Neresine: Notizie storiche

di Giovanni Bracco

[Tratto da: © Giovanni (Nino) Bracco, Neresine - Storia e tradizioni, Gennaio 2004, p. 3-41. © All rights reserved.]

Informazioni preliminari

Questa storia è stata scritta nel tentativo di soddisfare la sempre più pressante curiosità di conoscenza delle proprie radici etniche, storiche e culturali, che le attuali generazioni di Neresinotti e quelle dei discendenti, ormai sparsi in tutto il mondo, manifestano con crescente insistenza. Questo lavoro non ha quindi intenzione, né di riscrivere una storia, mai scritta prima,1 né di dare in-terpretazioni da qualsivoglia versante politico, ma di raccontare l'origine e l'evoluzione del paese con gli avvenimenti, come nei secoli sono realmente accaduti, attingendo dai fatti storici, da documenti originali rinvenuti in vari archivi ufficiali, da documentazioni e manoscritti degli antenati, reperiti qua e là tra i discendenti, soprattutto dalla tradizione tramandata oralmente di generazione in generazione.2

A questo proposito mi sembra anche pertinente e opportuno riportare un brano della "Storia Documentata dei Lussini" del Dott. Matteo Nicolich 3 pubblicata nel 1871, che dice: "La storia non è sempre, né solo ricordo di avvenimenti importanti o descrizione di opere insigni, ma soprattutto è ricerca delle radici, scoperta di un passato in cui ognuno possa riconoscersi, affermazione di valori che diano significato al presente e preparino l'avvenire. Nel ricordo degli avi … tenete viva l'opera da essi saggiamente intrapresa e felicemente diretta, affinché i vostri emuli e rivali non abbiano il vanto di rintronarvi".

Il paese di Neresine è situato nella parte nord-est dell'isola di Lussino a circa tre chilometri dal paese di Ossero, punto di congiunzione con l'isola di Cherso, tramite un ponte girevole sullo stretto canale che separa le due isole, chiamato Cavanella (l'antico Euripo). Per quanto Neresine non abbia origini molto antiche, le isole di Lussino e Cherso, che sono sempre state considerate come un unico insieme storico e geografico, erano conosciute ed abitate fin dalle epoche più lontane, ed in esse sono state trovate anche tracce preistoriche di presenza umana (grotte di Sredi-Struasa). I primi insediamenti storicamente considerabili, documentati da significativi reperti archeologici, riguardano le civiltà dei castellieri, gli abitati fortificati con cinte di muri a secco, ancora riconoscibili nei rilievi di queste isole. Secondo molti autori, questi primi abitatori erano genti di stirpe illirica, ma risulta anche dalla tradizione, sostenuta da geografi e scrittori del mondo antico e del medioevo, che vi furono pure insediamenti greci; ciò è posto in stretta relazione con il mito greco degli Argonauti e del Vello d'oro, e del loro capo Giasone, che, fuggendo con Medea dagli inseguitori Colchi, con l'aiuto della stessa, avrebbe e ucciso il fratello di lei Absirto, principe dei Colchi. Dalla morte e dalla sepoltura di Absirto in queste isole, sarebbe derivato il loro nome antico di "Absirtides", e lo stesso nome greco Absoros, poi Ossero. Questo mito certamente adombrò uno scontro di popoli, in un'epoca forse anteriore a quella omerica.

Successivamente, dopo il 1000 a. C., subentrarono i Liburni, ramo degli Illiri, popolazione di guerrieri, marinai e commercianti, che s'insediarono nella zona costiera dell'Istria orientale (tra l'attuale Abbazia e Fianona), nelle isole del Quarnero e sulla costa orientale dell'Adriatico, tra Segna e Se-benico; da loro presero il nome le "Liburne", agili e veloci navi da guerra, poi adottate dai Romani. La presenza romana è molto documentata dalle cronache del tempo, da importanti reperti archeologici e dai nomi di varie località: Caput Insule (Caisole), Crepsa (Cherso), Hibernicia (Lubrenizze), Ustrina (Ustrine), la stessa isola di Lussino, molto probabilmente, prende il nome dal latino "luscinia" ossia usignolo, cioè terra degli usignoli. Gli isolani più anziani si ricordano bene il canto degli [3] usignoli, che risuonava melodioso e struggente, dalla cima di un'alta quercia all'altra, nelle sere e notti primaverili: in certe località dell'isola le notti di maggio erano caratterizzate proprio dal canto di questi uccelli. Un'altra ipotesi abbastanza plausibile fa derivare il nome dalla composizione delle parole latine, lux o altre assomiglianti e sinus (seno di mare, baia) intendendo insenatura luminosa, amena, ecc. Va comunque detto che vari tentativi di attribuire l'origine del nome "Lussino" a incerte popolazioni antiche o ad ancor più improbabili terminologie slave non hanno trovato credibilità storica; non a caso le popolazioni locali di lingua slava, fin dalle lontane origini, hanno sempre usato i nomi di Veloselo (grande paese) e Maloselo (piccolo paese) per denominare i villaggi di Lus-singrande e Lussinpiccolo. In sostanza l'origine latina del nome di Lussino è certamente quella più accreditata da storici e filologi.

Con l'avvento dei Romani, che sottomisero la regione e l'intera costa orientale dell'Adriatico e che divenne poi una provincia Romana a tutti gli effetti, inizia la storia latina. I principali centri romani dell'area del Quarnero furono Pola (Pietas Julia), Tarsatica (l'antica Trsach poi Fiume), Crepsa (Cherso), Curicta (Veglia-Krk) e Arbe, facenti parte della provincia Dalmata con capitale Sabona, la cui popolazione, dopo la sua distruzione ad opera di Avari e Slavi, fondò Spalato, nel luogo del vecchio palazzo di Diocleziano.

Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, nel 476 d. C., le isole assieme alla Dalmazia passarono sotto l'Impero Romano d'Oriente; Ossero, Cherso e Caisole riuscirono tuttavia a conservare l'autonomia e si verificò quindi che le popolazioni, anche nei secoli successivi, vissero con usi, costumi, organizzazione commerciale, amministrativa e giuridica latina e con una lingua propria, il dalmatico, un neolatino con parole e accenti liburnici che durò fino a tutto il Medioevo e in parte oltre. (Le cronache quarnerine ci dicono che l'ultimo a parlare il dalmatico fu un cittadino di Veglia, vissuto a cavallo tra il XIX e XX secolo).

