Recensione di Claudio Antonelli:
Bora contiene la testimonianza di due
donne, native di Pola, la cui giovane vita venne investita dai tragici
avvenimenti della seconda guerra mondiale con l’esodo della popolazione
italiana dall’Istria, Fiume, Dalmazia. Il che segnò per sempre, per loro
come per tanti di noi originari di quelle terre, l’irreversibile
lacerazione tra il “prima” e il “dopo”.
Alla fine del libro vi è una cronologia dei principali fatti storici che
ci riguardano. È stata redatta da Antonella Scarpa, che, apprendiamo,
«vive a Venezia dove studia storia contemporanea, e lavora come
bibliotecaria. Figlia di un esule che ha lasciato Pola nel 1947,
appartiene alla terza generazione di quanti furono costretti ad
abbandonare l’Istria dopo il trattato di pace.».
Anna Maria Mori fa parte dei profughi,
di coloro cioè che nell’immediato dopoguerra si rifugiarono in Italia,
per sfuggire al comunismo jugoslavo e alla sua opera di
snazionalizzazione (ethnic cleansing
per usare l’espressione ormai consacrata) nelle terre della Venezia
Giulia e Dalmazia, occupate dalle truppe di Tito e in seguito assegnate
dalle potenze vincitrici alla Jugoslavia: questo laboratorio multietnico
esploso di recente nel sangue.
Anna Maria era allora una bambina – “Io: venuta via da Pola, dove sono
nata, nel 1946” (p. 6) – ma le sono rimasti sempre dentro
l’insopprimibile richiamo della terra natale, e il senso
dell’ingiustizia subita, acuito dall’indifferenza che da sempre ha
accompagnato quella tragedia, consumatasi ai danni di gente innocente,
colpevole però di nutrire un sentimento di profonda italianità.
Divenuta giornalista, si è messa all’ascolto della voce, con il passar
degli anni sempre più forte, delle origini e del suo sentirsi profuga.
Anna Maria Mori ha trovato un’interlocutrice e un alter ego in un’altra
polesana, Nelida Milani, con cui ha corrisposto per lettera e che ha poi
incontrato.
Le riflessioni e le analisi di queste due polesane sull’Istria, l’esodo,
la fedeltà alle origini, i rapporti con gli slavi, l’identità, il
destino costituiscono il libro Bora.
La pace, dopo la fine del conflitto militare del ‘39-‘45, giunge
per gli altri, ma non per gli abitanti delle terre adriatiche, costretti
all’esodo. Nelida Milani:
«E poi, un bel giorno, o forse dovrei dire un brutto giorno, tutto
questo all’improvviso finì: ma per noi, per la gente dell’Istria con i
paesi e le città affacciate su quel mare bellissimo, incorniciato da
ghirlande di ciottoli bianchi e da rocce grigie a strapiombo, non arrivò
la pace come per il resto d’Italia.». (p. 22)
Il piccolo olocausto istriano, fiumano e dalmata, circondato
dall’indifferenza e dalle menzogne, ha inciso un’insanabile ferita sulla
loro anima. Ma occorre subito precisare un particolare che stupisce e
disorienta: Nelida Milani non ha mai lasciato la terra natale. Bambina
all’epoca dell’entrata degli slavi, rimase con la famiglia a Pola.
Sua madre però partì per l’Italia, senza mai più farsi viva. Fu la nonna
ad allevarla, con estremo amore.
Questa nonna istriana, dai sentimenti profondamente italiani, semplice e
coraggiosa, fedele all’anima dell’Istria, legata indissolubilmente alla
terra e al piccolo mondo domestico, è un personaggio straordinario. A
lei la nipote innalza un canto d’amore e di riconoscenza.
L’interesse maggiore di questo straordinario libro risiede, a mio
avviso, nel fatto che ci fa udire, per la prima volta, la voce di un
“rimasto”.
I “rimasti” hanno costituito sempre, ai nostri occhi di profughi dai
sentimenti accesamente italiani, una categoria difficile da accettare,
ed oggetto anche di sospetti di complicità con gli infoibatori o,
comunque, di filocomunismo.
Naturalmente io mi riferisco ai “rimasti” di cultura italiana come noi e
non agli slavi “delle campagne” o “dell’interno”, per usare le nostre
abituali espressioni.
Nelida Milani emerge da Bora
come un essere dai sentimenti forti, amari, e persino tragici. In lei il
“prima” e il “dopo” hanno segnato nell’anima una lacerazione insanabile.
“Prima”, sotto gli italiani, e, “dopo”, sotto gli jugoslavi.
Prima sotto gli italiani...
E invero si dovrebbe dire, per rispettare il linguaggio dell’ortodossia,
“sotto i fascisti”, visto che per gli elementari pressappochismo e
manicheismo, che hanno diviso l’umanità in buoni e cattivi, noi
istriani, fiumani e dalmati siamo visti in blocco, da molti, come
“fascisti”.
Poi, in un’Istria passata sotto gli jugoslavi... E invero si dovrebbe
dire, come tutti dicono, specie in Italia, sotto i “liberatori”, alias
infoibatori, per noi, massacratori, sradicatori di memorie.
Non avrei mai potuto immaginare che dai “rimasti” venisse fuori una
testimonianza così forte, così lirica, così assoluta, così bella.
Dire che mi sono commosso, leggendo le pagine di Nelida Milani, non è un
dire abbastanza. Io ho provato il turbamento che nasce dalle epifanie e
dalle rivelazioni.
Nelida non avrebbe potuto emettere un grido più alto, più commovente,
più nobile, neppure se ella non fosse che un personaggio inventato dalla
mente di un autore, deciso a tributare un grande omaggio ai giuliani
rimasti, vittime della storia.
Il tono di Mori non raggiunge mai l’amarezza e la rabbia di Milani. Ma
vi è tra le due il profondo elemento unificante, dato dall’origine
comune e dall’identità di vinti. Scrive Mori:
«Cara, rabbiosa, indomita, bella, disperata, mai rassegnata Nelida:
spero, voglio che la mia passione e la mia rabbia riescano a somigliare
alle tue.
Lo voglio e lo spero bene perché le nostre radici sono le stesse: figlie
della stessa terra, dello stesso vento, della stessa acqua [...].
Figlie della stessa, spaventosa guerra e dello stesso orrendo e ingiusto
dopoguerra.
Perché i tuoi ricordi e i miei – che peraltro abbiamo in comune con due
grandi eserciti di umanità diversamente e ugualmente vinta e disperata,
l’umanità alla quale tu appartieni che viene definita dei “rimasti”, e
la mia degli “andati”[...] – se non sono propriamente identici, sono
però molto simili: ricordi che corrono paralleli, e spesso, fino ad
oggi, incompresi e incomprensibili gli uni agli altri [...].». (p. 77)
Anna Maria Mori appare più rassegnata di Nelida Milani
all’irreversibilità del passato:
«Ma l’attaccamento a quello che non c’è più è male. L’attaccamento a
quello che non può essere è male. La tentazione di rifugiarsi in un
ordine defunto è male. Quello che è stato, quello che c’era una volta
non può tornare mai più.». (p. 213)
La mia personale vicenda di profugo istriano, rifugiatosi in tenera
infanzia con i genitori in Italia, dovrebbe spingermi a riconoscermi
nella testimonianza di Mori, più che in quella di Milani, rimasta a
Pola.
Invece non è così. La voce di Nelida Milani mi è apparsa assai simile a
quella dei miei genitori – fatte le debite proporzioni per il destino di
profughi, da loro conosciuto.
Mio padre e mia madre portarono per sempre nell’anima il lutto per la
perdita della terra natia, dove non vollero mai più ritornare neanche
per una fugace visita.
Il loro atteggiamento – categorico, irriducibile – e il senso tragico
delle cose che sempre ebbero nei confronti di tutto ciò che si riferiva
alle terre adriatiche perdute mi appaiono assai simili ai sentimenti di
Milani.
Soprattutto mio padre non si riebbe mai più dal trauma del crollo del
proprio mondo, e degli inauditi atti di ferocia omicida che colpirono
tanti suoi amici, ad opera dei “liberatori” titini.
Questo fardello doloroso di memorie e di lutti è stato da loro trasmesso
a me.
È quindi bene ammetterlo subito: io non riesco a recensire un libro come
questo senza che il male che mi porto dentro non straripi attraverso
tutto il mio essere, fino a umettarmi la bocca di fiele. Perché non è
facile scoperchiare l’enorme bara delle vittime, degli infoibati, degli
sradicati per sempre, senza soffrire profondamente di nuovo.
È doloroso misurare, raffrontare il proprio male esistenziale – causato
da quell’immane tragedia, che è stata accompagnata dal silenzio e
dall’indifferenza dell’opinione pubblica – con quello di altri due
esseri dall’itinerario esistenziale differente, ma vittime anch’essi
della sconfitta della patria e della perdita della terra natale.
Perdita non fisica per chi è rimasto in quelle terre, ma perdita
nondimeno, come Nelida Milani ci mostra in questo libro.
Cosa volete, noi profughi istriani, fiumani e dalmati, vittime di una
vicenda storica ignota ai più, e vittime della nostra stessa mitezza,
non abbiamo il conforto di sapere che altri conoscano la nostra storia.
Se è impossibile trascorrere 24 ore negli Stati Uniti o in Canada senza
imbattersi una decina di volte almeno in una notizia che ricordi
l’Olocausto, per noi è quasi impossibile trovare un interlocutore solo
un po’ attento e sensibile alla nostra vicenda di profughi giuliano-dalmati.
Il dominante antipatriottismo italiano spiega in gran parte
quest’indifferenza. E, al di fuori dell’Italia, il grottesco manicheismo
stabilito dai vincitori non conferisce altre patenti al di fuori di
quella di carnefici, o di alleati dei carnefici, al campo dei vinti.
Da ciò consegue che Tito, per anni, è stato visto come una figura
leggendaria di eroico combattente antinazista.
Io paventavo la lettura di questo libro. La temevo come si temono da
bambini quei luoghi cupi che celano tragici segreti, veri o immaginati.
Ho dovuto aspettare il momento propizio. Volevo sentirmi in forma,
ottimista, leggero. L’ho letto di mattina, perché di mattina si è più
riposati.
Ma il libro mi ha preso con la forza che hanno le tragedie nelle quali
noi sappiamo che il volto dell’attore, dietro la maschera, è il nostro
stesso volto. Effetto doloroso, sì, ma anche catartico...
