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Il
castello visto dal lato sud |
Visita in un paesino
che sembra un magazzino di quinte scenografiche accantonate alla
rinfusa
Bogliuno, un paese quasi
deserto
di Mario Schiavato
Subito all’uscita del tunnel del
Monte Maggiore, Bogliuno
(in croato Boljun) appare quasi al centro dell’enorme vallata della
Valdarsa (lontano feudo dei patriarchi
di
Aquileia) con il campanile che svetta tra le poche case e le
rovine del castello che quasi luccicano sotto il sole. Il nome,
secondo il
De
Franceschi, non è che una tarda corruzione slava del latino
volgare
Bagnoli. Ricordato così nei documenti quasi fino al XV secolo,
venne alterato poi, nelle scritture dei documenti tedeschi
soprattutto, in Bagnul, Vanyol, Vinol, Vynal, Finale, come questo
che fu il più usato...
Le sue origini romane sembrano essere
confermate da molti rinvenimenti archeologici, tra cui il cippo
sepolcrale di Caio Valerio Prisco, commerciante di
Aquileia, che secondo informazioni che avevamo avuto, doveva
trovarsi ai piedi del colle sistemato sotto un albero ma che noi,
nonostante le nostre ricerche, non siamo riusciti a trovare e, a
quanto ci è stato detto da una donna anziana che pascolava due
capre, sembra che durante la guerra sia stato distrutto da una bomba
dei tedeschi.
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Altra immagine del
castello dall'interno del paese |
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Una parte delle mura |
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I tavoli dove si
radunavano i giudici |
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Compresso sulla cima del colle
L’incontro più suggestivo con il
paese si ha venendo da sud, viaggiando cioè sulla strada che
congiunge
Fianona a
Vranja. Superato il paese di
Valdarsa, dove talvolta è
ancora possibile sentir parlare il
romeno
dei cici, si prosegue in salita lungo la vasta balza calcarea
oltre la quale si estende l’ampia piana dell’antico alveo del
prosciugato
lago di Cepich. Sullo
sfondo, ad est le gobbe del
Monte Maggiore e, a settentrione, ecco Bogliuno. L’abitato è
raccolto su una stretta piattaforma di roccia arenaria posta alla
sommità d’una balza incisa, per tre quarti del suo perimetro, da
profonde erosioni. Il paesetto appare così quasi compresso sulla
cima del colle. Sopra le modeste abitazioni, moltissime disabitate,
spiccano le mura giallo-brune del già ricordato vecchio castello. Da
sopra i tetti svetta un tozzo campanile, ma a dire la verità, le
case sembrano trovare a stento un po’ di spazio su quel colmo
ristretto.
La semischiavitù dei contadini
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La piccola chiesa
all'entrata del paese |
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Il campanile e in
primo piano la loggia |
Da vari documenti appare che qui, per
diversi secoli, fiorì una vita di tipo “cittadino”, in netto
contrasto con le altre strutture, prettamente feudali, degli
insediamenti esistenti lungo la vasta vallata dell’Arsa, dapprima
feudo della Chiesa d’Aquileia,
poi acquisita da Ugone VI dei Duinati che la inserì nel regno
d’Austria. Tutto intorno infatti, sparsi lungo la valle, sorgevano
quei minacciosi e tristi castelli nei quali i terribili feudatari
d’oltr’Alpe spadroneggiavano a loro piacimento e che non mancavano
al malfamato jus primae noctis. Infatti i miseri contadini dei
manieri di San Martino, di Passo, di
Lupogliano, di
Letai, di
Vragna, di
Cosliaco, di
Sumbergo e di
Chersano vivevano in uno stato di
semischiavitù, mentre tra le case di Bogliuno, nelle sue calli,
nelle sue piazzette si continuava a respirare un’aria molto più
libera. Era l’unico centro borghese della valle infatti, nel quale
fioriva un certo commercio e dove i servi della gleba del contado
potevano scambiare i pochi beni che venivano lasciati loro
dall’ingordigia dei padroni.
Come abbiamo detto il borgo per lungo
tempo dipese dai patriarchi di
Aquileia e venne accordato nel 1356 ad Isacco Turini, quindi
venne trasmesso ai Moyses. Appena alla fine del XIV secolo venne
dato in feudo a laici di varia origine: fu allora che ebbe inizio il
suo frequente passaggio di mano in mano tra feudatari e signorotti,
seguendo la sorte degli altri manieri della zona, finché se ne
impadronirono i Duinati.
Gli «eredi della domenica»
All’inizio della salita verso il
centro, a destra su di un breve pianoro, si trova una vecchia
chiesetta restaurata di recente. Non ha forse valore artistico, ma
fa parte del paesaggio. A nord, vecchie costruzioni in parte
diroccate, affiancano la strada che, in breve salita entra
finalmente nell’abitato per attraversarlo tortuosamente da sud a
nord in tutta la sua lunghezza. Di questi tempi Bogliuno è quasi
vuota, abbandonata, nonostante parecchie case siano state e vengano
rimesse in sesto dai cosiddetti “eredi della domenica”, come del
resto di recente è stata restaurata anche la chiesa dei Santi Cosma
e Damiano, risalente probabilmente ai secoli XIII-XIV, evidentemente
risultato di due costruzioni sovrapposte, in quanto gli elementi
stilistici della prima costruzione denotano un’arte molto più
primitiva della seconda. Sul fondo dell’abside trovò allora posto un
altare barocco di fine fattura. Di recente sono stati scoperti anche
brani di antichi affreschi, ma se non si provvederà alla loro
conservazione, anche questi ultimi resti pittorici spariranno nel
nulla.
