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Vista del
Silurifico Whitehead dal mare, Fiume - circa 1935. |
Un po' di Fiume sulla luna
Aldo
Paladin Nel 1948
lasciai Fiume, mia città natale, i miei familiari, i miei amici, la mia
casa e anche mia moglie, per non essere soggetto all'opprimente sistema
comunista della Jugoslavia d'allora.
A Fiume lavoravo al
silurificio Whitehead come operaio specializzato nel reparto di
manutenzione della ditta. Allo stesso tempo ero anche istruttore degli
apprendisti tornitori e fresatori dei quali la Jugoslavia aveva tanto
bisogno. Mi promisero mari e monti, se fossi rimasto. Dissi invece che
ero giovane e che avevo il desiderio di vedere il mondo. Per punirmi
rifiutarono il visto a mia moglie per più di due anni. In Italia, a
Genova, avevo la zia che mi prese in casa e con l'aiuto dei cugini ebbi
la fortuna di trovare dopo poco un lavoro, anche se saltuario, come
meccanico in un cantiere navale. Mia moglie mi raggiunse nel 1950. Nel
frattempo avevo trovato un lavoro migliore e stabile in un'altra azienda
genovese, dove lavorai per quasi sei anni. Purtroppo per alcuni errori
della nuova amministrazione, l'impresa fallì e io persi il lavoro.
Mia moglie mi convinse che negli Stati Uniti
avremmo avuto più opportunità di migliorare le nostre condizioni. Fatta la
domanda, fummo dopo pochi mesi accettati e partimmo nel settembre del 1956 dal
porto di Bremenhaven in Germania per la "terra promessa". Non mi dilungo sulle
nostre peripezie durante la lunga odissea nel campo di smistamento e nel
viaggio. Migliaia d'altri emigranti passarono le stesse esperienze e non farei
altro che ripeterle.
L'IRO ci aveva promesso casa e lavoro negli Stati
Uniti. Arrivati a Boston, nel Massachussets, dopo altre disavventure, fummo
accompagnati a South Boston, in una soffitta al quarto piano d'una casa di legno
che stava in piedi per miracolo e che avrebbe potuto diventare un rogo in pochi
minuti per un fiammifero. Di lavoro neanche l'ombra. Tante promesse, ma dopo un
mese ancora niente. I pochi soldi che avevamo si dileguavano come neve al sole.
Decisi che non potevo aspettarmi nessun aiuto e mi detti da fare. Dopo due
giorni trovai un posto come aiutante di cucina all'hotel "Statler", uno dei più
famosi del mondo. La paga era poca, 90 centesimi all'ora, il lavoro duro ma
sempre meglio di niente. Per fortuna dopo tre settimane fui assunto come
aiutante macchinista in un'azienda elettronica e lasciai senza rimpianto la
cucina dello "Statler Hotel".
Quale mio primo lavoro mi portarono davanti a un
tornio a torretta che faceva lavori ripetitivi. Dopo una breve spiegazione,
cominciai a produrre speciali pezzi di macchina in quantità. Passati un paio di
giorni, decisi che il loro sistema di lavorazione era antiquato e chiesi il
permesso di migliorarlo per aumentare la produzione. Un po' stupito, il capo
reparto andò a consultarsi con il padrone che diede il suo benestare alla mia
innovazione. La produzione aumentò del 100 % e la mia paga aumentò di circa 50
centesimi all'ora. Guadagnavo nel mio nuovo lavoro quasi tre volte di più di
quello che guadagnavo lavorando in cucina. Alcuni mesi dopo mi chiesero se sarei
stato contento di cambiare e d'andare a lavorare nel reparto innovazioni ed
esperimenti. Naturalmente con una paga molto più alta. Un'offerta che non potevo
rifiutare.
A quel tempo l'azienda lavorava per il
"Massachussets Institute of Technology", che era ed è tuttora uno dei migliori
Istituti tecnici del mondo, ed anche per la colossale azienda elettronica
"Raytheon", che divenne famosa durante la guerra contro Saddam Hussein per i
suoi "Patriot" antimissili che neutralizzarono i missili "Scud" lanciati
dall'Irak. Qualcuno è nato per essere un pianista, o pittore, o scultore e così
via. Si vede che io sono nato per essere un "Tool e Pattern Maker"
d'esperimenti. Dopo poco tempo divenni il migliore macchinista del reparto e a
me vennero assegnati i più difficili lavori di innovazione che le due suddette
ditte realizzavano per la NASA e per il programma spaziale del tempo. Non avevo
idea di dove andassero o a che scopo servissero la maggior parte dei prototipi
che producevo. Sapevo che erano lavori speciali perché dopo poco tempo l'FBI
s'accorse che non ero un cittadino americano e la mia azienda dovette
urgentemente naturalizzarmi per poter farmi continuare a lavorare per la NASA.