Con la calata nella regione dopo il VII secolo delle prime tribù slave, ancora pagane e predatrici, alcune famiglie si stanziarono nelle isole del Quarnero, in accordo con le città latine, che avevano bisogno di manodopera per le coltivazioni e gli allevamenti ovini. Questa prima immigrazione slava fu assorbita senza contraccolpi etnici e sociali: gli Slavi, inseriti nelle località vicine ai centri maggiori (Ossero e Cherso) e divenuti cristiani, s'integrarono negli usi e leggi locali, mantenendo i loro nomi e lingua.

L'Impero Romano d'Oriente, pur titolare del potere, non poté dedicare molta attenzione ai possedimenti dell'Adriatico settentrionale, conseguentemente la vita nelle isole nei secoli successivi non fu sempre tranquilla.

Nel 842 i saraceni, al comando del condottiero Saba, distrussero Ossero; in seguito alcune popolazioni slave intrapresero azioni di pirateria contro i veneziani, utilizzando come base d'appoggio le stesse isole. Il Doge XII Tradonico ed il Doge XIV Orso 1° Partecipazio, dopo alterne vicende, riuscirono alla fine a sconfiggere tanto saraceni quanto slavi. La conquista di Carlo Magno non portò alcuna modifica alla vita delle isole.

Dall'anno 1000, dopo la grande spedizione contro i pirati Narentani del Doge Pietro Orseolo II, le isole passarono sotto l'influenza di Venezia, ed Ossero divenne il presidio veneziano di tutta l'area quarnerina. Da questo periodo in poi le vicende storiche delle isole sono dettagliatamente raccontate e documentate in molte pubblicazioni facilmente reperibili, quindi si rimanda a queste per eventuali approfondimenti.4

Durante il Medioevo le isole, come tutta la zona costiera dell'Adriatico orientale si mantennero, con alterne vicende, sotto l'amministrazione della Repubblica di Venezia. Verso alla metà del XIV secolo l'Angioino re d'Ungheria Ludovico il Grande, intraprese una gran lotta con Venezia per la conquista della sponda orientale dell'Adriatico, ed assecondato anche dall'alleata flotta Genovese, riusci ad avere la meglio su Venezia. Nel 1358, a seguito del patto di Zara, le isole, come tutta la Dalmazia, passarono alla fine sotto il dominio del regno d'Ungheria.5

Dopo la morte di re Ludovico nel 1382, che non lasciò eredi maschi, si scatenò nei suoi possedimenti una guerra per la sucessione al trono tra vari pretendenti, provocando il dissanguamento delle casse del regno. Nel 1409 i diritti nominali sulla Dalmazia centrale, con Zara e a nord con le isole, [4] furono infine cedute dal re d'Ungheria Ladislao alla Repubblica di Venezia per 100.000 ducati d'oro, perché dopo cinquant'anni di dominio, che scontentarono le città dalmate e portarono le popolazioni alla crisi economica, il re, disponendo ormai di poco potere, non era più in grado di governare la Dalmazia, né di opporsi alle forze di un altro pretendente alla corona d'Ungheria. Da questa data fino al 1797, i territori rimasero inseriti in modo permanente, come parte integrante, sia politicamente e sia amministrativamente, nel territorio della stessa Repubblica. Nel corso dei secoli, soprattutto dopo il XV secolo, nelle due isole s'insediarono altre popolazioni slave cristiane, sia sospinte dall'avanzata dell'impero Turco e sia richiamate dall'amministrazione veneziana per rimpiazzare le popolazioni locali, decimate dalle pestilenze di quei tempi, e per incrementare lo sviluppo dei territori.

Fino al XIII secolo nell'isola di Lussino non erano presenti insediamenti abitativi di significativa rilevanza, e le terre coltivabili, i pascoli, i boschi sfruttabili per il legname o comunque i terreni di qualche valore erano di proprietà delle più ricche famiglie di Ossero e Cherso. In particolare la maggior parte dei terreni posti nella parte nord-est dell'isola di Lussino e la parte meridionale dell'isola di Cherso appartenevano alle famiglie di Ossero, tra cui la più importante fu quella dei Drasa, ed alla Chiesa, rappresentata dal Vescovo della stessa Ossero. Sono stati rinvenuti numerosi incartamenti contenenti i resoconti amministrativi della gestione delle principali tenute, (molto interessante quella di Garmosal l'attuale Garmosai), che documentano la ripartizione delle proprietà e le attività agricole di quei tempi.

I primi insediamenti in questo territorio, di cui si hanno documentazioni certe sono avvenuti dopo il 1384. Nelle cronache immediatamente successive a questa data si parla di otto famiglie straniere che ottennero il permesso di installare le loro casupole nella parte meridionale dell'isola di Lussino, per la prima volta chiamata con questo nome, quattro nel sito poi chiamato Lussingrande e quattro in quello poi chiamato Lussinpiccolo. Questo permesso di domicilio fu loro concesso dalla comunità di Ossero, a condizione che ogni famiglia dovesse pagare un tributo annuo di un ducato d'oro.6 Dopo circa quarant'anni, a seguito anche di immigrazione di nuova popolazione, prevalentemente marinai e pescatori provenienti dal basso Veneto e dalla Dalmazia, la comunità di Lussingrande contava già cinquanta famiglie. Il villaggio di Lussinpiccolo si sviluppò più tardi, grazie all'arrivo di gruppi provenienti dalla parte costiera della Dalmazia aventi familiarità col mare, caratteristica precipua delle popolazioni Liburniche.

Gli altri insediamenti, come appunto Neresine, San Giacomo e Ciunschi sono molto più recenti e si possono far risalire al XVI e XVII secolo. [5]


Note:

1. Nel 1979 è stato scritto dal cittadino bosniaco Enver Imamovich, capitato per turismo a Neresine negli anni settanta, un libro intitolato "Nerezine na otoku Losinju".(Neresine nell'isola di Lussino). Il libro, finanziato con fondi del Dipartimento Diffusione Culturale del governo dell'allora Repubblica Federata di Bosnia, aveva lo scopo di raccontare la storia del paese.

