Una cattiva
ricetta italiana
La sindrome di Carosello
di Giancarlo Livraghi
[Tratto da:
http://www.gandalf.it/m/carosell.htm / Questo testo è tratto, con piccole modifiche, dal
capitolo 6 del Nuovo libro della pubblicità
- http://www.gandalf.it/coltiv/altro.htm.]
Carosello,
ormai, è storia antica; anche se gli italiani che hanno più di trent’anni anni
lo ricordano come parte della loro infanzia. Ma gli effetti di quella strana
formula si fanno sentire ancora oggi, spesso producendo forme di
pubblicità che forse sono divertenti (o almeno così pensa chi le fa) ma hanno
scarsa attinenza con la marca e con il prodotto di cui dovrebbero trasmettere i
valori e la promessa.
"Carosello" è un
curioso fenomeno, che non è mai esistito in alcun altro paese del mondo. Di
quello strano meccanismo sono sempre stato nemico. Quando, più di vent’anni fa,
finalmente scomparve, ero negli Stati Uniti. Avrei preferito essere qui a
festeggiare.
Quando esisteva
ancora, un giornalista intelligente mi chiese:
"Ma se lei è così contrario a Carosello, perché ci tiene tanto ad averne il
più possibile?" Gli risposi:
"Semplice. È un ingiusto privilegio. Come
cittadino, devo chiederne l’abolizione. Ma finché c’è è mio dovere fare tutto
ciò che posso perché l’abbiano i miei clienti".
Carosello è
durato vent’anni. Un’intera generazione di italiani lo ricorda con affetto, come
il compagno dell’infanzia. La mia opinione è che la RAI avrebbe dovuto produrre,
per conto suo, uno spettacolino serale, divertente ed educativo, per "mettere a
letto i bambini". Non le mancavano certo i mezzi per farlo; e se lo avesse fatto
bene sarebbe ancora oggi un appuntamento fisso per le famiglie di tutta Italia.
Pare, invece, che quel compito sia passato ai Puffi.
In realtà tutta
questa vicenda nacque da un compromesso ipocrita e contorto. La RAI temeva le
critiche per il fatto che aveva il canone, e in più voleva anche la pubblicità.
Temeva soprattutto la potente lobby degli editori di giornali, la FIEG, che
odiava allora, come odia oggi, la pubblicità televisiva.
Voleva anche
assecondare un’altra potente lobby, quella delle case di produzione
cinematografica, creando un meccanismo che facesse entrare un po’ di soldi nelle
loro labili casse.
L’idea iniziale
era che la produzione dei film fosse controllata dalla RAI, cioè che pensasse la
SACIS a produrre, o a far produrre da Cinecittà, una serie di filmini, cui poi
sarebbero stati "attaccati" messaggi pubblicitari. Ma presto si resero conto che
produrre 120 film al mese, e poi dover discutere con gli utenti e con le loro
agenzie sulla qualità dei film cui era collegata la loro pubblicità, era
un’impresa esageratamente complessa. E così decisero di scaricare il barile a
noi.
Pensavano di
chiamare il programma "Luna Park" e di usare come sigla la "marcia dei
gladiatori", cioè quella musica che accompagna l’entrata dei pagliacci nel
circo. Riuscimmo a convincere la RAI che bisognava trattare la pubblicità in
modo magari allegro, ma con meno disprezzo; così nacquero i siparietti e la
musica che tutti conosciamo (anche i giovanissimi, perché ogni tanto qualche
nostalgico ripropone un po’ di antiquariato).
La SACIS da
organizzazione produttiva si trasformò in censore. Aveva potere assoluto di
censura preventiva (in realtà ce l’ha ancora, ma la concorrenza sul mercato ha
reso le sue regole molto più flessibili). Dovemmo tutti sviluppare una nuova
arte, quella di negoziare con la SACIS. Le regole erano infinite,
complicatissime, e in buona parte non scritte. Ogni volta che un prelato, un
politico, un giornalista o qualche altra "autorità" criticava qualcosa, nasceva
un nuovo divieto. Per fortuna ci furono sempre in SACIS persone ragionevoli, con
le quali pazientemente si riusciva a trovare un’intesa; ma i negoziati erano un
capolavoro di bizantinismo. E se pensiamo che la parte pubblicitaria (il
cosiddetto "codino") poteva rimanere uguale, ma nei primi anni ogni "carosello"
andava in onda una volta sola, per cui occorreva produrre un numero enorme di
film diversi, l’impresa era davvero complessa.
Erano i tempi in
cui alla RAI si poteva dire aquila, piccione, canarino, eccetera, ma non
"uccello" ("passero", rigorosamente al maschile). Un giorno bocciarono un
comunicato radio, per un succo di frutta, perché non ci permettevano di dire "il
buon sapore della natura". Nel caso di un lassativo, ci vietarono di usare la
parola "intestino", e ci costrinsero a dire "regola l’organismo": con il
rischio, abbastanza reale, che qualcuno comprasse e usasse il prodotto per una
funzione diversa da quella cui era destinato.
