuto consapevolezza di queste nostre comunità
spezzate dopo il grande esodo, non ha mai saputo misurare il dolore, la
solitudine, l'emarginazione, non ha saputo distinguere tra ciò che si
poteva conservare e ciò che era stato perduto per sempre. Questi vuoti
di cultura si pagano amaramente, giorno dopo giorno. Quella che gli
italiani dell'Istria chiamano la Nazione-madre avrebbe dovuto essere
presente sempre, subito dopo la ricostruzione che è succeduta alla
disfatta: bisognava subito, fin dagli anni Cinquanta, fare una politica
per gli esuli, per quelli che avevano lasciato la terra natale, ma anche
una politica per coloro che non avevano avuto la forza di spezzare le
loro antiche radici. Bisogna ripetere ancora che fu un errore
imperdonabile - per colpe anche triestine —
considerare tutti buoni e bravi coloro che erano partiti, e tutti
traditori slavo-comunisti coloro che erano rimasti. Un errore di
provincialismo, di rancori mai assopiti, di chiusure date dall'odio e
dalla volontà caparbia di non voler aprire gli occhi davanti alla realtà
delle cose: bisognava subito vedere e capire l'Istria com'era, e non
come molti avrebbero voluto che fosse.
Certo, per fare queste cose occorreva una
politica di coraggio, antiretorica, patriottica' nel senso moderno,
aperto: che rispetta le patrie degli altri, ma chiede anche per sè lo
stesso rispetto, la stessa comprensione. È anche un problema di cultura,
di serietà, di moralità, in cui
Trieste
può avere ancora una parte importante, purchè sappia «sciogliere le
vele». Ma dietro ci deve essere l'Italia, quella del potere e quella
dell'opinione pubblica, che deve finalmente conoscere i problemi
fondamentali del confine orientale: ancora nell'Istria e nel Quarnaro si
può salvare qualcosa, comprendendo anche coloro che, al di là del
confine, sono nati in un'altra lingua, e aiutando la crescita faticosa
di quest'antica quercia istriana.
O si imbocca una strada aperta al
dialogo e al rispetto profondo, o vivremo un altro, definitivo esodo: e
allora la radice veneta dell'antica quercia morirà del tutto, e l'Istria
diventerà un'altra cosa.
I rappresentanti dell'Istria rinata, riuniti
per la prima volta dopo 25 anni di lavoro nella libera
Pisino,
interpretando la volontà del popolo istriano, rendono onore a tutti i
Caduti per la libertà dell'Istria e ringraziano il N.O.V. della Croazia
per l'aiuto prestato.
Salutano con entusiasmo lo storico atto del
13 settembre 1943 riguardante il distacco dell'Istria dall'Italia e la
sua unione alla madrepatria Croazia e Jugoslavia.
Prendono le seguenti unanimi decisioni:
- Sono abolite tutte quelle leggi italiane
fasciste le quali, sia politiche che economico-sociali, avevano per
scopo la snazionalizzazione e lo sterminio del nostro popolo.
- Tutti gli italiani, venuti dopo il 1918
in Istria allo scopo di snazionalizzare e impoverire il nostro popolo,
verranno restituiti all'Italia. In singoli casi deciderà un'apposita
Commissione.
- La minoranza italiana in Istria godrà di
tutti i diritti nazionali (libertà di lingua, scuola, stampa e libertà
di sviluppo culturale).
- Tutti i nomi forzatamente italianizzati,
i nomi delle città, dei villaggi, delle vie e in generale tutte le
denominazioni e iscrizioni forzatamente italianizzate verranno
sostituiti dai vecchi nomi croati.
- La lingua nelle chiese sarà croata, alla
minoranza italiana si riconosce il diritto di usare la propria lingua.
- Le scuole croate verranno aperte nel
minor tempo possibile.
- Tutti gli istriani sono chiamati a
rispondere alla chiamata di mobilitazione nel N.O.V. nonchè ad aderire
subito alla raccolta dei mezzi per la nostra armata nazionale.
- Il Zavnoh ha istituito un prestito per
l'assistenza ai danneggiati nella lotta di liberazione nazionale: si
invitano tutti gli istriani a sottoscrivere ognuno, secondo le sue
possibilità, tale prestito di liberazione nazionale.
- È stato eletto il Comitato provinciale
esecutivo provvisorio di liberazione nazionale quale unica vera
rappresentanza politica del popolo istriano, con l'intento di condurre
nella lotta tutto il popolo istriano, fino alla sua completa
liberazione.
I rappresentanti nazionali hanno
indirizzato dall'Assemblea il loro saluto all'unica vera rappresentanza
del popolo croato, Il Zavnoh, e al Comandante in capo N.O.V. della
Jugoslavia compagno Tito.
Morte al fascismo e Libertà al popolo!
Nella libera
Pisino, in
data 26 settembre 1943.
Comitato Provinciale Esecutivo Provvisorio
di Liberazione per l'Istria.
Presidenza: Rakovac Joakim, contadino,
Baderna, rappr. N.O.O. per
Parenzo; Stranic Vjekoslav, commerciante,
Bogliuno,
rappr. N.O.O. per
Bogliuno;
Cerovaz Ante, impiegato privato,
Buzet,
comandante di
Buzet
(Pinguente).
Membri: dr. Buric Pelar, avvocato,
Parenzo,
membro N.O.O. per
Parenzo; Stefanic Josip, parroco, Sovinjak; Cervar Ivo, operaio,
Dignano; Kopita Marija, maestra, San Pietro in Selve; Cetnia Josip,
operaio,
Castua; Ivanci Drago, contadino, Brgudac; Budicin Josip, operaio,
Rovigno; Danc Josip, meccanico, Borato; Mansa Ante, contadino.
Pola; Milanovic Miho, falegname, Gracisce, partigiano.
Partecipanti: Brecevic Ivan, contadino,
Dignano;
Brumnic Zvonko, sacerdote,
Dignano;
Barbalic Ivan, segretario O.N.O.O. per il Litorale croato; Cerneka
Nikola, contadino, Marcenigla; Diminic Dusan, adv. pripr.
Labin, membro del Comando di operazione N.O.V.H. per l'Istria-Albona;
Dorcic Franjo, contadino,
Pisino;
Drndic Ljiibo, ing. tecnico,
Pisino; Jelavac Iva, contadino, Kringa, rappr. N.O.O.; Kolic Ivan,
contadino,
Barbano; Motika Ivan, giudice, Gimino, membro del Comando di
operazione N.O.V.H. per l'Istria; Milanic Silvo (Lovro), falegname,
Castua; Pavlisic Josip, parroco, Gologorica; Pajca Josip, contadino,
Dignano; Pausic Josip; Raner Nada, impiegata,
Pisino;
Raner Ciro,
Pisino, Comandante del luogo.
