Abstract
The history of Istria was at the turn of the 6th century, i.e. in 599
when bishop is referred to for the very first time on the so-called Capricorn
Island (Koper/Capodistria), marked by
the following three major processes: the increased arrival of refugees fleeing
from the Avars and Slavs in the Pannonian-Noric territory, the incursions by the
Lombards, Avars and Slavs into the Istrian Peninsula, and the
Schism of the Three Chapters. After the
introductory overview of the ruling-administrative structures of Byzantine
Istria, all the three processes are dealt with in detail together with their
consequences, due to which the peninsula was struck by a deep crisis.
Durante la guerra per l'Italia fra bizantini ed Ostrogoti, l'Istria fu
occupata, probabilmente nel 539, dall'esercito di Costantinopoli. Nei primi
tempi della dominazione bizantina essa continuò, assieme alla Venetia, a formare
la decima provincia italiana (regio X Venetia et Histria), sino a quando i
Longobardi, che nel 568 occuparono tutta la Venetia ad eccezione delle lagune
costiere, posero definitiva fine all'ordinamento augusteo nell'Italia nord
orientale e, di conseguenza, alla provincia, che cessò di esistere, divisa fra
due stati. Allo stesso tempo scomparve un altro aspetto tipico dell'ordinamento
romano, risalente ancora agli imperatori Diocleziano e Costantino e cioè la
divisione fra potere militare e civile nelle province. Dalla metà degli anni
Ottanta del VI secolo, infatti, nell'Italia bizantina, il potere militare e
civile fu riunito nelle mani dell'esarca, che aveva sede a Ravenna e sotto la
cui giurisdizione si trovava anche l'Istria. Il potere nella provincia era
invece concentrato nelle mani del governatore, o magister militum Grecorum,
nominato dall'esarca e del quale si ha notizia per la prima volta già nel 599.
Dal magister militum dipendeva anche l'amministrazione civile, come appare
evidente dal Placito
del Risano del 804. Quasi sicuramente l'amministrazione provinciale aveva
sede a Pola, perché era qui, e non a
Cittanova, che gli alti dignitari
arrivavano ad incontrare il magister militum o i legati imperiali. Verso la fine
della dominazione bizantina in Istria, il magister militum era quasi sicuramente
un rappresentante dei Greci istriani e non una persona inviata dall'imperatore
di Costantinopoli. Nel periodo fra gli anni 814 e 821, Ludovico il Pio confermò
agli istriani le conclusioni del
Placito del Risano
ed il loro diritto di eleggere fra le proprie file, secondo l'antica
consuetudine, "rectorem et gubernatorem, patriarcham, episcopos, abbates seu
tribunos et reliquos ordines". Stando a quest'atto imperiale, si può dedurre
che, almeno nell'ultima fase della dominazione bizantina, i magister militum
erano funzionari eletti.
Nell'ordinamento dei temi, la concentrazione del potere civile nelle mani di
alti ufficiali era un fatto comune. Ma, diversamente dalla limitrofa Dalmazia,
che attorno all'anno 870 diventò un tema, l'Istria, a quanto sembra, non ebbe
mai questo status. Più probabilmente ebbe un ordinamento militare e civile
inferiore, come poteva essere, ad esempio un drungariato, un catapanato, un
ducato o un arcontato. Il nome Istria non compare nei documenti ufficiali
bizantini, ma essa sarebbe potuta essere una provincia, com'era il caso della
Venetia (provincia Venetiarum), con a capo un magister militum (sino al 727).
Questa struttura amministrativa di rango inferiore, aveva fatto si che in
Istria prendesse piede una divisione territoriale in città e castelli. Fra di
essi ed il magister militum non esisteva alcuna autorità intermedia e, di fatto,
la penisola era un'unione di città e castelli autonomi, che riconoscevano
l'autorità diretta del governatore e la sovranità formale dell'imperatore di
Costantinopoli. A guidare città e castelli si trovavano tribuni, domestici,
vicari e lociservatores. Esisteva poi l'assemblea provinciale (communio),
presieduta dal magister militum, che deliberava sulle questioni più importanti.
