Isola in 200
cartoline
compilato da Mario Demetlica
Lo studioso di storia Luigi Morteani
scriveva nel lontano 1888, dell'Isola e dei suoi statuti, ma prima del
Morteani altri importanti studiosi come il Naldini, ed il Coronelli si
soffermarono su Isola per descriverla come apparve loro in quei tempi.
Nell'Isolario del Coronelli, pubblicato a Venezia nel 1696, (una copia
del libro fa parte della Biblioteca Besenghi di Isola) nel capitolo
dedicato alle "Isole dell'Istria e della Dalmatia attinenti alla
Repubblica di Venetia", sta scritto che "cinque miglia distante da
Capo d'Istria, ed
altrettanti da
Pirano si vede eretta
sopra uno Scoglio la Terra, che anticamente ebbe il nome d'Alieto, e vi
fu poi aggiunto quello d'Isola, col quale solo bene spesso viene
chiamata. Vogliono che la sua origine sia così antica, come quella di
Capo d'Istria, e
dicono, che fosse edificata colle rovine di un
castelliero che stava situato sopra i monti. Un ponte le dava prima
la comunicazione con la terra ferma, oggidì però a quella è interamente
congiunta: onde meriterebbe più di Penisola, che d'Isola il nome:
Vicende solite del tempo, che si prende giuoco di simili mutationi.
Il
Morteani, nella descrizione della nostra città, come già qualche secolo
prima aveva fatto il Coronelli, si sofferma sull'origine insulare. - Il
luogo chiamato Isola - scrive il Morteani - era anticamente un'isola nel
vero senso della parola, congiunta colla terraferma mediante un ponte di
pietra, da quella parte dove il mare andò successivamente ritirandosi, o
meglio il suolo andò sollevandosi di maniera che si formò una
congiunzione tra il terreno marnoso e lo scoglio calcare sul quale
troviamo costruita la nostra cittadella. Alieto fu il nome più antico,
che alcuni considerano d'origine colto tracica, altri lo derivano dal
greco in cui vorrebbe significare aquila. L'influenza greca fu
certamente grande su tutta la nostra costa, ma non tale da persuaderci
che i nomi dati dagli abitanti ai singoli luoghi siano stati poi mutati
dai greci. Il luogo che più palesemente ci dimostra la romanità d'Isola
sarebbe l'antico porto, oggidì detto di S. Simone per la chiesa ivi
dedicata al detto Santo.
Paolo Naldini, nella sua "Corografia
ecclesiastica (O sia descritione della Città, e della Diocesi di
Capo d'Istrìa),
pubblicata a Venezia nel 1700, offre una panoramica abbastanza
dettagliata della località:
A mezzo il viaggio marittimo, da
Giustinopoli a
Pirano di miglia dieci,
s'incontrano due promontorj che pari d'altezza, porgono anco eguale
all'Adriatico il piede. Questi tra essi discosti a tré miglia, stringono
co' fianchi, e spalleggiano co' monti un'ampia, e spatiosa valle, che
tutta seminata d'Ulivi, e de Viti, ed altri squisitissimi frutti, porge
ricco provento a chi la possiede, e delitioso prospetto a chi la mira.
Alle falde di questa Valle lambite dalle salse onde, s'alza entro del
mare in mezzo ali due Promontorj uno scoglio di figura quasi ovata, e di
giro un lungo miglio, il quale serve di base alla terra, denominata
Isola dal sito isolato, in cui giace. Chi ne fossero i primi Fondatori,
diversamente ne scrivono gli Historìci.
Leandro Alberti l'attribuisce agli Istriani; allorché intorno al cinque
cento cinquanta la Provincia da gli
Hunni miseramente desolata, molti di quelli si ridussero allo
scoglio di Giustinopoli, e riedificarono Egida distrutta e altri al
Promontorio di Pirano,
e principiarono la fabbrica di quella Terra; e alcuni vennero a questo
Scoglio e vi fabbricarono la terra di Isola.
Piero Coppo
cosmografo, e cittadino isolano, vuole, che s'edificasse da gli
aquileiesi, quando alcuni di questi intorno al quattro cento cinquanta,
per sottrarsi dall'esecranda barbarie d'Attila,
si rifugiarono sovra d'un Monte da questo scoglio tré miglia distante,
detto volgarmente
Castelliero; e da' Latini per la sua grande altezza Castrum
aereum. E che Poscia restituito all'Istria qualche riposo
scendessero a soggiornare in questo scoglio, come di clima salubre, di
positura comoda, e di sito vantaggioso. (...) Ma siasi in qualunque
forma, certo è che la terra già intitolata Alieto, oggi dicesi Isola;
perché ora da sé stessa più diversa di conditione di quello fosse già di
nome.
Anche
Pietro
Kandler si sofferma, nelle sue ricerche sulle varie località
istriane, sull'antica Alieto e, in questo contesto scrive anche del
porto di S. Simone che ancora oggi mantiene vive alcune preziose
testimonianze tramandateci nei secoli.
Scrive il
Kandler:
Il porto artificiale è tuttora visibile. È questo un quadrilatero
perfetto, il lato maggiore del quale misura 47 tese viennesi, il minore
27; la muraglia che sosteneva la terra è ancora visibile; i due moli che
si protendono in mare avevano nella parte superiore la larghezza di 15
piedi austriaci ed erano costruiti a gradata cioè a corsi di pietre
disposte a gradini; vi si vedevano anelli di bronzo per legare le
barche, L'apertura d'ingresso aveva la larghezza di 25 tese, il porto la
superficie di 2400 tese.
Il mare in questa parte ha guadagnato
sulla terra perché il terreno si è abbassato come in altre parti della
spiaggia istriana; però sotto l'acqua del mare si veggono le fondamenta
di antiche abitazioni che si dilungano fin presso la fontana d'Isola, e
dappertutto sì trovano mosaici, cotti bollati, frammenti di stoviglie,
mattoni da comporre colonne, monete romane del primo e del secondo
secolo, vetri ed altre minutaglie, da che deve indursi che stesse qui
borgata come in altre parti della spiaggia istriana.
Accanto all'antico porto di Alieto, noto
già nei secoli scorsi, all'inizio di questo secolo venne scoperta
un'altra località che all'epoca dei romani era adibita a porto. Il
rinvenimento è dovuto all'isolano Attilio Degrassi, noto epigrafista,
che nel 1913 ne scrisse sull'Archeografo triestino. Nella
località di Vilisan, sulla strada regionale da Isola a
Capodistria, ad un quarto d'ora di cammino da Isola, al chilometro
27.8 della ferrovia
Trieste-Parenzo,
quasi dirimpetto alla fabbrica di laterizi del signor Nicolo Udine, si
protendono in mare due moli che sotto un angolo di 85 gradi s'incontrano
a circa 53 metri dalla spiaggia attuale. Visibili per buona parte almeno
durante i periodi delle basse maree scompaiono del tutto sottacqua
durante l'alta marea. I moli sono costruiti nella tecnica detta a sacco
o a riempimento; le facce cioè sono di blocchi riquadrati di pietra
arenaria del monte vicino, sovrapposti l'uno all'altro, mentre lo spazio
interno si componeva di materiale minuto, che il mare nella sua opera
distruggitrice ha per buona parte asportato. I due moli descritti
racchiudono un porto che attualmente ha la superficie di circa 3900
metri quadrati. Ma all'epoca della sua costruzione il porto era di certo
maggiore. (...)
L'origine
romana del porto - scrive il Degrassi - e assicurata dalle recenti
scoperte d'antichità nei fondi vicini alla fabbrica di laterizi del
signor Udine. Già qualche anno fa in mezzo a cocci diversi che tradivano
la loro origine romana, vennero alla luce una fusaiola, un manico
d'anfora e il fondo di un vaso con una marca che il professor Sticotti
lesse AC/AO.
Non solo i resti del porto di S. Simone e
di quello di Vilisan ci parlano dell'antica presenza romana sul
territorio di Isola, ma anche le numerose tombe rinvenute sui monti
verso Capodistria e
Pirano e i nomi delle
contrade, delle singole zone e dei villaggi che circondano la cittadina
e fanno parte del suo territorio: Albuciano, Cerreto, Saleto, Livizzano,
e così via.
Anche se non esistono studi approfonditi
sull'origine dei toponimi del territorio isolano, qualche indicazione
comunque è arrivata fino a noi, pur se in maniera alquanto schematica e,
a volte, approssimativa. Tra queste vanno certamente ricordate le
descrizioni fatte dallo stesso Morteani, e soprattutto quelle pubblicate
da Giannandrea Gravisi nel 1922 negli Atti e memorie della Società
istriana di archeologia e storia patria, con il titolo "I nomi
locali del territorio di Isola". Certamente una delle raccolte di
toponimi isolani più complete esistenti, ripresa successivamente anche
da altri.
A
sinistra: 1910 - Panorama D'Isola, un contadin el suo
musso col
carico di merce agricola.
Nel 1850, due terzi degli Isolani erano
dedicati al lavoro dei campi.
Una delle prime descrizioni del
territorio circostante Isola ci viene ancora da Luigi Morteani che nel
1888 scriveva:
Il dintorno d'Isola s'apre in
una bella pianura, non estesa, nella quale si trovano i migliori
terreni coltivati a vitigni, oliveti e frutteti. Essa è circondata
da colline coperte di vigne, di olivi, di campi arativi e di
pascoli. Il territorio tutto, ricco d'acqua, confina ad oriente con
Lazzaretto, Gason e Monte, al sud con Corte d'Isola, ad ovest con
Pirano ed al nord col mare.
Lo stretto legame che è sempre intercorso
tra il centro urbano di Isola ed il territorio campagnolo circostante è
dato proprio dal fatto che gli abitanti di Isola, pur avendo dimora
all'interno di quelle che erano le antiche mura, quindi essendo a
diretto contatto con il mare, si dedicavano più all'agricoltura che alla
pesca. Infatti, fino alla prima metà del secolo scorso, prima cioè della
nascita dell'industria conserviera del pesce, due terzi degli Isolani
erano dediti al lavoro dei campi, un terzo viveva del lavoro in mare e
soltanto marginalmente si occupava di attività artigianali e pubbliche.
Riportiamo ancora le parole di Paolo
Naldini che scrive nel 1700:
Descrìviamola succintamente
quale ora è, e riconoscerassi almeno per obliquo quale anticamente
fu. Tiene ella a fronte il Mare aperto, che le forma solidissimo
baluardo con la sua incostanza. Si premunisce il fianco sinistro col
Porto e col Molo, e assicurasi gli homerì non meno che il lato
destro con alte Mura, tramischiate da varie Torri, erette nel mille
quattro centoundici; riparo ordinario delle Terre antiche. Nel mezzo
poi delle sue Mura spalanca una porta da alto Torrione diffesa, e
nel tempo predetto edificata, la quale per un Ponte di pietra porge
sicuro l'accesso al Continente.
Le Porte
Le
Porte sono sempre state il punto nevralgico di Isola, fin dai tempi in
cui il centro urbano era circondato dalle mura.
Scrive Paolo Naldini nel 1700: riel mezzo
delle sue Mura spalanca una porta da alto Torrione diffesa, e nel tempo
predetto edificata, la quale per un Ponte di pietra porge sicuro
l'accesso al Continente. Tra questi confini ristretta, s'allarga
primieramente in una Piazza moderata, dal Palazzo Pretorio, dal Fontico
Pubblico, e da altre fabbriche private recinta: indi diramasi in vane
Strade da sacri e profani edifìci degnamente fiancheggiati.
Nei secoli scorsi a Isola esistevano
numerose porte d'accesso alla città; a loro ricordo restarono toponimi
quali Vicolo Porta Puiese, Vicolo Porta Ughi, Riva de porta (poi Riva
Nazarìo Sauro, oggi Riva del Sole), ma soprattutto Le Porte. Con
quest'ultimo nome viene definita tutta la zona antistante l'edificio
della farmacia, la stazione delle corriere, fino all'inizio di quella
che era Via Besenghi, oggi via Gregorović
compresa la Piazza del Tibio, oggi Piazza E. Kristan. Nella vita della
cittadina Le Porte ebbero probabilmente un'importanza superiore a quella
avuta dalla Piasa Granda, anche se questa comprendeva il Municipio, la
Dogana, il molo, il Fondaco, la diga e, il mandracchio, fondamentali per
la vita economica e amministrativa della cittadina. Le Porte, infatti,
rappreseritavano l'entrata principale del Paese, sempre molto
frequentata e vi avevano sede importanti attività.
Delle mura, dei merli e delle porte oggi
ad Isola non rimane più traccia. Già verso la metà del secolo scorso i
viaggiatori che passavano per il paese scoprivano che, dove prima si
trovava la porta principale con il torrione più grande, passava la
strada che collegava Isola a
Capodistria e
proseguiva, per la via di S. Simone, verso
Pirano. È rimasto
soltanto il nome ad indicare lo spiazzo, che oggi è trasformato in
piazza.