PROCLAMA AGLI ISTRIANI
Seguendo l'esempio dei vostri fratelli
nella Croazia e in tutta la Jugoslavia anche voi Istriani, soli con la
vostra propria forza, combattete per la liberazione della vostra terra
natia. Grandi sono i successi che avete finora ottenuto. Con la vostra
volontà l'Istria è annessa alla Croazia.
Tuttavia non dimenticate che la lotta non è
ancora finita. Il nostro nemico germanico non è ancora battuto.
Nell'I'stria egli può ancora saccheggiare, devastare e strapparci la
libertà raggiunta. Parti dell'Istria sono ancora sempre nelle sue mani.
I fascisti italiani ancora sempre si appoggiano ai tedeschi. Essi
insistono per cacciarci il coltello nella schiena.
Perciò è necessario combattere! Combattere
possiamo, soltanto se siamo uniti e militarmente organizzati.Tutti senza
distinzione di fede politica e condizione sociale, dobbiamo strettamente
unirci in un unico fronte nazionale di liberazione, creare in tutti i
luoghi e villaggi Comitati nazionali di liberazione e raccoglierci
attorno l'unica rappresentanza politica della nostra nazione, il
Consiglio provinciale antifascista di liberazione nazionale della
Croazia (Zavnoh).
Per poter opporre al nemico la massima
resistenza, liberare completamente l'Istria e unire il popolo istriano
agli altri fratelli croati e jugoslavi, è necessario creare forti e bene
organizzate unità dell'armata nazionale di liberazione.
Lo Stato Maggiore dell'armata nazionale di
liberazione della Croazia, allo scopo di aiutare l'Istria creare la sua
armata, ha installato sul territorio dell'Istria croata il Comando di
operazioni per l'Istria, il quale ha il compito di organizzare l'armata
nazionale di liberazione dell'Istria. Lo Stato Maggiore ha inviato anche
il numero occorrente di dirigenti politici e militari, i quali lottano
già da due anni contro lo stesso nemico e i quali vi saranno d'aiuto.
Abbiate fiducia in essi, avendo essi ottenuto grandi successi nella
lotta per la libertà del nostro popolo.
Istriani: la riscossa nazionale in Istria
ha dato già le prime squadre e battaglioni. È stata istituita la prima
brigata istriana che porta il nome del vostro eroe e martire nazionale
Vladimiro Gordan. Già si creano la seconda brigata istriana e i Comitati
direttivi dei partigiani. Il nemico già si sfascia. I fratelli
dell'armata rossa gli infliggono colpi mortali. I nostri alleati
Inghilterra e America anch'essi lo colpiscono gravemente.
Noi vinceremo, noi dobbiamo vincere.
Istriani: entrate tutti nell'armata nazionale di liberazione! L'Istria
non sarà mai più italiana! — Gloria a Vladimiro Gortan e a tutti i
martiri caduti per la libertà dell'Istria! — Viva l'Istria libera e
croata! — Viva l'armata nazionale di liberazione e i reparti partigiani
della Jugoslavia! — Viva il Zavnoh! — Viva la prima brigata istriana
Vladimiro Gortan! — Viva il Comandante in capo N.O.V. e P.O.J. compagno
Tito! — Viva l'amica Russia! — Viva i nostri alleati Inghilterra e
America! — Avanti nella lotta per l'Istria libera! — Morte al fascismo.
Libertà al popolo!
Pisino, 13 settembre 1943 COMANDO DI OPERAZIONE N.O.V.H. PER
L'ISTRIA.
Tudjman
e l'Istrianità«L'Istria è oggi
l'unica regione in Croazia e forse in Europa dove il popolo di
maggioranza combatte per la realizzazione dei diritti del popolo di
minoranza. Sono certo che insieme la spunteremo come assieme abbiamo
vinto alle ultime elezioni. Questo piccolo lembo di terra istriana nel
cuore dell'Europa sta dando prova di maturità e civiltà tali per cui è
all'altezza di contrastare tutte le sfide cui è fatto oggetto, e proprio
le componenti nazionali dell'Istria sono la sua maggiore garanzia di
crescita armonica». Questo ragionamento è uno dei nuclei dell'intervista
del leader della Dieta Democratica Istriana, Ivan Jakovcic, pubblicata
su questo quotidiano il 30 settembre 1993.
Vorrei qui riflettere, forse per la prima
volta — sui motivi delle sfide al popolo istriano — nelle sue diverse
componenti etniche, e non solo in quelle venete e croate, che vengono
lanciati con preoccupante insistenza da Zagabria, e primo fra tutti dal
presidente croato Tudjman. Queste sfide molte volte sono profonde offese
(l'ultima è quella su «l'Istria pilastro del fascismo»), e gettano il
popolo istriano nello sconforto e talvolta in uno stato di disperazione,
e in molti fa nascere lo stimolo di andare via, di tagliare tutti i
ponti con la terra natale, come già è accaduto negli esodi degli anni
Venti, Quaranta e Cinquanta.
Alcuni giorni fa, in un villaggio nel cuore
dell'Istria, un serbo mi parlava del suo orgoglio di sentirsi istriano,
perchè i suoi figli erano nati in Istria, e in Istria avevano costruito
la loro casa, il loro lavoro, tutta la loro vita. L'Istria ha sempre
avuto questa grande forza, per la sua storia millenaria di varie
presenze etniche, animate almeno da due civiltà mondiali che hanno
educato alla comprensione, alla tolleranza, al riconoscimento e al
rispetto del «diverso»: la Repubblica di Venezia e gli Asburgo.
Qui — come vuol far credere Tudjman, che
non sa e non può vedere l'Istria nel profondo — non si tratta di
nostalgia nazionalista, fascista, di nostalgia dell'Italia, ecc. Questo
che vive nella piccola penisola — ma anche nel Quarnero — è un
sentimento di «istrianità», di radici complesse che s'intrecciano da
millenni nella stessa terra, nello stesso mare: ho scritto tante volte
che se una di queste radici antiche dovesse morire, l'Istria
diventerebbe un'altra cosa, e tutti i nativi, slavi e italiani,
sentirebbero questa mortale mancanza: come se una quercia morisse
lentamente. Come l'Istria non sente «l'italianità» per lo stesso motivo
non può senitre la «croaticità»: mi accorgo che il tema è assai
complesso, ma è anche molto affascinante, e sta alla radice dell'anima
istriana. Senza odio verso nessuno, nè verso Zagabria, tanto meno verso
Lubiana, nè verso Roma. Purchè gli altri non disprezzino gli istriani,
come talvolta fa o lascia fare il presidente croato Tudjman.
