Prefazione da
L'Austria era un paese ordinato
Vittorio G. Rossi
Vittorio G. Rossi è stato un grande
scrittore di viaggi, e questa è la prefazione che lo scrittore fece dal
libro di Carpinteri e Faraguna, L'Austria era un paese ordinato, dalla
Cittadella nel 1976. Egli era giunto a Trieste, bersagliere, nel 1918.
Interessanti le sue considerazioni. Un italiano di allora, analizza
quanto accaduto.
Pietro Valente
C’è un proverbio ligure che dice, “in
tempo di guerra, più bugie che terra”; forse non è un proverbio ligure,
è di tutti; ma nel mio dialetto è detto con parole volgari; fa più
effetto. Quando si combatte, non si sa mai contro chi si combatte; il
nemico è un fantasma; lo hanno fatto diventare un fantasma grande,
potente, pieno di virtù di tutte le specie; oppure piccolo, meschino,
trascurabile, pieno di vizi e corruzioni, fragile, da battere in pochi
giorni, forse in poche ore. Noi
nella nostra storia ci siamo sempre fabbricati nemici vermi, da
schiacciare con un piede; per questo sono state più le volte che le
abbiamo prese, che non le volte che le abbiamo date. Quando sbarcai a
Trieste, scoppiavo dalla gioia: La guerra era finita; avevamo vinto;
Trieste era nostra; io ero a Trieste; e avevo gli anni che allora
bastava averli per scoppiare dalla gioia; adesso non basta più niente
per scoppiare dalla gioia. Dalla
natura io ho avuto alcuni regali importanti; e uno è quello di vedere le
cose come se fossero cose semplici; così nel mio mestiere posso capire
quasi subito dove sono, e quello che mi sta succedendo intorno. Allora
facevo un altro mestiere; facevo il guerriero di mestiere; ma quello di
vedere le cose come se fossero cose semplici, era un bel regalo anche
facendo quel mestiere. Dopo qualche giorno che ero sbarcato a Trieste,
capii qualcosa che mi fece vergognare fino alle radici dei capelli. Mi
sentii ridicolo storicamente; io non c’entravo, o pochissimo; non avevo
fatto quasi niente per diventare storicamente ridicolo. Noi abbiamo
sempre fatto la storia con le canzonette; e quando uno è dentro una
storia che si sta facendo, è come dentro un’epidemia; è travolto; la
storia o un’epidemia riguarda tutti, nessuno può sottrarsi.
Credevamo di fare una piccola correzione alla geografia; ma di portare a
Trieste una cesta di primizie di un frutto mai visto da nessuno, mai
mangiato da nessuno. Poi
sbarcando a Trieste, avevamo trovato una città con una civiltà molto più
moderna della nostra; e molto più colta, più volenterosa di cultura; e
più dentro l’Europa, più mescolata con essa; e più fornita di buona
educazione; e la buona educazione è una cosa di cui non si parla mai
nella storia, come se la storia fosse fatta solo dai maleducati; invece
la buona educazione è molto più importante di altre cose di cui si parla
sempre nella storia. Ci avevano
fabbricato un’Austria marcia, pronta a sfasciarsi al primo urto nostro;
governata da un vecchio imbecille, chiamato per dispregio Cecco Beppe.
Avevamo trovato e distrutto, un’amministrazione della cosa pubblica
ammirabile; pedante come le poche amministrazioni pubbliche ammirabili
che ci sono al mondo; scrupolosamente onesta; scrupolosamente rispettosa
del cittadino e dei suoi diritti scritti; rispettata da tutti appunto
per questo, cioè non per paura ma per fiducia e spontanea riverenza;
un’amministrazione della giustizia piena di giustizia per tutti; il
pagatore di tasse considerato non un limone da spremere e un
delinquente, ma uno che lavora anche per mantenere lo Stato; ed ha la
sua dignità d’uomo. Avevamo scoperto che esisteva, cioè era esistito
fino allora, uno Stato dove genti di numerose nazionalità e lingue e
civiltà e religioni diverse convivevano senza amarsi; ma solidali e
concordi a fare un lavoro solidale e concorde.
E quando c’erano i sanguinosi combattimenti, pochi da noi si domandavano
com’era quella storia; un impero descritto come una vecchi carriola, e
aveva soldati di tutte le razze e civiltà diverse, che combattevano
insieme come demoni; e quando avevano smesso di combattere, era perché
avevano avuto l’ordine di smettere; ed era perché il blocco marittimo
aveva costretto le popolazioni al pane K o pane di patate, ai vestiti di
carta, agli zoccoli invece delle scarpe. E il vecchio imperatore portava
sulla mano il vecchio impero, come i santi che nei quadri dei santi
portano sulla mano una chiesa; e quella mano del vecchio imperatore era
carica di dolori; ma ancora si batteva non con gli uomini ma con
l’inesorabile destino. I nostri
governanti dicevano che non si poteva fare l’Europa, se non si
distruggeva quell’impero; e questo è stato fatto, e si sono visti, e
ancora si vedono, i risultati. Ma i nostri governanti facevano il loro
rifornimento di idee dagli intellettuali; gente raccomandabile per tutti
gli usi. Qualche anno dopo il
nostro arrivo a Trieste, ci mandarono a mare largo a visitare i bragozzi
da pesca, e vedere se avevano le carte in regola. Un giorno fermammo un
bragozzo di Chioggia; come tanti altri non aveva le carte in regola; da
bordo cominciarono a gridare, “andremo dal nostro console a Trieste”;
credevano che a Trieste ci fosse ancora il console d’Italia, cioè ci
fosse ancora l’Austria. Avevano la bandiera italiana da guerra
sventolante davanti ai loro occhi, per essi a Trieste c’era ancora
l’Austria; per essi l’Austria era qualcosa di stabile, indistruttibile.
Erano pescatori; i nostri governanti avevano dell’Austria un’idea più
infantile.
Io ho passato anni a Trieste e Pola e in
mare lungo le coste e le isole dell’Istria e della Dalmazia; conosco
quei dialetti; come se ancora sentissi quelle voci, quell’umore popolare
che non c’è in nessuna parte d’Italia; forse fatto da un’esperienza che
loro hanno avuto, e nessuna altra parte d’Italia ha avuto; ed è
l’incontro e lunga convivenza di tre grandi civiltà; e la musica
ineguagliabile di quei dialetti, una delle cose più dolci ed argute che
siano in bocca d’uomo.
Vittorio G. Rossi
[courtesia di Pietro Valente] |