Profonda ammirazione per le due autrici. Un sentimento quasi di amore
per Nelida Milani, la “rimasta”, dalla voce dilaniante, così sola nel
suo itinerario di allontanamento in una terra divenuta estranea, ostile,
e in una città ormai fantasma, la cui essenza profonda sopravviverà solo
nel cuore dei tanti partiti e in qualcuno dei “rimasti” come lei.
Dei giuliano-dalmati, i “veri” sono quelli che partirono.
I “rimasti” erano slavi, di razza, di cultura, o allora italiani di
simpatie slave, compromessi con il comunismo, forse complici degli
infoibatori... Poteva forse esserci qualche rara, rarissima eccezione.
Questo è stato, per anni, il giudizio tra i profughi, espresso sui
“rimasti”. Categoria quest’ultima sempre indistinta, lontana: un mondo a
parte, alquanto indecifrabile.
Erano e sono come certi parenti acquisiti, con altro sangue nelle vene,
che noi del resto non frequentiamo più da anni, per certe storie di
famiglia.
Sbaglio però a parlare di “razza” e di “sangue”, dal momento che nel
nostro parlare, nel nostro definire il gruppo e la razza, il sangue
conta poco. Ciò che conta sono i sentimenti.
Dopo tutto la nostra gente, al pari di altri popoli di confine, è il
risultato di apporti etnici diversi. “È di sentimenti italiani”, così
tante e tante volte nella mia famiglia si è stabilito che una certa
persona, originaria delle nostre terre, e che poteva essere confusa con
gli slavi, era dopo tutto uno come noi: di sentimenti italiani.
Il cuore non mente. I nomi sì. I nomi cambiano: si slavizzano, si
italianizzano... Si adattano. Ma sono la scelta fatta dal cuore, la
cultura, i sentimenti a sancire un’identità certa e irremovibile.
Se si dovesse giudicare dai nomi, allora tutti gli italiani con quei
nomi sonori che finiscono quasi sempre in vocale sarebbero di
“sentimenti italiani”. Ma noi sappiamo che non è così.
Lo sappiamo per aver imparato a conoscerli, e, diciamolo pure, per aver
imparato anche a disprezzarli; blandamente però, senza vera cattiveria,
accettandoli per quel che sono: tendenzialmente dei voltagabbana, degli
opportunisti, almeno per quel che riguarda la loro coscienza nazionale,
quasi inesistente, il loro sentimento debolissimo di patria (non mi
riferisco qui certo agli emigrati, che appartengono a tutt’altra
specie); sentimento di patria astratto, distante, teorico, incerto per
loro, ma non per noi, cui l’identità è data da una scelta di destino
nazionale, una scelta del cuore, che una volta fatta non si abbandona
più.
Perché questa fedeltà alle origini? Perché voler continuare ad essere
ciò che fummo? Nelida Milani:
«Non altro abbiamo fermamente voluto, se non vivere in modo conforme
alla nostra natura, dando espressione alle nostre abitudini, alle nostre
tradizioni, parlando la lingua dei nostri antenati...
Ci si può pentire del proprio sangue? Della propria indole? Di ogni
frammento o moncherino che possegga una speranza di completezza, un
alone di potenziale restaurazione che spesso assume i contorni di un
suono, di un’orma, di una traccia interrotta?». (p. 12)
Quanta verità in questo parlare di frammenti e moncherini... Il
desiderio di “completezza” – la fedeltà alle origini – è costato un alto
prezzo, sia ai profughi, sia a questo ridotto nucleo di rimasti, di cui
conoscevamo così poco e ai quali finalmente Milani dà voce: una voce
forte, dolorosa, tragica. Milani:
«Noi che per conservare noi stessi abbiamo dovuto fossilizzarci,
rimanere fermi al giorno della lacerazione, essere quello che fummo.».
(p. 78)
L’Istria è una terra tragica, con ferite antiche, e ferite nuove, come
quella arrecata dalla recente spartizione dell’Istria tra Slovenia e
Croazia. Milani:
«La ferita si è riaperta nel corpo stesso della terra. È un taglio nella
collina alle spalle di Castelvenere, o meglio, due tagli fra Slovenia e
Croazia, sul fiume Dragogna e a Sicciole.
Un lungo e inutile confine impastato di nuovi afrori coloniali, che
corre tra i cespugli di timo e gli spini di grattaculo, oltre il quale
si vede altra campagna, la stessa: la stessa trama di pini, il cielo che
non vuole fingere un altro cielo.». (p. 12)
Se può sorprendere, all’inizio, lo scoprire in una “rimasta” una
passione italiana così forte, ben presto si scopre che i punti di
contatto tra noi e lei – tra certuni “andati” e certuni “rimasti” –
vanno al di là di una generica comunione di sentimenti.
I punti di contatto riguardano altri aspetti, più precisi, più complessi
dell’anima, cominciando dal senso di solitudine e dalla diffidenza verso
gli altri. Infatti, anche quando gli altri appaiono somiglianti a noi,
noi ci diciamo che non possono essere come noi.
L’esperienza di Nelida Milani è particolarissima, sicché la sua
diffidenza è ancora più forte. Ella scrive:
«Il secondo motivo [per il rifiuto iniziale a collaborare al libro] è un
senso di estraneità ai “fratelli d’Italia”, il non riconoscersi mai
completamente in nessuno di voi.». (p. 11)
Rivolta a Anna Maria Mori, cerca di spiegare:
«Lei non sospetta neanche la realtà. Che ne sanno gli esuli del nostro
“esilio interno”, garantito unicamente dallo spazio casalingo?
Non immaginano quanto ci sia costato, di amarezze da patire, di orgoglio
da salvare, di conflitti da superare, e di tensioni, di contraddizioni,
di accanimento, di sofferenza. E di coraggio. Uno strano tipo di
coraggio, o forse una sua sottospecie.». (p. 11)
Sì, forse noi non possiamo capire appieno le amarezze, le umiliazioni
subite da chi è rimasto in quelle terre ed è voluto rimanere fedele
all’identità italiana.
A dire il vero non sospettavamo che tra i “rimasti” vi fosse gente di
una tempra simile, di una tale forza morale. Eppure a Pisino, la mia
cittadina natale, dove una volta feci visita ad una famiglia di
“rimasti”, ebbi la possibilità di capirlo.
Ma allora non mi soffermai troppo sulla cosa, limitandomi a provare un
senso di sorpresa. Solo adesso tutto mi appare più chiaro.
Era una giornata piena di sole. Ero tornato a Pisino per una breve
visita. Avevo con me il nome di una famiglia di una famiglia di pisinoti
che mi sarebbe piaciuto incontrare.
Dopo aver seguito senza successo le indicazioni che possedevo, mi
rivolsi ad un viandante. Ebbi fortuna: questi mi indicò la casa. Lo fece
con evidente simpatia per me che gli avevo parlato in italiano, ma
mostrò una certa circospezione nella maniera in cui si guardò intorno
mentre me la indicava.
Bussai, mi presentati, mi fecero entrare. Portavo a questa gente i
saluti di un pisinoto, certo Nino Percich, di Buenos Aires, che quasi
ogni anno dall’Argentina veniva in vacanza a Pisino.
Subito qualcuno rinserrò le tendine delle finestre, creando una penombra
in cui i miei occhi stentarono per un attimo a distinguere i
particolari.
Poi vidi il padrone di casa. Era immobilizzato in una sedia a rotelle.
Aveva subito l’amputazione delle gambe a causa del diabete.
Mi trattarono come un loro parente. Mi offrirono subito qualcosa da
mangiare, e, naturalmente, mi versarono dell’acquavite.
Parlammo di “prima”, di quando a Pisino c’erano anche i miei genitori e
tanti altri poi andati via. “Runco”, “Camus”, “Gelsi”, “Granbassi”,
“Mrach” e altri nomi di quei tempi vennero pronunciati con amore e con
rimpianto, ma a voce bassa, con cautela.
Rimasi sorpreso dall’intensità del rimpianto e dal forte sentimento di
amarezza da cui erano animati.
Fui stupito dalla cosa, perché dopo tutto costoro erano dei “rimasti”.
Inoltre, secondo un certo metro di giudizio, questa famiglia era di
cultura piuttosto slava, però “gente della campagna”, “brava gente”, per
usare le vaghe espressioni cui i miei genitori ricorrevano per
attribuire un’identità che non era proprio la nostra – l’italiana – ma
che non era neppure nemica della nostra.
Mi raccontarono di tutte le volte che la loro domanda alle autorità, per
potersi trasferire in Italia, venne rifiutata.
Fui veramente sorpreso. Non ero preparato a recepire quel dramma.
Mi dissero con orgoglio di aver insegnato ai bambini l’italiano. Poi una
donna – non ricordo se l’anziana padrona di casa o la nuora – sbirciò
attraverso la tendina, quindi mi fece segno di venire alla finestra e,
abbassata ancora di più la voce, mi disse, con amarezza: “Li vede?”.
Scorsi tre o quattro persone, come in attesa, sul marciapiede di sotto.
Questi non sono istriani. Non è gente nostra. Con la vostra partenza,
sono venuti qui da tutte le parti della Jugoslavia. Con loro non abbiamo
niente in comune. Ma dobbiamo stare molto attenti a quel che diciamo. È
gente primitiva, violenta.”
Si riferiva a loro: gli occupanti, i vincitori, gli slavi fatti venire
in Istria da tutte le parti, dall’interno, dal sud, perché riempissero
il vuoto lasciato dalla nostra partenza.
Nelida Milani dà voce a quel nucleo di istriani che per i capricci del
destino non partirono pur identificandosi ai vinti. La loro sorte non è
stata facile. I comunisti slavi hanno considerato nemica questa gente.
Anche la piccola Nelida è vista come una nemica – una “fascista” – dai
nuovi padroni dell’Istria:
«[...] la signora Scricchiolò [...] ogni volta che m’incontrava non
mancava di ammiccare con uno strappo gutturale di acredine “tu italiana,
tu fascista” menando per l’aria un dito minaccioso come se l’essere
italiana fosse una bella birichinata contro la sua ribollente
affermazione nazionale.». (p. 18)
Se gli italiani sono fascisti, anche la lingua italiana è una lingua
fascista:
«Vicino alla scuola elementare “Vladimir Goitan”, un uomo stava fermo
con un grosso cane, ma noi non riuscivamo a mettere completamente a
fuoco l’immagine. Gli andavamo incontro, ignari.