L'autore, ligio al regime politico del tempo, non uscì, né avrebbe potuto, uscire dagli schemi politico-nazionalistici, obiettivo del suo lavoro; non a caso dedica un intero capitolo del libro all'arrivo di un'etnia croata nell'isola di Lussino, intitolato "Dolazak Harvata na otok" (l'arrivo dei croati nell'isola), cosa questa mai avvenuta nella forma descritta. Oltre a ciò, non avendo nessuna conoscenza di quello su cui voleva scrivere, è ricorso prevalentemente "all'autorevole" fonte di Domenico Rucconich (Limbertich), conosciuto in paese come uno dei più "accesi" nazionalisti croati.

Date le premesse, il libro è risultato, e non poteva essere altrimenti, una raccolta di inesattezze ed invenzioni stori-che, in cui è stravolta e in parte ignorata la storia del passato, ma ampiamente descritta quella che parte dal 1945, omettendo evidentemente di parlare dell'esodo e delle persecuzioni contro gli "italiani". Il libro, data la fonte, è tuttavia anche una vera testimonianza di come e da chi il paese sia stato attivamente governato, dopo l'instaurazione del regime comunista di Tito. Tra le "inesattezze" più comiche non si può non rilevare l'inserimento nel libro di una vecchia fotografia della piazza, abbastanza affollata di gente, ripresa dal saliso della chiesa, durante uno degli allora consueti discorsi oceanici di Mussolini, trasmessi a pieno volume dalla radio esposta, assieme alla bandiera, dalla finestra della Casa del Fascio (l'attuale casa Beluli) e fatta passare come l'immagine di un consueto incontro di socializzazione della popolazione in piazza.

2. Purtroppo non è stato possibile consultare l'archivio del comune di Neresine, perché tutte le carte in esso contenute, certamente quelle risalenti agli ultimi cento anni di esistenza del paese, ma anche quelle più antiche, sono state bruciate nel 1945 dai membri dell'Odbor (comitato popolare) appena insediato, nell'intento di cancellare la storia passata. I membri dell'Odbor nelle operazioni di distruzione dei documenti si sono avvalsi dell'aiuto del "povero" Mauro, che dotato di buona memoria e di una sua "particolare" intelligenza, è riuscito a salvare dal rogo, forse anche inconsapevolmente, alcune carte di un certo interesse … Fortunatamente altri documenti, trattenuti in copia dai membri dei vari consigli comunali dell'epoca austroungarica ed anche di quelli dell'epoca successiva, sono stati ri-tovati presso i discendenti, consentedo di ricostruire con certezza storica i pricipali avvenimenti che hanno coinvolto il paese.

3. Il dott. Matteo Nicolich fu il medico dei due Lussini e presumibilmente anche del circondario, dal 1836 al 1883. È ricordato dai suoi contemporanei, come un uomo che ha dedicato con generosità ed abnegazione la vita ai gravosi compiti professionali, spesso sopperendo a proprie spese alle necessità sanitarie dei più bisognosi. A lui viene attribuito il merito di avere sensibilmente ridotto la mortalità infantile e quella delle puerpere. Ridusse l'incidenza delle malattie infettive con una capillare sorveglianza e la promozione di un'educazione igienica di fondo nelle scuole. Combatté con costanza la tubercolosi, portata dagli ammalati austriaci, che accorrevano a Lussino, speranzosi di trovare giovamento dal suo buon clima marittimo. Nacque a Lussinpiccolo attorno al 1810 da famiglia modesta, frequentò il primo ciclo scolastico, presumibilmente presso l'ibrida scuola organizzata, in casa propria, dal prete "rivoluzionario" Don Martino Nicolich. Nel 1826 è ammesso al primo corso di umanità del ginnasio italiano di Fiume; l'anno successivo è al ginnasio italiano di Zara. Nel 1830 è a Padova, dove s'iscrive al primo anno della facoltà di medicina; il curriculum di studio è esemplare, costellato di tanti "bene" e "valde bene". Il 6 gennaio 1836, "compiuti avendo gli obblighi tutti prescritti dal vigente Piano degli Studi … previo giuramento di fedeltà e sudditanza, il Promotore lo fregiò della Laurea in Medicina". Condusse tutta la sua operosa vita nella natia isola, da dove raramente si staccò, si spense silenziosamente il 23 febbraio 1883, tra il generale cordoglio della popolazione.

4. Luigi Tomaz - "Ossero e Cherso nei secoli prima di Venezia". Edizioni Think Adv.

5. Silvio Mitis - "Storia dell'isola di Cherso-Ossero dal 476 al 1409". Parenzo 1925.

6. Le informazioni sull'origine dei villaggi di Lussingrande e Lussinpiccolo sono tratte dalla "Storia Documentata dei Lussini" del dott. Matteo Nicolich, anzi lo stesso autore riferisce di due diverse versioni tramandate dagli antenati, una riportante l'arrivo appunto di otto famiglie, e l'altra di dodici, egualmente ripartite tra i due villaggi. [6]


La data di nascita di Neresine è abbastanza incerta perché non esistono documenti storicamente attendibili su un paese avente questo nome fino al XV secolo, le prime menzioni del nome ritrovate nelle antiche cronache parlano di Neresine d'Ossero; comunque nello stesso territorio in cui sorge Neresine era presente fin dall'XI secolo una comunità di monaci benedettini camaldolesi seguaci di S. Romualdo, come testimoniato dagli Annales Camaldulenses, in cui si fa anche riferimento a quattro eremi sul Santi Nicolai Montis Garbi, in quel tempo il monte Ossero era chiamato con questo nome, infatti sono ancora presenti nei siti indicati i ruderi degli eremi citati, tra cui quelli di una chiesetta. 1 Al monte Garbo d'Ossero si fa riferimento anche nelle antiche cronache anconetane, quando parlano della vita del nostro San Gaudenzio, vescovo di Ossero, eremita appunto per un certo tempo in una grotta sul monte Garbo e vissuto negli ultimi anni nel convento di Portonovo del Conero d'Ancona, dove morì.