Io capisco che alla base dell' odio di
Tudjman c'è la guerra sanguinosa, qualche volta subita e qualche volta
sfidata, e perciò c'è la grande miseria economica, gli sfollati, le
città distrutte, la mancanza di speranze nei giovani e nei vecchi, i
lutti in migliala e migliala di famiglie, la tremenda incertezza del
futuro. Ma queste umane, comprensibili frustrazioni non possono
ritorcersi contro l'Istria, che invece potrebbe diventare un simbolo
della rinascita, della ricostruzione, non solo della Croazia; un motivo
di grande orgoglio per tutti coloro che vivono e che gravitano su questa
civilissima area adriatica.
E so anche che preoccupano alcune posizioni
fanatiche e antislave al di qua del confine, che però si alimentano a
vicenda, con gli estremisti irrazionali dell'altra parte. Facciamo
tacere insieme queste voci antistoriche, che avvelenano la nostra vita:
Zagabria, Roma e Lubiana, affrontino insieme gli argomenti che da oltre
cinquant'anni scottano, e trovino insieme i punti che uniscono, che
indicano mete comuni.
E, l'ultima riflessione, il presidente
Tudjman non dica mai più «L'Istria pilastro del fascismo»: chi
nell'Istria ha lavorato, ha sudato nelle fatiche quotidiane, non è mai
stato fascista: in nessuna regione, ai tempi dell'Italia, ci furono
tanti condannati e incarcerati dai tribunali fascisti, tanti morti. Gli
operai, i contadini, i pescatori, gli artigiani si tennero lontani dal
regime fascista, lottarono contro o lo subirono nel silenzio. E una
parte della piccola borghesia si fece fascista perchè confuse quel
regime con l'affermazione della nazione italiana, e non seppe cogliere —
per mancanza di cultura — l'offesa che si recava a chi non era italiano,
e non poteva sentire l'Italia come la propria Patria.
Questo fu il grande dramma della nostra
terra, e su questo si svilupparono tutti gli esodi, di italiani, di
croati e di sloveni: Tudjman e i suoi consiglieri che contano,
riflettano anche su questi argomenti.
La dignità "del popolo istriano"
«Istriani, italiani e croati e altre etnie
hanno votato insieme, dimostrando in tal modo di intedere le loro
rivendicazioni non in una prospettiva nazionalista e nemmeno soltanto
nazionale, bensì nella prospettiva di una autonomia fondata sul dialogo
interetnico... La Dieta democratica istriana raccoglie la secolare
tradizione pluri-nazionale dell'Istria, in cui coesistono da secoli la
civiltà croata, quella italiana, veneta ecc., radicata soprattutto ma
non soltanto nelle città della costa, e quelle fasce miste e composite
di gente che non s'identifica totalmente nè con una nazionalità nè con
l'altra, ma che sente di appartenere solo prevalentemente piuttosto
all'una o all'altra, considerandosi quindi istro-croata o istro-veneta,
e non croata o italiana tout-court».
Come sempre, Claudio Magris centra al cuore
il vero problema istriano, alla luce della vittoria prevista della Dieta
democratica, in uno dei suoi straordinari articoli scritti per il
«Corriere della Sera», e ripubblicati giustamente sulle colonne di
questo giornale.
Ho visto nascere la Dieta democratica
istriana, trè anni fa, credo, in un grande albergo di Veruda, { Hotel
"HISTRIA" } a
Pola, ho l'orgoglio di sentirmi uno dei suoi fondatori, perchè mi è
stata data la parola proprio in quella sala gremita di istriani, dove ho
colto, lungo tutta la mattinata, una tensione mai provata nella mia
terra, quando la Dieta era considerata da molti sciocchi un'espressione
di croati istriani, anzi di «s'ciavi», o italiani istriani i detti
"fascisti", secondo una vecchia formula di razzismo e di presunta
superiorità civile che tante sciagure ci hanno portato al confine
orientale.
Ma qui vorrei volgermi al futuro, e fare
alcune considerazioni dopo questa vittoria, che può segnare un nuovo
destino per l'Istria, purchè non si ritorni all'euforia, all'enfasi, e
non si colga invece il momento nuovo su cui costruire un avvenire più
sereno, più pacifico, più giusto per gli istriani, slavi e italiani,
autoctoni e nuovi venuti, quando anche le genti nuove che affollano
l'Istria dopo gli anni degli esodi spaventosi - tutti gli esodi, dagli
anni Venti agli anni Quaranta e Cinquanta — sentono l'originalità il
fascino di questa terra.
Forse è giunto il momento di vivere alla
pari, gli uni insieme agli altri, senza padroni e senza servi, come vado
scrivendo da mezzo secolo, e finalmente non fare la gara tra chi è più
italiano, o chi è più croato o sloveno.
Ancora le parole di Claudio Magris: «Ogni
tentativo, da parte italiana e da parte slava, di negare questo
carattere molteplice dell'Istria e di sradicare l'una o l'altra presenza
è stato funesto e lo sarebbe sempre». Credo di avere scritto, almeno
trent'anni fa, che solo accettando questi principi si poteva uscire
dalla morte della radice veneta nell'Istria, e che, forse per la prima
volta nella nostra storia, ci veniva data l'opportunità di guardarci in
faccia, alla pari, e superare finalmente i torti subiti e causati, gli
uni contro gli altri: ritornare alla nostra genuinità, senza
prevaricazioni, senza superbie nazionalistiche, portando avanti, dalle
due parti, la nostra istrianità, in cui ci riconosciamo fratelli,
l'istrianità che ci unisce da sempre, e che sempre è stata spezzata da
chi è venuto da fuori a comandare, senza capire, dividendo un corpo che
la natura aveva unito da sempre, nella piccola penisola chiusa nello
stesso mare.
Ora bisognerà rispettare questo voto che la
Dieta democratica istriana ha fatto rinascere, e a cui ha dato dignità e
fierezza: ma, ripeto, senza enfasi, senza suscitare nuovi odi, nuove
paure, nuovi sospetti. Importante prima di tutto che l'Istria susciti in
ogni sua parte uomini all'altezza di questa nuova atmosfera, vincendo
ogni provincialismo, ogni campanilismo che tante volte ha tarpato le ali
a chi ha tentato di vedere più alto, più vasto: non immiserire le cose
nobili, ma aiutare i più intelligenti ad andare avanti, per una strada
che sarà sicuramente tutta in salita.