Possiamo in ogni modo arguire che questi incarichi, dai nomi così altisonanti,
erano riservati ad aristocratici locali e a burocrati imperiali, che
costituivano la classe politica ed economica dirigente, assieme ai dignitari
ecclesiastici – i vescovi. Non si sa tuttavia se quest'ordinamento, pervenuto
sino a noi soprattutto grazie al
Placito del Risano,
fosse in vigore già alla fine del VI secolo. C'è però da supporre che fosse
così, almeno nella maggioranza dei casi, se non in tutti, visto che le cariche
più importanti dell'amministrazione istriana, il magister militum ed il
tribunus, compaiono sia nelle lettere di Gregorio Magno della fine del VI
secolo, sia nel
Placito del Risano stesso.
L'occupazione longobarda della Venetia nel 568, avvenuta senza incontrare una
seria resistenza, non provocò solo la fine della "X Regio Italie" e più tardi,
nel 607, la divisione del patriarcato di
Aquileia in quello cattolico
bizantino di Grado e quello scismatico longobardo di
Aquileia, ma causò un grande esodo
di parte della popolazione. Fra gli esuli, la personalità di spicco fu senza
dubbio il patriarca Paolino, che si rifugiò nella bizantina Grado,
trasportandovi anche il tesoro della chiesa aquileiese. Ovviamente non va
esclusa la possibilità che una parte degli abitanti di Veneto e Friuli,
scappando dai Longobardi, si rifugiasse proprio nell'Istria bizantina, anche se
non esistono in merito dati certi. Ad avere maggiori conseguenze per l'Istria fu
invece lo stanziamento di Slavi ed Avari nella Pannonia e nel Norico, verso la
fine del VI secolo. Nelle nuove condizioni di pericolo per la proprietà e per la
stessa vita, molti abitanti autoctoni cercarono riparo in Italia, sia nel Friuli
longobardo, sia nell'Istria bizantina. Testimonianza diretta di questo processo
è la lettera inviata nel maggio del 599 da papa Gregorio Magno all'arcivescovo
di Ravenna Mariniano, con la quale, fra le altre cose, lo informa che al
castello Novas – oggi Cittanova – è
stato nominato vescovo un certo Giovanni, giunto dalla Pannonia (episcopus
quidam Johannes nomine de Pannoniis veniens fuerit constitutus). Sotto la sua
giurisdizione si trovavano anche gli abitanti dell'isola di Capris che, "quasi
per diocesim" era stata affidata a
Cittanova. Probabilmente Giovanni era stato in precedenza vescovo di Emona –
forse anche di Celea – ed era riparato in Istria assieme ai fedeli della
diocesi, davanti al pericolo costituito da Avari e Slavi. Oltre a quella di
Cittanova, anche la nascita delle
altre tre diocesi istriane, delle quali si ha notizia per la prima volta sul
finire del VI secolo (Capodistria,
Pedena e Cissa), potrebbe essere collegata all'arrivo dei profughi che, assieme
ai loro sacerdoti, avevano cercato rifugio nelle più sicure regioni costiere.
