La cresima a Lanischie (Lanišće) nel 1947
Tomaž Simčić
Slovensko &
English (summary)
Sintesi
L'articolo
prende in esame la cresima in Istria nell'agosto del 1947, il suo svolgimento e
la tragica conclusione a Lanischie, nonché il successivo processo di Pisino.
Sulla base della letteratura esistente, di articoli di giornale e di documenti
d'archivio, l'autore esamina gli eventi alla luce dell'allora tesa situazione
interna ed internazionale della Jugoslavia e dimostra che i disordini non furono
soltanto il risultato di un movimento popolare spontaneo, ma soprattutto la
conseguenza di un'azione pianificata atta a colpire l'opposizione tra il clero
istriano.
La cresima in Istria nel 1947 ha un posto importante
nella storia postbellica della Diocesi di Trieste e Capodistria e nello
sviluppo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la Jugoslavia comunista.
La Santa Sede incaricò il sacerdote sloveno di Trieste, Jakob Ukmar, di
amministrare, nell'agosto di quell'anno, il sacramento della santa cresima
nelle parrocchie slovene e croate dell'Istria che si trovavano sotto
amministrazione jugoslava. La cresima iniziò il 17 agosto; due giorni
dopo, il 19 agosto, ebbero inizio disordini e violenze che, tra
l'indifferenza delle forze dell'ordine, culminarono il 24 del mese, quando
a Lanischie un gruppo di facinorosi fece irruzione nella parrocchia
uccidendo il sacerdote croato Miro Bulešić e ferendo gravemente monsignor
Jakob Ukmar. Il parroco Štefan Cek riuscì a nascondersi evitando il
peggio. Al processo, svoltosi a Pisino dal 29 settembre al 2 ottobre del
1947, la pena più alta (sei anni di carcere) fu comminata al parroco
Štefan Cek, furono condannati anche alcuni parrocchiani ed il cresimante,
monsignor Ukmar, e, a pene carcerarie minori, i violenti aggressori. Il
sanguinoso epilogo della cresima di Lanischie impedì anche a monsignor
Ukmar di assumere, il 15 settembre, data in cui entrava ufficialmente in
vigore la divisione di confine, l'amministrazione apostolica della parte
della Diocesi di Trieste-Capodistra assegnata alla Jugoslavia.
Quello di Pisino fu chiaramente un processo politico di
stampo staliniano: le consuete norme e garanzie giuridiche furono
completamente ignorate. Gli atti del processo sparirono chissà dove, il
suo svolgimento può essere ricostruito soltanto attraverso le
dichiarazioni dei giornalisti e di alcuni testimoni. Le supposte
dichiarazioni di Jakob Ukmar al processo furono alla base, al suo rientro
a Trieste, del contrasto con il vescovo
Antonio Santin. Questi,
infatti, lo accusò di non avere respinto con sufficiente chiarezza le
critiche che, secondo quanto riportato dai giornalisti, egli aveva fatto
sul suo conto.
La sentenza del tribunale di Pisino era soltanto
un sunto dell'interpretazione dell'evento fatta dalle autorità comuniste
jugoslave. Secondo loro, la tragedia era stata provocata dagli stessi
sacerdoti, cioè da Cek, che aveva impedito agli ex combattenti di fare da
padrini, e da Bulešić, che lo aveva imitato nei confronti dei volontari
delle brigate d'assalto; colpevoli sarebbero stati anche i paesani, che
avrebbero aggredito "i cittadini che chiedevano solo delle spiegazioni".
Sulla base dei documenti d'archivio e delle memorie, questa
interpretazione è assolutamente confutabile ed è possibile assodare che
Bulešić e Cek furono coinvolti non a caso nell'incidente. Tra i sacerdoti
istriani, proprio Bulešić e Cek, pur essendo sempre stati fautori della
Jugoslavia sotto il profilo nazionale, erano i sostenitori di una linea
dura e di principio nei confronti dell'ideologia e delle autorità
comuniste.
I tentativi delle autorità di far ricadere la
responsabilità sul clero non convinsero però l'indignata opinione pubblica
mondiale; ed effettivamente, l'evento in se ed il successivo processo
furono più dannosi che utili alle autorità jugoslave. Perciò i fatti di
Lanischie e Pisino non si possono spiegare con interessi geostrategici o
altri interessi politici reali; in realtà furono dettati quasi
esclusivamente da ragioni ideologiche.
La cresima di sangue in Istria non fu un incidente
isolato, ma il tassello di una strategia più generale che, sotto questa o
altra forma, veniva attuata su tutto il territorio della RSF di
Jugoslavia. Il periodo di massima pressione sulla Chiesa si ebbe tra il
1948 ed il 1953, mentre quello immediatamente successivo alla fine della
guerra fu una specie di periodo di transizione. In Istria durò all'incirca
dal 31 luglio del 1945 al 24 agosto del 1947. In tale periodo, in cambio
dell'appoggio agli sforzi che venivano profusi per giungere ad una
favorevole soluzione del confine, il clero riuscì ad ottenere alcune lievi
agevolazioni; ma per le autorità, il fine della loro arrendevolezza era,
in primo luogo, quello di conquistare il favore dell'opinione pubblica
internazionale in vista della conclusione del
Trattato di pace e
della definizione del confine di stato; in questo processo, infatti, il
sostegno del clero era più che prezioso.
Nella maggior parte dei casi, Belgrado negava
ufficialmente di svolgere qualsiasi forma di repressione sulle comunità
religiose oppure lo giustificava con il riserbo che una parte della
gerarchia ecclesiastica e del clero aveva mantenuto durante la guerra. In
realtà, specie nei primi anni del dopoguerra, i rapporti tra Stato e
Chiesa furono caratterizzati da una vera e propria repressione, con
l'eliminazione di quasi tutte le forme esteriori della presenza della
Chiesa nella vita sociale. Le misure di polizia contro i sacerdoti e i
cattolici laici facevano parte di una strategia volta ad intimorire gli
avversari politici; e tra questi, le autorità, secondo i dettami del
marxismo-leninismo classico di stampo sovietico, consideravano, in primo
luogo, proprio la Chiesa cattolica.
In Istria, nel dopoguerra, le questioni ideologiche
erano connesse anche a quelle nazionali. In realtà, proprio quest'ultime
furono all'origine dei disordini durante la cresima di agosto. Ironia
volle che la violenza si rivoltasse contro i sacerdoti slavi, che in
Istria e nel Litorale non si erano compromessi con il fascismo ed il
nazismo, ma avevano sempre lottato contro l'oppressione nazionale. Gli
eventi di Lanischie dell'agosto del 1947 e del mese successivo a Pisino
costituirono perciò un duro colpo per l'intera comunità cattolica, e,
forse, soprattutto per coloro che, a prezzo di dure trattative e faticosi
compromessi, avevano ottenuto per la Chiesa locale una specie di modus
vivendi, e coltivavano la speranza che il potere comunista della
Jugoslavia si sarebbe comportato nei confronti delle comunità religiose in
maniera diversa da quanto stava accadendo, da decenni, nel Paese leader
del blocco comunista, l'Unione Sovietica.
Per la comunità cristiana della regione, i fatti di
Lanischie hanno oggi anche un significato religioso. Alla luce degli
insegnamenti dei padri apostolici, secondo cui "il sangue dei martiri è
seme di nuovi cristiani" (Tertulliano), Bulešić, Ukmar e Cek assumono un
ruolo importante nella storia della Diocesi di Capodistria e dovrebbero
rappresentare quel faro a cui, secondo l'insegnamento papale, dovrebbero
rivolgersi anche i cristiani, qui ed ora.
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