Nel dialetto locale il modo di dire tradizionale "Garbin bardassa quel che 'l trova el lassa", per dire che dopo i rumorosissimi temporali estivi che provengono da "Garbin" ritorna rapidamente il sereno, deriva forse da questa antica denominazione. Ancora oggi, sia nel dialetto italiano che in quello slavo del paese, i venti e le perturbazioni (neviere) che provengono dalla direzione del monte o da nord-ovest vengono detti "de Garbin" o "od Garbina".A proposito del nome del monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi si chiamava monte Garbo, poi monte Ossero, nome probabilmente ricavato dalle prime cronache venete che facevano riferimento alla città di Ossero, infine, dal 1945 Televrin, nome questo del tutto nuovo, mai riscontrato né nelle cronache del passato, né nella tradizione orale tramandata dagli antenati.2

Il paese di Neresine, così come si è sviluppato negli ultimi cinque secoli e come ce lo ritroviamo oggi, cominciò a costituirsi tra il XV e il XVI secolo alle pendici appunto del monte Ossero,3 chiamato affettuosamente Ossuorciza nel dialetto slavo del paese, nella zona più pianeggiante e fertile dell'isola, attorno alle proprietà della ricca e nobile famiglia dei Drasa di Ossero, al centro delle quali si ergeva il "Castello", una massiccia e fortificata costruzione adibita a residenza di campagna, costruita probabilmente da Francesco Drasa, padre del più noto Colane (diminutivo di Nicola in antico veneziano) appunto del fu Francesco. Nell'architrave di pietra della porta inferiore, oltre allo stemma dei Drasa si trova incisa la sigla FD, in altra pietra si legge l'anno 1450. In quel tempo erano comunque già presenti poche famiglie di contadini, dediti soprattutto alla coltivazione delle olive, dei vigneti ed all'allevamento degli ovini, come testimoniano documenti contabili dei proprietari terrieri di Ossero; tali famiglie erano probabilmente i discendenti delle prime tribù slave installatesi nelle isole dopo il VII secolo. L'origine di questi abitanti potrebbe essere confermata dalla parlata slava del paese tramandata nei secoli, in cui sono presenti molte parole e forti accenti, tipici dell'antica lingua romanza parlata dai discendenti dei Liburni: i forti accenti forzati sui dittonghi con la "u", presenti solo e soltanto nel dialetto slavo di Neresine, (struasa, comuostre, duolcić, conual, buancić, fasuol, fazuol, tuorić, vruata, cimituori, cualbin, druago, duan, tovuar, Buoh, ecc.) ne sono conferma. Va anche osservato che molte di queste parole sono assai simili, se non le stesse, dell'antica lingua Dalmatica.

A proposito del nome del monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi si chiamava monte Garbo, poi monte Ossero, nome probabilmente ricavato dalle prime cronache venete che facevano riferimento alla città di Ossero, infine, dal 1945 Televrin, nome questo del tutto nuovo, mai riscontrato né nelle cronache del passato, né nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

Le prime famiglie che si insediarono a Neresine verso il XVI secolo erano contadini slavi provenienti dall'entroterra della regione illirica, richiamati dal programma politico di quel tempo della Repubblica di Venezia, inteso ad incrementare la popolazione delle terre d'oltre Adriatico decimate dalle pestilenze, al fine anche di mantenere un minimo di popolazione nei vari territori semidisabitati, ad eccezione dei centri di Ossero e Cherso, ed aumentare quindi le varie produzioni, soprattutto [7] A proposito del nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi si chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città di infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né nelle passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati. agricole, anche insufficienti per il fabbisogno delle isole. L'arrivo dei nuovi immigrati fu anche favorito della fuga di molte popolazioni cristiane dalla loro terra d'origine a seguito dell'invasione turca della regione balcanica, e fu accettato dai proprietari delle terre, cioè i cittadini ed il vescovo di Ossero.

I nuovi arrivati non dovevano avere molta famigliarità col mare perché si insediarono in siti il più lontano dal mare possibile, probabilmente anche per timore di incursioni piratesche, che in quei tempi non erano tanto infrequenti; infatti le più antiche case, forse le prime costruite in paese, le troviamo nella collina di Bardo (insediamento probabilmente già presente prima di questo periodo, così come la chiesetta di S. Maria Maddalena), nelle località di Veli Dvuor, Pesćine, Stuagne Casteluagnevo (come definito almeno fino alla metà del XIX secolo, poi diventato Stuagne Bubgnovo o Dubcinna), Stuagne Rucconićevo (Blasićevi), Halmaz, ecc. Nel dialetto slavo del paese stuagne sta per gruppo di case.

In merito all'origine del nome di Neresine, molti autori hanno voluto cimentarsi nell'interpretazione di questo nome. Alcuni l'indicarono come derivante dallo slavo "néres", cioè il maschio el maiale, quindo forse significante terra per il pascolo dei maiali; altri arrischiarono un meno prosaico "Nerei sinus", ossia "seno (insenatora) di Nereo", intendendo il mare; altri ancora trovano il nome derivato dal latino medievale "Neresium", che significa "luogo incolto" (da una lista di termini tratti da antichi documenti); infine alcuni (tra cui il prof. Branko Fucich nel testo "Absirtides") lo fanno derivare dal significato slavo antico di "Nerezi", luogo non tagliato, terra abbandonata. Le due ultime interpretazioni, una latina e l'altra slava, che coincidono nel significato, sembrano le più accreditabili, e confermano quel che si sa sull'origine del paese. Per la curiosità dei lettori, si può ricordare, col prof. Fucich, i nomi dei villaggi di Neresisc'e nell'isola di Brazza in Dalmazia e quello di Nerezi in Macedonia.