Parte dello stesso processo storico – l'occupazione longobarda dell'Italia e
quella avaro-slava dell'area pannonico-norica – che causò l'arrivo in Istria di
numerosi profughi, furono anche le incursioni di Longobardi, Avari e Slavi. Le
prime razzie ci furono nel 588, ad opera dei Longobardi di re Autari. Questa
guerra, voluta dal re, non era diretta solo contro il potere bizantino in Italia
ma anche in funzione di un consolidamento interno del potere reale di Pavia, in
opposizione ai duchi autonomisti, fra i quali un posto di primo piano spettava
al duca del Friuli, Grasulfo. Questi era probabilmente passato al servizio dei
bizantini con lo status di federato, rafforzando così la propria autonomia
politica nei confronti del re. Uno dei compiti di Grasulfo era, probabilmente,
quello di aiutare l'esarca ed i suoi ufficiali nella difesa dell'Istria (e del
confine orientale italiano) dagli attacchi di Avari e Slavi. Nel 602 ci fu una
nuova invasione dei Longobardi, questa volta alleati di Avari e Slavi. Si trattò
dell'attacco più terribile alla penisola, frutto degli interessi coordinati del
re longobardo Agilulfo e del kagan avaro, contemplati in ben tre trattati di
pace siglati fra i due (591/92, 596, 602). L'attacco coordinato era diretto
contro i bizantini e fece immediato seguito al trattato di "pace eterna" siglato
dagli inviati di Agilulfo con il kagan. Bisanzio non era, infatti, solo nemico
dei Longobardi, con i quali l'imperatore di Costantinopoli lottava per il
possesso dell'Italia in pratica dal 590, ma anche degli Avari, contro i quali
Maurizio era in guerra nei Balcani sin dal 592. Agilulfo aveva anche un altro
valido motivo per attaccare l'Istria: oltre Bisanzio, il re voleva, infatti,
colpire anche il duca Gisulfo II, figlio del già citato Grasulfo, che nel 590
era diventato a sua volta federato bizantino. La tomba di un cavaliere
longobardo, datata attorno all'anno 600, trovata a Bresaz, presso
Pinguente, con tutta l'attrezzatura e
le armi e che, per ricchezza e struttura dei reperti, può essere annoverata fra
i siti delle cosiddette "tombe principesche", lascia intendere che Gisulfo II
controllava, per conto dei bizantini, uno dei crocevia più importanti
dell'Istria settentrionale. Non è escluso persino che il duca combattesse quella
guerra dalla parte dell'imperatore. Già l'anno successivo (603) però Gisulfo II
si rappacificò con il suo re. Forse questo riavvicinamento avvenne anche in
seguito alla guerra mossa all'Istria dagli eserciti coalizzati, che dimostrò
tutta la vulnerabilità di questa parte del confine orientale italiano, stretta
fra le forze del re longobardo ad ovest e del kagan avaro ad est.
Gli Slavi minacciavano l'Istria già prima del 602, quando la invadono assieme
a Longobardi e Avari. In una lettera del 600, papa Gregorio Magno esprime
profondo turbamento a causa degli Slavi "quia per Histriae aditum iam ad Italiam
intrare coeperunt". Dalle sue parole si deduce che già alla fine del secolo essi
minacciavano il confine orientale dell'Italia, e quindi anche l'Istria
bizantina. Proprio alla penisola istriana faceva riferimento, molto
probabilmente, anche in una lettera precedente, inviata nel maggio 599
all'esarca Callinico di Ravenna, nella quale si congratulava per le vittorie
bizantine sugli Slavi. Gli storici concordano nel ritenere che le battaglie
avessero avuto luogo, molto probabilmente, da qualche parte in Istria.
Considerate la posizione geografica e le condizioni stradali dell'epoca è
ipotizzabile che gli scontri tra Slavi e Bizantini fossero avvenuti nella parte
settentrionale dell'Istria, o più precisamente nella zona nord orientale,
controllata dal numerus di Trieste e dei vicini castelli (Capodistria,
Pirano, Cittanova). Vittorie sugli
Slavi furono riportate sia dall'esarca, sia dalle truppe comandate dal magister
militum Gulfario, al quale il papa indirizza un ringraziamento per l’"opera
gloriosa", sia dalle locali milizie delle città e dei castelli. L'ultima
scorreria in Istria di cui si ha testimonianza è del 611 e in tale occasione gli
Slavi uccidono un gran numero di soldati e devastano la penisola. L'incursione
potrebbe essere legata all'invasione del Friuli da parte degli Avari, datata
solitamente nello stesso anno, nel corso della quale fu ucciso il duca del
Friuli Gisulfo II e incendiata la sua residenza – Cividale. Particolarmente
interessante è l'indicazione secondo la quale gli Slavi uccisero allora molti
soldati, milites. Con questo termine potrebbero essere intesi anche i limitanei
bizantini, ma la cosa non trova conferma nelle fonti istriane. A quei soldati
appartengono forse le necropoli del VII e VIII secolo, scoperte nei pressi dei
castelli di Pinguente,
Montona, Rozzo e Castello di
Visinada.