L'Italia capirà questa novità istriana, e
non creerà impedimenti, anche perchè è soffocata da problemi interni che
ci tormentano ogni giorno, e che impediscono a Roma di creare una
politica estera di ampio respiro. La Croazia dovrà pure capire l'Istria,
che è riconosciuta come un grande cervello persino da Zagabria, la quale
sa che qui bisogna fare di tutto perchè la piccola penisola sia
risparmiata dalla guerra civile, e possa guidare la ripresa del nuovo
Stato, sconvolto dalla guerra, dalla miseria, dalle ondate paurose di
profughi da ogni parte della Balcania dilaniata.
La meta dell'Istria, degli Istriani che
hanno potere, è quella di avvicinare le parti, di lavorare insieme, di
guardare insieme lontano, di offrire a tutti coloro che pensano un
modello di serietà, di convivenza, di buona amministrazione. E dare pace
duratura a questa nostra terra affascinante, amata, complessa, ricca
appunto di questa sua secolare complessità, e perciò così diversa, così
unica nel Mediterraneo.
Ognuno ha imparato a superare «la rancorosa
chiusura del piccolo microcosmo», ed ha capito la ricchezza e la forza
del vivere insieme. Solo così l'Istria si apre all'Europa, alla civiltà
di chi desidera la pace, il benessere, la concordia, l'armonia del
vivere. Coloro che abitano l'Istria, e che hanno votato per la Dieta
istriana, pensavano a queste cose alte: intellettuali, operai,
contadini, pescatori, tecnici, artigiani, che vivono nella loro dignità
familiare, e non domandano niente a nessuno, non si sentono nè servi nè
padroni, nè slavi nè italiani, ma ISTRIANI.
Una
lettera anonimaIn margine ai
«Sentieri della memoria» del sig. Guido Miglia. L'ho ascoltata con
curiosità, nelle sue affabulazioni, giovedì 26 novembre su Rai 3
(Programma radiofonico regionale dal titolo «Voci e volti dell' Istria»,
diretto dalla sig.a Calacione e dal nostro Ezio Giuricin). Constatato
che Lei ha una fervida memoria, datata però soltanto dopo il 1945, e
anche per questo periodo Lei ama dare interpretazioni molto parziali dei
tragici fatti che hanno causato poi il fatale esodo dalla città di
Pola,
avvenuto nel febbraio del 1947, ben sette mesi prima dell'applicazione
del Trattato di pace (Parigi, settembre 1947).
Se la memoria non la tradisce, ricorderà
che era direttore dell'«Arena» di
Pola, sulle
cui pagine incitava la popolazione ad abbandonare le proprie case, e
tutti i beni. La settimana scorsa la sua riscoperta memoriale l'ha così
coinvolta che alla fine, io, testimone oculare di quei tempi sono
rimasto allibito di fronte all'animosità violenta con la quale si è
scagliato contro gli intellettuali italiani rimasti accusandoli di
essere colpevoli della nostra tragedia odierna, invitandoli a
nascondersi in casa per la vergogna che oggi colpisce l' Istria. Mi
permetto di citarla: «Cosa hanno fatto quando
Dignano l'hanno chiamata Vodnjan? Non ho sentito levarsi contro la
parola Vodnjan nessuna voce!».
Ebbene, sig. Miglia, posso «ricordarle» che
anche grazie al suo «Lavoro» attraverso l'«Arena» di
Pola, di cui
era direttore, in Istria, all'epoca erano rimasti soltanto pochissimi
intellettuali (tra i quali Eros Sequi, non istriano, ed Erio Franchi, i
quali per aver difeso le scuole italiane mentre Lei si «crogiolava» al
sole libero di
Trieste, sono stati defenestrati e costretti a prendere altra via,
lontana da noi e dall'Istria).
Certo non ho mai sentito gli intellettuali
italiani che avessero levato la propria voce contro la «Kùstenland» fra
il 1943 ed il 1945 e pochi di questi hanno preso il fucile per
combattere quella barbarie nazifascista che oggi è spettro del passato
in Europa, quando questa incendiava, uccideva donne e bambini.
C'era allora un battaglione italiano
dell'Istria che combatteva questa .barbarie e questi, ovvero gli
intellettuali, se ben interpreto le sue parole, dovrebbero nascondersi
nelle proprie case, per la «vergogna». Anche il finissimo intellettuale,
oramai non più fra noi, dott. Sacheri era nelle file del battaglione
Pino Budicin!
Ah! È vero, lei non ha mai nominato il
sacrifìcio di Pino Budicin e di tanti altri. Forse potrei aiutarla a
ricordare i morti del Mulino di
Pola, del 3 gennaio 1947, che nella resistenza della gente affìnchè
non si portassero via i macchinari del mulino, caddero vittime degli
Inglesi, risultato di una politica dell'esodo che voi in particolare
dalle pagine dell'«Arena» di
Pola, non
solo sostenevate, ma alimentavate. Oppure il sacrifìcio del povero
Corazza, a guardia della sede dell'UAIS, contro gli attacchi delle
vostre squadracce, in via Smareglia, squarciato da una bomba?
Se oggi fosse tra noi il prof. Antonio
Borme, potrebbe risponderle sul sentiero «della Sua memoria» delle
infinite battaglie che hanno fatto la sua vita, fino agli ultimi giorni,
per tenere vive e operanti le scuole, le istituzioni, gli Italiani in
Istria, a
Fiume, e lì dove ancora sono rimasti, e vi si potrebbe associare il
prof. Illiasich, e altri ancora...
E poi, mi chiedo, chi sono questi «furbi»
dei quali ha parlato alla radio che se ne sono andati prima? È anche Lei
uno di questi?
Sarà questo un argomento delle sue prossime
memorie?
Risposta a una lettera anonima
Quella lettera violenta, «firmata» ma di
cui non appare il nome, pubblicata da «La Voce del Popolo» sabato 5
dicembre, dev'essere stata scritta da un intellettuale italiano che
negli anni della scelta si schierò con l'ideologia stalinista, poi
titina, per tutta l'Istria, anzi tutta la Venezia Giulia jugoslava, e
anche dopo cinquant'anni di tragedia, al di qua e al di là del confine,
dimostra ancora la sua rozzezza, il suo squallido provincialismo, ed
anche nel fondo quell'arroganza che alle menti deboli fa ritenere di
essere sempre dalla parte della ragione, e non le stimola mai al dubbio,
all'incertezza.