Agli inizi del 1500 iniziò anche la costruzione della chiesa di S. Francesco e l'annesso convento dei frati Francescani Minori Osservanti della Vicaria di Dalmazia di S. Girolamo, su terreno, prevalentemente adibito a vigneto, donato dal cittadino locale Domenico Sutcovich. La costruzione, progettata da un frate architetto, fu fatta erigere da Colane Drasa del fu Francesco di Ossero a proprie spese, come ampiamente documentato nel suo testamento, controfirmato da altri tre signori osserini e come detto anche nella pietra tombale dello stesso Colane Drasa, tuttora esistente nella chiesa davanti all'altare Maggiore.4

A proposito del nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi si chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città di infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né nelle passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

La chiesa di S. Francesco, dalla sua fondazione fino alla metà del XX secolo, è stata sempre il principale punto di riferimento religioso ed anche sociale per la vita della popolazione, è stata quindi per quasi cinque secoli il fulcro attorno cui si è sviluppata la storia del paese; essa merita perciò di essere descritta un po' più approfonditamente. Viene utilizzata per questo scopo la precisa descrizione, fatta molti anni fa da P. Vittorio Meneghin..5

"La chiesa è di modeste dimensioni, semplice, ma non priva di una certa eleganza artistica, purtroppo in seguito deturpata da qualche infelice restauro, saprattutto dal prolungamento della parte posteriore con la costruzione del presbiterio e coro attuali, così che l'antico presbiterio appare una inestetica strozzatura. Sulla base frontale dell'altare maggiore è incisa la data MDCCX. Non è improbabile che anche il presbiterio sia stato costruito in quest'anno, o circa...

Secondo le buone tradizioni dalmato-istriane, è tutta murata, esclusa l'aggiunta posteriore, in conci regolari a vista accuratamente martellati. In origine la facciata aveva sicuramente un portico, perché sono ancora visibili i piccoli modiglioni di pietra che sorrreggevano una trave sulla quale poggiavano quelle del tetto del porticato. Probabilmente il portico venne demolito quando, a brevissima distanza dalla facciata della chiesa, si costruì il cimitero attuale, su terreno di proprietà del convento.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, è scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi è una finestrella or-bicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite della parete destra è a pieno arco. [8]

Nell'interno numerose sono le lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, una delle quali ha un sigillo egregiamente scolpito con stemma ed iscrizione consunti; parecchie sono contrassegnate con la sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle quali si concedeva sepoltura a chi la richiedeva, perché da quando sorse la chiesa alcuni defunti di Neresine si seppellivano in essa.

La pila dell'acqua santa è decorata da ornati che, pur non essendo molto fini, sono ispirati alla grazia rinascimentale. Di schietto ed elegante stile lombardesco il lavabo della screstia. In questa, sugli stipiti della finestra, è scolpito lo stemma della famiglia veneziana Loredan. La pala dell'altare maggiore nella parte superiore raffigura San Francesco in atto di ricevere le stimmate, nell'inferiore San Bonaventura e San Gaudenzio, ai quali fanno riscontro San Nicolò e Santa Chiara. Questi due ultimi sono certamente stati inclusi per rendere omaggio a Colane (Nicola) e Chiara Bocchina (sua moglie). Sembra che la pala possa ritenersi quella ordinata da Colane nel suo testamento.

Sull'altare di S. Antonio, nella cappella a destra, si vede una tela scadente, ma l'immagine è molto venerata, o per lo meno era, anche dalle popolazione dei vicini villaggi. L'altare in marmo venne costruito circa nel 1660, perché in un punto di un testamento di quest'anno, viene detto nuovo. Di fronte alla cappella di S. Antonio vi è quella della Madonna della Grazie, la cui immagine è stata malamente sovrapposta ad un quadro di Girolamo di Santa Croce, che ne dipinse parecchi per le chiese dei Minori Osservanti dall'Istria e della Dalmazia.

La bella tavoletta della Madonna (cm 55 x 40 circa) si crede sia portata a Neresine dalla Bosnia dopo la prima invasione dei turchi,6 è lavoro di un madonero del XV secolo, non insensibile all'ambiente dell'epoca in cui lavorava. La Vergine campeggia su uno sfondo dorato, a mezza figura; con la destra stringe al seno il Bambino, nella sinistra, delicatissima, tiene un fiore; un manto scende dal capo coprendo quasi tutta la persona, lasciando visibili il seno e l'avambraccio sinistro, coperti da un abito riccamente decorato. L'immagine devota è veneratissima dalla popolazione, che ne è molto gelosa.

Molto bello il campanile tutto in pietra viva lavorata. Una monofora dal lato che prospetta la strada, e otto bifore con slanciate colonnine ottagonali che ne ingentilicono la canna, circondata alla sommità da ballatoio e sormontata da cuspide quadrangolare. È opera di un converso francescano che lo iniziò nel 1590 e venne ultimato nel 1604 per cura di Padre Ludovico da Ossero. Evidentemente il converso architetto si ispirò ai vari bellissimi campanili romanici innalzati anteriormente in varie città della Dalmazia, particolarmente a quello del Duomo d'Arbe.

Dalla porta in linea retta della facciata della chiesa, si accede al piccolo chiostro trilatere, sorretto da pilastri. Al centro l'immancabile pozzo. L'ambiente è suggestivo, avendo qualche cosa di orientale. La loggetta sovrastante un lato del chiostrino, le piccole finestre quadrate del convento, la semplicità, la povertà decorosa dell'insieme esprimono la forma tipica dei primitivi conventi dell' Osservanza francescana."

Il convento contiguo alla chiesa fu ultimato negli anni successivi, probabilmente attorno alla metà del XVI secolo, certamente nel 1578 era perfettamente finito, perché in quella data potè ospitare numerosi frati della Provincia Dalmata di S. Girolamo, convenuti a Neresine per la celebrazione di un capitolo. Successivamente il convento fu beneficato da vari lasciti. Con atto del 25 marzo 1535 Chiara Bocchina, moglie del Colane Drasa, donava i terreni circostanti il convento denominati Tesina, (quelli in cui c'era la vecchia grande vigna e la pineta e dove attualmente è stata installata la parte nord del campeggio) ed il bosco verso Rapoce, dove è stata costruita la parte sud dello stesso campeggio. In seguito altri membri della famiglia Drasa abitanti d'Ossero e di Neresine si dimostrarono generosi: nel 1690 il capitano Francesco Drasa lasciava ai frati "animali da pascolo n° 50 et li animali vivi da frutto posti nella mandria di Garmosal con tutte le sue raggion, habentie et pertinentie, ombrie et bonazze spettanti a detti pascoli". Nel 1590 Cristoforo Schia di Ossero istituì un legato a favore dei religiosi. Nel 1672 Margherita Marcevich lasciava loro venticinque animali da pascolo.7 [9]

Il campanile della chiesa fu costruito successivamente, dal 1590 al 1604, come già precedentemente detto. Non si hanno notizie delle prime campane installate nel campanile, probabilmente erano abbastanza "sgangherate" perché all'inizio del XX secolo furono ordinate tre nuove campane, quelle attuali, fatte fondere da una fonderia del Veneto, utilizzando anche il bronzo di quelle vecchie.

