La più piccola al mondo,
venne distrutta due volte nella sua storia
Colmo, una città in
miniatura
Passando lungo la strada che da Lupogliano
scende a Pinguente e quindi alla Valle del Quieto, oltrepassato il paese
di Rozzo raccolto in cima a un colle dentro le sue antiche mura, a un
certo punto s’incontra un segnale di pietra che giocoforza suscita la
curiosità anche del più distratto dei turisti, peraltro sempre più
numerosi da queste parti. Infatti, accanto a un roccione con una scritta
in caratteri glagolitici ecco una tabella: spiega che deviando di appena
pochi chilometri (sei in tutto), si può raggiungere Colmo (Hum in
croato), la più piccola città del mondo! E allora come si fa a
tergiversare? Ci si infila subito per la stradetta, che è tutta un
susseguirsi di panorami tipici: stanzie di casette di pietra squadrata
tra orti e fitto frascame, campi arati e vigneti con i filari bene
allineati, boschetti e prati verdi con capre e pecore al pascolo,
qualche boscarin che rumina sdraiato all’ombra e, ogni tanto, qualche
sito particolare perché l’intero territorio, grazie all’interessamento
del Čakavski Sabor e del maestro Bruno Cotić, è stato dedicato al
ricordo del più antico alfabeto slavo, appunto il glagolitico, e a tutti
quegli elementi dell’etnografia dei tempi passati che la componevano.
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Un prato nei pressi del paele
con i simboli della scrittura glagolitica. |
Il tavolo di Cirillo e Metodio
nello stesso sito. |
IL TAVOLO DI CIRILLO E METODIO
Dunque spesso bisogna fermarsi, fare una
tappa per poter ammirare le varie installazioni, tra l’altro molto ben
inserite nel paesaggio agreste come la stele del Čakavski Sabor, il
tavolo di Cirillo e Metodio, il seggio di Clemente da Ocrida, il
Lapidario, il belvedere di Giorgio da Nona, il muro dei protestanti
croati e anche il sito dedicato a quel Žakno Jurij il quale, proveniente
da Venezia, passò da queste parti, qualche anno si fermò a Rozzo, e nel
1483, soltanto 37 anni dopo la prima celebre stampa a caratteri mobili
di Guttenberg, fu il curatore del primo libro pure a caratteri mobili,
ma glagolitici.
Arrivare nella più piccola città del
mondo a dire la verità oggi molto pulita e ben curata, è molto facile e
subito, appena sali sulla breve collinetta che racchiude i pochi
edifici, non puoi fare a meno di uscire in un’esclamazione di
meraviglia: siamo a Colmo. E davvero tra parecchi turisti. Lo confermano
le numerose macchine con targhe straniere parcheggiate sotto l’ombra
della fila di ippocastani.
QUIETE LUNGA E PROFONDA...
Il triestino
Giuseppe Caprin nel suo
celebre libro “Alpi Giulie” di questo posto non dice davvero molto:
“Dipendevano dalla giurisdizione del
capitano di Pinguente cinque castelli: Rozzo, Colmo,
Draguccio, Verch e
Sovignacco”.
E più avanti: “Durante il dominio della
Serenissima, la piccola Colmo, distrutta due volte, era abitata nel 1423
soltanto da tre famiglie; ha un bel campanile romanzo a merli e non si
può andarvi che a piedi o a cavallo”. E ancora: “Qui la quiete lunga e
profonda, come un silenzio notturno, lascerebbe avvertire la caduta
d’una foglia…”.
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Una vecchia
casa sopra il muro di cinta ricostruito. |
Una vecchia casa arroccata
in cima al costone roccioso. |
Ancora fuori dalle mura dell’antico borgo
bisogna fare una tappa nella cappella cimiteriale di San Girolamo
(sperando che non sia chiusa come quando ci siamo arrivati noi) che
porta sull’architrave la data del 1887. Comunque la parte centrale della
costruzione è molto più antica in quanto all’interno si possono ammirare
i frammenti di un insospettato tesoro di pitture murali risalenti al
XII-XIII secolo, che rivelano influenze bizantine: hanno per tema
l’Annunciazione e la Passione di Cristo. Accanto alla porta il
bassorilievo di una rustica Crocifissione con tanto di pie donne
inginocchiate alla base. Dobbiamo accontentarci di dare uno sguardo ai
preziosi affreschi soltanto spiando dalle finestrelle della facciata.
POSSENTI MURA MEDIEVALI
Dopo siamo lungo le possenti mura
medievali che sono state erette nel XV secolo e costruite in modo che i
muri esterni delle case potessero servire, contemporaneamente, da
bastioni di difesa. Comunque l’insediamento vanta una storia piuttosto
lunga. Sicuramente è stato un castelliere anche se circondato da un
semplice cordone di massi e sotto i romani diventò castrum. Nei
documenti viene nominato per la prima volta nel 1102, quando Ulderico II
ne fece dono al patriarca di
Aquileia, Mainardo. Dal 1420 iniziò il
dominio veneziano. Entro le mura a pianta ellittica (modestissimi i 100
metri dell’asse maggiore e solo 50 di quella minore) si ritrovano ancora
le strutture fondamentali dell’antico borgo, fuori dalle quali hanno
trovato posto soltanto pochissimi edifici: così si possono enumerare il
palazzotto del Consiglio comunale, la loggia, il fondaco, il magazzino
dei cereali.... La porta massiccia, risalente al 1562, fa entrare in un
buio androne con murate lapidi che ricordano anche qui la scrittura
glagolitica. Questo androne si apre con un ampio volto che porta sulla
piazzetta lastricata e quindi alla chiesa.