Per indole, non rispondo mai agli insulti,
ma questa volta lo faccio, prima di tutto per il rispetto e la
solidarietà che sento verso i lettori della «Voce», e per gli istriani,
che mi seguono da decenni, quando scrivo ma anche quando parlo alla Rai
di Trieste.
Comincio con l'affrontare le cose serie, ed
alcune le dirò qui per la prima volta, anche perchè comincio a sentirmi
vecchio, e sia Biagio Marin che Carlo Schiffrer mi stimolavano sempre a
scrivere finchè la mente è sveglia, perchè — essi mi dicevano spesso,
anche quando ero giovane — «scripta manent», cioè le cose scritte
rimangono, e compongono appunto le trame complesse della nostra memoria.
Ho lasciato
Pola il 10
febbraio del 1947, non solo perchè ero stato più volte minacciato di
morte in quegli ultimi mesi d'inferno, ma anche perchè quel giorno il
governo italiano firmava il Trattato di pace, che dava alla nuova
Jugoslavia oltre i quattro quinti della Venezia Giulia, tutta l'Istria,
tutto il Quarnero con
Fiume,
tutte le isole. Continuare in quei mesi una battaglia sarebbe stato da
imbecilli, e lo stesso Governo Militare Alleato provvide diversamente,
per attenuare ogni forma di polemica, ora che la battaglia era stata
conclusa da chi aveva nelle mani le sorti del mondo.
Ma noi, in quegli anni feroci, dall'una e
dall'altra parte, i proItalia e i proJugoslavia, ci illudevamo di essere
al centro del mondo, come accade sempre a coloro che vivono in prima
linea, ed invece facevamo una lotta che si giocava altrove, sulla nostra
pelle, quando dietro Tito c'era la Russia di Stalin, e dietro l'Italia
c'era stata la politica barbarica del fascismo, e poi l'aggressione alla
Jugoslavia, ed alla fine la disfatta politica e militare della seconda
guerra mondiale: e noi italiani dell'Istria, al confine orientale di
allora, stavamo pagando tutte queste colpe messe insieme, ed avevamo
contro di noi persino alcuni italiani intellettuali che si stavano
battendo per la Jugoslavia di Tito, contro l'Italia, non più fascista,
cioè contro l'Italia di Farri e di Togliatti, di Nenni e di Silone, di
Calamandrei e di La Malfa, di De Gasperi e di Sforza, e di tutti gli
antifascisti che dall'emigrazione erano ritornati in Italia, per
costruire insieme (anche insieme a noi, al confine orientale) un Paese
nuovo, che capisse finalmente la dignità e i diritti degli altri, dei
diversi, e nel nostro caso degli sloveni e dei croati che si fossero
trovati nei nuovi confini italiani: i territori slavi alla Jugoslavia, i
territori italiani all'Italia.
L'esodo popolare sorge da questi
sentimenti, che sono stati violentemente conculcati dai fanatici di
allora, i quali avevano creato con una malizia stalinista questi slogan:
«Non è Tito che vuole l'Istria, ma è l'Istria che vuole Tito» «II nostro
non diamo, l'altrui non vogliamo» «Servi dell'imperialismo americano»
«Nemici del popolo» «Traditori della classe operaia» «Nemici della
fratellanza», in cui erano fratelli coloro che aderivano alle richieste
jugoslave. Gli altri erano rigurgiti del fascismo, nemici e traditori
della povera gente: a tal punto, che mio zio Toni, uno degli
antifascisti noti a
Pola, era convinto ch'io fossi pieno di ville datemi dagli Americani
per il dopoesodo, e non volle nemmeno vedere la nostra bambina nata a
Pola nella disperazione di quei mesi, e non volle nemmeno
incontrarmi nel giorno dello strappo. Ma un anno dopo, quando aveva
ormai capito tutto, mi scrisse il suo dolore senza conforto, e quando mi
rivide nel 1954 pianse a lungo appoggiato sulla mia spalla, davanti alla
tomba di mia madre e di mio padre.
L'esodo tremendo di
Pola, ma
anche di tanta parte dell'Istria, non venne dai miei articoli, ma venne
per cause assai più profonde, di cui scrivo da quasi cinquant'anni: un
mondo di popolo non si muove perchè uno scrive certe cose, ma sente nel
profondo qualcosa che va ben oltre le emozioni individuali. Azzardo un
parere, tra tanti che mi sono affiorati in questo mezzo secolo passato.
Gli Angloamericani, cioè i vincitori della guerra, erano arrivati a
Pola, come a
Trieste e a Gorizia, ed avevano portato con loro il senso, le
speranze dell'Occidente, a cui tutti gli Adriatici si sentivano legati,
affini. Pola
visse quei due anni di fuoco in questa speranza, in questa tensione
proOcci dentale, prima ancora che proItalia. E quando l'Occidente decise
di lasciare Pola,
la città si sentì tradita, abbandonata, e partì insieme a coloro che a
Pola avevano
portato l'unica speranza, alla fine della guerra.
E se in me c'è qualche responsabilità, è
quella di aver fatto un giornale antifascista, italiano sì ma
antifascista, antinazionalista, che si sforzò in tutti i modi allora
possibili di non cogliere l'odio, di non parlare di sangue, di foibe, di
vendetta. Certo, la popolazione colse questa voce nuova italiana, direi
meglio istroveneta, e si schierò con la democrazia, con il pluralismo,
con la dignità delle opinioni diverse. S'io avessi fatto un quotidiano
di tipo nazionalfascista, come avrebbero voluto i più sciocchi, forse la
classe operaia, forse i poveri, si sarebbero schierati contro di noi, e
forse anche non avrebbero poi affrontato l'esodo. Questo è un cruccio
che ritorna in me, e mi tormenta, e di cui ho parlato con uomini che ho
sempre stimato, da Milan Rakovac a Ive Mihovilovic' e Miroslav Bertosa,
a Nelida Milani, a
Fulvio Tomizza, a Claudio Magris.
Ma l'altra parte avrebbe continuato a
diffondere l'odio, perchè questo era il costume dell'ideologia, e
nessuna forza al mondo avrebbe fermato questo tipo di propaganda
antipopolare, basata sulla falsità, sull'arroganza, sul torcere con
malizia infinita le verità più elementari.