Dalle Porte si accede alla piazza
contigua (oggi Piazza Krìstan) che un tempo era conosciuta con il nome
di Tibio, derivante forse da Trivio", poiché si diramava in più
direzioni: verso la Contrada de l'ospedal (poi via
P. Coppo, oggi via
Lubiana) e verso la via Besenghi, molto frequentata non solo perché vi
si trovavano il palazzo dei Besenghi, ma anche la chiesetta di S.
Caterina e, più tardi, la scuola. Si presume, che al Tibio fosse situato
anche l'antico palazzo del gastaldo. A testimonianza dei tempi che
furono rimane soltanto la chiesetta di S. Domenico, che nei secoli
scorsi era consacrata alla Madonna del Cannine.
Prima
del congiungimento tra la terraferma e lo scoglio su cui sorgeva la
cittadina di Isola, nel tratto di mare che divideva i due lembi di
terra, il fondale non doveva essere molto profondo e pare esistessero
delle saline, che si spingevano fin sotto le mura. Della loro esistenza
si ha notizia in un documento del 1417, anche se non esiste alcuna
immagine. Delle
saline capodistriane, invece, sono giunte fino a noi
delle splendide cartoline illustrate. Non si riescono a individuare
nemmeno nelle piante di Isola, per la verità alquanto approssimative,
disegnate da alcuni volonterosi cartografi nel XVI e XVII secolo.
Secondo alcune testimonianze, le
saline erano situate tra Fontana Fora e
il mare. Alla fine del secolo scorso, lo storico Morteani scriveva:
Verso il continente il mare non dev'essere stato mai profondo pel
deposito continuo portato dalle acque, che diede origine ad una piccola
formazione paludosa, la quale va oggidì sparendo pel continuo
interramento: ed è in questa parte che esistevano delle
saline già nel
1417, le quali si estendevano verso le mura.
A testimonianza del fatto che ad Isola
esistevano le
saline, oltre agli scritti degli storici che, come si sa,
molto spesso scrivono soltanto per sentito dire e non per esperienza
diretta, l'articolo 105 degli Statuti di Isola:
Statuirno, che se alcuno havera delle
saline di Comun che esso debba render conto al Comun: Et se esse
saline
non lavorerà ogni anno che il patron di quelle
saline sia tenuto render
conto al Comun in quel anno per ratta; tanto come delle altre
saline,
che saranno lavorate del predetto anno, e per l'avenir.
Si venga poi a dire che l'amministrazione
pubblica del Comune di Isola, almeno nei secoli scorsi, non sapesse
tener conto dei propri beni e non sapesse tassare giustamente chi non
operava secondo le regole fissate.
Anche
il cartografo isolano
Pietro Coppo
accenna nei suoi scritti ad un fondamento di
saline. Nelle aggiunte agli
Statuti di Isola, inoltre, troviamo che nel 1417 il Consiglio concedeva
ad un Capodistriano di costruire un fondamento di
saline verso il muro
di cinta del Comune.
In molti documenti del passato Isola
viene indicata come provvista di ricche fonti idriche. La constatazione,
probabilmente, derivava dal confronto con la realtà presente in altre
località istriane, notoriamente da sempre sofferenti di mancanza di
acqua. In verità, nemmeno Isola disponeva di quantità idriche tali da
poterle definire abbondanti.
Secondo una piccola ricerca effettuata
dall'isolano Giovanni Russignan intitolata "Le risorse idriche" si
apprende che di sorgenti cospicue a Isola se ne potevano contare
soltanto tré: quella della fonte degli Agnesi o, secondo alcuni Agnisi,
di cui non è possibile ricostruire l'origine del nome, quella del
torrente Ricorvo, che poi venne convogliata in un piccolo
acquedotto, e
quella della Fontana Grande o Fontana Fora, così chiamata perché situata
fuori dalle mura.
Anche se le immagini che ci giungono
dalle cartoline illustrate della fine dell'800 o dei primi anni di
questo secolo riguardano esclusivamente Fontana Fora, va ricordato che
anche la Agnesi aveva per gli abitanti di Isola una notevole importanza,
proprio perché situata non troppo distante dal centro abitato.
Probabilmente rifatta al tempo dell'occupazione napoleonica nel primo
decennio dell'800, era situata poco prima dell'incrocio della strada
romana con il torrente Pivol. Consisteva di un pozzo di forma
quadrangolare che finiva con un muro in pietra. Da qui, attraverso un
foro, l'acqua si riversava in una vasca più piccola, pure quadrata, che
serviva da abbeveratoio per gli animali. Infine, l'acqua in eccedenza
entrava in un canale di scolo e scendeva fino al mare nei pressi del
macello. Come rileva il Russignan, la strada romana che le passava
accanto testimonia dell'importanza della sorgente fin dai tempi più
remoti.
Fontana
Granda o Fontana Fora era situata immediatamente prima di arrivare alle
porte d'entrata a Isola, sulla via che portava a San Simone, al tempo
quasi in aperta campagna. Fontana Fora, con il suo sistema di grandi
vasche e fontane, rappresentava l'acqua madre degli Isolani, abbondante
nonostante un'errata deviazione di un suo ramo, scaricato direttamente
in mare. Era il punto di riferimento idrico per tutta la cittadina. Le
donne facevano corteo con le mastele (tinozze) per attingere l'acqua che
serviva per le necessità domestiche.
L'acqua eccedente finiva in una grande
vasca detta fontanon, dalla quale usciva per riempire il lavatoio.
Questo era sempre circondato da massaie intente a lavare i panni e la
biancheria. L'amministrazione comunale prowedeva almeno una volta
all'anno alla sua pulitura.
Quasi
tutto il bucato della popolazione isolana veniva eseguito proprio al
lavatoio della fontana. La lisia, naturalmente veniva praticata per la
biancheria. Dopo averle lavate con acqua calda e sapone, le lenzuola (/'
Unsioì) si stendevano in una tinozza (maste!), che coperta con un telo
robusto serviva per contenere cenere di sarmenti. Sulla listerà
(lavanderia) si faceva bollire l'acqua che, bollente, si versava sulla
cenere, la quale con il calore liberava i sali detergenti che conteneva
e con i quali veniva inondata la biancheria sottostante. Se i panni
erano particolarmente sporchi, si provvedeva a rimestarli. Alla fine i
panni venivano resentadi (risciacquati), strizzati e stesi ad asciugare.
Per impedire che i panni diventassero giallastri e fare in modo che
mantenessero un colore quanto più vicino al bianco, si usava una polvere
azzurra, il perlin, che ancora oggi qualche signora più in là con gli
anni usa per definire le varie polveri aggiuntive che vanno messe in
lavatrice per rendere il bucato bianco "che più bianco non si può".
Della bontà e della qualità della
sorgente testimonia anche il vescovo
Tommasini che, nel descrivere la produzione isolana del vino e
dell'aceto, sottolineava in particolare come quest'ultimo fosse
importante per gli isolani perché viene venduto ai marinai, e serve ai
vascelli con grandissimo utile degli abitanti e si da la causa all'acqua
di quella loro fontana, che sta vicino alla terra così abbondante, che
tal anno facendosi dieciotto sino a 20,000 barile di zonta, mai resta
asciutta nelle vendemmie.
L'esistenza
della Fontana Grande, o Fontana Fora come dicevano gli Isolani, è
menzionata già negli Statuti del 1360. Il cartografo isolano
Pietro Coppo la cita nel suo "Del Sito de l'Istria". Nei secoli successivi pare
sia stata ricostruita, come quella degli Agnesi, al tempo
dell'occupazione francese, e restaurata nuovamente più tardi nel 1847.
L'antica strada romana che già sfiorava
la Fontana dei Agnesi passava anche nei pressi della Fontana Fora. Le
strade tracciate dal passaggio dell'uomo passavano sempre dove si
trovava pure l'acqua.
Con la crescita della popolazione, ma
soprayutto con la nascita di una fiorente industria conserviera, si fece
pressante anche il fabbisogno di acqua. Così nei primi anni di questo
secolo l'amministrazione austriaca di Isola
ritenne opportuno dotare l'abitato di una serie di fontane pubbliche,
nelle quali, attraverso un piccolo
acquedotto, far confluire l'acqua del
torrente Ricorvo.
Le
fontane pubbliche avevano una colonna di ghisa con qualche modesto
elemento decorativo, erano alte metri 1,60 e con un piano d'appoggio per
i recipienti. Erano situate nelle maggiori piazze e nei piazzali, ma di
esse non rimane più traccia. A testimoniare della loro esistenza rimane
soltanto la fontana ancora oggi situata di fronte alla Chiesa di S.
Domenico, al centro del mercato ortofrutticolo (Piazza Kristan), che
venne ricostruita nel 1935 e collegata alle tubature del nuovo
Acquedotto Istriano.
Ancora nel primo decennio dopo la fine
della Seconda guerra mondiale, alle Porte era situata la pesa pubblica.
Negli anni '30 e '40 veniva gestita da una guardia giurata. Durante il
periodo dei raccolti era al centro di un vivace movimento mattiniero tra
i vendarìgoli (coloro che acquistavano frutta e verdura per rivenderla)
ed i campagna che portavano i prodotti della terra sul carro trainato
dall'asino (el
mus). Senza farsi sentire dagli altri, i vendarìgoli facevano la
propria offerta al venditore che, dopo aver sentito tutti, la cedeva al
miglior offerente. Il retro dell'edificio, rivolto verso la Mesa Grìsa,
come ancora ricorda qualcuno dei più anziani, era adibito a ritrovo
delle Guardie Campestri e dei Cacciatori. Le Porte acquisirono
un'importanza ancor più decisiva con l'inaugurazione della locale
stazione ferroviaria, che comportò l'apertura di tutta una serie di
servizi, di ristoranti e trattorie.
Di
notevole importanza per l'area anche la costruzione della Villa
Ravasini, in cui trovò dimora l'omonima farmacia. Prima di venir
trasferita alle Porte nella nuova Villa Ravasini, l'unica farmacia di
Isola era situata al pianterreno della Casa Comunale. Nel Municipio
esisteva anche un vecchio ambulatorio, che poi venne trasferito presso
il Pio Ospizio Besenghi.
Nei tempi andati il farmacista, a Isola
più conosciuto come el spesial, era il personaggio più ricercato
della comunità, perché fungeva un pò, oltre che da negoziante (l'attuale
"droghiere"), anche da surrogato del medico, e assieme alla comare (la
levatrice, che fungeva anche da pediatra, ginecologa e, se il caso, da
medico generico), rappresentavano un valido supporto al dotor (il medico
vero e proprio) al quale ci si rivolgeva solo in casi particolarmente
difficili, anche per via del costo.
È
fuori di dubbio che gli edifici più importanti della piazza, che fino
alla fine del secolo scorso rappresentò il centro di Isola, erano la
Chiesa di S. Maria d'Alieto, Casa Manzioli, il Fondaco e il Municipio.
La costruzione del Palazzo Comunale ha
inizio nel 1253 e coincide con le vicende del periodo. Proprio in
quell'anno infatti, Isola diventa libero Comune, come testimoniano i
suoi Statuti. È di qualche decennio più tardi la decisione degli Isolani
di sottomettersi al dominio della Serenissima (11 maggio 1280), un
vincolo che tenne legata la città a Venezia per ben cinquecento anni e
si sciolse nel 1797 con la Pace di Campoformio.
Anche il simbolo di Isola ha antiche
tradizioni che la riportano al legame con Venezia. Nel 1379, quando la
flotta genovese, feroce antagonista di Venezia, imperversava nell'Alto
Adriatico, una parte di essa venne dirottata dal mare antistante Isola
da una fitta nebbia che, secondo la tradizione, sarebbe stata provocata
dal Santo protettore San Mauro. La città in questo modo riuscì a
sottrarsi alle devastazioni cui altrimenti sarebbe stata condannata. Lo
scampato pericolo, sempre secondo la leggenda, sarebbe stato annunciato
agli abitanti da una colomba bianca recante in bocca un ramoscello di
ulivo, simbolo di pace. Ancora oggi, la colomba con il ramoscello
d'ulivo nel becco è simbolo del Comune di Isola.
Quanto forte fosse il legame di Isola
alla Serenissima è dimostrato dagli awenimenti che succedettero
all'indomani della Pace di Campoformio e dalla decisione di Napoleone di
cedere i domini Veneti all'Austria. Il 5 giugno il popolo isolano si
solleva per protesta e addirittura uccide il podestà Pizzamano, accusato
di essere troppo vicino al nuovo potere. Lo storico piranese Almerigo
Apollonio, nel suo recente volume "L'Istria Veneta dal 1797 al 1813",
così descrive i fatti di Isola:
"Nella mattina del 5 giugno, sparsasi una
voce nella Terra d'Isola che fosse stata introdotta la Bandiera
Imperiale, di cui venivano imputati autori Pietro Besengo, Giuseppe
Moratti, Domenico Costanze, Nicolo Drioli e il dottor Parè, con
l'intelligenza e l'assenso del Podestà Pizzamano, nacque una universale
insurrezione e quindi fatto adossare le militari divise ad alcuni erano
soldati recluto, comparvero questi armati sopra la pubblica Piazza e
quindi salite dai rivoltosi le Scale del Palazzo aprirono forzatamente
le porte...