Quando gli fummo vicini, lui ci guardò con occhi cupi e fermi nella
faccia larga e pelosa e ci disse: “Se vi sento ancora una volta parlare
italiano, mollo il cane che vi divori. Ve la faccio passare io la voglia
di parlare questa lingua fascista”.». (41)
L’Istria è ormai Croazia, e l’omologazione croata investe i nomi
“fascisti”:
«Quando, alcuni anni più tardi, anche i miei fratellini Claudio e Diego,
segnati nei registri e per la vita come Klaudio e Dijego, dovettero
andare alla scuola croata, io abbandonai definitivamente la presunzione
di padroneggiare un’individualità coesa e definita.». (p. 42)
I tabù, gli interdetti, le proscrizioni nelle varie epoche non
spariscono: si metamorfosano. Il diavolo non esiste più. Esiste il
fascismo. E l’accusa di fascismo è un’arma sempre vincente.
Anche noi profughi, soprattutto a Venezia – la mia famiglia, come tante
altre, soggiornò nel centro raccolta “Foscarini” della città lagunare –
venimmo accolti con ostilità e accusati d’essere dei “fascisti”.
Poi a poco a poco ci avvolsero l’indifferenza e l’idea confusa che
fossimo in tutto o in parte slavi o, comunque, gente un po’ difficile da
catalogare, con storie troppo complicate alle spalle.
Molti esuli emigrarono oltremare – l’Italia era in macerie – trovando
stabilità e anche prosperità. Ma non tutti furono fortunati, come
dimostra l’esempio di coloro che emigrarono in Argentina, dove non
mancano tra la nostra gente, ancora oggi, le situazioni economiche
difficili.
L’Italia ufficiale, paese unico tra gli sconfitti della seconda guerra
mondiale, celebra ogni anno la “liberazione”, che ha visto i massacri
delle foibe e l’amputazione del territorio nazionale.
Le vittime dell’occupazione jugoslava, gli esuli, i vinti non hanno
invece mai avuto bisogno di corsi di linguistica per capire la menzogna
della parola “liberazione” . Milani:
«Quando mia cugina Edda, profuga con sua madre per il mondo, venne per
la prima volta a Pola dopo vent’anni di Venezuela, incontrò al mercato
una sua antica compagna di banco, certa Laura Versaico sposata Kovacic.
Costei, appena data la stura alle domande generiche, l’una appresso
all’altra, si vantò con amabile millanteria che in Jugoslavia si stava
benino già da tempo, ma che gli anni dopo la
Liberazione erano
stati durissimi, al che Edda la interruppe bruscamente per dirle con la
forza tranquilla e disarmante della banalità: “Ma cosa dici mai?
Ma che cavolo di liberazione? Ma di che liberazione vai farneticando?
Vuoi dire occupazione?”.» (p. 75)
Sconfitta, esodo, perdita della terra natale... sono sicuro che tali
parole evocheranno negli italiani brani lirici, avvenimenti biblici,
pagine di storia riguardanti popoli esotici.
La parola “esodo”, per noi, non ha invece nulla di indeterminato, di
vaporoso, di romantico. Esodo fu la nostra partenza di massa, con la
perdita di una delle cose più preziose per l’uomo, soprattutto per
l’uomo mediterraneo, il microcosmo che lo ha visto nascere e gli ha
riempito l’anima di colori, suoni, sapori, che mai più ritroverà
altrove... Anna Maria Mori:
«E tu Nelida, parti sempre, rabbiosamente, dolorosamente da lì:
dall’esodo. Il tuo dolore e il tuo rancore hanno i cinquant’anni del
trattato di pace di Parigi: 10 febbraio 1947.». (p. 78)
Il dolore di Nelida Milani è un dolore che investe tutto l’essere e in
cui gli avvenimenti storici si congiungono e si intrecciano alla
tragedia personale subita da bambina, quando venne abbandonata dalla
madre, che subito dopo partì per l’Italia. Nelida Milani rende
l’episodio dell’addio con accenti tragici.
Sua madre riappare, dopo un lungo periodo di assenza. Nelida pensa che
la mamma sia venuta a prenderla per portarla via per sempre. È felice.
La madre invece è venuta a salutarla per l’ultima volta.
«Ma come? Esci e fuggi, te ne vai senza di me, strappi le radici del mio
corpo che dilagano nel tuo? Non mi vuoi? Il tuo tradimento sarà il
tradimento di tutti. La catastrofe mi urta il petto, guardo allontanarsi
il cappotto rosso.». (p. 24)
Partenza, abbandono, radici lacerate, fedeltà, madre, madrepatria... Le
parole, finché non vengono vissute, sentite nella carne, non possono
darci tutto quello che hanno dentro: dolcezze ineffabili o tremendi
veleni.
«È forse il dolore più grande che possa provare una creatura: amare una
madre che esiste e non c’è, stringere chi non puoi avere.». (p. 26)
Nella vita di Nelida vi è come una coincidenza tra gli avvenimenti
storici e i fatti traumatici, intimi, privati, subiti da lei, bambina.
Esodo, abbandono, occupazione, madre, madrepatria, matrigna, fedeltà
hanno, nella storia di Nelida Milani, una totalità che non conosce
frontiere.
Nella sua vita entra “Lei”, la compagna del padre.
«È raggiante di occhi azzurro-acciaio, dorme nel letto di mia
madre, nello stesso posto, dalla parte della finestra. Nonna non l’ama,
non si amano.
Nonna ama la mia mamma e io amo mia nonna. Mia nonna che è solo mia.
Tutti l’amano e la rispettano per la versatilità della sua intelligenza,
per gli slanci di coraggio e generosità.
Ne sono gelosissima, anche adesso, quando qualcuno la rievoca, cambio
discorso, mi butto su un altro binario. Lei è vicina a me da sempre, ho
dovuto lasciarla sotto i pini dove un giorno la raggiungerò per non
lasciarla più. Lei è un grande amore, il mio grande amore.». (p. 25)
La “liberazione” e l’avvento del “socialismo”, in Istria, comportano una
frenetica fase di manifestazioni di piazza, processi pubblici alla
borghesia e al fascismo, slogan antitaliani. Nelida Milani:
«Ogni giorno il Comitato cittadino organizzava dimostrazioni. Alcuni
ricevevano l’ordine preciso di urlare slogan nella folla. “A morte i
preti che si son messi con i fascisti!” “A morte la Reakcija, grassa del
sangue che ci ha succhiato!” “Spazziamo via i detriti della borghesia e
del fascismo!”
I capi berciano ogni sorta di insulti e frenesie scandite nelle loro e
nella nostra lingua. Tutta la vita sarò condannata a sentir parlare male
dell’Italia e degli italiani. Sai che gioia!
Mai un attimo di tregua dal sospetto. Là comincia la diversità, questa
gobba che ti porti appresso e che ti impedisce di passare per quel buco
per cui passano tutti. Là comincia l’avversione, quando ti bloccano il
canale di scorrimento del liquido che ti unisce agli altri, te lo
prosciugano lentamente.
E così, lentamente, da tutte le esclusioni e le negazioni, da tutti i
rifiuti e i sospetti, da tutte le lotte e le resistenze, si crea in te
un altro essere, un altro te stesso che non ami, e che dovrai
combattere.». (p. 79)
La diversità di essere italiano, a contatto quotidiano con i croati,
spasmodicamente nazionalisti come sa chiunque li abbia incontrati anche
una sola volta, è una prova che spezza o fortifica. Milani appare
uscirne indurita e rabbiosamente amara.
La dura realtà del socialcomunismo cala sulla Jugoslavia, Istria
inclusa. La legge sulla nazionalizzazione fa perdere alla nonna la
proprietà dell’osteria, che dava lavoro anche al padre di Nelida: “Papà
lavorava la mattina in cantiere e il pomeriggio in osteria.”
È una tragedia contro cui non si può nulla. Il rullo compressore
dell’ingegneria sociale – il social
engineering – ha dalla sua il sol
dell’avvenire. “Nonna ha pianto tanto”, ricorda Milani.
«Mi ricordo la nazionalizzazione dell’osteria: gli ambienti avevano un
metro quadrato in più, novantuno invece del massimo concesso dalla legge
sugli esercizi pubblici, novanta metri quadrati. Nonna voleva abbattere
il gabinetto in cortile per arrivare ai novanta prescritti, ma non
glielo permisero.
Ce la portarono via, la nostra osteria familiare, perché gli interessi
dello stato sono superiori a quelli dell’individuo. E suonava così
beffarda la canzone che alcuni clienti cantavano: “Viva Pola socialista,
tuto el mondo za lo sa, semo tuti operai e volemo la libertà.”.
Ecco il risultato. In casa propria e con i propri mezzi, nella casa in
cui dal 1921 c’era sempre stata un’osteria, nonna doveva fare l’ostessa
per lo Stato e non per la sua famiglia, doveva lavorare con il proprio
inventario nazionalizzato, e ricevere una paga mensile dallo Stato.».
(p. 82)
L’osteria nazionalizzata “venne data in gestione ai vari Zica, Mustafa,
Andrija, Rifat”.
Il regime che aveva fatto edificare migliaia di monumenti in cui si
autoproclamava restitutore della “libertà al popolo”, toglie la libertà
al popolo, sopprime la libertà economica e getta le basi di un sistema
basato sui privilegi politici dei pochi – la nomenklatura – e sulla
povertà delle masse.
Il futuro, però, grazie alla propaganda, appariva allora glorioso:
«Oh, tutto sarebbe cambiato, tutto, tutto. Tutto quello che sembrava la
fine non era altro che un inizio. [...] Bisognava rassegnarsi al
sacrificio persuadendosi che le sofferenze consentivano il
raggiungimento di un qualche scopo remoto ma nobile, il comunismo, dove
tutti sarebbero stati uguali.
Un sacco di parole, parole tutto zucchero e miele. Era la speranza, era
l’utopia.». (p. 70)
«Le vendette e i regolamenti di conti sono all’ordine del giorno: [...]
quelli che da sempre sapevo essere le spie, quel tipo di croati che
sotto il fascismo erano stati zitti senza protestare e nel frattempo
andavano compilando le liste di coloro contro i quali vendicarsi.
E tra questi c’erano sì i funzionari fascisti, ma anche semplici
impiegati del Comune, o commercianti. La colpa, l’unica colpa era quella
di essere italiani.». (p. 73)
«In uno stato collettivo di xenofobia paranoide, il liberatore slavo
aveva deposto ogni cautela, aveva tirato il demone fuori dall’otre in
cui lo aveva tenuto per centinaia di anni, aveva aperto la caccia
all’italiano, e i suoi scagnozzi erano già in cerca di colpevoli e
vittime innocenti, cui applicare la legge del taglione, occhio per
occhio, dente per dente, urlavano bianco rosso e verde il color delle
tre merde, bianco rosso e blu il colore della gioventù.