Ed infatti l'esodo spaventoso dalle terre
istroquarnerine continuerà per anni, e trasformerà il volto umano,
etnico della nostra terra, coinvolgendo nella sua furia non solo
italiani nativi, ma anche slavi nativi. Altro che il quotidiano fatto da
Guido Miglia, a cui pensano le menti deboli, per trovare una qualche
giustificazione.
Ed ora qualche considerazione finale. Non
mi sono mai fermato, nè parlando alla Rai nè scrivendo, all'anno 1945.
Conosco quasi tutto ciò che nella mia terra è avvenuto fin dall'ingresso
dell'Italia, che da noi, purtroppo, si è subito identificata con il
fascismo, ed ha costretto tanta gente seria e capace al primo esodo
degli anni Venti. C'è una pagina di Claudio Magris, ch'io colgo dal suo
libro Einaudi «Trieste,
un'identità di frontiera», in cui scrive, citandomi spesso: «II fascismo
indebolisce l'italianità, e la liquida nell'Istria. Il bambino di cui
parla Miglia, che, interrogato da lui, sa soltanto ripetere, con le
lacrime agli occhi, la parola "pasculàt", è già il volto del giudizio
storico, che, di lì a poco, strapperà all'Italia tutta l'Istria, anche
quella italiana; la strapperà non solo al fascismo, ma all'Italia che
l'ha misconosciuta, ignorata e perduta senza dolersi e senz'accorgersi
del suo dramma».
Questo è un ragionare costruttivo, e non la
miseria della piccola lettera a cui rispondo forse in modo
sproporzionato. Certo, io disprezzo quei pochi intellettuali italiani
(non gli slavi), che si sono battuti per l'Istria jugoslava, per il
Quarnero jugoslavo, per il confine all'Isonzo, e poi, negli anni della
vendetta, non hanno detto una parola per reagire allo scempio che si
faceva nell'Istria dal fanatismo titino. Vodnjan, Vrsar, Bale, Novigrad,
sono solo piccoli episodi di un grande dramma politico e umano che le
nostre generazioni hanno vissuto nel loro sangue.
Non ho mai odiato, non ho mai disprezzato
nessun altro, e meno che mai gli slavi nativi che si erano battuti per
la patria ch'essi attendevano, la patria delle loro speranze, della loro
lingua: anche se poi, di fronte alla realtà delle cose, molti sono
andati via. Altri, anche italiani ch'io amo, come Ligio
Zanini, che hanno pagato con la barbarie del gulag, senza nemmeno
trovare la solidarietà dei confratelli. Questi altri intellettuali
italiani io disprezzo, che hanno suscitato lo sdegno anche in un recente
straordinario libro di
Fulvio Tomizza. Questi devono tacere finchè vivono: qualche volta ho
detto che, di fronte a simili colpe, si può anche scegliere il suicidio.
Ancora due righe piccole: i «furbi» di cui
ho parlato in quella conversazione Rai sono i capi fascisti neri di
Salò, del periodo nazista istriano, che sono scappati dalle nostre terre
quando hanno inteso il vento della disfatta, e non si sono lasciati
prendere prigionieri, come è toccato invece a tanti incolpevoli. Non mi
sono mai «crogiolato» nel mare di
Trieste,
anche perchè i miei polmoni continuavano ad essere deboli per una lunga
antica malattia: dal marzo al settembre 1947 sono andato e ritornato
ogni giorno col vaporetto da Grado a
Trieste, perchè facevo il piccolo impiegato alle Generali, e con la
moglie e la bambina di pochi mesi, nata a
Pola
nell'ultima primavera, eravamo ospiti nel campo profughi della città di
Biagio Marin, stordito io ogni giorno per le otto ore di ufficio e le
cinque ore di piroscafo.
La genesi di una tragedia
Due miei cari giovani amici istriani, Furio
Radin e Dino Debeljuh, ambedue deputati al parlamento di Zagabria, hanno
parlato dell'esodo dall'Istria e dei beni abbandonati da chi ha lasciato
la terra natale, davanti ad un'assemblea forse disattenta, forse non
convinta delle riflessioni che i due deputati hanno fatto, forse
distratta dai problemi tremendi che la Croazia sta attraversando a causa
della guerra balcanica, che coinvolge colpevoli ed incolpevoli.
Cerco di dire qui le parole pronunciate dal
presidente della commissione del parlamento croato per le minoranze,
Ljubomir Antic, poi quelle dei due parlamentari istriani, ed infine le
riflessioni di uno che ha vissuto l'esodo da protagonista.
Ljubomir Antic — come leggo nella «Voce del
Popolo» — ha sostenuto che coloro che hanno optato, croati o italiani,
non sono affatto profughi, e ci sono esempi in cui «i Croati lasciavano
il Paese accompagnati dalle note della banda d'ottoni, un Paese nel
quale veniva perseguitata la religione per andare in un altro Paese, nel
quale la libertà di fede era garantita». Prima di dare la testimonianza
di uno che queste cose le ha viste, le ha interpretate, mi pare giusto
porre all'attenzione dei lettori le risposte di Dino Debeliuh e di Furio
Radin, la prima carica di emozione, e la seconda priva di toni patetici,
com'è nell'indole dei due deputati istriani.
Ha risposto Debeljuh: «Se ne sono andate
oltre duecento mila persone, e partendo molti sono caduti nelle foibe.
Si sa bene in Istria come la gente sia stata cacciata, anche con minacce
di morte. C'era di tutto, la gente fuggiva nel cuore della notte. Chi se
ne andava lo faceva piangendo. È deplorevole che in questa aula si parli
di gente che se ne è andata al suono delle fanfare». Allora Antic ha
replicato che non si è trattato di pulizia etnica: «Uno Stato — egli ha
detto — che avesse voluto modificare la struttura etnica dell'Istria,
avrebbe portato i Croati in Istria e non li avrebbe cacciati. Si è
trattato di una dittatura, ma non di una dittatura del popolo croato sul
popolo italiano, ma di una dittatura comunista».
Il deputato italiano Furio Radin, com'è
appunto nella sua indole e nel suo abito professionale di ricercatore
universitario, assai stimato a Zagabria, ha così replicato: «Dall'Istria
nessuno se ne è andato con la banda d'ottoni. Sono stati cacciati in
molti, molti sono stati cacciati con il fatto stesso dell'avvento dei
comunisti al potere, altri sono stati cacciati da un sistema che di
giorno mostrava una faccia pulita, e di notte scatenava il terrore.
Quelli che hanno lasciato il Paese non hanno soltanto optato: essi
volevano bene a questa terra, in quanto era la loro terra. Coloro che
sono vissuti in quei tempi sanno che la gente ha dovuto andare via».