Non esistono documentazioni che possano stabilire con una certa precisione il periodo in cui si costituirono le prime famiglie che iniziarono il popolamento del paese, la cosa è comprensibile perché si trattava di popolazione povera, completamente analfabeta che ignorava la lingua locale, soprattutto quella scritta, che era anticamente, prima il latino, poi il veneto e dagli inizi del 1500 fino al 1945 l'italiano. Possiamo dire che per tutto il XVI e XVII secolo la popolazione si dedicava esclusivamente ai duri lavori agricoli, principalmente a rendere fertili i terreni liberando dalle pietre le aree più coltivabili, ne sono testimonianza i numerosissimi megnizi, sparsi un po' dappertutto (megnik nella parlata slava del paese significa mucchio di pietre, parola stranamente somigliante al termine celtico antico men hir, ossia alto mucchio di pietre), le interminabili masiere (gromace), muri a secco, che servivano anche per recintare e delimitare le varie proprietà. Risale a questo periodo probabilmente anche la costituzione dei tipici gorghi o tieghi (dal dialetto slavo tiègh), ampi campi di terreno arativo per la coltivazione del grano ed altri cereali o vigne, ricavati in mezzo ai boschi, prevalentemente nelle zone di avvallamento del terreno (dolàz), di forma tendenzialmente circolare, circondati da alte e robuste masiere per impedire le incursioni delle pecore. Tali campi sono tuttora molto numerosi, per quanto ormai incolti, nella parte meridionale dell'isola di Cherso chiamata Bora (Bura), la bora appunto. Col termine tesìna (probabilmente maggiorativo di tiegh), erano invece definiti i terreni pianeggianti più fertili, anch'essi adibiti alle coltivazioni. L'accesso ai tieghi e alle varie proprietà, chiamate diélnize (suddivisioni), avveniva attraverso le lese (da pronunciarsi con la esse aspra): alti cancelli di legno di ginepro (smreca), opportunamente incernierati a robusti pali che fungevano da stipiti (stòsari), dotati d'ingegnosi chiavistelli (verùse, saverùsit) dello stesso legno.

Le prime informazioni certe e documentate sul paese di Neresine sono deducibili da alcuni manoscritti in possesso dei discendenti, contenenti prevalentemente testamenti, contratti d'acquisto e permute di terreni, contabilità di gestione di campagne e acquisto di merci, risalenti all'inizio del XVII secolo, e dalle tombe del XVIII secolo di alcuni abitanti e famiglie del paese, presenti nella chiesa di S. Francesco dei frati e relativo chiostro. Per completezza di informazione vale la pena di riportare le iscrizioni delle suddette tombe, come testimonianza delle prime famiglie del paese, esse sono complessivamente sei, la più antica, situata in chiesa davanti l'altare di S. Antonio, porta l'iscrizione: "Sepoltura di Nicolò Ruconich et heredibus 1691"; in chiesa davanti l'altare della Madonna delle Grazie un'altra dice: "Sepulcrum … (nome non leggibile per consunzione della pietra) Ruconich 1700"; ancora in chiesa dal lato sinistro verso la porta principale c'è la tomba, senza data, ma con dettagliata iscrizione in latino, certamente della stessa epoca, di Domenico Sigovich "… cum successoribus suis", dal veliero inciso sulla lapide si evince che debba essersi trattato di un proprietario oppure di capitano di nave (da altri documenti in possesso dei discendenti pare che l'anno della sua morte sia il 1757). Nel chiostro, davanti alla porta piccola al centro della chiesa, le altre tre riportano le seguenti iscrizioni: "Francesco Soccolich, Zuane e Gaudenzio fratelli anno 1753", "Zuane Marinzulich per se e sui eredi anno 1788", Bartolamio Ruccognich per se e sui eredi anno 1783"."Francesco Soccolich, Zuane e Gaudenzio fratelli anno 1753", "Zuane Marinzulich per se e sui eredi anno 1788", Bartolamio Ruccognich per se e sui eredi anno 1783".

Nel chiostro, presso le succitate tombe, è murata anche una grande lapide di marmo rosso, che un tempo chiudeva un sepolcro situato nel coro, costruito da Francesco Dragosetich di Ossero, soltanto per se ed i religiosi, come dice l'iscrizione in latino.8 Molte altre sono disseminate nel pavimento della chiesa con la sola iscrizione "SF" (S. Francesco), contenenti le spoglie mortali dei primi abitanti del paese. [10]

Il periodo in cui ha avuto inizio il forte sviluppo del paese viene anche confermato da un libro dell'archivio dello stesso Convento, utilizzato per la registrazione delle messe sempiterne per i defunti, ordinate dai fedeli ai frati, partente dalla data del 1513 fino al 1900 inoltrato. In merito al registro delle messe, quello originale scritto in italiano è andato perduto, probabilmente distrutto … dai frati croati arrivati verso la fine del 1800, esiste tuttavia la traduzione in croato di tale registro, eseguita da un frate di Pago nell'anno 1896, come da lui stesso certificato in calce del medesimo registro, per ordine del frate guardiano Francesco Smolje.

È opportuno segnalare che studiando il registro, emergono perplessità sulla completezza dei dati della traduzione, in quanto rispetto al numero delle persone decedute in paese, per esempio, in tutto il secolo XIX, di cui si hanno dati anagrafici certi, nel registro viene menzionato non più del 10% dei defunti reali. Mancano prevalentemente i nomi di origine italiana, e conoscendo la grande religiosità e il devoto attaccamento dei Neresinotti alla chiesa di S. Francesco ed ai frati del convento, specialmente di quelli abitanti nel rione Frati, questo fatto procura qualche dubbio sulla correttezza della traduzione..