Malmenarono tutta la famiglia, compresa
una figlia del Podestà "puerpera da pochi giorni", misero a soqquadro la
casa, prendendosela colle suppellettili, coi materassi e col vestiario.
A questo punto il Pizzamano tentò di fuggire verso la Casa del Moratti
ma fu raggiunto e ferito gravemente da un certo Zuanne d'Udine; il
Perentin, detto Bastianella, lo finì con una fucilata. Altri infierirono
sul cadavere".
A.
Apollonio continua ancora la sua descrizione dei fatti di Isola di quel
lontano 5 giugno 1797:
"Il Moratti e il Costanze scapparono
durante la notte successiva, il primo a
Umago, l'altro a
Capodistria, ma il 6
giugno intervenne il Parroco per pacificare gli animi e riportare la
concordia. Il giorno 7 giugno doveva celebrarsi la Cerimonia della
Conciliazione e il Costanze si ripresentò in città. Male gliene incolse!
Assieme al Besenghi e al Drioli venne tenuto sulla piazza in ginocchio,
con il Crocifisso in mano per alcune ore, e solo l'abilità del Clero
evitò il peggio; ma le minacce di morte, in quelle ore, non si
contarono.
La
conclusione di quella rivolta? ..."La furia popolare era esaurita. I
danni vennero valutati in complessive Lire 36.410, somma che nella
successiva sentenza venne addebitata ai rei, ripartita tra un centinaio
di "rivoltosi", individuati per nome, cognome e soprannome... Ben inteso
ci furono le condanne a morte, peraltro in contumacia, dei due
sunnominati assassini del Podestà, e i responsabili di atti di violenza
contro le persone, una dozzina, si ebbero delle condanne ai ferri, una
sola delle quali molto severa di dieci anni."
Al Palazzo comunale è legato anche il
tipico simbolo che stava a indicare l'appartenenza della città alla
Serenissima: il Leone marciano posto entro il timpano della facciata del
Municipio rivolta al mare e alla Piazza.
Come
viene definito nel volume "II Leone di San Marco in Istria" di Alberto
Rizzi, si tratta di leone marciano andante (I metà del XV sec.).
Pietra d'Istria, cm 100x170 c. Leone nimbato andante (tipo stante)
verso sinistra reggente libro aperto lievemente inclinato (scritta
consueta in carattere gotici: è caratterizzata per allineamento su
entrambe le pagine) e avente accigliato muso da leonessa un po'
scorciato, con naso camuso e lingua estroflessa, ali tra parallele e
divergenti, coda distesa arcuata, testicoli visibili (?); poggia su
acqua e terreno (appena accennati). Per il corpo pressoché glabro e
specialmente pel modo in cui cade la coda, l'animale assomiglia un po'
ad un babbuino.
Un
cenno merita ancora il leone in pietra d'Orsera posto entro un incavo
dell'angolo orientale del palazzo che risale probabilmente al 1212,
quando la chiesa di Isola divenne parrocchiale col diritto di battesimo,
dopo lunghe controversie con il Capitolo di
Capodistria.
Probabilmente era posto ad uno dei lati del battistero che non era, come
affermano taluni, nella chiesa della Madonna d'Alieto, ma presso
l'antica chiesa che sorgeva sullo stesso posto dove oggi sorge il Duomo.
Pasquale Giuseppe Giacomo Besenghi degli
Ughi [ed. vedi sotto], ultimo dei figli del Conte Giovanni Pietro
Antonio fu Giacomo e della donna Orestilla Freschi dei Conti di Cucagna,
friulana, nacque in questo palazzo il 31 marzo 1797. Il Besenghi è morto
a
Trieste il 24
settembre 1849, ultimo discendente della famiglia.
Non esiste alcun dato sicuro che
testimoni un soggiorno del Sommo Poeta
Dante Alighieri ad Isola, anche se su qualche cartolina illustrata
quest'ipotesi è presente. Un legame tra Isola e Dante, comunque, esiste,
pur se indirettamente. In questa cittadina, nel lontano 1399, è stato
scritto uno dei primi codici danteschi. A darne notizia, il 10 gennaio
1935, è stato il quotidiano triestino "II Piccolo", che annunciava: "Un
codice dantesco scritto a Isola nel '300 è stato acquistato dal Governo
italiano per 200 mila lire. La cordiale comunicazione è stata fatta dal
Duce al Sen. Salata." II codice, ora conservato nella Biblioteca
Marciana di Venezia, alla fine del testo riporta in latino che: "Questo
libro è stato scritto da me, Pietro Campanni fu Giovanni da Tropea, nel
territorio di Isola, nell'anno 1399 dalla nascita del Signore." Pietro
Campanni, calabrese di origine, nel periodo
in cui scrisse il codice, ricopriva a Isola la carica di notaio e
cancelliere del Podestà. Il codice rimase a Isola ben poco. Già nel 1400
sembra arrivato in Spagna e da qui in America, da dove è ritornato in
Italia negli anni '30 di questo secolo. A segnalare l'esistenza del
manoscritto a Mussolini e a proporne l'acquisto è stato il Sen.
Francesco Salata, originario di Ossero sull'isola di
Cherso.
Isola era notoriamente paese di
agricoltori e pescatori con qualche artigiano e qualche pubblico
funzionario. Soltanto verso la fine del secolo scorso incominciarono a
comparire anche i primi operai, anzi, le prime operaie, visto che i
locali conservifici impiegavano in prevalenza manodopera femminile. La
maggioranza della popolazione nel corso dei secoli era dedita
prevalentemente all'agricoltura. Tra le colture più' diffuse troviamo la
vite. Nelle case doveva esserci lo spazio necessario per il mezzo di
trasporto (il carro e l'asino) e lo spazio per conservare il vino: la
canova o cantina con tutto il necessario. Dalle botti, ai cavee/ (tini),
alle brantele. Oggi il termine canova è usato quasi esclusivamente per
indicare una trattoria che, alla lontana, si richiama alla cucina
tradizionale.
Nel
periodo che precedeva la vendemmia, gli agricoltori avevano la
consuetudine di portare le botti ed i tini in riva al mare per riempirli
di acqua salmastra e renderli pronti e puliti per ospitare il vino
novello. Anche le cartoline di inizio secolo testimoniano questa usanza.
Spesso, infatti, raffigurano le botti allineate lungo la riva, sulla
diga o nello spiazzo che - dopo esser stato opportunamente bonificato -
serviva da campo di gioco o campo sportivo e che oggi è adibito a
parcheggio per le automobili.
Tra i modi di dire degli Isolani: ...a ga
un bon goto de vin, come dire che in cantina aveva un buon bicchiere di
vino. - La bota era la botte grande in cui veniva conservato il vino
destinato alla vendita. La botisela era una botte più piccola, che
serviva per conservare quantità minori di vino soprattutto per uso
proprio (per le feste) o, spesso, di aceto (asedo). Simpaticamente, per
persona di sesso femminile tonda e grassoccia, si diceva che era cocola,
ma come una botisela.
El botaso, invece, era una piccola
botticella portatile usata comunemente dai campagnoi per portare acqua o
intemperà quando si recavano al lavoro in campagna. Isola era conosciuta
per il suo vino e, infatti, rappresentava la principale fonte di
guadagno degli agricoltori. Si producevano la Malvasia (vino bianco) e
il Refosco (vino rosso, che dalle nostre parti, ad eccezione di tutte le
località italiane, si definisce "vino nero").
Pure oggi la zona è particolarmente
apprezzata per questi due vini, anche se negli ultimi anni altri vitigni
stanno sorgendo. Alcuni spumanti isolani sono stati particolarmente
pubblicizzati durante la Prima Fiera Provinciale dell'Istria, del 1910 a
Capodistria. Sempre sul
Refosco famosa la strofa che gli dedicò il poeta isolano
Pasquale Besenghi degli Ughi: "Un re più
dolce - Io non conosco - Del buon Re-Fosco". Na Zdravlje. Alla Salute.
Per dire che il vino non era buono si
affermava che doveva essere "un vin de baston o un vin de struco." Non
potevano di conseguenza mancare anche i modi di dire ed i proverbi, come
"ala lingua el vin ghe da forsa, ale gambe a ghe la ciòl," - oppure "per
el vin se destin de Dio, se magna la mare (l'uva) e se beve el fio (il
vino)."
Fin dai tempi più lontani, oltre che per
la bontà dei suoi vini, Isola era conosciuta per la produzione dell'olio
di oliva. Niente di strano, dunque, se durante la stagione della
raccolta e della spremitura delle olive si trovassero in funzione
numerosi torci. Uno degli ultimi a rimanere in funzione era quello
situato in Riva de Porta, che venne poi assorbito dal Consorzio Agrario.
Di
data più antica quello che era situato in Piazza Grande, probabilmente
nell'edificio dove più tardi venne aperto il Caffè Centrale. Un terzo
era il tordo del poso, così chiamato per la presenza di un vecchio pozzo
con la vera e con e/ stagnaco con la cadena. Un quarto funzionava a Le
Porte nei locali dove prima c'era un magazzino. Un quinto, infine,
operava in Via A. Volta, oggi via Premrl
poco lontano dalla fabrica ai bagni, trasformato successivamente
in distilleria e, infine, in fabbrica di sardine in scatola di Nicolò
Delise.
È
noto, che i primi porti di Isola erano due ed erano situati fuori
dell'odierno comprensorio urbanistico, quello di San Simone,
appartenente all'antica Alieto, e quello di Vilisan, scoperto appena
agli inizi di questo secolo, ma pure, sembra, di epoca romana. Quello
che ancora oggi serve all'attracco delle barche e un tempo, neanche
tanto lontano, serviva ai vapori che collegavano Isola a
Trieste e alle altre
cittadine istriane, è stato costruito assieme al mandracchio nel lontano
1326, per iniziativa del podestà Giorgio Contarini.
La
Diga, che molti Isolani chiamavano anche Giga, risale a parecchi secoli
più tardi. Infatti, costruita per difendere il porto dalle mareggiate
risale ai primi anni Venti di questo secolo. Esistono ancora delle
immagini in cui è ben visibile la prima fase dell'opera, con la
superficie non ancora coperta da cemento e da pietre, ma da semplici
assi di legno. Anche se la sua storia è abbastanza recente, ha anch'essa
le sue vicende da raccontare. Ritenuta di importanza strategica dalle
truppe d'occupazione tedesche, prima della fine della Seconda guerra
mondiale venne completamente minata. Qualche giorno prima della
liberazione e prima di ritirarsi da Isola, il 22 aprile del 1945, alle
ore 6.45 del mattino, fu fatta saltare in aria con un'esplosione che
danneggiò parecchie delle case circostanti e alcune delle imbarcazioni
più vicine. Venne ricostruita nei primi anni del dopoguerra.
Il mondo della pesca rappresentava fonte
di curiosità soprattutto per coloro che venivano a trascorrere qualche
giorno di vacanza a Isola. In particolare i bambini. Lo Scoglio d'Isola
rappresentò per varie estati fa realizzazione dei nostri sogni di
ragazzi, quando dall'obligo e dalla fatica della scuola la nostra
immaginazione correva alla libertà delle vacanze. Così inizia uno dei
Racconti istriani che Giani Stuparich, scrittore triestino (1891-1961),
dedica ai suoi ricordi legati alla nostra cittadina. Il padre originario
di Lussimpiccolo portava spesso la famiglia a trascorrere le vacanze
estive in amene località istriane. Nei primissimi anni del secolo, il
piccolo Giani trascorse qualche estate anche ad Isola, certamente non
annoiandosi, come lo dice egli stesso.
"Isola era un vero, nido di pescatori." -
racconta Stuparich - "A Isola come in nessun altro posto dell'Istrìa, a
noi ragazzi s'apriva il mondo della pesca... La maggior parte di quella
pesca andava alla fabbrica, che elevava il suo fumaioìo proprio sullo
Scoglio, non lontano dai nostri bagni. Tutto intorno odorava di pesce
salato e lustrava di teste di sardelle. Bariletti di teste si portavano
via i pescatori e si servivano di esse per il "pascolo": per fa "bruma":
Quà a Isola, duto el fondo del mar xe coverto de teste de sardeìe, un
vero pascolo che ciama i altri pesi!"
Giani Stuparich racconta le pescate che
faceva con il padre e con un Isolano, "Marco il pescatore": Il fatto
straordinario della straordinaria avventura era la veleggiata in piena
notte, saremmo infatti partiti poco prima delia mezzanotte, per giungere
sui posto alcune ore dopo a seconda del vento, e attendervi l'alba.
Come
spiega lo stesso Stuparich, si trattava di andare a pesca di sgombri: ...con lenze tutte ben ordinate: ce ne saranno state una ventina e in
confronto con quelle che adoperavamo noi, ci sembravano gigantesche,
avvolte attorno a larghi sugheri, coi piombi pesanti, il filo di Spagna
grosso, ricche di ami. Non eravamo mai andati alla pesca degli sgombri.