Ed ora la testimonianza di uno che era lì:
Biagio Marin mi diceva spesso che chi ha vissuto queste cose ha il
dovere di dirle, finchè la mente è sveglia, fino a che il ricordo è
vivo, preciso. Lo scrivo da cinquant'anni, ma forse qui potrò dire
alcuni concetti nuovi, anche perchè, con il trascorrere degli anni, a me
pare che tutto diventi più razionale, più limpido.
Per gli Slavi dell'Istria e del Quarnero,
la venuta del comunismo di Tito, la venuta della Jugoslavia che usciva
vittoriosa dalla guerra partigiana, fu una liberazione, la fine
dell'oppressione fascista, il congiungimento alla loro patria, alla loro
lingua, alle loro speranze. Naturalmente, con le eccezioni dei nemici
del comunismo, che erano notevoli anche allora sia tra gli Sloveni che
tra i Croati: ma queste eccezioni non contavano nulla, nell'euforia di
quegli anni, e nella vittoria di coloro che gli Slavi avevano atteso
nell'Istria e nel Quarnero.
Per gli italiani di queste terre non fu una
liberazione, ma l'inizio di una nuova dittatura, l'inizio di un'altra
Nazione, di cui gli Italiani, o meglio gli Istroveneti, non sapevano
nulla, a cominciare dalla lingua, che è l'elemento essenziale nelle
scelte degli uomini. Per gli Italiani di queste terre, che allora si
sentivano comunististalinisti, fu anche l'inizio di una fase nuova della
loro vita, il concretarsi delle loro speranze, degli ideali in cui
avevano fermamente creduto negli anni amari della dittatura fascista.
Per loro l'ideologia fu più forte del senso della Nazione: costoro si
misero dalla parte della Jugoslavia di Tito, nel momento della scelta, e
furono contro l'Italia, non riconobbero la nuova Italia, che era quella
di Ferruccio Parri, di Amendola, di Ignazio Silone, di Leo Valiani, ed
anche di Pietro Nenni, di Calamandrei, di Ugo La Malfa, e di tanti altri
galantuomini che avevano scelto la solitudine e l'esilio nei decenni
delle sfide fasciste al mondo intero, e che avevano subito la disfatta
italiana, senza colpa. Qui l'Italia del CLN (Comitato di liberazione
nazionale) fu dileggiata, derisa, disprezzata, e fu ritenuta una
prosecuzione del regime fascista, a tal punto che non solo gli Slavi
furono per la nuova Jugoslavia, ma anche decine di migliala di italiani,
nativi di queste terre, ma anche venuti dalle vecchie province
dell'Italia, che in alcuni casi furono i primi deputati dell'Istria e di
Fiume a
Belgrado. Alcuni mandarono i loro figli nelle scuole croate, per essere
più slavi degli altri. Molti, specialmente fra i nativi, furono persuasi
dagli ideali che allora la metà del mondo portava avanti, avendo Stalin
per capofila. Per molti, anche di cuore puro, solo da quella parte
veniva la giustizia, la fine delle miserie, la luce per la povera gente,
le speranze cresciute in un mondo più giusto, più umano. Molti
intellettuali italiani, anche di grande spicco, furono da quella parte,
e guardarono verso di noi, allora esuli senza patria, come se noi
fossimo dei colpevoli, che avevano abbandonato la loro terra natale.
Per molti anni, uno come me si vergognò di
essere un esule, di non avere una casa, un riferimento sicuro su cui
piantare la nuova vita: l'ho già scritto, la vita è dura anche per chi
la inizia una sola volta, ma l'esule deve ricominciare tutto da capo,
estraneo dovunque, dovunque ospite, quasi dovesse farsi perdonare anche
di colpe mai commesse: la vicenda umana di Dante è il simbolo di tutti
coloro che hanno perduto la patria, che è prima di tutto la terra
natale, la terra delle nostre radici.
Questi gli aspetti ideologici, e di
scontro fra Oriente e Occidente, dell'esodo dall'Istria e dal Quarnero.
Ma nel fondo ci sono gli aspetti umani, legati ad ogni persona, ad ognà le condizioni fìsiche, le
relazioni fra i padri e i figli, la forza morale dinanzi allo strappo,
la grande paura del nuovo, del lontano, del diverso, sia per chi va via,
sia per chi resta. E questi aspetti umani vanno visti e capiti uno ad
uno, e per giudicare bisogna mettersi nei panni di ognuno, con umiltà,
con molta tolleranza: come dovrebbe accadere di fronte ad ogni tragedia
umana.
Il nostro mondo è qui
È passato quasi mezzo secolo da quel 10
febbraio del 1947, quando l'Italia aveva accettato di firmare il
Trattato di pace.
Quel giorno io avevo deciso di lasciare la
mia città. Ora, mentre racconto quella giornata, tutto ritorna nitido
nella memoria, i rumori, gli odori, il grande silenzio nelle strade
vuote della mia citta. Già dal gennaio livido ero rimasto solo, mia
moglie e la bambina, nata nell'ultima primavera di
Pola, erano
andate via, per fuggire dal freddo e dalla paura. Le minacce contro di
me si erano accentuate ancor più di fronte alla disfatta italiana,
sanzionata dalle trattative di pace, e fin dall'estate '46 la città
aveva vissuto come in una lunga agonia, perchè ognuno aveva percepito
che, comunque, se qualche cosa poteva essere salvato per l'Italia,
questo riguardava soltanto il territorio che correva intorno a
Trieste —
la zona A e la zona B —, tutto il resto era ormai sommerso nell'altro
mondo, quello che veniva portato avanti dal comunismo di Tito, sorretto
dalla forza dirompente di Stalin, che alla Conferenza della pace aveva
contato più di tutti gli altri messi insieme, ai fini di stabilire il
nuovo confine orientale dell'Italia sconfìtta. Solo
Pola era
ancora nelle mani angloamericane.