I primi insediamenti slavi in Istria vengono fatti risalire proprio a queste
invasioni. Secondo Milko Kos, la prima ondata di stanziamenti slavi,
attraversate le Porte di Postumia, giunse in Istria e sul Carso triestino
intorno all'anno 600, in un territorio che si estendeva sino al margine naturale
a sud dell'antica strada Tergeste – Tarsatica. La prima ondata superò questo
confine naturale solo verso occidente, dove nei pressi di Decani sarebbe giunta
sino al fiume Risano e, lungo l'antica strada che attraverso Covedo portava a
Pinguente, fino a S. Quirico. Secondo
Lujo Margetić, invece, gli Slavi che nello stesso periodo si insediarono in
Istria, giunsero da oriente, dalla direzione Tarsatica e
Castua (attraverso il
Monte Maggiore). Gli
insediamenti avrebbero interessato l'Istria interna attorno a Pedena e
Pisino, spingendosi a sud e ad ovest
all'incirca fino a Barbana, Canfanaro
e Antignana. L'area corrisponderebbe a quella del dialetto ciacavo arcaico. Le
conclusioni di Kos e Margetić non si escludono a vicenda, è assolutamente
plausibile, infatti, che a cavallo del VI e VII secolo l'Istria sia stata al
centro di due distinte ondate di insediamenti slavi, una proveniente da nord e
l'altra da est. La presenza in questo periodo degli Slavi in una parte
dell'Istria è confermata anche dal Liber pontificalis; da esso risulta, infatti,
che nel 641 o 642 papa Giovanni IV aveva inviato in Istria e Dalmazia l'abate
Martino con l'incarico di riscattare alcuni prigionieri presso le popolazioni
locali, ossia presso i pagani (gentes). Il pagamento di un riscatto a dei
barbari in Istria da parte dell'inviato papale può significare una cosa soltanto
e cioè che agli inizi degli anni Quaranta del VII secolo, una parte consistente
della penisola, quella in cui erano insediati gli Slavi (sotto la signoria degli
Avari?) era fuori dal controllo delle autorità bizantine.
Le difficili condizioni storiche dell'Istria a cavallo del VI e VII secolo
furono aggravate dallo scisma dei Tre capitoli.
Il rifiuto della Chiesa di
Aquileia
di condannare i Tre capitoli fu chiaramente
espresso dall'arcivescovo Paolino. Fu il primo ad assumere il titolo di
Patriarca e nel 568, minacciato dai Longobardi, riparò a Grado (Aquileia
nova). Nel 572/577 il patriarca Elia vi convocò e presiedette un sinodo, al
quale presero parte altri 18 vescovi, cinque dei quali dall'Istria. Il sinodo
rappresentò l'apice dello scisma aquileiese e dimostra l'allora assoluta unità
di fede del patriarcato – indipendentemente dalla sua suddivisione
politico-statale. Il papa Pelagio II tenta in maniera pacifica, ma senza
successo, di far ritornare gli scismatici alla comunione con la chiesa romana,
quindi intervengono le autorità bizantine che fanno scoppiare tra i vescovi
scismatici le prime divergenze ed una grave crisi. In occasione, o poco dopo la
consacrazione del patriarca Severo (586/587), successore di Elia, l'esarca
Smaragdo lo deporta a Ravenna con altri tre vescovi istriani, Giovanni di
Parenzo, Vindemio di Cissa e Severo di
Trieste. Sottoposti a enormi
pressioni abiurano lo scisma tricapitolino tornando in comunione con la chiesa
cattolica. Ma quando, liberati, rientrano nelle loro sedi, gli altri vescovi si
rifiutano di riconoscerli. Sembra che nel corso di un sinodo straordinario (tra
il 588 ed il 590), finora mai evidenziato, il patriarca Severo abbia dapprima