Fra le mille
complicate regole RAI ce n’era, per esempio, una che stabiliva quante volte si
poteva dire il nome del prodotto (non solo nei "caroselli" ma anche nei normali
comunicati televisivi o radiofonici). Un buffo risultato è che se il numero di
"citazioni" era inferiore al massimo consentito spesso il cliente se ne
lamentava, sentendosi in qualche modo privato di un suo diritto, ed era
difficile convincerlo che la citazione in più era inutile e pleonastica in quel
particolare messaggio.
La battaglia per avere uno "spettacolo" che fosse
in qualche modo attinente al prodotto era continua, e talvolta bizantina.
Ricordo, per
esempio, una serie di "caroselli" per una marca di macchine per ufficio, basate
su una segretaria di straordinaria intelligenza e umanità, che risolveva con
gusto e buon senso ogni sorta di problemi (un’idealizzazione di persone che per
fortuna esistono davvero, e sono preziosissime). Ovviamente le storie si
svolgevano in un ufficio. La SACIS disse che nella parte "spettacolo" non
potevano essere visibili le nostre macchine da scrivere. Alla domanda "ma com’è
possibile?" risposero con nochalance "metteteci quelle della concorrenza".
Girammo i film con una serie di acrobazie per "far sentire" la presenza delle
macchine da scrivere senza inquadrarle. Ma la SACIS non si era accorta che il
nostro cliente faceva anche mobili per ufficio, che naturalmente erano sempre
ben visibili in tutta la serie. Lo facemmo più per beffa che per utilità; ciò
che ci interessava davvero non era mostrare i mobili, ma collocarci in un
terreno attinente al prodotto che volevamo proporre.
Molti ottimi
"caroselli" furono realizzati senza bisogno di attori famosi. Anzi alcuni, che
cominciarono con Carosello, ebbero poi una brillante carriera. La giovane, e
allora sconosciuta, protagonista di una nostra serie di "caroselli" per la
Coca-Cola si chiamava
Laura Antonelli.
Ma fin dal primo
giorno partì il grido: "Ci vogliono le star!" Non avevo alcuna esperienza in
materia, ma decisi che era meglio mettersi in azione. La coppia di maggior
successo in televisione a quell’epoca era Tognazzi e Vianello. Riuscimmo ad
anticipare i nostri concorrenti e scritturarli tutti e due, per una cifra che
poteva sembrare alta rispetto a quanto guadagnava normalmente un attore, ma che
si rivelò presto piuttosto piccola rispetto a un mercato improvvisamente
impazzito. Ugo Tognazzi per un po’ fece buon viso a cattivo gioco, ma poi
divenne molto cagionevole di salute. Investiti da una raffica di certificati
medici, fummo costretti a "ritoccare" il suo compenso, che tuttavia era sempre
modesto rispetto alla follia che nel frattempo si era scatenata.
Lavorare con le
"star" non è facile. Fra le cose da imparare ci fu anche come vivere con i loro
capricci. Una mattina Ornella Vanoni, protagonista di una nostra serie di
"caroselli" per Martini, arrivò sul set con due ore di ritardo, distratta,
scarmigliata e con la faccia stravolta. Al regista che si lamentava del tempo
perso da tutta la troupe, e di quanto ancora avrebbe dovuto perderne al trucco
per correggere le occhiaie, disse sibilante "Io ho scopato tutta la notte, e
tu?".
Mina è una delle
persone più simpatiche e divertenti che io abbia mai incontrato. Ma anche lei ha
un discreto caratterino. Aveva fatto una serie di "caroselli" per la pasta
Barilla. Trovare un nesso fra un personaggio come Mina e la pasta non era facile
(nella sua vita privata è una buongustaia e un’ottima cuoca, ma si trattava
della sua immagine televisiva). Miracolosamente, ci riuscimmo. Aveva promesso
anche di partecipare a un grande convegno di vendita; ma all’ultimo momento ci
piantò in asso. Pare che si fosse seccata perché qualcuno voleva darle un
consiglio sul suo abbigliamento o sulla sua pettinatura.
Non era affatto
vero che ci volessero le "star". Carosello, collocato in un orario di massimo
ascolto, divenne presto un appuntamento fisso per le famiglie italiane. Lo
vedevano tutti, che ci fossero le "star" o no. L’arte sottile era fare uno
spettacolo gradevole, ma non uno spettacolo "qualsiasi"; qualcosa che creasse le
premesse giuste per il messaggio, che lavorasse per la marca; nel rispetto delle
rigidissime regole SACIS che vietavano ogni presenza del prodotto o della marca
fuori dal "codino" o da brevissimi spazi definiti da norme complicatissime
quanto inviolabili. Si dovevano verificare i dettagli con un cronometro di
precisione; o meglio, contare i fotogrammi.