L’Ozna prelevava di notte gli italiani, li teneva prigionieri, li
interrogava. Faceva pagare a caro prezzo esistenze passate a confondere
scientemente la giustizia con l’intimidazione fascista, la morale con
legge. Ma pagavano anche gli innocenti, pagava un’intera popolazione.».
(p. 74)
Il narrare di Anna Maria Mori ha toni meno laceranti. La mamma di Anna
Maria è istriana, di Lussino. Suo papà è invece toscano, fiorentino, ma,
quando Anna Maria nasce, è radicato da anni a Pola. Il padre racconta:
«Io sono arrivato in Istria nel ’20-’21: c’era un grande entusiasmo
per gli italiani e l’Italia, a Trieste io vedevo e incontravo soltanto
italiani. Sloveni e croati erano piuttosto nelle campagne all’interno
dell’Istria, e semmai li trovavi il mattino al mercato, dove offrivano
le loro merci con estrema gentilezza...». (p. 85)
Come si può vedere, nessun discorso di odio da parte del padre di Anna
Maria Milani contro sloveni e croati. Egli descrive l’occupazione slava
di Pola così:
«E arrivò anche il 1945: [gli slavi armati] entrarono in città, a Pola,
dove cominciarono a prendere possesso delle caserme, del municipio,
degli edifici pubblici, di qualche villa privata.
Durò quarantacinque giorni, e poi giunsero gli Alleati: noi credevamo
fosse per restituirci a noi stessi; in realtà fu solo per garantirci la
possibilità di andarcene, esuli ma vivi...
E noi, di andarcene, lo decidemmo subito dopo l’occupazione e i
primissimi momenti di sbalordimento atterrito; decidemmo non appena
fummo in grado di capire che per noi non c’era più speranza, che se
fossimo rimasti avremmo dovuto vivere nel terrore quotidiano.
Perché non fummo noi a volercene andare; la verità era, ed è, che “loro”
non ci volevano su quelle terre, di cui pretendevano di cancellare,
insieme alla nostra presenza, anche la storia [...].». (p. 101)
Quando a Pola arrivarono gli inglesi e i neozelandesi,
«la gente sembrava impazzita di felicità, tutta la popolazione si era
riversata ai Giardini, tutti offrivano fiori ai soldati inglesi, e i
soldati ricambiavano con la cioccolata...
Ma è durata poco: si capì quasi subito che il destino delle nostre terre
era segnato. Cercammo di cambiarlo.
E quando arrivarono, per vedere da vicino la situazione, i
rappresentanti delle Quattro potenze, il russo, l’inglese, il francese e
l’americano, la città di Pola diede vita a una dimostrazione spontanea,
enorme: vi prese parte l’intera cittadinanza, donne e bambini compresi.
Gli slavi, per controbattere, organizzarono a loro volta una
manifestazione: per farla consistente, andarono a prendere gente dalle
campagne, anche oltre i confini dell’Istria, e la portarono in città con
i camion.». (p. 27)
I genitori di Anna Maria Mori non partono subito: gestiscono per breve
tempo l’Albergo Miramare, Riva Mazzini 7, Pola. “Contratto di affittanza
con inizio 25 aprile 1946 e termine il 31 dicembre 1946.”
In quell'hotel alloggiò Maria Pasquinelli. Il padre di Anna Maria
ricorda:
«Insegnava in una scuola di Spalato. Venuta via da lì, dalla Dalmazia è
arrivata a Pola, in Istria. È stata da noi, in albergo mesi di seguito.
Ogni tanto partiva, non mi diceva per dove, e dopo qualche giorno
tornava.
Una mattina uscendo, mi salutò, mi consegnò le chiavi della stanza, e mi
disse una cosa che lì per lì non capii: “nella stanza c’è parecchia roba
mia. Se vengono a prenderla, la consegni senza fare obiezioni... Io me
ne vado...”
Di lì a poco seppi che aveva sparato al generale inglese De Winton; fu
il suo modo di ribellarsi a un trattato di pace che riteneva iniquo nei
confronti della popolazione istriana.
Sparò, lo colpì dritto al cuore, poi consegnò l’arma a un ufficiale
accorso sul posto e si fece arrestare senza opporre resistenza: fu
condannata prima a morte, poi la pena fu commutata nell’ergastolo.
Solo molti anni dopo fu rimessa in libertà, senza aver mai chiesto la
grazia [...].». (p. 96)
I giorni convulsi dei massacri d’italiani commessi dalle forze di
“liberazione”, che liberarono in realtà tanti della propria vita,
rimangono per sempre impressi in Anna Maria Mori, secondo la quale
esisterebbe un legame tra il culto della virilità e il culto della
crudeltà e del sangue, così diffusi nel mondo balcanico:
«I miei ricordi di bambina delle violenze degli occupanti sugli
occupati, degli slavi sugli italiani di Istria, uomini che uccidevano
altri uomini, e da altri venivano uccisi, spesso solo per vendetta
personale o di classe, e sempre in maniera “virilmente” spettacolare,
sono ricordi che non comprendono mai dubbi, analisi – e tanto meno
critiche storico-culturali di parte femminile – sulle radici in cui
affonda la cultura del “maschile” in quelle parti del mondo,
perennemente, e forse non a caso, insanguinate.». (p. 28)
Fascismo uguale male supremo. Italiani uguale fascisti. Ma il fascismo
durò solo vent’anni. Eppure al fascismo si attribuisce tutto. Nelida
Milani:
«Memoria e oblio. L’atto di trasmissione si trova fra questi due poli.
Si seleziona ciò che del passato è utile all’azione presente: il
fascismo, il fascismo, il fascismo. Tu puoi chiamare per secoli, nessuno
ti risponde. Si misurano secoli di storia con vent’anni di fascismo.
Bene, anzi, che dico, male! Famigerato fascismo. Ma il fascismo ha
svuotato i paesi slavi?
Dov’è il contraltare di Portole e Montona? Di Capodistria e Pola? Di
Fiume e Dignano? Di Grisignana e Orsera? Di Gallesano e Albona? Ha
svuotato l’Istria dei suoi abitanti, il fascismo?». (p. 86)
La perdita fa parte della vita. Ma perdere il proprio paese non è una
perdita normale:
«Siamo abituati a perdere. Ogni giorno qualcuno intorno a noi si
allontana o sparisce, un’amicizia o un amore impallidisce o si estingue,
la morte si porta via uno dei nostri.
Perdere fa parte del nostro destino. Però è raro perdere un Paese... il
Paese dove sono nato e che, ancora, ieri soltanto, era il mio [...].».
(p. 86)
Profondo è il contrasto tra l’immagine, dolorosa ma perfetta, di Pola,
quale è rimasta per sempre nei cuori degli esuli, e la banalità di un
vivere quotidiano grigio per i rimasti, in una città piena di difetti, e
che evolve lungo il piano inclinato della decadenza.
Nelida Milani assiste al fenomeno, doloroso e magnifico, della
trasfigurazione della terra natia, che si è stati costretti ad
abbandonare, per cui il luogo lasciato assurge a paradiso perduto. Ha
modo di osservarlo nei parenti andati via. Essi idealizzano un mondo
ormai circonfuso dall’alone che solo hanno le memorie sacre.
Il vivere quotidiano degli esuli, nei luoghi del trapianto in Italia,
con tutte le banalità e miserie, è in contrasto totale con il ricordo
che gli stessi serbano della città natale, trasfiguratasi nella loro
memoria in una sorta di Gerusalemme celeste.
La contrapposizione tra quest’immagine ideale di Pola – il paradiso
perduto, che paradiso in fondo non fu mai – diffusa tra gli esuli, e
l’immiserimento e l’incupimento della città istriana, che i rimasti
constatano invece quotidianamente, è fonte di doloroso disagio per
quest’ultimi:
«Nelle loro lettere [delle zie andate in Italia] Pola diventa il
paradiso terrestre dal quale sono state esiliate, sognano una città che
non è mai stata, e quella che è stata continua a morire.
Questo fa star male chi è rimasto e conosce meglio di tutti i difetti
della città in cui è imprigionato, un mondo di seconda mano, congelato e
finito.». (p. 93)
La guerra è finita, ma non c’è tregua per gli italiani dell’Istria,
bersaglio di intimidazioni e brutalità. Nelida Milani:
«I compagni comunisti italiani di Pola arrivavano, per esempio, in un
paesetto collinare del Buiese, smontavano dal camion sui terreni ortivi,
fra cespi d’erba e siepi, fra semenzai di melanzane e vigne, tra pollai
e conigliere, tra pergole e tettoie, tra pignatte di basilico e siepi di
ginestre, ed elenco e indirizzi alla mano cominciavano a chiamare per
nome gli abitanti ancora addormentati nelle case: “Pino! Bruno! Ernesto!
Siamo venuti a farti una visita”.
Quelli uscivano sull’aia e sulle loro schiene si abbatteva una gragnuola
di colpi. Richiami di madri, pianti di mogli, urla di bambini
attraversavano un cielo di silenzio, mentre quei poveretti venivano
massacrati di botte. Un calcio nella pancia concludeva l’operazione
pedagogica e i picchiatori sparivano di nuovo nel loro autocarro.
Il giorno dopo i malcapitati facevano fagotto e partivano.
Tutto pianificato, tutto formulato in una dottrina, documentata con i
migliori argomenti scaturiti da una contorta acutezza, tutto organizzato
in base alle direttive dall’alto.». (p. 99)
L’odio antitaliano può riuscire a dividere anche la famiglia, la coppia.
Nelida Milani racconta di una polesana, Stella Rovis, ritornata in
visita a Pola, per la prima volta dopo l’esodo. Stella Rovis “passerà e
ripasserà davanti alle case dei suoi parenti senza entrare in nessuna.”.
(p. 28)
La ragione è che questi suoi parenti, primo fra tutti il proprio marito,
furono tra gli aguzzini degli italiani, che essi aggredirono e
terrorizzarono per appropriarsi dei loro beni. Stella Rovis racconterà
tutto questo alla nonna di Nelida:
«Le raccontò di quel giorno di dicembre, quando era passata in ufficio
da suo marito, e come da allora si fosse messa contro di lui che
organizzava le spedizioni nel Buiese per bastonare gli italiani, per
farli fuggire in Italia, per confiscare i loro beni mobili e immobili.
Stava tutto scritto nel Naredenje [...] che lei aveva letto mentre lui
era al telefono nell’altra stanza. Da quel giorno le riuscì difficile
amare come prima perfino il loro figlio Dino, che gli assomigliava tanto
[…].». (p. 29)
Stella Rovis allora raccontò tutto ai suoceri. E la reazione di questi?
«L’avevano molto semplicemente chiamata “sporca fascista” e buttata
fuori di casa perché non li contagiasse, e le avevano detto che in quel
modo sabotava lo sforzo rivoluzionario, e rovinava la carriera del
marito.». (p. 38)
Peccato che tra gli scrittori italiani, che si sono nutriti per anni ed
anni alla turgida mammella della Resistenza, soprattutto di quella
immaginata, distribuendosi a piene mani attestati di coraggio e premi
letterari, artistici, cinematografici, nessuno abbia mai pensato di
descrivere la sorte dei vinti delle terre adriatiche.
I corsi e i ricorsi storici faranno sì che decenni dopo,
paradossalmente, il dichiararsi italiano nell’ex Jugoslavia procurerà a
più d’uno sostanziosi vantaggi.
Nelida Milani denuncia Darijo Andrijevic che, con la fine della
federazione jugoslava e con la caduta del comunismo, si riconverte
tempestivamente all’italianità, dichiarandosi di madre lingua italiana e
riprendendo il nome d’origine: Dario Andretti.
«Ha presentato al Consolato italiano di Fiume i documenti per ricevere
la cittadinanza italiana. Solo alcuni anni fa non avrebbe certo
immaginato che avrebbe trovato un nuovo credo politico, una nuova fede
religiosa e una nuova antica identità nazionale.». (p. 100)
Particolare illuminante: Dario Andretti, già Darijo Andrijevic, riceve
la pensione italiana.
Nelida Milani:
«C’è chi non sopravvive a un’esperienza devastante, e chi invece ne
viene fuori. C’è chi si rialza in piedi e c’è chi viene distrutto, la
gente reagisce in modo diverso.». (p. 104)
Sembra una constatazione banale. E lo è probabilmente, ma solo per chi
ha la fortuna di non poter ravvisare in questo “c’è chi invece ne viene
distrutto” la tragica verità dell’esodo per qualcuno della sua famiglia,
come avvenne per mio padre.
Egli non si rimise mai più dal trauma del crollo del proprio mondo,
dall’orrore di sangue che investì Pisino, i suoi amici, le sue cose più
care, e visse gran parte della sua vita come un naufrago che non riesce
ad approdare in nessun luogo.
L’odio etnico, nei Balcani, è una materia prima abbondante. Quello
antitaliano è quasi una tradizione. Nelida Milani:
«Ci sono delle verità che si avvertono dentro il corpo, come il bisogno
di mangiare o di bere. Quella dell’odio contro gli italiani non solo è
una storia lunga, ma quasi una tradizione che cova sotto le ceneri e
tende a rinnovarsi periodicamente.». (p. 105)
Del periodo dell’occupazione slava, Anna Maria Mori, che era allora
bambina, ricorda la paura:
«Rubavo mozziconi di frasi: “Questa notte sono venuti a prelevare il
tale vicino di casa; ieri ne hanno prelevato un altro, e non si sa che
fine abbiano fatto...”.». (p. 110)
Per la prima volta Anna Maria sentì usare ripetutamente il termine
“foibe”.
La strategia della paura, condotta abilmente dagli slavi, mira a
svuotare quelle terre della popolazione autoctona italiana. A questo
proposito si può ricordare la frase di un protagonista, Milovan Gilas,
che conferma l’operazione di svuotamento, ideata in alto loco:
«Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria. Era nostro
compito indurre gli Italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. E
così fu fatto.».
Fu un’operazione di “pulizia etnica”. Pulizia etnica,
ethnic cleansing,
nettoyage ethnique:
tali termini verranno accolti dai dizionari solo 40 anni dopo, quando a
farne le spese saranno gli stessi popoli del laboratorio “Jugoslavia”,
esploso nel sangue e nell’odio delle sue etnie, che si salteranno alla
gola dopo la lunghissima attesa.
Quarant’anni dopo le televisioni del mondo intero diffonderanno gli
exploits terrificanti dell’uomo nuovo,
fino a poco prima socialista, terzomondista, equidistante, campione di
autogestione, grande propagandista nei fori internazionali di
quell’incomparabile modello di superamento degli egoismi borghesi,
incarnato dalla Jugoslavia titoista.
Ma allora – assenti i riflettori, le cineprese, gli inviati speciali –
la tragedia si consumò nel silenzio. E nel silenzio è rimasta per sempre
avvolta.
Milani descrive l’esodo avvenuto
«nella disperazione di chi assisteva alla partenza, un dolore unico e
solitario, che non trovava spazio nei discorsi ufficiali, nei titoli dei
giornali, nella storia.». (p. 141)
Come passa il tempo...
La Jugoslavia di Tito solo ieri dava lezioni politiche e morali al mondo
intero.
Non vi era foro mondiale sui problemi dell’umanità al quale l’uomo nuovo
titoista non partecipasse per dare ammaestramenti con voce grossa ai
meschini abitanti del resto del pianeta su come superare gli egoismi
nazional-borghesi, e accedere ad una nuova umanità, più aperta, più
tollerante, più generosa.
Fa quasi pena ironizzare sui sanguinosi massacri che hanno accompagnato
lo smembramento della Jugoslavia lungo le sue cuciture etniche, ma non è
difficile immaginare lo stato d’animo di un profugo istriano come me,
che per anni ed anni ha dovuto subire le incredibili menzogne jugoslave,
avallate dai “progressisti” del mondo intero, primi fra tutti quelli
italiani.
Quest’ultimi stravedevano per le bandiere e le stelle rosse, mentre
giudicavano che esibire i colori della propria bandiera costituisse una
provocazione di stampo reazionario e fascista. Era l’epoca in cui si
rischiava di venir picchiati se si veniva sorpresi a comprare
all’edicola riviste come “Il Borghese”, non allineate sul conformismo
antipatriottico dominante.
La pulizia etnica – prima edizione, senza riflettori e senza titoli di
testa – provoca l’esodo degli italiani, alias “nazifascisti”, campioni
di nefandezze, dai cupi istinti capitalistici, che approderanno ai lidi
italiani accolti dall’ostilità delle forze progressiste: i nostri
magnifici comunisti nostrani, il cui cuore batteva all’unisono con
quello dei fratelli jugoslavi, edificatori di un nuovo modello di
società.
E i nostri comunisti, italiani di nome, erano stati pronti a cedere non
solo Fiume, l’Istria, la Dalmazia, ma anche Trieste, i territori
limitrofi, e tutto quanto il magnifico Tito rivendicasse.
Dopo tutto, cosa potevano contare le frontiere, di fronte alla
solidarietà proletaria dovuta ai gloriosi combattenti del nazifascismo?
La tragedia della nostra gente si consumò senza la presenza dei
riflettori, delle telecamere e delle cineprese, che invece illumineranno
a giorno la sanguinosa guerra tra le etnie jugoslave, anni dopo, ma
nell’assenza anche di ogni altro segno di attenzione, di solidarietà, di
simpatia. Testimone muto dell’esodo dall’Istria, scrive Nelida Milani,
fu la
«disperazione di chi assisteva alla partenza, un dolore unico e
solitario, che non trovava spazio nei discorsi ufficiali, nei titoli dei
giornali, nella storia.». (p. 114)
Anna Maria Mori respinge i giudizi totali, e le etichette che, allora e
in tutti questi anni, sono state affibbiate agli esuli:
«Non è vero che io e tutti i trecentocinquantamila esuli istriani,
siamo, eravamo, borghesi e fascisti. Non è vero che tutta l’Istria era
slava e doveva tornare alla Jugoslavia. Non è vero che tutta la mia
gente è solo nostalgica e irredentista.». (p. 7)
È fatica vana cercare di distinguere, sfumare, chiarire:
«Ho evitato soprattutto discussioni più o meno vane, che invece molti
della mia gente hanno testardamente continuato a fare, nel tentativo, a
tutt’oggi fallito, di smontare quell’immenso castello di bugie che ci
riguardava, come istriani ed esuli, e che aveva, e ha, a che fare forse
più con la psicanalisi che con la politica.
È che le bugie che ci hanno riguardato e che ci riguardano, come popolo
d’Istria costretto all’esilio, sono di quelle difficili da smantellare:
sono quelle che si costruiscono per mettersi in pace con la coscienza,
facendo delle vittime i veri colpevoli.
Vae Victis, come ci hanno insegnato quei
romani che a Pola hanno costruito il loro Colosseo più bello, con le
grandi pietre bianche che la storia ha colorato di grigio.». (p. 8)
L’Istria si svuota. Anche l’anima viene strappata ai luoghi. Lo sa così
bene chi vi è tornato in visita: i luoghi non hanno più i loro Mani, i
loro Lari, gli spiriti benigni custodi delle memorie. I morti ingoiati
dalle foibe sono morti per sempre.
Forse è stata la superstizione balcanica, di far morire con gli
infoibati anche un cane nero, ad aver sortito il suo effetto. Nessuno,
niente più tornerà. L’estraneità dei luoghi fu suggellata per sempre in
quei tragici giorni.
I campioni di pulizia etnica, dopo tutto, sanno come pulire.
Nelida Milani:
[I “liberatori”] «avevano smesso di irrompere di notte nella case
prelevandone gli abitanti, ora portavano via le case stesse e le terre.
Avevano già guastato tutto, come se i paesi fingessero di essere così,
vuoti di voci e di tremori, i contadini fingessero di essere contadini,
i campi fingessero di essere campi... Ogni allegria svanita, distrutti i
legami che tengono uniti gli uomini, i contadini scappavano come
inseguiti dal fuoco.
Abbandonavano la terra che li nutriva, le fattorie, le case dov’erano
nati, case in cui era successo qualcosa, anzi in cui una storia c’era
stata ma non c’era più nessuno a conoscerla o a ricordarla, case
condannate a essere mute.
Partiti quasi tutti, gli ultimi echi di voci infantili erano andati
spegnendosi nel silenzio delle pietre antiche, c’era ovunque un’aria da
vecchi che aspettavano che la vita finisca, un’aria da giovani nati non
si sa dove.». (p. 114)
La morte delle foibe segna l’agonia e la fine di un popolo. È una morte
che avviene nell’isolamento, nell’indifferenza, nel silenzio.
È una morte solitaria, senza funerali, senza segni di lutto, senza riti
di passaggio. È una morte, appunto per questo, che non sarà mai
esorcizzata.
Rimarrà per sempre nei sopravvissuti, come purtroppo ho potuto
constatare nella mia famiglia, nei miei genitori, in me stesso.
Nelida Milani:
«Dopo l’8 settembre, i drusi furono padroni assoluti dell’Istria per un
lungo periodo, durante il quale scomparvero alcune migliaia di persone.
I luoghi della sparizione saranno rivelati alcuni decenni più tardi,
dopo il crollo del Muro. Saranno indicati pubblicamente, sui giornali.
Ma da sempre gli abitanti dei dintorni li conoscevano, anche se non ne
avevano mai parlato con nessuno.
I contadini li avevano individuati subito, uno per uno, a causa dei
lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose.
Raccontarono che a lungo avevano sentito provenire dalle viscere della
terra richiami e invocazioni d’aiuto, i gemiti della troppo lunga agonia
di coloro che erano rimasti vivi e anelavano ancora alla vita pur nel
terrore della fine certa, terrore che si concludeva con il rantolo della
morte.». (p. 118)
Il capovolgimento del nostro mondo d’origine ha segnato anche il
rovesciamento della verità, che la nostra stessa vita testimonia: i
“liberatori”, acclamati come tali dall’umanità intera, sono stati in
realtà dei carnefici: i nostri carnefici; i “progressisti”, che per anni
hanno appoggiato il social engineering
condotto nei gulag dell’Est, sono i veri reazionari.
È pur vero che i vinti hanno sempre torto. Ma questa volta ai vinti
sono stati attribuiti tutti i torti dell’universo. E in più hanno avuto
diritto ai lazzi e agli sberleffi.
La sconfitta della patria nella seconda guerra mondiale ha infatti
fornito un inesauribile materiale umoristico alle meningi dei creatori
italiani, in una chilometrica sequela di film, libri, lavori teatrali...
Il paese di Pulcinella è ritornato alla sua vocazione antica, forse la
sua sola vera, di popolo di saltimbanchi, di macchiette, di gente furba,
esuberante, che sa divertirsi, e che per secoli ha fatto il tifo ora per
un dominatore straniero ora per l’altro.
La peggiore offesa postuma, arrecata a chi ha saputo morire con coraggio
ed onore, come seppe morire mio zio Lino Gherbetti (nato Gherbetz),
infoibato dai partigiani di Tito, è questo non poter concepire, oggi, in
Italia, che vi fu chi, come lui e tanti altri, credette veramente al
sogno di un’altra Italia: un’Italia disciplinata, seria, normale, con un
normale senso di onore nazionale, dopo secoli di dominazioni straniere,
e di imperialismi e di colonialismi armati, attraverso il mondo,
condotti da quelle potenze che si sono poi atteggiate ad implacabili
giudici dei vinti, e che hanno loro attribuito l’invenzione stessa della
guerra.
Oggi, dopo decenni di martellamento e di spernacchiamenti contro
l’Italia che fu, io stesso comincio a chiedermi se dietro gli apparati,
la retorica, il pompierismo dei protagonisti e delle comparse che
trassero profitto da quel “sogno di gloria” vi fosse vera sostanza, cioè
gente con intenzioni sane, coscienze normali, sentimenti giusti.
Ma poi mi basta pensare ai cosiddetti “fascisti” della mia famiglia e
della cerchia dei nostri parenti – gente patriottica di confine, seria,
onesta, umana, leale, ordinata, con un profondo senso di civismo e di
solidarietà nazionale – e allora ancora più tragica mi appare la sorte
di chi, ai confini, fu ingannato da quella speranza, da quell’illusione,
e credette realmente in quel sogno, e dovette poi pagare di persona,
talvolta con la vita.
Molti degli italiani del confine orientale vissero il sogno di una nuova
Italia come qualcosa di serio, di nobile, di bello. All’ordine e alla
serietà erano stati educati dall’Austria.
Al senso dell’onore, al patriottismo, al desiderio di essere considerati
in tutto e per tutto italiani, erano stati preparati da una lunga
attesa. Per molto tempo, infatti, questa gente aveva atteso la
“redenzione”, termine che per loro non ha avuto mai nulla di retorico
perché corrispondente a un sentimento vero.
Triste fu la sorte di tanti profughi che, come i miei genitori, dopo il
naufragio, rimasero, nonostante tutto – perché nasconderlo? – fedeli a
quell’illusione così vicina alla loro natura più intima e più vera, e
continuarono a mettere in pratica quotidianamente gli ideali di ordine,
autodisciplina, onestà, serietà, solidarietà nazionale, patriottismo.
E non avrebbero potuto far diversamente, perché non si cambia natura
cambiando geografia.
Noi abbiamo l’impronta austriaca. Oggi riconosciamo volentieri questa
filiazione. E dire che l’impero asburgico e il suo imperatore furono dai
nostri padri tanto avversati.
Il “ribaltone”, l’esodo, la vita a contatto con gli altri italiani hanno
comportato la riabilitazione del nostro nemico di allora: Vienna e il
suo impero. La riabilitazione è coincisa con il nuovo significato che
noi stessi diamo oggi a certe parole, “Roma” per esempio, che tanto ci
aveva ispirato e fatto sognare.
Oggi la parola Roma, purtroppo, ha per noi un po’ la stessa connotazione
che ha per Umberto Bossi, anche se di costui rifiutiamo in toto
l’ideologia razzista contro il Sud.
I liberatori erano antifascisti. E l’antifascismo era ed è il bene
supremo. Le loro vittime sono diventate
ipso facto dei fascisti, questa specie
subumana, responsabile dell’Olocausto, il solo, il vero, quello con l’O
maiuscola. Quindi hanno meritato il loro calvario.
E i discendenti delle vittime, lungi dall’avanzare crediti morali verso
chicchessia, dovrebbero stare attenti a come parlano!
Il rovesciamento dei ruoli, la beatificazione in blocco degli
“antifascisti”, assassini d’innocenti compresi, hanno fatto sì che delle
foibe si è cominciato a parlare un po’, solo dopo la caduta del Muro.
Occorrerà aspettare forse un secolo perché certe verità vengano a galla.
Nelida Milani ci racconta di ciò che subì suo zio Aurelio, ad opera dei
“liberatori”: Fu
«arrestato sul sagrato della chiesa e portato al comando slavo di Pola
insieme ad altri civili e militari italiani.». (p. 118)
«Fu rinchiuso in una cella di 3 metri per 4 con una trentina di altri
prigionieri, “stretti come sardine, boccheggianti per la mancanza d’aria
e tutti con le mani legate dietro la schiena col fil di ferro.
Li avevano legati così fin dall’inizio e non li avrebbero mai liberati,
nemmeno durante le torture. Morivano di sete e solo dopo molte
imploranti richieste un militare diede loro un fiasco di urina. [...]
L’unica colpa che avevano era di essere italiani.”.
“Prima li hanno conciati per le feste, torturati per tutta la notte.”».
(p. 119)
Essere italiani... Grande colpa, e non solo per gli slavi, ma anche per
tutti gli altri, italiani in primis, che alla tragedia delle foibe hanno
per mezzo secolo vòlto le terga, ignorandole, o anche giustificandole
come misura di giusta retribuzione contro i “nazifascisti”.
Dopo tutto gli jugoslavi avevano combattuto validamente, da soli, contro
i soldati di Hitler. I liberatori erano necessariamente dalla parte del
bene. Omnia munda mundis,
insomma.
Di Olocausto ce n’è uno solo. Guai ad abusarne il nome...
L’accusa di antisemitismo viene lanciata per molto di meno... ed è
un’accusa che fa profondi danni. Chi parla dei morti della foiba di
Basovizza si direbbe che rischi l’accusa di voler minimizzare la Risiera
di San Sabba.
Il Presidente più amato dagli italiani, ma non certo da noi, Pertini,
non ha mai fatto pericolose confusioni circa i martiri “Doc” . Mori si
chiede:
«Ma perché il “presidente della gente”, ma non della nostra gente,
Sandro Pertini, quando è venuto da queste parti a commemorare,
giustamente, i martiri della Risiera di San Sabba, non ha commemorato,
ingiustamente, i martiri delle foibe?». (p. 199)
La cinematografia ha i suoi temi obbligati, Hollywood e Cinecittà
insegnano. Non si può capovolgere il lieto fine della seconda guerra
mondiale. Alla belva è stata piantata un’asta di acciaio nel cuore.
Ci mancherebbe altro che si cercasse di dar voce ai morti delle foibe,
che si rivelasse il martirio dei vinti. Non confondiamo i cattivi con i
buoni. Non confondiamo i morti innocenti.
La via crucis degli istriani, fiumani e dalmati, spariti nel vortice
dell’odio, non troverà mai registi o scrittori di grido. Eppure lo
scenario si presterebbe agli effetti speciali, con il sangue e i
massacri di cui il pubblico è ghiotto.
Ma ai Finzi Contini i loro giardini. Gli orti dell’Istria, le nostre
case di pietra occupate da altri non costituiscono materia letteraria o
cinematografica.
Nelida Milani:
«Da Pola fino a Fianona i guardiani ne fecero di tutti i colori ai
prigionieri: uno fu costretto a mangiare della carta, un altro dei
sassi, allo zio spararono vicino alle orecchie, perché si divertivano a
vederli sobbalzare.
E poi giunsero nel luogo prestabilito. In tono pacato il Komandir
annunciò che era loro dovere liquidare i fascisti, quegli stessi che gli
avevano riempito due volte lo stomaco di olio di ricino. E alla fine
gridò: “Morte al fascismo, libertà al popolo!”.
“Morte al fascismo, libertà al popolo!” ripeterono gli altri.». (p. 120)
Miracolosamente lo zio di Nelida, che si è lanciato nella foiba un
attimo prima di ricevere la scarica mortale diretta a lui e agli altri,
sopravvive alla caduta nella voragine, e penosamente, tempo dopo,
riemerge da quella che doveva essere la sua tomba, e che lo fu per gli
altri.
Riuscirà poi ad uscire dall’Istria, emigrando in America.
«A Detroit zio Aurelio subirà tre lunghi interventi alla testa, ma
rimarrà irreparabilmente leso, cieco da un occhio e sordastro.». (p.