- Perché tante? - chiedemmo a Marco e Marco ci spiegò che ali
'occorrenza papà e lui avrebbero pescato con quattro. - Con quattro? -
Si, due su le recie e due in man. In due ore d'affannoso e gioioso
lavoro pescammo, quella indimenticabile mattina, intorno ai trenta chili
di sgombri. Il posto lo si ritrovava per riferimenti. Quando il camino
della fabbrica di sardelle si allineava perfettamente con il campanile
del Duomo e la casetta rosa sullo scoglio copriva un'altra casetta
bianca più in alto, eravamo sul posto.
Fra
i "Racconti istriani" di Giani Stuparich ambientati a Isola, sempre
carichi di una umanità e di una capacità di fotografare luoghi e
situazioni rare, bisogna ricordare anche "L'aquilone", dove l'autore
triestino descrive i giochi assieme ai coetanei e al padre durante una
delle estati che fu, come dice egli stesso, particolarmente splendida.
Descrive alcuni giocattoli e giochi tipici dell'epoca che sembra
divertivano molto i bambini dell'epoca, cioè dei primi anni del secolo:
Un giorno papà veniva a casa
con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava
per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti: per una settimana,
con disperazione della mamma, noi assordavamo l'aria di fischi e
nessun passaggio all'aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi. Un
altro giorno vedevamo papa manipolare misteriosamente ogni sorta di
stracci.. ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella
palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa.
Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato, divisi in
due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per
afferrarla al volo.
I racconti di Giani Stuparich riescono
molto bene a rendere l'idea di come fosse la vita per i bambini nei
primi scorsi di questo secolo. Naturalmente, non era la solita vita dei
ragazzini di Isola, figli di pescadori o di campagnola anche se tra
ragazzi riuscivano sempre a trovare un linguaggio comune. Così racconta
del giorno in cui il padre decise di costruire un nuovo giocattolo per
il piccolo Giani:
Una mattina lo vedemmo
davanti la casa, affaccendato con grandi fogli di carta d'impacco,
con lunghe, stecche ricavate da canne, con barattoli di farina, con
gomitoli di spago. Costruì un aquilone. Il nostro aquilone
- ricorda Stuparich - fu per parecchi giorni la meraviglia
desola e tutti venivano sullo Scoglio a vederlo.
Qualche
notizia su Isola si riscontra in quasi tutti i testi scritti da studiosi
di storia istriana.
Giuseppe
Caprin, nelle sue "Marine istriane" illustra non soltanto la
cittadina, ma anche la sua gente con molta simpatia. La popolazione
d'Isola - scrive il
Caprin -
è tutta sulle viuzze: le mamme pettinano i bimbi, rammendano le
vesti; si chiacchiera ad alta voce; cade una parola da una finestra e
vien raccolta, e il vicinato fila il discorso, continua il racconto, e
rompe in una chiassata, senza che gli occhi si levino dal lavoro. Sotto
la nicchia di una scala si prepara con un po' di pepe e di erbe il
brodetto, una famiglia pranza all'aperto; scappa da un cortile una
canzone e la segue l'accompagnamento di un coro... Sembrano immagini
prese da un romanzo rosa, o comunque ritratte in un giorno di festa in
primavera. Da quando il
Caprin
scrisse queste righe, tuttavia, è trascorso ormai un secolo e molte cose
sono cambiate. Qualcuna in meglio, ma tante anche in peggio.
Uno
dei modi di dire isolani, che stava a denotare l'antica saggezza
popolare, ma pure un tipo di dignitosa povertà, recitava "Fogoler giasà,
tardi se magnare". Anche se il Fogoler appartiene alla storia del secolo
scorso, in quanto si trattava di un focolare basso, con una grande cappa
(la napa) nel mezzo della quale pendeva una catena per il paiolo, dopo
la prima guerra mondiale si passò ad una versione più alta, murata, con
un fornello per il carbone o per la legna e fornito di una piastra in
ghisa con due o tré buchi prowisti di cerchi sui quali si cuocevano le
pietanze. Subito dopo venne introdotto, almeno da chi se lo poteva
permettere, lo Spacher (dal tedesco "Sparherd"), provvisto anche di una
caldaietta per l'acqua calda, tutto di metallo. In esso, ma già in
quello precedente, era possibile cuocere anche il pane nello spazio
adibito a forno.
Forse una volta non erano disponibili
tante qualità e tanti tipi di pane, quanti ce ne sono oggi. Certo è
però, che il numero dei fornerì (fornai) non fosse inferiore ad oggi.
Probabilmente perché allora non c'erano i mezzi di trasporto rapidi che
esistono attualmente, ed il pane doveva essere cotto e venduto entro un
breve lasso di tempo. Negli anni Venti a Isola esistevano cinque fornai,
almeno secondo alcune testimonianze, che cuocevano e vendevano il pane
di giornata per tutti coloro che non lo facevano direttamente a casa. Va
detto, però, che c'era anche la prassi di preparare a casa l'impasto e
di portarlo dal forner per la sola cottura. Uno di questi aveva il suo
forno vicino alle scuole e veniva chiamato dalla Bacan. Poi c'era il
Viola in via Besenghi, La Piranesa vicino alla Chiesa di S. Giovanni, il
Ralsa vicino al Fontego e, infine, el Forner de fora, visin al campo de
balon, perché era fuori dalle Porte, dove il terreno era stato
bonificato per costruirvi il campo sportivo.
Nel
corso dei secoli Isola non aveva mai sentito la necessità di disporre di
una pescheria, visto che una buona parte degli abitanti era dedita alla
pesca. Questi poi fornivano il pesce agli altri in vendita o
barattandolo con i prodotti della campagna.
Nel secolo scorso, comunque, c'era una
piccola pescheria situata in un porticato, dove più tardi trovò posto la
sagrestia della Chiesa della Madonna d'Alieto, e che era conosciuto come
La Losa (la loggia). Più tardi la vendita del pesce venne trasferita in
un locale adiacente la Chiesa di S. Andrea in Piazza Grande. Infine,
progettata da Ettore Longo, perito edile comunale, venne costruita la
nuova pescheria che servì al suo scopo fin nei primi anni dopo la
seconda guerra mondiale. Oggi ospita la Capitanieria del Porto e la
Dogana. Secondo alcuni dovrebbe tornar a volgere la propria funzione
originaria per cui venne costruita.
Ogni città in Istria disponeva di un
Fondaco, una specie di magazzino pubblico per le riserve di derrate
alimentari, che veniva gestito dalle autorità municipali e che serviva
da fondo di riserva per far fronte ad eventuali necessità della
popolazione. Interessanti le disposizioni comunali, con le quali veniva
esercitato il controllo delle merci custodite, di quelle in arrivo e di
quelle in partenza, tanto che, per evitare la possibilità di
contrabbando o di vendita sottobanco, tutte le merci venivano
diligentemente specificate e pesate.
Non
siamo riusciti a trovare molte notizie su quando e perché è stato
costruito il Molo Sanità, anche se è da presumere che risalga più o meno
all'epoca in cui è stato ristrutturato il Mandracchio. Non vi sono molte
notizie nemmeno sul perché di questa sua denominazione, almeno fino ai
primi anni di questo secolo. Probabilmente sanità deriva dal fatto che
si trova nelle immediate vicinanze del Fontego e che quindi serviva da
molo d'imbarco, ma soprattutto di sbarco, per le merci (granaglie
innanzitutto) che il Comune poi immagazzinava per le proprie necessità.
Già negli antichi Statuti di Isola, del resto, si stabiliva che sul molo
vigevano regole particolari controllate dalla dogana o da funzionari
comunali.
Più convincente, però, ci sembra chi
sostiene che il nome gli derivi dal fatto che, probabilmente, nelle
vicinanze ci sarebbe stato un vecchio lazzaretto. Anche in altre
località istriane, infatti, il termine di sanità viene collegato a
istituzioni del genere.
Che la denominazione derivi proprio dalla
vicinanza di un istituto sanitario è una supposizione tanto più
legittima, se si tien conto che, attraversata la Piazzetta, si arrivava
all'imbocco della Contrada de l' Ospedal, dove aveva sede appunto
l'antico ospedale, l'ospizio di Isola, che veniva chiamato anche l'
Ospedal dei poveri.
La Casa dei poveri cessò le sue funzioni
all'inizio di questo secolo, quando vennero trasferite nel neocostituito
Ospizio Besenghi. La Contrada de L'Ospedal, chiamata Via dell'Ospedale
Vecchio, fu ribattezzata nei primi decenni del secolo in via
Pietro Coppo e dopo gli anni Cinquanta in Via Lubiana. La strada che, partendo
dalle Porte, dopo una cinquantina di metri si dirama, veniva definita
Contrada de sora, poi via Ettoreo, oggi via
Capodistria.
La
tradizione delle trattorie, osterie, o delle bastane, come probabilmente
allora si chiamavano, è presente nei secoli. Da qui anche la necesità di
regolamentare la vendita del vino. Un articolo degli antichi statuti di
Isola, per esempio, stabiliva che:
Sia permesso ad ogni oste a tutte le ore dopo il suono della
terza campana vendere e dare vino a tutti coloro che vogliono
intraprendere un viaggio oppure che siano di ritorno, in
boccale o barile o cosa simile. O che vogliono portare a casa per
se stessi o per familiari. Se poi qualcuno berrà vino di qualche oste,
non osi uscire dalla taverna senza il volere dell'oste, senza prima aver
pagato. Un tanto viene stabilito sotto la pena di 20 soldi, dei quali 15
al Comune e 5 all'oste, Anche in questo caso, come in altri, era la
campana che segnalava l'ora di chiusura e anche quella di apertura delle
taverne. La regola, probabilmente, aveva lo scopo di evitare che il vino
venisse comprato fuori dal paese. Ma anche, e non rappresentava elemento
di seconda importanza, perchè il vino costituiva un fattore integrativo
della povera dieta degli Isolani, ritenuto quindi indispensabile.
Chi non ricorda, da ragazzi, quando si
andava a fare il bagno sulla spiaggia allora ancora selvaggia di San
Simon, la raccolta di scagnei, i tasselli di mosaico che abbondavano tra
la sabbia e la ghiaia? Erano i resti di un mosaico di una villa
dell'epoca romana, venuta alla luce nelle immediate vicinanze della
spiaggia, dove un tempo c'erano i campi di un certo Dudine. Il mare e le
onde avevano provveduto con il tempo a sparpagliarle in lungo e in
largo. I scagnei si potevano trovare ancora nei primi anni che
succedettero alla seconda Guerra Mondiale, poi, con la trasformazione
della zona in area turistica, sono scomparsi del tutto. Attualmente, la
zona dove si trovano i resti della villa romana è sotto tutela
dell'Istituto per la salvaguardia dei beni monumentali. Del mosaico,
oltre a qualche fotografia ripresa agli inizi del secolo e conservata in
qualche volume di storia isolana, e a qualche chilogrammo di scagnei
raccolti e conservati da qualche amante d'antichità, oggi non rimane più
niente.
Nel
1031 Isola era un feudo della abbadessa del monastero di S. Maria di
Aquileia la quale esercitava una dura sovranità, con diritto di vita e
di morte e com l'Imposizione di pesanti gabelle. Ma la fiera comunità
aspirava alla libertà municipale. Mandò dei nunzi alla abbadessa, limitò
i poteri del suo gastaldo, ridusse i tributi e diventò un Comune libero
col proprio podestà. Nel 1280 si diede a Venezia.
Gli isolani avevano un carattere fiero,
nonostante la bianca colomba con il ramoscello d'ulivo che costituisce
il loro stemma. Proibirono alle ragazze di sposarsi con capodistriani e
piranesi a causa di antichi rancori economici e d'onore. Si ribellarono
perfino al grande Napoleone che, nel 1797, cedette l'Istria e la
Dalmazia all'Austria. In quell'occasione come già detto uccisero il
podestà Pizzamano mentre, fuggendo dal municipio, era rimasto
intrappolato in una calle senza uscita. Lo credevano, pare
ingiustamente, filoaustriacante ed incapace di opporsi alla pace di
Campoformido.
In mancanza di costituzioni nazionali, si
erano dati uno statuto che nel suo rigore rivela l'esigenza di una
società giusta: "Chi uccide qualcuno sia conclannato a morte". "Se
qualcuno estrae contro qualcuno la spada, lo spuntone (lancia), il
falcone (falce), il percolo (arco), la varenga paghi al Comune 25
libre". È permesso vendere beni agli stranieri, "resta escluso agli
uomini di
Pirano" (art. 32).
L'art. 95 impone una multa di 200 libre al bigamo: "di questa multa la
donna ingannata abbia due parti e la terza al Comune". Si proibisce di
tenere nella cittadina "porchi grandi o piccoli oltra otto giorni" e che
nessuno "non debba tenir alcuna capra, se non in casa sua serada".