C’è una
vastissima letteratura su Carosello, una ridda di celebrazioni nostalgiche, ma
nessuno si è mai occupato di verificare quali campagne abbiano davvero
funzionato. Se un giorno quell’analisi sarà fatta, si scoprirà quante marche
hanno sprecato miseramente l’occasione offerta da una "posizione" televisiva
così dominante. Molti personaggi, umani o disegnati, che ricordiamo con affetto,
come favole dell’infanzia, furono gli incolpevoli testimoni del fallimento
pubblicitario e commerciale delle marche che rappresentavano.
Usato bene,
naturalmente, Carosello era un’arma potentissima, se non altro per le grandi
"masse di ascolto" che aveva ogni sera e perché non aveva concorrenza. Nei primi
anni la pubblicità televisiva in Italia era solo "carosello". O si imparava a
usare bene quel bizzarro strumento, o non si andava in televisione.
Troppi badarono
allo "spettacolo" e dimenticarono il messaggio. Con il risultato che le loro
marche non ne trassero alcun beneficio, e in alcuni casi riuscirono a farsi
parecchi danni.
Per quanto
cerchi di sforzare la memoria, non riesco a ricordare quale fosse il prodotto
che veniva "in coda" alle avventure di Mammut, Babbut e Figliut. O a quale
dimenticato prodotto (credo tessile) facesse la guardia, coi suoi du’ metri de
torace, Caio Gregorio, er Guardiano der Pretorio. Eccetera... Molte di quelle
marche, di cui affettuosi archeologi ripropongono i "caroselli" in qualche
trasmissione notturna, sono morte. Altre no, ma mi sono trovato al loro
capezzale dopo anni di "cattiva terapia carosello" e vi assicuro che non stavano
affatto bene.
Accadevano cose
incredibili. C’erano mercanti di caroselli, che andavano in giro con grossi
pacchi di sceneggiature "generiche", non riferite ad alcun prodotto o categoria
merceologica. L’ultima pagina diceva semplicemente "segue codino". Erano
operazioni a costo zero: dicevano agli autori "tu scrivimi qualcosa, se la
comprano ti pago". E naturalmente li abbindolavano facendo credere di avere
sottomano grandi e meravigliosi clienti che non avevano mai visto né conosciuto.
Forse il più
famoso personaggio di carosello è Calimero, il pulcino nero, che è stato oggetto
di dotte analisi da parte di tutta una schiera di psicologi e pedagoghi. Pochi
sanno che il magico pulcino diede uno scarsissimo contributo all’identità di
marca del detersivo Ava, che sul piano della comunicazione e del mercato fu
pesantemente sconfitto dai suoi concorrenti, anche se con campagne meno famose.
La Mira Lanza vendeva abbastanza bene non per merito della pubblicità, ma di
pesantissime promozioni nei negozi, agganciate a una raccolta di "figurine".
Chiunque avesse i dati di mercato poteva facilmente constatare che dove c’erano
le promozioni i suoi prodotti guadagnavano quota, e altrove no.
Non resisto alla
tentazione di raccontare un aneddoto. Nel 1974 stavo partendo per gli Stati
Uniti. Venne da me Nino Pagot, l’autore di Calimero, e mi spiegò che aveva
ceduto alla Mira Lanza i diritti per l’Italia, ma non per il resto del mondo; e
mi chiese se potevo aiutarlo a vendere il suo ricco magazzino di storie di
Calimero a qualche rete americana, come puro spettacolo, non come pubblicità. A
parte il fatto che avrebbe dovuto rifare tutto a colori, ci misi un po’ di tempo
a far capire all’ingenuo Pagot quali conflitti avrebbe scatenato negli Stati
Uniti la storia di un pulcino disprezzato da tutti perché è uno "sporco nero",
che poi diventa buono e fortunato perché è "bianco".
Ma la storia
triste è che per vent’anni molti italiani, specialmente nelle case di
produzione, crogiolandosi nei caroselli persero l’occasione di imparare come si
fa davvero la pubblicità televisiva. Una delle conseguenze è l’uso così
frequente, per la realizzazione di film italiani, di registi stranieri.
La ventennale
vicenda di Carosello fu davvero strana. Perversa, ma talvolta divertente. Il
problema è che non è finita. È rimasta nel sangue di molti italiani, che si
occupano di pubblicità, la percezione che "fare televisione" voglia dire
raccontare una storia qualsiasi e poi appiccicarci un "codino". C’è chi cerca di
fare "caroselli" sulla stampa, o in un’affissione – o addiritura nell’internet.
Bisognerà capire una volta per tutte che questo non è uno dei modi fondamentali
di fare pubblicità, o più in generale comunicazione. È soltanto una cattiva
abitudine.
Giancarlo
Livraghi – gian@gandalf.it |