Comunque sia, i primi nomi di cittadini di Neresine registrati nel "libro delle messe" appaiono proprio all'inizio del XVIII secolo. Prima di allora i nomi sono di cittadini di Ossero, a cominciare dallo stesso Colane Drasa (1513) e della moglie Chiara Bocchina (1535), nonché di cittadini di Cherso, Lussingrande e altri non Neresinotti.

La vita del paese era regolata secondo le abitudini, usi e legislazione vigenti nella città di Ossero, che è stata parte della Repubblica di Venezia fino al maggio 1797 e sede vescovile fino al 1828. Pertanto la cura delle anime e l'amministrazione generale del paese era affidata ad un canonico di Ossero, che faceva riferimento al proprio Vescovo prima ed al Parroco poi; il canonico aveva anche funzione di pubblico ufficiale e curava la registrazione anagrafica della popolazione: nascite, matrimoni e morti.

La chiesa parrocchiale era quella di S. Maria Maddalena, qui si celebravano i battesimi, matrimoni e funerali oltre ai normali riti religiosi fino alla costruzione e inaugurazione del nuovo Duomo dedicato alla Madonna della Salute, avvenuto alla fine del XIX secolo. A proposito della chiesa di S. Maria Maddalena, questa è certamente la prima chiesa del paese, in quanto la sua più antica menzione risale al 1534, data del primo censimento di tutte la chiese esistenti nel territorio della diocesi di Ossero, in cui si descrive dettagliatamente la chiesa e da cui si deduce che è stata costruita alcuni anni prima di tale censimento, presumibilmente verso la fine del XV secolo.

Almeno fino alla fine del XVII secolo, i morti del paese erano sepolti prevalentemente ad Ossero, e questo procurava evidentemente grande disagio per la popolazione. Come già accennato, a sopperire a questo incomodo, provvidero i frati del convento, che iniziarono ad ospitare le tombe di alcune famiglie nella chiesa e annesso chiostro, dietro adeguato compenso. Successivamente cedettero anche un terreno adiacente alla chiesa per dare sepoltura ai paesani, quando nel XIX secolo la legge proibì di inumare i defunti in chiesa.

In paese sono stati sempre presenti i frati del convento Francescano, generalmente due o più sacerdoti e uno o due frati laici, che si occupavano dei fedeli prevalentemente sotto l'aspetto religioso e sociale, ma non amministrativo, avevano infatti molto da fare anche per gestire le proprietà del convento, vigne, orti, greggi e pascoli, che coltivavano in parte da soli e da cui ricavavano tutti i mezzi per il loro sostentamento. I Frati, fin dai primi inizi della gestione del convento, accoglievano nella loro comunità anche alcuni ragazzi del paese, a cui garantivano vitto e alloggio in cambio di un aiuto nello svolgimento delle attività quotidiane di chiesa e convento, alleggerendo così le povere e prolifiche famiglie, di una bocca da sfamare. Ai ragazzi veniva anche data una buona educazione, insegnando loro a leggere e scrivere, mettendo le basi dell'acculturamento e del progresso civile del paese. Per le famiglie di Neresine mandare un loro figlio a stare coi frati era una delle più ambite aspirazioni; infatti, molti dei ragazzi, diventati adulti, o intraprendevano la carriera eclesiastica, diventando a loro volta frati, oppure diventavano "bravari" (fattori o capimandria) ed amministratori [11] delle proprietà del convento e successivamente anche i capi riconosciuti del paese. Già dall'inizio del XVII secolo molti dei frati residenti erano nativi di Neresine, per essere poi nel XVIII secolo in grande prevalenza neresinotti. delle proprietà del convento e successivamente anche i capi riconosciuti del paese. Già dall'inizio del XVII secolo molti dei frati residenti erano nativi di Neresine, per essere poi nel XVIII secolo in grande prevalenza neresinotti.9

Verso l'inizio del XIX secolo, a causa della scarsità di sacerdoti nella diocesi di Ossero ed a seguito della decisione di trasferire a Veglia la sede diocesana, le autorità governative decisero di trasferire da Neresine anche i frati, ponendo fine alle attività di chiesa e convento. I cittadini di Neresine insorsero con grande calore, inviando ripetute suppliche ed istanze al Ministero del Culto di Vienna ed allo stesso Imperatore, riuscendo infine ad ottenere che i religiosi rimanessero indisturbati a Neresine.10

I frati sono stati sempre in grande comunione con gli abitanti del paese, coi quali condividevano la dura vita, le fatiche e gli interessi reciproci. Sono stati i frati a promuovere la costruzione, nel loro porticciolo (mandracchio), del primo frantoio (torchio) per macinare le olive e produrre l'olio; da documenti dell'archivio del convento risulta che nel 1722 apparteneva a Giovanni Petris di Ossero, che pagava dei diritti ai frati; da una targa in pietra incastonata nel muro esterno, riportante l'anno 1757, si può dedurre che in quella data il torchio fu sottoposto ad una ristrutturazione, probabilmente una modernizzazione.

Le funzioni religiose erano celebrate in latino, secondo il rito della Chiesa Romana come prescritto da S. Francesco, soltanto verso la fine del XIX secolo, a seguito della politica di croatizzazione della popolazioni imposta dal Governo Centrale di Vienna ed attivamente assecondata dalla Diocesi di Veglia, che mandò frati croati in paese, nelle domeniche e feste comandate l'epistola e il vangelo erano lette in croato ed alcune preghiere in "schiavetto", che era un miscuglio tra latino e croato, ma mai in glagolito, a parte un solo tentativo in una domenica di settembre del 1895, conclusosi con la sospensione del rito per l'abbandono della chiesa da parte dei fedeli e la successiva agressione violenta nei confronti del frate officiante.11 Nell'ultimo decennio del XIX secolo, per motivi meramente politici, anche se non apertamente confessati, venne appunto sferrata in tutta la Dalmazia una vera battaglia a favore dell'uso della lingua veteroslava nella liturgia, con l'intento di estenderne l'uso anche a quelle chiese, come quelle dei Frati Minori, nelle quali il latino era stato ininterrottamente usato fin dalle più lontane origini. A Neresine questa politica non ha dato frutti per la forte opposizione della popolazione, sfociata anche in almeno tre casi di aggressione violenta contro i nuovi frati.

