Nel rione di Montréal dove risiedo gli
ebrei sono la maggioranza. Ho modo di osservarli, durante Passover, la
Pasqua ebraica, mentre a nuclei familiari interi camminano vestiti a
festa, le donne abbigliate in una maniera démodée ma quanto aggraziata,
che fu di moda forse nella Vienna d’anteguerra, o a Budapest o a Odessa
tanti anni fa. Si recano in visita ai parenti, agli amici, oppure escono
dalla Sinagoga. Il carattere rituale della loro visita è sottolineato
dalla maniera in cui, ogni volta, uno di loro reca un oggetto di culto,
un libro di preghiere, uno scialle ricamato o qualche altra cosa dal
significato inafferrabile per i miei occhi profani. Gli ebrei
commemorano un esodo avvenuto quasi tremila anni fa. Ma essi sono così
presenti sulla scena culturale, politica, e dei mass media –
specialmente in Nord America – che i loro lontani, mitici avvenimenti
riecheggiano continuamente sull’intero pianeta.
Ma a chi parlerò io del nostro passato?
Penso a mia madre e al rito domestico che per tutta la sua vita ha
sottolineato, a ogni Pasqua, l’eterno legame con la martoriata Istria:
la preparazione della modesta «pinza», il nostro rustico panettone
pasquale, simbolo di un mondo antico per sempre frantumato dalla guerra
e dall’esodo. Si era fatta vecchia e stanca mia madre. Non voleva
neanche più leggere il «Notiziario pisinoto», che tiene uniti tutti i
pisinoti dell’esodo. L’ultima volta aveva declinato di dargli anche un
solo sguardo. Si era schermita, dispiaciuta di deludere la mia ansia di
sapere chi fosse quel pisinoto di cui era annunciata la morte, o
quell’altro, autore di un articolo di rimembranze, e a chi fossero
appartenuti i volti in certe vecchie fotografie che il Notiziario
pubblicava come testimonianza del nostro lontano,imprescindibile
passato. «Claudio, mi fa così male guardare indietro, pensare a tutto
quello che è successo alla nostra Istria, e a tutti noi, finitì così
lontani gli uni dagli altri». Non avevo insistito, perché la capivo. Del
resto, a me stesso per tanti anni era mancata la forza di approfondire
il passato così doloroso che ci avvolgeva con le sue spire, e che
suscitava in me mille domande. A quel passato io pensavo continuamente,
ma avevo sempre preferito rinviare al domani certe domande che premevano
dentro di me, facendomi male. Domande su periodi, persone, episodi,
momenti. Pisino e i suoi giorni solari e i suoi giorni bui erano sempre
presenti in casa nostra. I miei ne parlavano ogni giorno. Pisino e
l’Istria tornavano sempre, spontaneamente, come tornano le cose
interiorizzate divenute parte ormai dell’anima. Come torna a dei
genitori vecchi la vivida memoria del figlio morto bambino.
Io ero il testimone muto di una storia
che era riecheggiata un numero infinito di volte in me, e che per un
eccesso di sensibilità, e per un senso forse poco comune di lealtà e di
fedeltà, era diventata il mio passato. Io ero finito al centro di quella
storia, di quella sconfitta, di quell’esodo.
Vi ero finito senza alcun
autocompiacimento morboso, senza «sensibleries» estetico-letterarie, ma
per un dovere innato di fedeltà e di lealtà, simile forse a quello che
sanno avere i soldati, figli di soldati, nei confronti della bandiera e
dei confini della patria. E dico questo consapevole che sto toccando un
tasto che, in Italia, teatro della messinscena, delle belle uniformi e
dei toni roboanti, si presta, purtroppo, alla retorica.
Con la nascita di mio figlio, avuto in
età già matura, mi ero sentito più forte ed avevo cominciato ad
approfondire certi aspetti di quel passato che mi aveva sempre
posseduto, e che io avevo sempre temuto come cosa con cui bisognava
cercare di tenere una minima distanza, per non finire come mio padre,
sopraffatto per il resto della vita dal trauma di quei giorni. A mio
padre avrei voluto chiedere tante cose. Sulla sua vita di economo al
convitto Fabio Filzi, su suo padre, orefice, e sui momenti più
drammatici della nostra fuga dall’Istria. Sui giorni bui, quando si era
tenuto nascosto per non essere preso ed eliminato dai titini. E sui suoi
amici infoibati e sulla nostra gente dispersa. Ma mi dicevo: sarà per
un’altra volta. Non mi sentivo abbastanza forte per chiarire, in queste
memorie di disperazione, dubbi, e trovare una risposta alle
interrogazioni che più premevano in me. Mai mi sono sentito abbastanza
forte, e mio padre è morto lontano dalla sua Pisino. È morto in un luogo
in fondo assurdo: Baie d’Urfé, Québec, Canada. Località bella sì ma
assurda, com’è assurda una vita trascorsa senza avere più radici, in un
Paese di cui non si conosce la lingua, tenendo dentro di sé uno
spasmodico amore per un luogo perduto per sempre, le cui tenere tinte
delle memorie d’infanzia sono commiste ai colori violenti del sangue e
della morte. «Questa è l’ultima volta che preparo le pinze. Le voglio
fare anche quest’anno. Ci vuole tanto lavoro. Ma senza pinze non mi
sembrerebbe Pasqua». Io sapevo già che anche questa volta mia madre le
avrebbe fatte. Sapevo che le avrebbe preparate fino alla morte, la morte
fisica, perché una certa morte era già avvenuta tanti anni prima, con la
perdita del bene più caro per la nostra razza di frontiera: il suolo
natale. Quell’anno mia madre non fece le pinze. E morì nel gennaio
successivo. Ma chi conosce le nostre pinze? Le nostre povere pinze,
senza glamour, che non saranno mai celebrate né da Hollywood né da
Cinecittà. Non le conosce neppure mia moglie, nata in Asia, in un
villaggio agli antipodi della nostra Pisino. Non le conoscono i miei
parenti acquisiti. Non le conoscono né i miei colleghi né i miei
conoscenti. Non le conoscono i miei amici. Non le conoscerà mai mio
figlio. Vedendo quei nuclei di ebrei, da cui emana il profumo delle
tradizioni e lo spirito gioioso della festa in cui i bambini sono dei
re, io penso all’ illusione del globalismo e della mondializzazione.
Chi, per le vicende della vita, si è spinto
oltre i confini di quell’ identità che era sancita da riti secolari,
feste, ricorrenze, dialetto, piatti ipici, abitudini, si è accorto, con
il passare degli anni, di aver perso un esoro. La sua identità
originaria si è rarefatta, trovando posto in una nuova identità, forse
più ampia, ma tormentata, più incerta ed incolore. È in fondo ciò che
avviene alle cucine «internazionali», blando riflesso dei sapori delle
cucine locali, saporose, senza incertezze, sicure. Lo sradicamento è una
partenza senza ritorno.
Claudio Antonelli (Antonaz)
Montreal, ON, Canada |