121)
Anche altri familiari di Nelida Milani scelgono la via dell’esilio.
Qualcuno vive la partenza come una frattura dell’essere, sentendosi
proiettato lontano dal solco comune che il destino sembrava aver
tracciato, una volta per sempre, per lui e per gli altri.
«I miei zii sono partiti il 12 aprile del 1949 sotto una cappa di nuvole
bituminose, di fazzoletti e di lacrime. Abitavano giù, nella via del
Lapidario, avevano la casa con la veranda sul cortile, la campagna di
fronte.
Quando mio zio prese congedo dalla sua casa ebbe la curiosa sensazione
di sentirsi all’improvviso limitare la vita: “Mi hanno rubato il mio
destino”, diceva.». (p. 134)
Quanta verità in questo sentimento di “destino mancato”. Quei profughi
che, anche dopo tanti anni, sono rimasti esuli nell’anima, sanno quanto
vera sia la frase dello zio di Nelida “Mi hanno rubato il mio destino.”
La rinuncia forzata alla terra natale è la perdita di un qualcosa di
insostituibile che aiutava a dar senso all’assurdità della vita.
Gli zii di Nelida approdano a Toronto, dove nessuno conosce la loro
tragedia:
«Alle persone di Toronto, sembravano persone venute dal nulla,
indecifrabili: “Perché siete venuti qua?” chiedevano. “Perché siete
fuggiti?”». (p. 137)
Anche a Nelida, “rimasta”, viene rivolta una domanda simile:
“Perché nonna non è andata in Italia con le sue figliole? Perché è
rimasta a Pola?”
Si capisce che questa domanda, ripetuta tante volte da chi invece fece
fagotto, ha fatto sempre male a Nelida Milani, restata a Pola con la
nonna e con il papà, e quindi facente parte dei “rimasti”, di coloro
cioè che i profughi giuliano-dalmati hanno tenuto sempre in
sospetto di compromissione, di scarsa italianità, e anche di filotitismo
e di complicità con gli occupatori.
Questo libro è prezioso perché ci fa udire la voce di chi rimase
nell’Istria divenuta rossa.
E questa voce, forse unica, o – chissà – forse un po’ più diffusa di
quanto si pensi, è un potente canto di dolore, stranamente simile a
quello di altri esuli che partirono e che non vollero più tornare,
neanche per una breve visita, perché fedeli per sempre all’anima antica
della propria terra, colonizzata e violentata dagli occupanti slavi.
Perché alcuni rimasero? Perché il papà e la nonna di Nelida rimasero?
Per ragioni domestiche, di vita, di casa, di continuità. Si sente che
Nelida Milani vuol difendere i rimasti:
«Papà non volle andarsene per via della barca e della pesca. Nonna,
anzitutto, per la nostra casa, il suo regno, fuori del quale tutto il
vasto mondo era solo un’appendice insignificante, un regno popolato da
figli, figlie, nipoti e da una folla di animali: tacchini, oche, anatre,
galline, galli, armente, asini, maiali.
L’amava con assoluto trasporto, proprio come io l’amo adesso che l’età è
una cosa sola con i luoghi.
Sono contenta di essere sicura di morire qua dentro come fu contenta
lei.». (p. 140)
Per Nelida, la nonna – che le funse da madre – è un modello
incomparabile di amore, di dedizione, di istinto, di vita. Ella volle
rimanere in Istria per amore della casa.
Nelida Milani non solo giustifica questa scelta, ma la fa sua. Ed
elevando un rustico inno d’amore alla casa e alla nonna – casa e nonna
fanno un tutt’uno – Nelida mostra il rifiuto dell’assurdità della storia
e della crudeltà degli uomini, mentre esalta la continuità e la fedeltà.
Fedeltà ai valori antichi, alla civiltà della terra, all’Istria perenne,
rimasta però tale solo nei cuori e nel rimpianto, perché tutto intorno è
stato spezzato e contorto da una storia convulsa e assurda.
La massa degli italiani fuggì. È l’esodo.
«La gente si imbarcava sul Toscana,
che faceva la spola tra Pola e Trieste...». (p. 141)
È la fuga di fronte alla tremenda frattura creata dalla storia, di
fronte allo stravolgimento dell’anima dell’Istria. Ci si vuol sottrarre
a qualcosa di assurdo, che ha investito i luoghi e che vuole entrare
nelle anime.
«Invano avevano cercato di far fronte a una civiltà incomprensibile. Che
cosa avevano mai fatto per meritarsi quel mondo, in cui sentivano di non
aver alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana?.»
(p. 142)
I luoghi cambiano nome.
«Pola è diventata Pula. Le lettere non partono e non arrivano se sulle
buste non si scrive PULA. Pola cancellata dalla faccia della terra.
Il nome era un simbolo, e quando i simboli cadono, nulla è più come
prima.». (p. 162)
Mi chiedo cosa possa veramente dire la frase “Il nome era un simbolo, e
quando i simboli cadono, nulla è più come prima” a quanti ignorano la
nostra storia di giuliano-dalmati. Ma per noi che siamo nati in un
luogo, di cui si è eliminato, liquidato, fatto sparire il nome
d’origine, questa frase dice tutto.
Anni dopo, Nelida Milani potrà recarsi a Firenze, in visita ai parenti
esuli, trapiantati in quella città.
«Un destino, finalmente un destino! Avrebbe potuto essere il mio
destino, il nostro destino. Durò poco: otto giorni.». (p. 172)
Di nuovo espressa quest’idea della privazione del destino. Chi partì ne
venne privato (Lo zio, partendo, sapeva di entrare in un limbo storico).
Ma anche chi restò, in un’Istria espropriata dell’anima, ebbe per sempre
il senso di un destino incompiuto. In entrambi la frattura della storia
collettiva, la non continuità coincisero con una frattura dolorosa
dell’essere.
Spesso anche il semplice emigrato avverte questa sensazione di profonda
incompiutezza, di non realizzazione, di assurdità della propria
esistenza. È lo scotto che le anime sensibili pagano all’amore: l’amore
per la patria.
Nelida Milani, paradossalmente, sposa un serbo.
«Io, che a causa dell’abbandono di una madre ero cresciuta come un
cactus molto spinoso legato ai primi anni della mia vita e mi portavo
dentro un confine sottilissimo tra lutto normale e lutto patologico, mi
aggrappai a lui cercando amore e sicurezza e piazzandolo su un alto
piedistallo dove lo idolatrai per decenni.». (p. 175)
Il carattere assoluto dei sentimenti di questa scrittrice istriana, la
sua fedeltà ai vinti, la sua lacerante amarezza, il senso di tradimento
subito e di ribellione e sfida al mondo rivelano sensibilità e forza
d’animo non comuni.
La tragedia storica abbattutasi sull’Istria, da lei interiorizzata in
toto, si aggiunge – come abbiamo visto – al dramma tremendo subito da
bambina: sua madre, per seguire un altro uomo, lasciò marito e figli.
L’abbandono fu per Nelida una tragedia, rimasta per sempre in lei.
Questo fatto centrale – l’abbandono e il non ritorno della madre – è il
controluce, la filigrana attraverso cui occorre guardare all’universo di
questa scrittrice.
Ma come poter calcolare l’impatto che ha avuto sulla sua sensibilità
questo profondo dramma esistenziale, distinguendolo dagli avvenimenti
tragici, più ampi che hanno investito l’Istria e la sua popolazione, e
che hanno egualmente marcato il suo animo?
Come poter calibrare le cause precise del suo sentimento di dolore e di
ingiustizia? I sentimenti non solo mai soli e l’amore si aggiunge
all’amore, il dolore al dolore, il rancore al rancore. Come sceverare le
emozioni e i sentimenti? Come distinguere tra le varie cause?
Mi è impossibile non aprire una parentesi, partendo dal dubbio che
Nelida Milani sembra provare circa il carattere, forse “patologico”,
della propria sensibilità, del proprio cordoglio.
In questo mio scavare negli strati più profondi di Nelida Milani, forse
rischio di voler vedere in lei quelli che sono invece i miei fantasmi.
Eppure certe sue parole mi sembrano rivelare uno stato d’animo che io
stesso provo continuamente.
So che non è facile parlare di se stessi, ma vi dirò che la gente rimane
sorpresa quando constata la forza dei miei sentimenti di attaccamento e
di fedeltà alla terra in cui sono nato, ma da cui sono venuto via
infante, o quando si rende conto in quale maniera io abbia fatto mia la
sconfitta della patria, avvenuta nel disonore, con la perdita delle
terre adriatiche.
Mi accorgo che, dicendo queste cose, il mio discorso si fa difficile,
perché le stesse parole che uso – patria, sconfitta, disonore – sono
state intaccate e consunte da una tradizione di retorica all’italiana
che ne ha alterato per sempre il senso. Ma altre parole non vi sono...
Quelli che sono nati nella mia cittadina natale, che hanno conosciuto i
miei genitori, che hanno subito il dramma dell’esodo, e che commemorano
più volte all’anno la terra perduta, sono stati lietamente sorpresi nel
vedere che uno come me, che vive in un altro continente, può provare
sentimenti così forti di attaccamento e di rimpianto.
Certamente essi mi vedono molto diverso dai loro figli. Ma non
immaginano neppure le vere dimensioni della mia realtà interiore.
Essi non sanno della forza assoluta di certi sentimenti che albergano in
me. Se lo sapessero, certamente li giudicherebbero eccessivi, oppure
rimarrebbero, nonostante tutto, increduli.
Di qui un mio sentimento di solitudine e di senso di incomunicabilità
derivanti dall’eterno dubbio che gli altri possano veramente capire.
Gli italiani, in genere, non capiscono queste cose. I quebecchesi,
invece, piangono una sconfitta subita quasi trecento anni fa. Gli ebrei
piangono un esodo avvenuto più di 2000 anni fa.
Vi sono stati dei giovani canadesi, australiani, americani, di genitori
croati, che sono andati a combattere, a uccidere e a morire, nella nuova
Croazia (cosa che io stesso giudico eccessiva, anche perché, nella mia
concezione del patriottismo, alla patria in cui si nasce sono dovuti
amore e lealtà).
La sconfitta in Giappone causò suicidi di massa. Molto diffuso tra gli
americani è il culto dell’onore nazionale.
Io non voglio giustificare certi eccessi che nascono dal culto della
patria e dell’onore, ma semplicemente dire che quando paragono il mio
senso di lutto per la tragedia della Venezia Giulia e della Dalmazia, e
la mia solidarietà per i giuliano-dalmati al senso spasmodico
dell’identità etnico-religiosa, al vittimismo, al senso di
esclusione verso gli altri, e al culto di un passato plurimillenario che
hanno gli ebrei, io non posso non considerarmi un tiepido, un moderato,
un “laico” .
E lo stesso mi succede quando raffronto il mio senso guerriero a quello
di ceceni, serbi, croati, irlandesi, baschi, corsi...
Nell’analizzare le cause del mio sentirmi “esule”, mi rendo conto che le
vicende personali, familiari hanno contato non poco nel far di me ciò
che sono, e soprattutto di quanto abbiano influito i miei genitori, con
l’esempio della loro coerenza, del loro coraggio, e della profondità dei
loro sentimenti d’amor patrio, e, naturalmente, anche con il loro
bagaglio genetico.
E scavando, scavando, mi accorgo che il mio senso di alienazione e di
perdita deriva in parte da un disagio esistenziale che ha tra le sue
cause, probabilmente, anche l’educazione ferrea ricevuta da un padre
troppo duro con suo figlio, timido e sensibile, e il mio mancato
radicamento “geografico”, dovuto ai continui cambiamenti di luogo, sia
in Italia che all’estero.
Ma, alla base di tutto, io vedo le foibe, l’odio tribale slavo, la
sconfitta dell’Italia, la tragedia dell’esodo, lo sradicamento, i campi
profughi, la dispersione della nostra gente, l’eterno rimpianto
dell’Istria, il lutto per l’onore perduto, e il senso di nausea per il
conformismo antipatriottico e il filocomunismo come le cause dirette dei
sentimenti miei, di tutta una vita.
L’antipatriottismo, l’opportunismo e il filocomunismo di larghi strati
in Italia sono stati la causa diretta, se non altro, della mia decisione
di emigrare.
Adesso può far sorridere il pensiero che vi fosse gente in Italia,
allora, che temeva – come sempre lo temettero i miei genitori – il
ripetersi del “ribaltone”, quale lo avevano già conosciuto in Istria.
Essere profughi giuliani, essere visceralmente anticomunisti non era
certamente un titolo di merito nell’Italia che espresse il terrorismo
della Brigate Rosse e il diffusissimo fenomeno degli utili idioti e dei
radical chic che esaltavano la Jugoslavia di Tito, non solo, ma la Cina
di Mao e la Cambogia di Pol Pot.
La lettura di Bora
mi ha permesso di ritrovare in altri le stesse
reazioni, gli stessi moti d’animo. Nelida Milani s’interroga sul
“confine sottilissimo tra lutto normale e lutto patologico”.
Secondo me, il suo è un atteggiamento di difesa mirante a respingere il
dubbio che altri potrebbero avere su di lei, circa la sua normalità, con
l’idea che sia stato il suo animo tormentato, e non i fatti obiettivi,
storici, a causare in lei un turbamento così forte. Tale sentimento di
difesa affiora qua e là nel libro, rivelando una personalità complessa.
Se insisto su questo punto, è perché Nelida Milani non è la sola a voler
respingere il dubbio e la perplessità sul carattere forse anormale,
eccessivo, assurdo delle proprie reazioni a certe ingiustizie.
Io sono convinto che è stata la vicenda storica, che ci ha travolto –
l’esodo “negato” – la causa di tutto.
Gli studi consacrati alle vittime di avvenimenti collettivi tragici
constatano che queste rimangono afflitte da un senso di solitudine,
quando tali pagine sanguinose di storia non sono conosciute
dall’opinione pubblica.
Il non riconoscimento e l’indifferenza altrui impediscono che si consumi
il processo rituale di cordoglio e di lutto, necessario ad ogni
risanamento.
Il fatto stesso che gli altri italiani siano così diversi da noi
sembrerebbe indicare che il nostro dolore sia frutto di una sensibilità
esagerata.
Il dubbio, che le nostre reazioni agli avvenimenti siano sostanzialmente
dovute all’eccezionalità del nostro essere, non viene espresso in
maniera esplicita, ma emerge per contrasto di comportamenti e di
sensibilità tra il nostro patriottismo e la totale indifferenza della
stragrande massa degli italiani alla tragedia dell’esodo.
Io rimango incredulo nel constatare che i miei sentimenti suscitano
talvolta sorpresa e perplessità anche nella gente della mia origine.
Ma è una caratteristica soprattutto italiana questo non far coincidere
il proprio destino con il destino della patria. La sensazione del
disagio-dolore unico, incomunicabile, impedisce il conforto che
deriva dalla convinzione che gli altri possano capirci.
Emerge dal libro la persecuzione condotta dal regime titoista, con
l’internamento degli avversari nel gulag dell’isola Goli Otok – l’
“Isola Calva”.
A farne le spese furono i “puri e duri”, che, chissà, forse erano dei
semplici ingenui, rimasti fedeli all’ideale sovietico – della propaganda
sovietica – di una società assolutamente egualitaria, cui Tito, con la
sua svolta, sembrò volgere le spalle.
Paolo – amico di Nelida – membro della Gioventù comunista
«aveva dato ragione ai sovietici, criticando il razionamento degli
alimentari per le masse popolari, e il lusso dei dirigenti.». (p. 181)
Venne internato nel gulag dell’Isola Calva, pagando duramente la sua
dissidenza.
I prigionieri politici subivano torture e sevizie. Era la scuola di
rieducazione titoista, amministrata da sadici aguzzini. Solo oggi si è
cominciato a far luce su quelle ignominiose pagine, ignorate per tanti
anni.
Anna Maria Mori si reca in vacanza in Istria, diverse volte.
«E incomincia a questo punto un viaggio ignoto al resto d’Italia e degli
italiani in genere: il viaggio tra il “noi” e i “loro”, “Noi e lori”.
Per gli italiani d’Istria, e qui sono assolutamente uguali “i partiti” e
“i rimasti”, “lori” sono gli altri: croati e sloveni, a questo punto non
fa differenza.».
La mentalità balcanica non cambia. L’animosità nei nostri confronti
emerge rapidamente. Noi italiani siamo veramente diversi da loro. Anche
chi tra noi, istriani, fiumani e dalmati, ha un minimo di spirito
guerriero deve deporre le armi di fronte al senso assoluto dello scontro
che hanno in quelle terre:
«“Lori”, gli altri: sono quelli, allenati dalla loro storia e dalla loro
cultura alla vita come scontro, o vinci tu o vinco io, o perdi tu o
perdo io. In ogni caso è meglio che vinca io, e che a perdere sia tu.
Si comportano così in ogni momento e in ogni circostanza. Tanto più nel
confronto di quello che, chissà poi perché, è il nemico storico: “noi”,
gli italiani.». (p. 202)
Anche gli avvenimenti più recenti hanno confermato il carattere
inconciliabile della mentalità delle etnie balcaniche. Anna Maria Mori:
«E come si fa a conciliare questo “noi” e questo “loro”? Tanto più che
loro, “lori” (i s’ciavi ma anche questo è razzismo) non hanno nessuna
intenzione di conciliare, ma di dominare, cancellare, cancellarti.
Noi ci battiamo per un’Europa senza confini. Loro si ammazzano per
segnare confini, per stabilire continue differenze: noi e loro, loro i
serbi, i serbi e i croati, i serbi bosniaci e i croati bosniaci, i
croati cristiani e i serbi mussulmani.». (p. 204)
Cosa sarebbe successo se...? Chi tra noi non si è mai posto le domande
del “se”? Anna Maria Mori:
«Perché ve ne siete andati? E voi, perché siete rimasti? Ha senso
continuare a porsi questo tipo di domande?». (p. 218)
Per Milani, “rimasta”, e per questo vista con diffidenza da molti dei
“partiti”, l’errore fu forse di partire:
«E se foste rimasti? Se con astuta pazienza foste rimasti in Istria, a
casa vostra, le vostre case, le vostre stalle, le vostre campagne, i
vostri appartamenti, non sarebbero stati occupati.
Tutti i liberatori se ne sarebbero andati, uno dopo l’altro. “Ecco,
anche questa l’è finita”, avremmo commentato. “Ecco, se ne sono andati
anche costoro.”». (p. 226)
Anch’io ho sentito, nel passato, questo suon di campana.
Cosa dire? Oggi è troppo tardi anche per la teoria dei se. La lezione di
amarezza è così totale, in me, che ritengo che nulla ormai possa
apportare conforto, o possa aggravare il senso di pena.
La morte di tanti profughi, e la morte di una parte di noi stessi, rende
tutto assurdo e beffardo.
Tutto è andato nel peggior dei modi: e in una maniera inoltre beffarda.
La Jugoslavia è stata acclamata per decenni come una terra promessa dai
nostri progressisti.
La vita in Italia è stata dominata dal filocomunismo e dall’opportunismo
più cagone. Noi profughi siamo stati ignorati, oppure considerati
moralmente come dei nazifascisti.
L’avversione del comunismo ha impedito a molti di noi di restare in
Italia. Ma, anche all’estero, nei consolati italiani risultavamo “nati
in Jugoslavia”.
Poi i buoni e magnifici vicini dell’est si sono scannati. E, che Dio mi
perdoni, solo questo mi è apparso come un ritorno alla normalità e alla
verità delle cose.
Il sangue è ripreso a scorrere. Le foibe hanno ripreso la loro funzione
balcanica di fosse comuni. Per noi, infine, le cose hanno ripreso il
loro senso. Le nuove morti e il nuovo sangue ci hanno dato ragione.
Bora di Anna Maria Mori e Nelida Milani
non è stato un libro di facile lettura per me. No, non perché scritto in
maniera difficile, ma perché troppo dolorosamente vero.
Ma se fa male al cuore ritrovare il proprio dolore negli altri – la
propria tragedia – la testimonianza altrui serve a dissipare, in parte,
la coltre della solitudine. Immaginiamo per un attimo che nessuno
conoscesse della persecuzione nazista subita dagli ebrei.
Come dovrebbero allora sentirsi coloro che direttamente la patirono o le
cui famiglie in una maniera o nell’altra la subirono?
Certo, il paragone con gli ebrei è estremo, probabilmente eccessivo, ma
comunque permette di far capire che il non riconoscimento di un esodo,
di una persecuzione, di una tragedia collettiva è fonte di solitudine e
di amarezza per i sopravvissuti.
Claudio Antonelli [fratello di
Laura Antonelli]
Tratto da:
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