"Chiunque ha bestemmiato paghi al Comune libre 5" e, se non può pagare,
"deve stare legato alla colonna di pietra che sta sulla piazza". L'art.
82 impone di tagliare una mano a colui che appicca il fuoco a una casa e
non possa risarcire il danno. L'art. 47 dice: "chi abbia dato a qualche
persona da mangiare o da bere qualche maleficio così che possa
derivargli la morte o perdere la ragione, se è un uomo sia impiccato per
la gola, se è una donna sia bruciata sul rogo". L'art. 59 prevede una
multa di 20 soldi a colui che esce dall'osteria senza aver pagato il
vino che aveva bevuto.
Sottomessa a Venezia, ottenne il
privilegio di conservare il suo statuto. Nel 1326 il podestà Giorgio
Contarini costruì il porto e il molo al quale fu aggiunta la diga negli
anni 1930. Il 25 agosto 1379 una spedizione militare di
Aquileia violò le
sue mura e alcuni giorni dopo fu ripresa d'assalto da soldati istriani,
comandati dai podestà di
Pirano, di
Capodistria e di
Umago. Le mura furono
restaurate da Venezia nel 1615 ed armate di 8 pezzi di artiglieria, di
150 moschettoni e di 150 archibugi. La cittadina poteva offrire 500
uomini armati. Poi lentamente le mura si sbriciolarono. Infine il mare e
la forte bora le dispersero. Intorno a due piazze si affastellano le
case pulite, legate da volti e da viuzze selciate che le danno un
aspetto veneziano. Dominano con prepotenza i palazzi Lovisato,
lombardesco, Manzioli, gotico-veneziano, Besenghi, ricco di stucchi
rococò, oggi scuola di musica, il municipio col suo oratorio. Era
costume dei magistrati veneti e dei curiali di assistere all'ufficio
divino prima di trattare i processi e le cause.
La cittadina era benestante, ma per non
pagare le tasse a Venezia, fingeva di essere povera al punto - racconta
il Coppo -
che i giovani si sposavano con un anello di paglia.
Il
nuovo duomo fu inaugurato il 10 agosto 1553. Dice una memoria che
"essendo la Chiesa di S. Moro d'Isola vecchia, mal conditionata... tutte
le scuole hanno contribuito: Sacramento, Camerario di S. Moro, S. Dona,
S. Michele, S. Antonio Abbate, S. Maria, S. Rocco. Sumano le
soprascritte partite Lire 4.178, di che li predetti denari furono
comprati li legnami, le pietre, le colone, i coppi e la pietra di bella
sorte per far 14 colonne". Il duomo neoromanico, a tré navate, con sette
altari di marmo, conserva le opere di Gerolamo da S. Croce, di Palma il
Giovane, di Andrea Seccante e otto quadri di Pietro di Capodistria che
illustrano la vita ed il martirio del Patrono S. Mauro. La sagrestia
custodisce tré antifonari miniati e un prezioso ostensorio del 1444.
Il Thamar scriveva nel 1581: "sono gli
huomine e donne di buona e bella statura, ben fatti e ben proporzionati,
valorosi di forze di corpo... quieti, facili a perdonare le ingiurie,
pietosi di religione verso il signore Iddio, fedelissimi verso il suo
Principe Veneto il quale si valse della loro fedeltà per deprimere le
discordie e tentate ribellioni e contro i turchi dove intrepidamente
hanno mostrato il loro valore".
Fra gli uomini illustri ricordiamo Pietro
da Isola, cancelliere del Comune che trascrisse e postillò di suo pugno
un codice della Divina Commedia. Chiuse il codice con la seguente frase:
"1394 (Dante era morto soltanto 73 anni prima) 10 di marzo, indizione
terza. Nella terra di Isola della Provincia dell'Istrici questa sacra
cantica fu scritta da me Pietro". Il prezioso manoscritto si trova nella
Biblioteca Nazionale di Parigi.
Il magistrato e geografo
Pietro Coppo
nacque a Venezia, ma visse a Isola dal 1499 al 1555. Qui scrisse i
quattro volumi del "De Toto Orbe" (descrizione dei cieli, dei mari e di
tutte le terre conosciute), il "Porto laro" (descrizione dei porti e
delle isole "comenzando da Venetia"), il volume "Del sito de l'Istria"
che è la più antica e preziosa corografia della regione. Nel 1986
l'Università Popolare di
Trieste ha pubblicato
per le edizioni Lint i due volumi delle "Tabulae".
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Pasquale Besenghi |
Isolano era anche il poeta
Pasquale
Besenghi degli Ughi che nacque a Isola nel 1797 e morì a
Trieste nel 1849 di
colera. Combattè per la libertà in Grecia con Byron. Amico di Tommaseo,
lasciò molti scritti, tra i quali canzoni romantiche e opere satiriche.
Va ricordato anche il prete Vascotto che nel 1820 aprì i primi bagni
termali: una tettoia con una decina di cabine e di vasche.
Nei rapporti con Venezia, Isola cocorse
al pagamentodei tributi, stabiliti con la Serenissima, per la protezione
dai pirati. Firmò un patto di fedeltà a Venezia nell'anno Mille; tentò
poi di ribellarsi nell'anno 1150, ma fu costretta a giurare nuovamente
obbedienza alla Repubblica. Nel 1165, i Veneziani pretesero che i patti
fossero rispettati dagli Isolani. Questi, per evitare la distruzione del
borgo, si ritirarono, con il consenso della badessa Viliperta del
monastero di S. Maria d'Aquileia, sul monte Castellier, nel sito che in
quell'occasione venne chiamato Corte d'Isola. Per mantenere la propria
indipendenza, nel 1267, guerreggiò assieme a
Capodistria,
Pirano ed il conte
d'Istria contro il patriarca d'Aquileia, concorrendo nel 1274 alla
distruzione dei castelli di Pinguente e di Pietrapelosa. Durante la
ribellione di Capodistria
a Venezia del 1279, Isola venne occupata dalle truppe venete.
Per
difendersi dalla strapotenza del feudalesimo germanico, esercitato dal
conte d'Istria, nel 1280 si sottomise volontariamente alla protezione ed
al dominio di Venezia, facendo salvi i suoi diritti e la sua autonomia.
Suo primo podestà fu il veneziano Enrico Aurio. Isola, sottoposta ai
Veneziani, ebbe varie vicissitudini durante le guerre fra i patriarchi
ed i Veneziani; pur rafforzata nelle mura, da farla sembrare
imprendibile, fu occupata di sorpresa dalle truppe friulane patriarchine
nel 1379, ma i Capodistriani, assieme ai Piranesi ed agli Umaghesi,
furono pronti a scacciarle ed a riconquistare la città pochi giorni
dopo. L'anno seguente, sotto la minaccia dei cannoni della flotta
genovese di Paganino Doria, Isola accettò di ritornare sotto il dominio
dei patriarchi. Nel 1381, a seguito della pace di Torino, il libero
comune di Isola ritornò sotto la protezione della Serenissima.
Il
borgo murato, rinforzato dal podestà Nicolo Minio nel 1411, resistette
all'attacco delle soldataglie ungheresi di rè Sigismondo che commisero
stragi e razzie nella campagna isolana. Prese parte poi alle varie
guerre combattute tra Veneziani ed Austriaci. Nel 1478 subì una
scorreria di giannizzeri turchi che razziarono le campagne ma non
attaccarono la cittadina.
Nel XVI secolo Isola fu, in un certo
senso, dipendente da
Capodistria, la quale, avendo assunto sempre più potere politico ed
economico, iniziò dalla metà del '500 ad eleggere il podestà d'Isola fra
la sua nobiltà. Anche il tribunale d'appello per le cause civili e
giudiziarie passò a
Capodistria.
Isola, nel XVII e XVIII secolo, decadde a
seguito del progressivo deteriorarsi della potenza veneta e nel 1797, al
cadere della repubblica veneziana, il popolo si sollevò ed uccise
l'ultimo podestà veneto, Nicolo Pizzamano, che non si era ribellato alla
pace di Campoformido e sembra avesse tramato per consegnare la cittadina
agli Austriaci. Nell'Ottocento, sotto la dominazione austriaca, Isola fu
soggetta al dipartimento di
Capodistria e dal 1814 formò, assieme a Corte d'Isola, un nuovo
comune soggetto al distretto di
Pirano.
Durante il mezzo millennio in cui Isola
fu soggetta a Venezia, la cittadina, con il suo piccolo territorio, si
trovò stretta fra
Capodistria, che continuava a crescere monopolizzando i traffici ed
i commerci territoriali, e
Pirano, che si espandeva sempre più sul mare. Isola disponeva di un
vasto entroterra ricco di vigneti, di oliveti, di frutteti fino al
confine con
Pirano. Questo confine
tra i due Comuni è stato spesso oggetto di vivaci discordie e ciò
aumentò la rivalità con i forti vicini Piranesi, ogni contatto per
questioni territoriali era motivo di lite, tanto che fu deciso di
vietare ai Piranesi ed agli Isolani di portare armi od oggetti di offesa
quando uscivano dal loro territorio. Isola proibì ai propri cittadini la
vendita di terreni o case ai Piranesi e consentì di vendere i propri
beni solo ai forestieri, con il patto giurato che questi beni non
sarebbero stati mai rivenduti ai Piranesi. A tale riguardo è noto in
tutta l'Istria la leggenda del cannone costruito dagli Isolani con un
tronco di fico per punire l'arroganza dei Piranesi.
Ecco a Voi una versione originale in
dialetto xe stata scritta dagli alunni della Scuola elementare “Dante
Alighieri” di Isola in un lavoro di ricerca intitolato “A Isola una
volta se rideva cussì”.
Canon de fighera
Dalla Repubblica nr. 20 di Guide d’Europa
monografiche – Istria (Istituto geografico de Agostini pubblicato nel
l999 a pag. 37 trovo scritto così:
Il cannone di legno di fico
Nel Medioevo le città dell’Istria
combattevano talvolta l'una contro l'altra. Una leggenda racconta il
conflitto fra
Piran (Pirano) e Izola
(Isola d’Istria); Izola era disturbata dai continui tentativi di Piran
di estendere i propri possedimenti costieri ai danni dei vicini, e fu
dunque dichiarata una guerra. Poiché però a Izola mancava il ferro per
forgiare le armi, venne costruito un cannone con il legno di un albero
di fico. L’arma fu issata a bordo di una nave che si spinse fin nella
baia di
Piran.
Una versione originale in dialetto è stata
scritta dagli alunni della Scuola elementare "Dante Alighieri" di Isola
in un lavoro di ricerca intitolato "A Isola una volta xe diseva e se
rideva cussì". A pag. 39 troviamo:
Canon de fighera
Tra Isola e
Pirano non correva mai
buon sangue; ne fanno prova le guerre tra le due cittadine, che
culminarono col colpo del famoso "Canon de fighera".
Quei de Isola de sempre i la gaveva con
quei de
Piran, perché i
piranesi i credeva de esser chissà chi.
Un giorno i ga pensà de farghela veder ai
piranesi, e cossa i fa? ...I ga fato un canon de fighera; i lo ga messo
in t’un trabacolo e via lori, col scuro, verso Piran, par molarghe un
per de canonade... I riva soto che iera presto giorno. I se ferma, i
punta l’arma e... fogo!
Xe stà un finimondo! El canon de fighera
xè andà in mile tochi e tre omini che iera là vissin, i xe restai morti.
-Mama mia – ga dito i vivi – se noi
gavemo tre morti, chissà quanti ghe ne sarà a
Piran?
E presto el capitano ga dà ordine de
tornar indrio.
Ma, intanto che i voltava, i ga butà
l’ocio sora
Piran e i vedi fumi
sora i teti.
-Varda, varda, compare, quanti foghi che
se ga alsà! – ga dito un. ( Ma iera quei de
Piran che i impissava
el fogo, per farse ‘l cafè.)
Co i torna a Isola, el podestà, che li
spetava, a ghe domanda:
- Bon, come xe andà?
- Ben, sior podestà, i ghe rispondi – noi
gavemo tre morti, ma gavemo lassà
Piran che iera duto un
fumo de sora e un fogo de soto: i sarà duti morti!
De note i manda le spie soto i muri de
Piran, per capir
qualcossa.
iera duto sito; no se sentiva anima viva.
- Ma dutintun i senti: - Tre, sete,
nove... !
- Qua i conta i morti, - i se disi tra de
lori sti spioni isolani – tornemo a casa.
Subito i va a raporto: - Sior podestà, a
Piran xe ‘sai mal:
gavemo sentù che i contava i morti, almeno vinti ghe ne xe...!
Ma cossa iera?
Iera do muloni de
Piran, che i zogava la
mora.
Ancora una piccola legenda, e a pag. 35
trovo che anche i Piranesi no iera meio dei Isolani e così ... via...
via...
Rema che te rema
Una volta quei de
Piran i voleva far una
scoribanda a isola.
I se ga prontà in gran segreto e, in punto a mezanote,
i soldai se ga imbarcà, a faghela vede a quei de Isola,
cossa che i xe boni de far.
Al’ordine del capitano i se ga messo a remar.