La loggia spicca per le sue
caratteristiche. È formata da quattro archi con un corpo
sovrastante, nel quale sono ricavate quattro rozze finestre. Sul
fianco destro una scalinata porta al piano superiore. I possenti
massi con i quali è stata edificata sembrano voler raccontare
antiche storie.
Un piacevole disordine
Imboccando alla fine una stretta
viuzza che s’inoltra tra corrose costruzioni, ci portiamo verso il
centro del paese. Sia le calli che le case sono fuse in un piacevole
disordine. Ognuno qui costruì come gli sembrò giusto e comodo. Così
ballatoi con balaustra o ringhiere ornano gli edifici e chiudono gli
androni. I camini si ergono alti sopra le sporgenze dei focolari,
incorporati nelle pareti delle cucine. Finestre di diversa fattura e
grandezza, non poche stranamente deformi, ornano le facciate delle
case. Anche qualche stalla e qualche letamaio diffondono odori che
avevamo dimenticato. Gli scorci che questo insieme offre al
visitatore sono realmente molto pittoreschi ed è motivo di sorpresa
che ancora nessun artista si sia ispirato a questi suggestivi
scenari. Bogliuno sembra proprio un magazzino di quinte
scenografiche accantonate alla rinfusa.
Ča, ste turisti forsi?
Comunque, nonostante i parecchi e
continui restauri, è doloroso osservare che parecchie abitazioni
sono deserte: le imposte semidivelte si staccano dai cardini, i
vetri infranti sono pericolanti sui telai scoloriti che svelano il
buio senza vita dell’interno. Un senso di pena ci prende e molto
volentieri ci fermiano davanti ad una che pare un po’ meglio
conservata delle altre. Davanti la porta, sentadi sul scagno
all’ombra, due vecchi, probabilmente marito e moglie, ambedue con un
nodoso bastone tra le mani ricambiano ridendo il nostro saluto e
sembra quasi vogliano confessarsi in un dialetto mezzo croato e
mezzo italiano:
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Una
vecchia casa ormai in rovina |
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Dice l’uomo:
– Aj me meni! Ča, ste turisti forsi?
No xe gnente de veder in sto naše jadno misto. Solo starci i
mižerija.
– Siamo venuti per vedere il
castello...
– Ah, ja, dvorac. Ogni tanto drento i
fa feste. Ma još malo e po’ no sarà più gnente... I on će se srušit!
I muri cascarà, vero da!
La donna ridacchiò. Poi si mise a
dire le sue, in un dialetto più veneto:
– Noi semo veci, quasi tuti xe veci a
Boljun. I giovani scampa. Pochi ghe ne resta. De cossa i vivaria? De
‘sta poca tera forsi e do vache? Nostro fio volessi far qualcossa,
sicuro ch’el volaria. Si, quella roba che adesso i ciama
agroturizam, me par. Insoma, verser la sua e altre case ai foresti.
Vin ghe ne xe, un poco ma bon, anche formaio, verdura, boni capuzi e
anche pomidori grossi come un pugno... Ča ja znam... Teško je, nišun
vol far credito... Le banche promete, promete, po’ gnente...
– Eppure qualche casa è stata rimessa
a nuovo.
– Ma ja, xe quei che lavora a
Arsia,
Albona, nei alberghi de
Rabac, anche a
Fiume o a
Pola, magari in Germania o in Italia
e che i vien a casa dei veci, qualche volta ala domenica o per le
ferie. Xe lori che i ga i soldi per giustarle le case. Qua xe aria
bona. E pase, fin tropa pase... Anche se magari el pan bisogna
farselo da soli, quei sempi del forno, qualche volta i se dimentica
de portarnelo...
Per continuare il discorso dobbiamo
accettare l’invito ed entrare in casa per bere un bicchiere di vino
rosso, un po’ acido, ma ristoratore, o un cafetin fato co’ la vecia
cogoma. Le scale pulite ci portano in una cucina bianca, lustra di
calce fresca, con tanto di
focolare. La
cappa è piena di scodelle. Le vecchie sedie impagliate messe attorno
al tavolo sono un tantino traballanti. Comunque c’è qui un’altra
atmosfera, più distesa, anche per le risate del šior Frane, che a
tutti i costi vuole narrarci le sue vecchie barzellette. E i suoi
ricordi. Di quando nell’osteria alla domenica arrivava el Vice de
Paz con la fisarmonica trieština e si
ballava e si cantava.
– Savè quela de... la mula de
Parenzo, ga meso su botega, de tuto la vendeva...
Comincia a cantare el šior Frane e,
logicamente, noi dobbiamo fare... il coro!
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L'ampia Valdarsa
(correction: Val o Valle d'Arsa) |
Tratto da:
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© La Voce del Popolo, 28
maggio 2011 -
https://edit.hr/lavoce/2011/110528/speciale.htm;
https://edit.hr/lavoce/2011/foto/reportage110528.pdf (Pagina
versione carta).
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