tentato di riaffermare i vincoli di unità e di fede e di porre fine allo scisma
nei termini richiesti da Roma e Ravenna. I nomi dei partecipanti sono riportati
da Paolo Diacono (Historia Langobardorum III, 26). Nell'occasione, Severo finì
in minoranza e l'iniziativa fallì. La crisi fu ricomposta nel 590, quando al
sinodo di Marano, con la partecipazione di dieci vescovi, il patriarca Severo
rinunciò a condannare i Tre capitoli e tornò
alla testa degli scismatici. Già nel gennaio del 591 papa Gregorio Magno gli
ingiungeva di presentarsi con i suoi vescovi ad un sinodo a Roma, dove avrebbero
dovuto tornare in seno alla madre chiesa. Il tentativo fallì perché i vescovi
del patriarcato di
Aquileia si
rivolsero con tre lettere all'imperatore Maurizio che si dichiarò d'accordo con
le loro tesi e cioè che la questione dell'unità della Chiesa fosse risolta a
Costantinopoli presso l'imperatore solo dopo che fosse stata ripristinata
l'unità politica dell'Italia, e proibì al papa di convocare al suo cospetto
Severo e i suoi suffraganei.
L'unità dei vescovi del patriarcato di
Aquileia nell'ambito dello scisma
non dura a lungo. Nel 595, i vescovi istriani (episcopi de Histria) Pietro e
Provvidenzio danno segno di propendere per il cattolicesimo, ma non fanno alcun
passo decisivo, restando nello scisma sino al 607. Ciononostante, il partito
tricapitolino incontra sempre maggiori difficoltà nel mantenere le sue
posizioni. Con i cattolici scoppiano conflitti sempre più gravi e attorno al 600
culminano nella diocesi di Cittanova-Capodistria,
in cui si alternano diversi vescovi cattolici e scismatici, fino a quando un
intervento del papa non fa prevalere il partito cattolico. Nel 602 recede dallo
scisma anche Firmino, vescovo di Trieste.
Con il suo passaggio tra i cattolici, gli scismatici perdono all'inizio del VII
secolo l'Istria nord-occidentale, mentre delle restanti (presumibilmente)
quattro diocesi istriane, tre – ignoriamo quali, sappiamo solo i nomi dei
vescovi: oltre a Pietro e Provvidenzio, menzionati già nel 595, anche Agnello –
proseguono nello scisma sino al 607. È l'anno in cui
muore il patriarca Severo e nel patriarcato di
Aquileia (Grado) si tengono doppie
elezioni per il suo successore, Si assiste così alla nascita di due patriarcati.
Mentre a Grado viene consacrato il cattolico Candidiano, nell'antica
Aquileia diventa patriarca lo
scismatico Giovanni. L'istituzione del patriarca cattolico di Grado provoca la
rapida sconfitta dello scisma tricapitolino nei territori bizantini. Vi
contribuisce in maniera importante anche l'esercito bizantino, che costringe con
la forza gli ultimi vescovi scismatici dell'Istria – Pietro, Provvidenzio e
Agnello – a sottomettersi a Candidiano. Solo vent'anni più tardi però viene
messa la parola fine allo scisma tricapitolino in territorio bizantino. Dopo la
sua elezione, il patriarca Fortunato di Grado abbraccia la fede scismatica.
È una posizione, la sua, politicamente insostenibile,
quindi, depredata la chiesa di Grado, nel 628 ripara in territorio longobardo.
In questa situazione interviene il papa Onorio I e in una lettera ai vescovi
veneti e istriani dichiara decaduto Fortunato e impone loro di consacrare
patriarca il suddiacono romano Primogenio. Con questo atto, la chiesa gradense e
con essa quella istriana torna definitivamente in comunione con la Chiesa
cattolica romana.