E rema che te rema, de Isola gnanca segno.
Finalmente i senti cantar i gali.
- Qua semo vissin – i disi...
Ma po’ un se volta indrio e a siga:
- Ma come? Semo de novo a
Piran?
I se gaveva dismentigà de molar la sima della corda!
E xa che metrovo visin [..,] de novo trovo che
Capodistria i cresi
l'erba sul campanil.
L'erba sul campanil
Anche tra Isola e
Capodistria non
correva buon sangue.
I Capodistriani erano chiamati “cavrisani” anche perché...
sula sima del campanil de
Capodistria
cresseva erba.
Se raduna el consiglio comunal e se studia el modo per cavarla.
Se alsa un contadin e a disi:
- Mi go una cavra che no la xe mai sassia.
- La lighemo e la alsemo fin in sima e in un bater d’ocio,
- e l’erba no sarà più.
Duti i xe de acordo.
I porta la cavra, i ghe meti una corda atorno al colo e... issa...
issa... issa... i la alsa verso la sima del campanil.
- Gente vardè, a la tira la lingua fora per magnar l’erba.
La cavra gaveva la lingua fora sì, ma no per magnar l’erba, ma
perché a forsa de tirarla su i la gaveva sofigada.
E da quel giorno i Capodistriani vegniva ciamai cavrisani.
Isola disponeva di un vasto entroterra
ricco di vigneti, di oliveti, di frutteti fino al confine con
Pirano. Questo confine
tra i due Comuni è stato spesso oggetto di vivaci discordie e di gustose
facezie come quella del "canon di fighera" dei piranesi e della "ponza
senza buligo" degli isolani.
Dopo averlo caricato ben bene il cannone
esplose causando qualche morto e feriti sul posto. Uno di loro, che era
di vedetta su un albero, sbottò:
"Se qua ga fato tuta 'sta strage, cossa
sarà in quell'altra parie."
Anche con
Capodistria le
relazioni non erano buone, causa i dazi e gli affitti relativi ai
possessi indebiti dei terreni del monastero; con
Capodistria però si
giunse ad un accomodamento alla fine del XV secolo. In quell'epoca ad
Isola, come in tutte le altre cittadine sottoposte a Venezia, si
acquisirono leggi e costumanze che vigevano a Venezia. La popolazione
era divisa in cittadini, la classe al potere, e popolani che erano
esclusi da ogni partecipazione alla vita pubblica. È rimasto nella
leggenda popolare il ruolo che ebbe a Isola la casa degli Ettoreo, sotto
le falde del cui tetto potevano rifugiarsi i perseguitati dalla
giustizia, certi dell'immunità dovuta al diritto d'asilo goduto da
alcuni nobili.
Nel XV secolo venne istituita la prima
scuola pubblica e nel 1582 venne creata la seconda sede istriana del
Sant'uffizio dell'Inquisizione. Ad Isola, già nel XIV secolo, funzionava
un fondaco per le granaglie che veniva amministrato da un fonticaro
eletto dal comune. Poiché Venezia cercò sempre di limitare lo sviluppo
economico delle città sottoposte al suo dominio, gli Isolani rispose. Ricorre
quest'anno il decimo anniversario della scomparsa di Antonio Vascotto
(ciciola), nato a Isola d'Istria il 4 agosto 1914 e morto a Cesena il 16
ottobre 1991. Uomo di cultura, studioso e fervente italiano, era
impiegato negli stabilimenti conservieri dell' "Arrigoni" di Isola.
Nella nostra cittadina fu perseguitato dai comunisti "nostrani" e da
quelli titini, fatto che successe a molti nostri concittadini, rei
soltanto di sentirsi italiani e di amare la loro Madre Patria.
Fu percosso brutalmente e ingiustamente
dai "liberatori" di Tito, licenziato dal suo impiego all'Arrigoni e
costretto a rifugiarsi a
Trieste. Nel 1955
sposò Sonia Urdith e, dopo varie vicissitudini, venne assunto allo
Stabilimento Arrigoni di Cesena, dove per merito gella sua capacità,
conclude una brillante carriera.
Antonio Vascotto, grazie al suo amore per
Isola e per l'Italia, ci ha lasciato in eredità un grosso patrimonio,
prima con la collaborazione a "Isola Nostra" e poi con la pubblicazione
dei suoi due volumi "Voci della parlata isolana nella prima meta di
questo secolo" (Grafiche Calcati, Imola 1987 - pagine 366 più 9 fuori
testo dedicate ai soprannomi) e "Ricordando Isola. Testimonianze e
scritti" (Grafiche Galeati, Imola 1989 - pagg. 224).
Questi due volumi, ricchi di storia isolana,
sono utilissimi non solo ai suoi concittadin ma anche agli studiosi e
ricercatori. Il primo in particolari dove Antonio Vascotto, dopo lunghe
e appassionate ricerche, ha raccolto migliala di voci del nostro
dialetto che altrimenti sarebbero andate perdute per sempre. Questo suo
merito va sottolineato, gli isolani tutti e la cultura italiana devono
essergliene grati.
Isola Nostra, a dieci anni dalla sua
scomparsa, lo vuole ricordare a tutti i suoi concittadini e a quanti lo
hanno conosciuto e amato pubblicando, in sua memoria, la ricerca sui
"soranomi" isolani.
F.D.
UN DATO "ANAGRAFICO" CHE STA GRADUALMENTE
SCOMPARENDO
L'IMPORTANZA SECOLARE DEI NOSTRI SOPRANNOMI
Come risaputo, l'usanza istriana e dalmata di aggiungere al nome e
cognome un soprannome, non era una presa in giro, bensì una assoluta
necessità.
Nelle nostre terre, per fortuna,
l'emigrazione non è mai stata una necessità (rari erano i casi), anzi,
da noi si insediavano molte famiglie del resto d'Italia o di etnie
straniere, in particolare slave in fuga dalle orde turche. Non va
neppure sottovalutato il fatto che la Repubblica di Venezia, alla quale
per molti secoli appartenemmo, nei funesti periodi di pestilenze che
decimavano le nostre popolazioni, sostituiva con queste genti i morti,
dando loro le case e i poderi di questi ultimi, per far continuare così
soprattutto le produzioni agricole, del legname e della pregiata pietra
istriana, materiali tanto preziosi alla superpotenza di allora.
Dal fatto che la nostra gente viveva per
secoli e secoli sullo stesso territorio, le famiglie si moltiplicavano
(allora era normalissimo avere anche dieci figli...) portando avanti
quasi sempre gli stessi cognomi. Non è poi da trascurare l'usanza di
dare ai propri figli i nomi dei genitori, dei nonni o anche quelli di
fratelli o sorelle deceduti da piccoli. Ovviamente con il risultato che
molti portavano lo stesso nome e cognome, come ad esempio a Isola i
Degrassi, Vascotto e Delise, per citare soltanto le tré famiglie più
numerose.
Ecco quindi la necessità di dare i
soprannomi per distinguere le persone, anche se in molti casi neppure
questo era sufficiente. Cito il caso di mio nonno, Giovanni Delise
"tremami" : ad Isola più d'uno portava lo stesso nome cognome e
soprannome, compreso mio padre. In molti casi si ricorreva anche a
qualche nomignolo, detto all'isolana "schinela"; altre volte, per
riconoscere la persona, si indicava il suo mestiere oppure il nome e
soprannome della moglie.
Come tutti noi isolani sappiamo, il cognome
diventava spesso addirittura superfluo, omettendolo si usava soprattutto
il nome e il soprannome, o a volte il nome e la "schinela". Dunque, come
accennato sopra, i "soranomi" erano di vitale importanza, dei veri e
propri dati anagrafìci, che ci siamo portati dietro anche in esilio.
Personalmente ne faccio uso frequentemente per indicare ad altri
compaesani persone conosciute. Gli amici di Giuseppe Zaro e Umberto
Parma ad esempio, uso chiamarli o indinon-istrians come "Pini Volpe" e "Berto
biasusso", con i loro diminutivi e "soranomi", appunto. Purtroppo,
questa tradizione sta scomparendo con i nostri figli, non essendo più
necessaria nelle grandi città. Io comunque cerco di portarla avanti,
anche nell'ambito familiare: alle due figlie, di tanto in tanto dico:
"voi sé della rassa dei Tremami!" e mia moglie, dalmata, che non vuole
essere da meno, replica: "le sé anche della rassa dei Cogo de Lesina!".
A questo punto vi sarete chiesti cosa sto
scrivendo, visto che tutti i lettori isolani lo sanno già. A parte che
forse molti nostri figli e nipoti non ne sono a conoscenza, ci sono
alcuni lettori della nostra rivista che non sono isolani e infine, non
dimentichiamolo, dobbiamo anche lasciare la nostra memoria storica. Ma
questo non è il vero motivo del presente scritto, e quindi vengo al
dunque.
Chi ha la fortuna di avere i primi numeri di
"Isola Nostra", consultandoli si accorgerà che alcuni articoli erano
firmati anche con il soprannome, e la presenza di questi aumenta nei
necrologi e nelle didascalie delle foto, per distinguere le persone.
Ora, siccome dopo l'esodo abbiamo oltre 45 anni di età in più "sula
gropa", e la nostra fisionomia non è più quella giovanile di allora,
usando i soli nomi e cognomi spesso non siamo riconoscibili a tutti i
lettori isolani. A
Trieste siamo più
fortunati perché ci incontriamo per strada o alle nostre feste, ma
dobbiamo ricordare i nostri concittadini nel resto d'Italia e in giro
per il mondo, che sono meno fortunati e ci hanno "perso di vista", e noi
abbiamo perso di vista loro.
Recentemente abbiamo avuto alcune richieste di aggiungere i soprannomi,
non ultima da Romilda Costanze che dalla lontana Australia firma una sua
lettera con l'aggiunta di "fasiola" e che colgo l'occasione di salutare
assieme agli isolani di Williamstown che ho avuto il piacere di
incontrare nel lontano 1967, quando rimpatriavo in Italia.
Ovviamente la Redazione non può farlo di sua
iniziativa (qualcuno potrebbe offendersi) il fatto è strettamente
personale di chi invia o porta materiale per la pubblicazione. L'idea
però è molto valida, aiuterebbe tutti noi a riconoscerei e tutto sommato
pochi sono i "soprannomi" offensivi. Lo abbiamo fatto per secoli, perché
non dovremmo continuare a farlo?
Sarebbe
utile soprattutto per Antonio Vascotto, nel volume "Voci della parlata
isolana", così introduce il suo studio sui soprannomi delle famiglie di
Isola: "...Ne ho collezionati alcune centinaia: sono sei o settecento
quelli assodati, fra personali e di famiglie (alcuni già in disuso nel
periodo cui si riferisce la mia ricerca, cioè i primi cinquant'anni del
'900)... L'elencazione dei soprannomi è la seguente: il primo gruppo
(riportato su questo numero di Isola Nostra) è riferito a famiglie, il
secondo a singoli (la divisione non è esattissima), il terzo riguarda
voci "non garantite"...
...Per la lettura corretta dell'isolano: la
"s" sottolineata si deve leggere dolce come in "viso" l'accento acuto o
grave sulle vocali "e" ed "o" serve per la pronuncia "stretta o chiusa"
oppure "aperta o larga" (per esempio: péso = peggio, péso = peso, unità
di misura). È molto
importante individuare le persone nelle foto, nelle pagine dedicate ai
defunti o ai ricordi e nelle feste, come nell'ultimo numero, dove quasi
tutti i (non più) sessantenni in occasione del loro incontro annuale
sono indicati anche con il soprannome.
A me personalmente è sempre piaciuto, fa
parte della nostra cultura istroveneta e non lo dobbiamo
dimenticare.
Abbiamo quindi deciso, su richiesta di
parecchie persone, di pubblicare, già a partire da questo numero,
tutti i "soranomi" di Isola, utilizzando in proposito una
ricerca molto completa effettuata dal compianto Antonio Vascotto.
Faremo così un balzo nel passato, e ci ricorderanno la Nostra Isola,
tanto lontana politicamente, culturalmente ed etnicamente, ma tanto,
tanto vicina ai nostri cuori.
Per non tradire la mia opinione e quella
di tanti altri, mi firmo come già feci altre volte:
Ferruccio Delise "tremani"
Dallo stesso volume riportiamo anche un
interessante e curioso dato statistico sul numero di soprannomi che,
secondo le sue ricerche, potevano essere riferiti alle famiglie
isolane più numerose:
-
-
-
-
da 11 a 20: Benvenuti, Benvenuto,
Benvenutti - Carboni (Carboncich) - Chicco - Drioli - Dudine -
Felluga - Perentin -Troian - Ulcigrai.
-
Da 5 a 10: Colomban -Costanze - Dagri
- Depase - Goina - Lorenzutti - Parma - Pugliese - Russignan - Zaro.