DOVE SE STA MEJO...
Da questa piazzetta partono solo due
stradine tracciate secondo lo schema dell’antico decumano, strette, con
il pavimento lucido e consunto, le casette legate una all’altra con
finestre anguste e ballatoi rialzati e quadrati, i tetti ricoperti di
tegole rosse. In queste poche abitazioni in eterno restauro ci abitano,
– l’informazione ci è stata data nel nostro dialetto da un’anziana donna
con tanto di fazzolettone in testa e doppia gonna nera – poche anime, i
più speta de partir per dove se sta mejo!
Da ricordare ancora il campanile
risalente al 1552 e la chiesa parrocchiale in stile classicistico,
chiesa incredibile per la sua ampiezza. Sull’altare maggiore si può
ammirare una tela dipinta da Baldassare d’Adda nel XVI secolo, mentre
sugli altri altari ci sono dei dipinti di minor valore.
IL FIUME DELL’ISTRIA
Come si vede non c’è molto da vedere qui
se non ci fosse quell’atmosfera medievale che domina l’abitato tanto che
ci sembrava di veder spuntare da un momento all’altro da qualche oscuro
angolo una qualche dama o un qualche cavaliere magari a cavallo! Abbiamo
fatto una breve visita a una rivendita di buona grappa ricavata oltre
che dai viticci, anche da piccole mele selvatiche e da bacche di
vischio. Poi, seduti sotto la loggia, abbiamo pure discusso sul fatto
che da queste parti dovrebbe aver origine il fiume Quieto. Infatti una
accurata descrizione idrografica lasciataci da un certo Morteani (Storia
di Montona – L’Archeografo Triestino) dice: “A piedi de’ Vena (s’intende
i Monti della Vena), ha le sue sorgenti l’alto Quieto col nome di
Fiumara che, raccolte le acque de’ monti e de’ terreni di Colmo, va
parallelo al ciglione dell’altipiano, percorrendo una valletta stretta
fino al punto in cui s’incontra col torrente Draga, chiamato nel suo
corso superiore Baredine, il quale raccoglie in gran parte i torrentelli
che scendono dal castello di Rozzo. Qui, sulle piccole e continue
sinuosità dei fianchi ripidissimi, ha veramente inizio il fiume
dell’Istria, il quale, dopo aver ricevuto anche il Reciza, va lambendo
la parte meridionale del colle su cui sta Pinguente e più avanti
Montona”.
L’OSTERIA DEGLI UOMINI
A dire la verità non è che la nostra
discussione sia durata molto a lungo. Infatti, all’esterno delle mura, a
picco sulla vallata circostante, c’è la loggia di una invitante osteria,
la “Muška konoba” (osteria degli uomini, chissà poi perché?) dove ogni
giorno si servono sopa istriana, minestron de bobici, fusi con sugo de
galina. E naturalmente siamo finiti proprio lì, a gustare le leccornie
di Ondina Visentin, la proprietaria, senza tuttavia dimenticare la
leggenda che ci aveva raccontato, sempre nel nostro dialetto, la donna
anziana che avevamo incontrato poco prima, fazzolettone in testa e
doppia gonna nera.
LA ZITELLA E IL DIAVOLO
Dunque la leggenda. Una anziana zitella
che abitava in una stanzia poco lontana dal paese, ogni giorno arrivava
in chiesa. Appena entrata e fattasi tre segni di croce, si metteva in
ginocchio davanti l’altare della Madonna che reggeva il Bambinello in
braccio e dopo parecchi profondi inchini con voce supplichevole le
chiedeva:
- Vergine santa, quando, ma quando mi
sposerò? Dimmelo Madonna santa benedetta, dimmelo!
Il sacrestano, incavolato per quelle
visite e per quell’eterna richiesta, un giorno si nascose dietro
l’altare e quando l’anziana zitella pose, tutta infervorata come al
solito, la stessa identica domanda, egli con una voce contraffatta
flebile flebile ripose:
- Mai più, mai più...
La donna per un attimo rimase interdetta
ma poi, credendo per quella voce flebile che avesse risposto Gesù
Bambino, arrabbiata rispose:
- Tasi ti picio, tasi! Lassa parlar tua
mare che la xe più vecia!
Una lunga risata del sacrestano echeggiò
nella chiesa.
L’anziana zitella scappò impaurita
stretta nel suo scialle e persuasa che a ridere fosse stato il
diavolaccio in persona. |