Lavorai negli USA fino al 1969. Poi, per ragioni familiari, venni a stabilirmi
qui in Australia. Altra lunga storia che è meglio sorvolare. Ad ogni modo, dopo
un paio d'anni, aprii un negozio di macchinari per la lavorazione del legno e di
utensili elettrici. L'azienda prosperò e la vendetti con un buon profitto nel
1986. Decidemmo di fare un giro del mondo per andare a trovare i tanti familiari
ed amici che abbiamo sia in Italia che negli USA.
A Washington, durante una visita allo
"Smithsonian Museum" dell'Aereonautica e dello Spazio, la guida, fra tutte le
meravigliose macchine là esposte, ci indicò anche la capsula lunare dalla quale
l'astronauta Armstrong scese per fare il piccolo passo che lo portò sulla
superficie lunare, "un grande passo per l'umanità", come lui lo descrisse. Non
si può immaginare la mia sorpresa quando vidi che l'interno della capsula
spaziale era pieno di progetti che io avevo costruito con le mie mani.
Giroscopio, comandi, consolle per il computer, pompe, apparati idraulici,
speciali interruttori che brillavano quando qualche parte del sistema non
funzionava bene e così via. Provai una grande soddisfazione, perché non tutti
possono vantarsi di aver creato parte degli oggetti che portarono il primo uomo
sul nostro satellite e che funzionarono bene, dato che tutti ritornarono
incolumi giù a terra. Mostrai a mia moglie quello che avevo costruito alcuni
anni fa; lei non poté resistere e mi imbarazzò mostrando agli altri visitatori i
lavori che avevo fatto. Come vedete, anche noi giuliani abbiamo fatto la nostra
parte nella conquista dello spazio.
Cinquant'anni fa ero un profugo appena sposato,
sbattuto fuori dalla mia patria, dal mio lavoro, lontano dalla famiglia e dagli
amici, senza soldi e senza nessuna prospettiva per un avvenire migliore.
Soltanto la speranza di poter ricostruire la vita o nell'Italia distrutta o come
emigrante all'estero. Il mio sogno, poi avveratosi, era di emigrare in America.
Dopo tante lotte, tante battaglie e tante peripezie mi ritrovo oggidì,
settantantottenne, in Australia. Lavorando duramente prima, impiegano
diligentemente i miei risparmi in una piccola azienda commerciale ed investendo
i profitti con accortezza, mi trovo oggi in una posizione privilegiata al
confronto di tanti altri. Abbiamo una bella casa con tutte le convenienze, un
grande giardino, l'automobile. Fino a ieri avevamo un'importante proprietà
vicino al più grande lago del Victoria. Un reddito più che sufficiente per
vivere, una bella famiglia e dei buoni amici. Dovrei essere più che contento,
invece qualcosa mi manca, probabilmente soffro di nostalgia per i bei tempi
lontani.
Aldo Paladin
Note biografiche del redattore:
Aldo Paladin, esule fiumano, dapprima residente
negli Stati Uniti, poi trasferitosi in Australia, oggi residente a Melbourne, è
uno dei tanti nostri concittadini che, nonostante le tristi e difficili
vicissitudini dell'esodo, è riuscito a rifarsi in seguito una vita e all'estero
una carriera più che invidiabile. Qualcuno tra i fiumani che hanno frequentato
nel periodo dell'anteguerra la scuola elementare "Emma Brentari" si ricorderà
probabilmente di lui. Da ragazzo, prima di lasciare la sua Fiume, era amico di
Egidio Cossi. Ricorda anche un certo Bercovich.
Aldo Paladin, generazione 1924, emigrato in
Australia nel 1969, è uno dei molti esuli che hanno contribuito,
attingendo ai propri ricordi, ad arricchire di contenuti il volume "Giuliano
dalmati in Australia - Contributi e testimonianze per una storia", pubblicato a
cura di Gianfranco Cresciani, dall'Associazione Giuliani nel mondo nel 1999. Da
lui, che tra il 1955 ed il 1999 fu anche presidente dell'Associazione "Città di
Fiume" e in seguito (dal 1997 al 1998) tesoriere della Federazione dei Circoli
giuliano dalmati dell'Australia, abbiamo ottenuto la gentile concessione di
pubblicare questo suo bel racconto. Prima di emigrare in Australia Aldo
Paladin, che a Fiume fu dipendente del silurificio "Whitehead", lavorò negli
Stati Uniti d'America per l'industria spaziale americana e per la NASA. É anche
autore di numerosi articoli che ha pubblicato, tutti riguardanti la sua Fiume.
Roberto Palisca
Tratto
da:
- Testo - Roberto Palisca (estratto di
Aldo Paladin), "Un po' di Fiume sulla luna", La Voce del Popolo,
Speciale, 3 agosto 2002 (Rijeka, 2002) -
http://www.edit.hr/lavoce/020803/speciale.htm
- Fotografia - Site dedicated to
Whitehead Torpedo technology from 1860 to 1936 - Silurificio
Whitehead di Fiume (English) -
http://comunidad.ciudad.com.ar/argentina/capital_federal/cldwch/
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