Segue elenco soprannomi famiglie:
ISOLA D'ISTRIA
DALL'ANAGRAFE GENERALE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA DEL 1766
Andamento
demografico di Isola d'Istria a partire dal XVI sec. ed altri dati
statistici
La circoscrizione di Isola contava nel
1766, 2286 abitanti, di cui 1212 maschi e 1074 femmine. Dopo
Rovigno aveva la
maggiore densità di popolazione (70,04 abitanti per kmq) e dopo Muggia
era la più piccola circoscrizione dell'Istria veneta (29,29 kmq.).
Insieme con Dignano,
Rovigno,
Albona e
Capodistria deteneva la
più alta percentuale di anziani maschi con più di 60 anni (8,25%),
mentre la percentuale di maschi inferiore ai 14 anni era di circa il
34%. Su un totale di 446 famiglie, 434 erano le cosiddette "popolane",
10 cittadine e 2 nobili (Contesini - Ettoreo e Besenghi degli Ughi).
C'erano 601 lavoranti di campagna, 3
artigiani, 4 bottegai e 7 dediti alle arti liberali. Esisteva pure un
ospedale.Rimane però inspiegabile il motivo per cui i parroci
compilatori non inserirono nel "bollettino" del censimento il numero di
pescatori e marinai presenti non soltanto a Isola ma anche nelle altre
circoscrizioni costiere (Capodistria,
Rovigno, ecc.), tranne
per quelle di
Pirano e
Parenzo.
Infine Isola contava 123
bovini da
giogo, 126 cavalli, 138
somari, (
mussi) 1331 pecore
e disponeva di 6 telai da tela e 5 torchi per l'olio.
STATISTICA DI ISOLA D'ISTRIA DEL
1886 DI F. VIDULICH
INSERITA NEL "MATERIALE PER LA STATISTICA DELL'ISTRIA"
La popolazione era composta da 2571 maschi
e 2412 femmine, per un totale complessivo di 4983 persone. Su un totale
di 958 famiglie, 580 erano costituite da agricoltori, 214 da pescatori,
26 da marittimi, 61 da commercianti ed artigiani (fabbri, falegnami,
squeraioli ecc.), 47 famiglie i cui proventi derivavano dalla nascente
industria conserviera e 30 famiglie ( alcune formate da singoli
individui) che il Vidulich catalogò come "civili", intendendo con ciò di
sicuro il ceto impiegatizio.
Dalle famiglie degli agricoltori, 1396
persone erano occupate nel lavoro della terra e 1738 erano conviventi,
da cui si vede che neanche nel secolo scorso le donne di Isola si
dedicavano alla campagna, all'opposto di quanto avveniva in altre parti
dell'Istria, specie all'interno. Sempre in tema di popolazione il
Vidulich segnalava il considerevole aumento avvenuto in 60 anni,
riferendosi alle oltre 5100 unità del 1887 rispetto alle 3205 del 1827.
In questa statistica vennero descritti i quattro conservifici sorti
pochi anni prima: la società francese "Roullet e Comp." Del 1881, che si
occupava di pesce, carne bovina, aceto, piselli ed altro; la "Warhanek"
sempre del 1881 che lavorava le sardine; la "Giovanni Drioli" con sede a
Vienna, sorta nel 1882, che si occupava di sardine, pesce salato e
piselli; la "Noerdiinger", fondata nel 1884 per la lavorazione delle
prugne.Il Vidulich enumerò inoltre gli animali: 501 maiali, 28 cavalli,
37 muli, 522 asini, oltre ad alcune capre e pecore.
Quindi passò ad elencare il naviglio
esistente nel 1886: 18 barche a vela di piccolo cabotaggio per
complessive 129 tomi. e 65 barche da pesca per un totale di 278
tonnellate e 251 uomini d'equipaggio; e inoltre 26 barche numerate di
"alibbo" (doveva trattarsi di barche usate per scaricare naviglio di una
certa stazza) per complessiva 41 tomi. e 44 uomini d'equipaggio. Il
numero di barche a vela da trasporto e navi a vapore entrate nel porto
di Isola nel 1886 fu di 747, corrispondenti a 25.645 ton. L'autore si
soffermò anche ad elencare i tipi di reti impiegate dai pescatori
isolani ed il loro numero.
E termina informandoci sulle due scuole
pubbliche di quel tempo: una scuola popolare maschile di tré classi con
tré maestri e tré catechisti e una scuola popolare femminile, sempre di
tré classi con tre maestre e tré catechisti. Gli analfabeti costituivano
il 30% della popolazione.
ISOLA
D'ISTRIA
DAL "CADASTRE NATIONAL DE L'ISTRIE" DELL'OTTOBRE 1945
Isola
- casa popolare.
In un grosso volume stampato in lingua
francese a Zagabria sono riportati i risultati di quattro indagini
etniche compiute dall'amministrazione austriaca e di quella svolta
nell'ottobre del 1945 da due professori di Zagabria ed uno di Lubiana
col fine di presentarli alla conferenza della pace di Parigi (1947). La
tabella sottoriporta i risultati per Isola.
E pure da ritenere che dalla fine della
guerra (maggio 1945) all'ottobre dello stesso anno, più di una famiglia
slava si sia trasferita a Isola.
Da notare che la stessa indagine etnica ha
riguardato anche il territorio di Isola. Ma salvo il progressivo aumento
della popolazione (dai 597 abitanti del 1880 ai 1784 del 1945, che si
può ritenere senz'altro attendibile), sulla suddivisione in sloveni,
diversi ed italiani non è possibile dare credito. E poco credibile che
dopo dieci anni, dal 1880 al 1890, il 18,5% di italiani e l' 80,3% di
sloveni si tramutino in 68,9% di italiani e 31% di sloveni; e che
permanga ancora il 59,5% di italiani nel 1900 per scendere poi nel 1910
inspiegabilmente al 19,3%. Per non parlare di quella operata dagli
jugoslavi nel 1945 con appena l' 8,6% di italiani.
Ma se per le rilevazioni del censimanto
eseguite al tempo dell'Austria si può anche pensare siano state
influenzate dal criterio personale del rilevatore, per quella del 1945
appare un indubbio indirizzo di parte. Infatti, tanto per citare un
esempio, a Malio risultarono 3 italiani e 246 sloveni, il che non è
pensabile poiché ben 17 famiglie su un totale di 49 portavano il cognome
Bernardi.
Anno |
Abitanti |
Italiani |
Sloveni |
Altri |
1880 |
4448 |
99,08% |
0,56% |
0,36% |
1890 |
4896 |
98,96% |
0,12% |
0,92% |
1900 |
5517 |
96,36% |
0,36% |
3,28% |
1910 |
6101 |
96,94% |
0,65% |
3,51% |
1945 |
7272 |
95,00% |
4.65% |
0,35% |
|
Ad ogni modo, per concludere, anche le
cifre dell'indagine etnica jugoslava dimostrano chiaramente che la
popolazione di Isola d'Istria era quasi totalmente costituita da
italiani nel 1945.
Sono stati consultati:
- ACRS vol. VII, 1976-77 di
Rovigno. - AMSI vol.
XXIII, 1975 di
Trieste.
- "Isola ed i suoi Statuti", L.
Morteani,1888.
- Mensile "Isola Nostra" -
Trieste.
Cadastre National de L'Istrie (Susak, 1946)
La
prima fabbrica per la conservazione del pesce sorse a Isola nel 20
gennaio 1881, nell'area dove prima esisteva uno stabilimento di bagni
termali. La zona ancora oggi viene ricordata per le sue sorgenti di
acque sulfuree, che gli Isolani, per l'odere che emanavano, chiamavano
aqua de ovi, e che venivano sfruttate, per la verità senza troppo
successo, a scopo terapeutico.
Il conservificio venne costruito su
iniziativa della neocostituita "Sociètè Generale francaise des conserves
alimentaires", che aveva sede a Parigi e una sua rappresentanza a
Trieste. Proprio per
questo, la fabbrica veniva definita dagli Isolani "dei francesi",
oppure, per il luogo dove era stata aperta, "ai bagni".
Dopo la prima Guerra Mondiale cambiò
proprietari e denominazioni. Ancora oggi è conosciuta soprattutto come
"Ampelea". Per un periodo, oltre alla lavorazione del pesce, produsse
anche carne in scatola (soprattutto durante la seconda Guerra Mondiale
per le necessità dell'esercito) e qualcuno degli Isolani più anziano
ricorda ancora
el vedo maselo, situato a San Piero, nelle sue vicinanze.
L'altra
fabbrica per la conservazione del pesce che sorse poco tempo dopo a
Isola fu per opera degli austriaci Warchanek, che costruirono il proprio
stabilimento subito dopo la chiesetta di
San Rocco, sulla strada che da Fontana Fora porta a San
Simon. Anche in questo caso la sua collocazione territoriale contribuì a
farla ricordare dagli Isolani come
la fabrìca de San Rocco, prima di attecchire definitivamente con
il nome di "Arrigoni". Alla fine della Grande Guerra la Warchanek
cedette la fabbrica al triestino Giorgio Sanguinetti, che usò la ragione
sociale di un'azienda acquistata in Liguria da un piccolo industriale:
Gaspare Arrigoni. È naturale che il
rapido successo registrato dai conservifici invogliasse anche altri a
intraprendere la strada dell'imprenditoria. Così verso la fine del 1800
nacque un'altra fabbrica di pesce conservato per opera dell'isolano
Degrassi. Situata anche questa tra Fontana Fora e il mare nell'area che
prima era occupata dalle
saline. La vicinanza del mare, ovviamente, era
necessaria per facilitare il rifornimento di materia prima: il pesce.
Anche questa fabbrica resistette fino allo scoppio della Grande Guerra,
poi, nel 1919 venne rilevata dal marchese romano Luigi Torregiani.
Infine venne incorporata dalla sempre più grande e potente Ampelea.
Pure
un altro Isolano tentò la grande avventura della conservazione del
pesce. Nel 1924 Nicolo Delise inaugurò la sua più modesta fabbrica in
via A. Volta. Lo stabilimento a conduzione familiare si distinse subito
per la qualità delle sardine sottolio e per i filetti di pesce salato.
Tuttavia, dopo la morte del fondatore gli eredi non riuscirono a far
fronte ai giganti del settore e la fabbrica finì per essere assorbita
dall'Ampelea che per un certo periodo mantenne ancora in vita il marchio
"N. Delise & Figli" per accontentare i numerosi clienti. I
conservifici si assicuravano il rifornimento della materia prima per la
loro attività stipulando contratti annuali con i pescatori privati che
avevano l'obbligo di cedere tutto il pescato. Il sistema, però, si
dimostrò inefficace soprattutto con il continuo aumento delle
^necessità, in quanto era praticamente impossibile evitare che una parte
consistente del pescato dirottasse sul mercato libero, in particolare a
Trieste e a
Capodistria. Di
conseguenza, l'Arrigoni e l'Ampelea decisero di costruire e gestire in
proprio delle flotte pescherecce che avrebbero assicurato stabilità nei
prezzi e nell'approvvigionamento. Armarono una trentina di moderni
barche attrezzate per la cattura del pesce azzurro, ciascuna con un
equipaggio di 8-10 persone guidate da un "capobarca". Nel 1938
l'Arrigoni rilevò addirittura un'intera flottiglia per la pesca
d'altomare del tonnetto, composta da una decina di pescherecci a vapore
di 400 t. di stazza, che rimasero per anni a Isola con i loro
caratteristici nomi di "Grongo", "Cernia", "Dentice", ecc.
Nel corso di tutta la sua millenaria storia,
la popolazione isolana è stata sempre caratterizzata da due fondamentali
attività, legate alla campagna e al mare. Per cui, tutti coloro che si
sono soffermati nel descrivere gli abitanti, hanno regolarmente
sottolineato che erano prevalentemente dediti all'agricoltura e alla
pesca. Soltanto negli ultimi due decenni del secolo scorso Isola
ricevette nuovi impulsi che contribuirono in maniera determinante a
modificare la sua struttura occupazionale e, di conseguenza anche le sue
prospettive di sviluppo. La nascita di un'industria conserviera, che si
sviluppò molto rapidamente, comportò la formazione di una consistente
classe operaia e di conseguenza anche di una nuova classe
imprenditoriale. Da qui, tutta una serie di iniziative che segnarono la
vita stessa della cittadina, sia a livello culturale sia a quello più
eminentemente politico, legato essenzialmente al mondo del progressismo
e del socialismo di stampo austroungarico.
Tutto
questo influì anche sull'irrobustimento del sentimento nazionale
italiano, che trovò spazio nell'attività dei partiti sia di area
socialista che di quella più eminentemente conservatrice.
Già verso la fine del 1800 nacquero le prime
Casse di Mutuo Soccorso, i primi Circoli di lettura. La prima Biblioteca
Circolante, di cui esiste una cartolina, risale al 1902. La Lega
Nazionale era nata addirittura nel 1899. Di un decennio più tardi è il
complesso delle Case operaie. Al 1900 risale la costruzione della Sala
Verdi, in cui si svolgeva buona parte degli avvenimenti culturali e
politici cittadini. Almeno fino al 1905, quando, su iniziativa del
Partito Socialista, viene inaugurata la prima Casa del Popolo.