Le prediche erano dette inizialmente in italiano, anche perché i frati, appartenenti alla provincia dalmata di San Girolamo, erano di scuola italoveneta e non avevano la piena padronanza dal dialetto slavo del paese, successivamente, con la frequente presenza di frati residenti nativi di Neresine, i sermoni venivano probabilmente detti anche nella parlata slava del paese.

Dall'inizio del XVII secolo lo sviluppo del paese ebbe un grande incremento, in concomitanza col forte declino di Ossero, provocato da gravi e persistenti condizioni di insalubrità (malaria), aggravato anche dall'ultima feroce razzia dei pirati Uscocchi, avvenuta nel 1606; comunque in questo periodo ebbe inizio anche il progressivo abbandono della città di Ossero da parte dei vecchi proprietari terrieri, che con le famiglie si trasferirono altrove, e cominciò contemporaneamente l'acquisizione dei terreni da parte degli abitanti di Neresine.

In quegli anni si verificò anche una nuova ondata di immigrazione in paese, "di seconda generazione", prevalentemente uomini scapoli ("single" come si dice oggi), provenienti dall'Istria, dalla Dalmazia e dalle regioni costiere italiane, abbastanza alfabetizzati e in possesso di un significativo bagaglio professionale: mastri muratori, falegnami e carpentieri, commercianti, bottai, fabbri, lattonai, ecc.

L'inevitabile mescolamento delle due generazioni con matrimoni degli ultimi arrivati con le donne del paese, produsse la stirpe neresinotta attuale. È iniziato così anche un forte sviluppo, concretizzatosi con la costruzione di molte nuove case e una forte presa di confidenza col mare. A seguito di ciò iniziò a svilupparsi anche l'attività di costruzione delle piccole barche (caìci), indispensabili per i trasporti da e per Bora (la sponda dell'isola di Cherso di fronte al paese), i cui terreni erano ormai [12] in gran parte in possesso dei cittadini di Neresine. Alla fine del XVII secolo la popolazione del paese si stava ormai avvicinando ai 1000 abitanti.

In questo periodo si sviluppò anche il vicino paesino di San Giacomo, distante solo un paio di chilometri, seguendo integralmente lo sviluppo di Neresine, di cui dall'inizio del XIX secolo divenne una frazione a tutti gli effetti.

Dal punto di vista urbanistico, essendo il paese sparso su un ampio territorio e non avendo vie, calli o strade convenzionalmente classificabili, ma solo sentieri che si dipanavano di casa in casa o di stuagne in stuagne, l'amministrazione di quel tempo assegnò un numero civico ad ogni casa partendo da nord verso sud; così troviamo il numero uno in vetta al colle di Halmaz (Varhalzà) ed i numero 180 all'estremo sud nella zona di Suria verso Galboca. Successivamente, a seguito del forte incremento di costruzione di nuove case, la numerazione fu assegnata in modo casuale e progressivo, in funzione della data di fabbricazione. Per facilitare l'individuazione delle varie abitazioni, il paese venne suddiviso anche in Contrade, secondo le consuetudini venete, così abbiamo la Contrada Halmaz, ovviamente comprendente tutte le case di Halmaz; la contrada Frati, comprendente tutte le case a nord della linea che parte da Rapoće verso ponente, includente Prantuognef e Gariniza; la contrada Pozzo, praticamente la parte centrale del paese con al centro la piazza con il pozzo (Studènaz); la contrada Castellani posta all'estremo ovest del paese alle pendici del monte (gli attuali stuagni bubgnovi, ambrosićevi e forse anche Pesćine), il cui nome probabilmente derivava dai Soccolich, soprannominati Castelluagnevi, diventati ricchi proprietari terrieri, avendo essi acquisito anche le campagne dei Drasa, incluso il "Castello"; la Contrada Canal, probabilmente parte di S. Maria Maddalena, fino S. Antonio e Stantinich; Contrada Bardo, l'attuale Podgora; infine la Contrada Biscupia includente tutta la parte restante a sud del paese; Veli Dvuor (letteralmente grande cortile) ha mantenuto anche nelle carte ufficiali il nome originale.12

Analizzando la distribuzione degli insediamenti abitativi e delle proprietà dei terreni in paese, abbiamo una configurazione abbastanza interessante; la parte più lontana dal mare, sparsa alle pendici del monte è stata la prima ad essere colonizzata, come già detto in precedenza, apparteneva alle famiglie di "prima generazione": Soccolich, Sigovich e Zorovich (Veli Dvuor), Rucconich, Marinzulich, Zuclich (Halmaz). Le restanti parti appartenevano a quelli di "seconda generazione", in particolare la parte lungo il mare che si estende da Lucizza, Piazza, fino a Sirtusef e più a ovest fino ad oltre lo stuagne Gaetagnevo apparteneva alle famiglie Bracco; la parte da Rapo'ce verso nord-ovest fino ai frati ai Matcovich; la zona di Prantuognev e da qui verso nord, ai Buccaran; la parte da Prantuognev-Barze verso sud ai Camalich; tutta la parte sud del paese includente Biscupia e Suria ai Lecchich, Bonich, Zorovich, Succich, Canalettich, per citare solo i ceppi famigliari più numerosi. Successivamente con il susseguirsi delle generazioni e coll'infittirsi dei matrimoni tra le varie famiglie, le proprietà si sono intensamente intrecciate, tuttavia ancora oggi è possibile ricostruire le tracce della prima suddivisione attraverso le genealogie dei discendenti.

A mano a mano che il paese cresceva e si sviluppava, aumentavano le esigenze di conoscenza e acculturamento della popolazione, tuttavia non esistevano scuole in paese, la scuola più vicina era a Lussinpiccolo, a venti chilometri di distanza, quindi in nessun caso praticabile. Il compito di insegnare a leggere e scrivere ai ragazzi venne assunto dal canonico d'Ossero che aveva le funzioni di parroco a Neresine, così molti giovani, presumibilmente quelli più intelligenti ed intraprendenti impararono a leggere, scrivere e far di conto, cosa indispensabile per gestire qualsiasi attività anche in quei lontani tempi. La lingua insegnata era l'italiano, anche perché la lingua croata era a quel tempo ancora sconosciuta, ed il dialetto slavo parlato dalla popolazione, allora ed ancor oggi, è molto diverso dal croato. