Tuti i mesi no xe compagni

Trenta zorni ga novembre
con avril, zugno e setembre;
de vintioto ghe ne un,
i altri sete ga trentun.

È la filastrocca — qui nella versione di Parenzo — che tutti abbiamo imparato a memoria fin dall'infanzia per ricordare il numero dei giorni che compongono i mesi, questi frammenti della nostra vita tanto diversi l'uno dall'altro, che però si ripetono e susseguono di anno in anno.

Dal 1° gennaio alIa notte dl S. Silvestro, i mesi scorrono e si alternano le stagioni: la neve e l'erba verde, i fiori e i frutti, il freddo e il caldo, il sole e le tenebre, i giorni chiari e annuvolati, le notti piene di stelle e cupe, l'inverno e la primavera, l'autunno e l'estate. La ruota non si ferma mai, il ritmo e sempre uguale, la vita si ripete, gli anni cominciano, finiscono, ricominciano sempre da capo; gli auguri e le speranze si rinnovano, la vita rinasce dalla morte come un miracolo.

In qualche parte ho letto: ventotto, trenta o trentun giorni, ogni mese ha una propria misura, una diversa storia. C'è chi esplode in una girandola di luce, c'è chi si ammanta di preziosa polvere d'oro, e chi s'imbacucca nel mantello bianco. Uno arriva con la Befana a cavallo della sua magica scopa, l'altro fa pazzie di Carnevale; un altro ancora suona a festa le campane di Pasqua. Segue chi sparge papaveri e fiordalisi che macchiano di rosso e blu il verde dei prati, e chi stende sul suolo un soffice e policromo arazzo di foglie, e chi ancora arriva con le cornamuse che spandono sorrisi e suoni di nenie natalìzie.

Ogni mese ha il suo colore, il suo profumo, la sua voce, le sue vicende.

Tuti i mesi no xe compagni,

dice un proverbio istriano rimandandoci con la memoria all'arcaico ciclo del carnevale, nel quale si rileva la presenza della rappresentazione mascherata del calendario. Ne scrisse esaurientemente Francesco Babudri in Mascherate rusticane del carnevale d'Istria nel «Il popolo di Trieste», 13-II-1923) e ne Il contrasto dei mesi nella mascherata istriana del calendario «Folklore italiano», I/1925) descrivendo tra l'altro la mascherata, appunto, dei mesi:

L'anno vecchio con la barba bianca e lo scettro tra le mani, camuffato da Arlecchino, così da avere nei ritagli del suo costume in guisa bizzarra un po' tutte e quattro le stagioni, invitava ogni mese a declinare le proprie generalità e a sciorinare i propri pregi ed i propri meriti, con un invito perentorio, il cui testo non era ben definito.

Che ogni mese, infatti, abbia i suoi pregi e difettire che nessun mese rassomigli all'altro, ce lo dicono esemplarmente i proverbi. Quello citato subito all'inizio ci introduce nel1e variazioni del tempo, nell'avvicendarsi di giorni e stagioni che presso tutti i popoli ha sempre trovato una traduzione adeguata. Non per nulla i nomi stessi dei mesi, quelli i popolari presso alcune nazioni, portano l'emblematicità nel loro significato: vendemmiaio, brumaio, frimaio, nevoso, ventoso, germinale, floreale, pratile, messidoro, termidoro, fruttidoro. Le massime popolari, pero, vanno oltre al simbolo; ed essendo «misura dell'intelligenza e della sapienza» come specchio dell'indole del popolo stesso, «scolpiscono il vero ben meglio di quel che potrebbe l'acutezza del dotto».

Nessuno pretende, naturalmente, di dare ai proverbi il crisma dell'infallibilità. Sappiamo benissimo che in parte traducono superstizioni e pregiudizi «e calcoli talvolta sbagliati, specialmente in quelli meteorologici», come dice Giuseppe Vátova nel suo Saggio sui dialetti istriani (Venezia, 1954), «ma pur giovano a chi voglia rettamente giudicare dell'indole e della natura di un popolo», delle sue secolari esperienze, della sua cultura, del suo costume. Perché, dicono a Capodistria,

Proverbio vecio, parola antica,

mentre i contadini dell'Istria meridionale affermano che

El proverbio non à mai falà.

Ovvero, a dirla con gli Albonesi:

I proverbi xe la sapienza del popolo
e l'onestà xe la sòa richezza.

Una ricchezza morale, ovviamente, che in quanto al resto gli Istriani non ebbero a vantarsi mai, in passato,di agiatezza e tesori; ed a Capodistria hanno l'adagio appropriato:

I nostri veci ga mangià i caponi
e i n'à lassà i proverbi.

Fatte pochissime eccezioni, come quella di Portole, dove si afferma che anca i proverbi no val piu un corno, alle massime popolari la gente semplice dell'Istria ci crede; si è fermamente persuasi che nelle rime ed assonanze di quei motti agili e spes so briosi, misti di prosa e di poesia, siano veramente racchiuse l' esperienza di innumerevoli generazioni, la sapienza degli avi. Dicono ad Albona:

I nostri veci i stava zento ani a tar un proverbio
e altri zento prima de publicarlo.

A Dignano, con una punta di facezia e con maggiore inclinazione alIa poesia, dicono invece:

I nostri veci sia benedéiti
che stampava sti proverbi
co l'umor dei bucaléiti.

Gli Istriani, da Capodistria e Pirano a Buie e Umago, da Verteneglio e Cittanova a Visignano e Parenzo, da Orsera e Rovigno a Pisino e Montona, da Dignano, Gallesano e Valle fino a Pola, su tutto quellembo di terra che va dal golfo di Trieste a quello del Quarnero, sono in prevalenza contadini e pescatori. Ed anche i proverbi, quelli inerenti a variazioni dell'anno ed a mutamenti atmosferici, sono prevalentemente legati alla terra ed al mare. Alla terra soprattutto, che richiama costantemente le cure e il cuore del contadino preoccupato che il grano cresca e spighi, che le viti si addobbino di grappoli sodi, che le piante non secchino, che le fatiche non vadano sprecate.

Purtroppo, con lo spopolamento dell'Istria subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'elemento italiano nella penisola e ridotto a una minoranza, ed anche il ricordo dei proverbi, degli aforismi, delle sentenze — per non parlare dei canti popolari — va via via affievolendosi, sicché è difticile oggi ottenere una ricca messe da una ricerca sia pure scrupolosa. E tuttavia non tutto è scomparso. Né potrebbe sparire il patrimonio di un popolo che nel suo stesso seno ha coltivato parecchi studiosi, figli fedeli della loro terra, i quali hanno affidato ai libri quanto raccolsero sulla bocca del popolo in varie epoche, a cominciare da un primo saggio di Carlo Combi nel 1859. Più di tutti si distinsero Francesco Babudri, Giuseppe Vátova e Achille Gorlato (senza dimenticare Giuseppe Caprin, Ricciotti Giollo, C.A. Combi. G. Gravisi, P. Fragiacomo e qualche altro), mentre è fitta la schiera di coloro che hanno limitato la loro attenzione a singole località: L. Caenazzo e Antonio Ive a Rovigno, Tomaso Luciani ad Albona, Domenico Rismondo a Dignano, Giovanni Vesnaver a Portole, L. Morteani e Fr. Tomasi a Montona, J. Cella a Cherso, Ranieri Mario Cossar a Montona ed Albona. Si potrebbe ancora continuare.

In questo nostro lavoro, tematicamente circoscritto, abbiamo cercato di far opera di sistematizzazione e, per quanto possibile, di arricchimento. senza tuttavia nessuna pretesa di aver esaurito l'argomento. Si è voluto porre di fronte al mondo d'oggi uno squarcio del tempo passato, che in qualche angolo di questa terra continua a vivere anacronisticamente nel1a sua semplicità e intimità; soprattutto si è cercato di recuperare alla sensibilità dell'oggi un soffio di poesia e di saggezza che ci viene dagli avi.

Andiamo a cercare, dunque, le vicende dei mesi fra meteorologia, astrologia, ricorrenze, feste, attraverso gli itinerari del proverbio. Mese per mese, sfogliando un lunario che conta decine e decine di anni — gli anni remoti della tradizione — per chiedere a gennaio, febbraio, giugno o novembre di raccontarci i loro segreti. di ripetetci una vicenda che si scrive su pagine bianche e nere, fatte di giorni e di notti, di luce e di buio, di sole e di tempeste, di neve o di canicola.

Tratto da:

  • Giacomo Scotti, I Mesi dell'Anno nei Proverbi Istriani - ano de neve, ano de pan. Edizione LINT (Trieste, 1972). All rights reserved.

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Created: Friday, February 11, 2000; Last updated: Monday, December 12, 2022
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