Soltanto dieci anni dopo, dimostratasi ormai
inadeguata alle esigenze delle numerose iniziative, che nel frattempo
erano sorte al suo interno, si decide di costruire una nuova sede, che
viene inaugurata quasi contemporaneamente allo scoppio della Prima
Guerra Mondiale. Interessante, proprio per questo motivo, la
testimonianza di un certo Ottone Lantieri risalente al 1971, nella quale
descrive un fatto curioso accaduto a Isola proprio il 30 agosto 1914,
durante l'inaugurazione solenne della nuova Casa del Popolo.
Scrive
in una lettera inviata al prof. Paolo Sema, il sig. Lantieri: In occasione di quell'inaugurazione, noi
del Circolo Giovanile Socialista avevamo organizzato una gita sociale in
vaporetto e partecipato in letizia, con la nostra banda, alla festa di
Isola. Alla sera si riparte nelì"accostarsi al mare e la nostra banda,
come d'uso, intonò a tutta forza l'Internazionale, quando vedemmo sulla
riva una grande agitazione e un nuvolo di guardie si sbracciavano e
gridavano comandi che noi non capivamo. Accostati che fummo le guardie
tutte infuriate ordinarono il silenzio: era avvenuta la tragedia di
Sarajevo.
La Casa del Popolo divenne in breve tempo
centro politico e culturale. L'edificio venne distrutto dai fascisti nel
1922. Più tardi fu ricostruito e ospitò la Casa del Fascio, di coloro
cioè che l'incendiarono la prima volta. Dal maggio 1945 l'edificio
riprese il proprio nome originario e nei suoi locali trovò posto il
Circolo di Cultura Popolare, che vi rimase fino al 1948 quando venne
chiuso su ordine delle autorità. Oggi è sede di alcune organizzazioni
sociali e nella sala grande tiene le proprie riunioni il Consiglio
Comunale di Isola.
Per lo sviluppo di Isola merita ricordare,
se non altro a livello di curiosità, che il primo Ufficio Postale venne
inaugurato addirittura nel 1860, mentre risale al 1881 l'apertura
dell'Ufficio Telegrafico. Infine, il 15 maggio del 1888 venne
formalizzata l'unificazione dei due uffici che stavano acquisendo sempre
maggiore importanza grazie alla costante e rapida crescita delle Iocali
industrie del pesce.
A dare un notevole impulso allo sviluppo di
Isola fu anche l'inaugurazione della linea ferroviaria che collegava
Trieste a
Parenzo. Come ricorda
Antonio Vascotto nel suo libro di testimonianze su Isola, il fatto che
la "Parenzana"
venisse inaugurata proprio il 1 aprile 1902 portò più di qualcuno a
credere che si trattasse di un "pesce d'aprile", per cui si guardò bene
dall'intervenire alla cerimonia. Ciononostante, l'avvenimento venne
accolto con entusiasmo da tutta la popolazione, tanto che rapidamente
sul conto della nuova stazione ferroviaria nacquero anche iniziative
economiche. È arrivata fino ai giorni nostri anche la canzone: Adeso che
gavemo la strada forata, in mesa sornada se vien e se va. Naturalmente
la mezza giornata necessaria si riferiva al viaggio fino a
Trieste e ritorno.
Il tratto da
Trieste a
Buie era
lungo 58.8 chilometri, e come in tutti i settori amministrativi, anche
in quello ferroviario la burocrazia austriaca era insuperabile. Infatti
ancora oggi lungo il tragitto della Parenzana si possono trovare i cippi
che segnavano la distanza da
Trieste.
Come è noto, la famosa strada ferrata era a
scartamento ridotto (76 cm) e rimase in funzione per trentatré anni.
Fece il suo ultimo viaggio il 31 agosto del 1935.
Ben presto, lo spazio dove venne costruita
la stazione, situato allora in piena campagna, prese il nome Ala
stasion, e anche il ristorante vicino non poteva che chiamarsi
Ristorante alla stazione. Gli Isolani trovarono subito un soprannome
anche per il treno, che fu più conosciuto come
El brustolin. I binari, che da Semedella a Isola costeggiavano il
mare, dalla stazione si addentravano nella campagna e, in larghi
tornanti da Canola salivano fino a Saleto, dove entravano nella galleria
e ne uscivano sotto Capitela dove si apriva il lieve pendio di Lavorè.
Da qui la strada ferrata proseguiva la sua strada verso Strugnano.
Si
racconta che lungo l'erta di Saleto i passeggeri potevano
tranquillamente scendere dalle vetture, cogliere la frutta che si
trovava nei campi e poi risalire sul treno che arrancava sbuffando.
Secondo alcuni racconti, bastava qualche chilogrammo di fichi maturi
gettati sulle rotaie per bloccare la locomotiva che prendeva a slittare.
Allora il macchinista doveva scendere, pulire i binari e far ripartire
il treno. Particolarmente pericolosi erano i rèfoli di bora, che
riuscirono addirittura a far deragliare il treno. Il 31 marzo 1910, il
convoglio venne infatti rovesciato nella valle di Zaule provocando tré
morti.
L'Istria ha dato alla scienza molti geniali ricercatori, inventori,
scopritori. Un repertorio dei loro nomi, - di quelli che emergono e di
quelli che contribuirono nel silenzio e nell'oscurità al progresso
scientifico, ma con i loro contributi hanno offerto idee e opera ai
maggiori e celebri scienziati, - sarebbe più lungo di quanto si creda.
C'è chi, leggendo o semplicemente scorgendo un lungo elenco
bibliografico in calce alle bibliografìe, soffermandosi casualmente
davanti a una lista di articoli, si domanda che interesse possano avere
quelle brevi pagine di rivista elencate con tanto scrupolo dal biografo.
Ma il biografo ha, al contrario, lo scrupolo di elencare tutte o almeno
di indicare dove si possano reperire tutte le pubblicazioni del
biografato, perché sa che anche il più piccolo articolo scientifico è in
realtà un passo avanti nella storia della scienza, sa quanto lavoro,
quanto sacrifìcio quelle poche righe siano costate allo studioso.
Sempre viva più che mai e con un'intensa
attività la nostra gagliarda Società Nautica Pullino entra quest'anno
nel suo 75° anno di vita.
IL RITORNO DEGLI OLIMPIANICI DA AMSTERDAM
Sempre viva più che mai e con un'intensa
attività la nostra gagliarda Società Nautica Pullino entra quest'anno
nel suo 75° anno di vita.
Quella giornata dell`agosto 1928 noi
distribuirono fiori, e poi ci fecero incamminare verso la piazza
Garibaldi. La grandiosità di quanto ho visto in questa manifestazione
non l'ho mai dimenticata. La piazza era gremita di folla festante che
cantava inneggiando ai campioni della "Pullino"; alle finestre di tutte
le case c'era uno sventolio di bandiere tricolori; anche gli alberi
delle barche nel porticciolo erano imbandierati; le campane suonavano a
festa, fischiavano di continuo le sirene delle fabbriche che salutavano
l'arrivo dei nostri eroici vogatori.
Provo un grande piacere e tanta
soddisfazione poter pensare di aver preso palle (sebbene bambina,
grazie ai miei fratelli Aldo e Aroldo) alla formazione di tanti giovani
sportivi appassionati al mondo del remo e vederli diventare sempre più
bravi e più forti. La loro passione, la tenacia e la forza di volontà di
vincere li ha premiati in maniera formidabile riportando clamorose
vittorie Europee e Mondiali come quella di Amsterdam del 10 agosto 1928,
che ha donato ad Isola d'Istria ed all'Italia la gloriosa Corona
d'alloro Olimpionico aggiungendo all'Albo d'Oro la medaglia dei Campioni
Europei. Nella lieta ricorrenza
del 75° anno della fondazione di questa nobile e storica Società
ricorderemo con vanto e orgoglio il vittorioso equipaggio, con i molti
altri encomiabili vogatori. Un rinnovato e caloroso plauso dunque alla
Pullino di ieri. non ignorando però, i passi da gigante che sta facendo
la Pullino di oggi, grazie all'arduo impegno del "prezioso tessitore" 5
(così gentilmente nominato). Franco Degrassi ed aquanti lo hanno
aiutato, ai quali vanno rivolti particolari elogi per aver superato i
difficili ostacoli, al fine di ottenere la totale proprietà del terreno
e della canottiera. Ce l'ha fatta! Bravissimo!
Vivissime congratulazioni con i più sentiti
auguri, che la nostra giovane Pullino prosegua alacremente e possa
raggiungere con gli anni a venire il massimo del successo con il
proverbiale motto "Diese de bone!" - Forza ragazzi!
Nota
II contesto della popolazione parrocchiale
aveva conservato fino al 1945 il carattere prettamente italiano,
dimostrato anche attraverso i cognomi. Le rare famiglie: Carboncich,
Gregorich, Cociancich, peraltro pienamente inserite per lingua e
costume, accusano una provenienza dallTstria interna, in qualità di
fìttavoli e operai.
Simile omogeneità si nota a
Pirano. A
Capodistria sono
numerosi i cognomi di origine straniera, del resto da secoli
acclimatati. Risalgono a persone del ceto impiegatizio austriaco
(guardie carcerarie, funzionari delle
saline ecc.) Altri giunti come
agricoltori, coloni, artigiani.
Dal 1882 una scuola professionale di
merletti veneziani, incentivata dal parroco G. Zamarin, confezionava,
sino al 1936, ricercatissimi ricami e trine.
Nel 1886 Isola contava 4.933 abitanti (2521
maschi e 2412 femmine) ed aveva quattro fabbriche di conserve
alimentari: la francese Roulet, aperta nel 1881 (sardine, carni bovine,
piselli), la Warliansek, aperta nel 1881 (sardine), la Degrassi
Giovanni, aperta nel 1882 (pesce e piselli) e la Noerdimger, aperta nel
1884 (prugne).
Alle 8,30 del 7 novembre 1918 un
distaccamento di soldati italiani portò il tricolore. Dal molo si snodò
un corteo festante di militari e civili che si fermò davanti alla chiesa
per ricevere il saluto del parroco.
Tanta storia e tanta arte su uno scoglio di
soli 7.751 abitanti che prima dell'ultima guerra aveva raggiunto un
sorprendente stato di benessere. Disponeva di una piccola flotta da
pesca. I due grandi stabilimenti conservieri della società Arrigoni e
Ampelea davano lavoro a 2000 operai e producevano 50.000 tonnellate di
pesce lavorato, ricercato nei mercati europei e americani. Su questa
comunità, tranquilla e florida, si è abbattuta con violenza l'ultima
guerra. Quasi tutti gli abitanti sono usciti dalla vecchia Porta
Maggiore ed hanno preso la via dell'esilio in dirczione di quella
Aquileia dalla quale quattordici secoli prima erano venuti, profughi, i
loro padri, sospinti dall'invasione dei barbari. Nella dispersione li
raggiunge ogni mese una lettera, un bollettino che un vecchio sacerdote,
Don Attilio Delise, ha voluto intitolare "Isola Nostra". Nostra perché
per noi profughi tutte le cose perdute diventano più sacre.
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Panorama
dell'Isola d'Istria, 1999 |
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Bibliografia:
- Comunità Autogestita della Nazionalità
Italiana di: “ISOLA IN 200 CARTOLINE” A cura di Silvano Sau, è una
pubblicazione de "II Mandracchio" - Foglio della Comunità Italiana di
Isola. Caporedattore: Andrea Sumenjak; Fotografie originali di Claudio
Chicco, Riproduzioni: Art Foto Isola, Lettura e correzioni di Marino
Maurel. Le cartoline illustrate fanno parte delle collezioni private
gentilmente messe a disposizione da Rino Prelaz, Lucio Lorenzutti,
Adriano Princival e consorte Impaginazione elettronica di Andrea
Sumenjak Organizzazione di Claudio Chicco Stampa della Birografika BORI
Izola-lsola Realizzato con il contributo finanziario della Comunità
Autogestita della Nazionalità Italiana di Isola, del Comune di Isola e
del Ministero per la Cultura della Slovenia. Il volume non è in vendita
ed è disponibile presso la redazione
- P. Naldini, Corografia ecclesiastica
(Venezia, 1700)
- L. Morteani, Isola e i suoi statuti
(Parenzo, 1889)
- Atti del Centro di ricerche storiche
di Rovigno, XVII,
1986/87
- «Isola Nostra»; bollettino della
Comunità
- Varie annate. Esce a
Trieste
- Padre Flaminio Rocchi, L'esodo dei
350 mila Giuliani Fiumani e Dalmati
(1990)
- Luigi Parenti, Incontri con l'Istria
- la sua storia e la sua gente (1991)
- Dario Alberi, Istria Storia,
Arte,Cultura (Trieste,1997)
- Francesco Semi, Istria - uomini e
tempi, Del Bianco editore (1991)
- Alfredo Ermann, "Un breve giro per i
paesi e città dell'Istria,"
Tratto dal periodico della comunità degli Isolani N. 346 - 15
Settembre 2001.
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