Non volli tenere la moglie e la bambina, da
quando, nella piazza dei Giardini, uno dei tanti sciagurati storditi dal
fanatismo di quei due anni di fuoco, sputò sulla carrozzella di
Elisabetta, che aveva il volto piccolo roseo protetto da una copertina
ricamata dalla madre. Le accompagnai sulla nave, e già cadeva la prima
neve di quell'inverno maledetto, già le case si erano vuotate, si
sentivano ancora e sempre i colpi del martello sulle casse che venivano
chiuse, piene di povere cose da salvare dal naufragio, il vento batteva
contro le imposte abbandonate, qualche gatto miagolava solo dalle
finestre, i superstiti andavano verso il mare, verso la nave nera che
attendeva al Molo Carbone, nel centro dell'immenso Arsenale devastato
dai bombardamenti. Sulla strada lastricata si sentiva il rimbombo dei
nostri passi. Ci salutammo senza parlare, senza piangere, eravamo sicuri
che ci saremmo rivisti presto, prima a
Trieste,
e poi chissà dove: perchè l'esule, quando decide di lasciare la terra
natale, non sa dove andrà, non pensa al suo futuro, è tutto teso
nell'abbandono, è come un albero strappato dalle radici, si vergogna di
non avere più una patria, e si porta addosso, per anni, come un senso di
colpa, di inferiorità e perde la propria identità.
È già faticoso costruire la propria vita
una sola volta, ma l'esule deve rifarla una seconda volta, in mezzo a
gente che non lo conosce, che non sa nulla di lui, e vive per lunghi
anni nella solitudine, nel silenzio: e allora il passato ritoma, a
confortarlo e a tormentalo, e lo assale, di giorno e di notte, e tutto
rivive nella memoria, come se si fosse svolto ieri.
Solo nella mia città, a fare ogni giorno il
quotidiano che stava morendo, senza più la forza della speranza,
dell'illusione — avevo abbandonato anche il nostro alloggio, all'ultimo
piano del più grande palazzo ai Giardini —, la casa Heininger Bearz,
dove ci avevano dato due stanze e una cucinetta perchè potessi sentirmi
più sicuro vicino alla tipografìa e alla redazione del giornale, in via
Giulia, la stessa casa abitata dal 1904 al '5 da James Joyce, nel suo
primo impatto con la civiltà veneto-adriatica, e subito affascinato
dalla nostra terra, da questo misto di mare e di terra, di isole e di
promontori, il grande cielo azzurro, i grandi spazi, l'armonia del
vivere, anzi per il grande scrittore un nuovo inizio di vita, insieme
alla sua giovane compagna Nora, alla quale
Pola
peraltro sembrava una Siberia, con quelle case di pietra bianca che
tenevano il freddo lungo tutte le pareti.
Mi aveva offerto l'ospitalità, in quelle
ultime settimane di
Pola, un fraterno amico reduce dal campo di sterminio di Buchenwaid,
Giulio Smareglia, nipote del
maestro, amico fìn da quando
nella sua Libreria ai Giardini avevamo formato un gruppo di
antifascisti, che sognavano un'altra Italia, in cui nell'Istria e nel
Quarnero potessero convivere gli italiani e gli slavi, ma per i
vincitori di allora, l'ideologia si sovrappose al senso della Nazione,
si sfruttarono le colpe del fascismo e della sconfìtta politica e
militare del regime come colpe permanenti dell'Italia, si offesero gli
italiani, e non solo gli italiani, come se fossero degli ospiti odiati,
come se fossero degli estranei nella terra in cui erano nati e immersi
da secoli: sono queste alcune fondamentali premesse dell'esodo. Nacque
un clima di odio, come nei piccoli comuni medievali, chi vince comanda e
chi perde deve andarsene.
Ricordo, nelle prime settimane dell'esodo,
sempre nel freddo dell'inverno, alcuni sciagurati italiani e non slavi,
che venivano sulle inferriate dell'Arsenale, e gridavano il loro
disprezzo agli esuli che partivano spauriti, sputavano e facevano le
corna: poi, verso febbraio, quando la città era quasi vuota, questi
sciagurati non vennero più come diavoli sulle rive, e forse percepirono
fìn d'allora la solitudine, il terrore di rimanere soli, alla mercè
inevitabile dei nuovi padroni, che li avrebbero rimproverati per questo
odio disumano, e li avrebbero estromessi da ogni potere. Persino il
quotidiano dei loro veleni — «Il nostro giornale» diretto dal professore
italiano Domenico Cernecca, che si era dato alla Jugoslavia di Tito — fu
chiuso quando
Pola venne nelle mani jugoslave, e il governo di Belgrado trovò una
città vuota, morta.
Quel 10 febbraio del 1947 — lo dico qui e
ora per la prima volta — uscii dalla mia casa all'alba, e con me avevo
una valigia nera, pesante: durante la notte insonne bruciai tutti i miei
articoli manoscritti, ed ebbi anzi paura che le fiamme lambissero anche
i parchetti, gettai sul mucchio di carte annerite alcuni secchi d'acqua,
chiusi la porta e consegnai la chiave alla padrona, la cara signora
Bearz. Fuori del portone, l'aria fredda della notte, qualche carro di
mobili che passava per i Giardini, e davanti a me, quasi ad aspettarmi,
la giovane Maria Pasquinelli, che trè ore dopo avrebbe ucciso con un
colpo di pistola il generale inglese De Winton, la massima autorità
militare della piazzaforte istriana.
Aveva lo stesso cappotto rossastro del
processo, le due mani nelle tasche, gli occhi assonnati e stanchi, come
deliranti, e volle accompagnarmi fino al vaporetto per
Trieste.
Mi parlò di questa enorme ingiustizia che il mondo — lei mi disse —
consumava quel giorno contro di noi, e che qualche cosa si doveva fare.
Pianse anche lei quando un vecchio polese, prima di salire sulla nave,
si inginocchiò fino a baciare la terra, senza dire una parola, e io
vedevo la schiena curva del vecchio ch'era tutta un fremito. Il
vaporetto fischiava, io diedi la mano a Maria Pasquinelli, ma lei tirò
fuori la sinistra, e tenne ben chiusa in tasca la destra. Quando, cinque
ore dopo, arrivai al molo Pescheria di
Trieste,
un concittadino che mi riconobbe gridò «A
Pola hanno ucciso il generale De Winton», e io risposi «Sicuro è
stato una donna, la Pasquinelli». Pensai fìn d'allora a quella sua mano
destra ferma nella tasca del cappotto, la pistola impugnata durante
tutta la notte per le strade della città a lei estranea, e la sua
illusione di fermare l'attenzione del mondo con quel delitto. Ma il
mondo era molto più complesso, e aveva da risolvere problemi ancora più
vasti e più pericolosi dei nostri: ma molti di noi, in quei due anni di
fuoco e di morte, credevano di essere al centro del mondo. L'assassinio
di Maria Pasquinelli si spiega soltanto in questa prospettiva: poi su
tutto calerà una dimenticanza mortale, di cui paghiamo le conseguenze
ogni giorno.
|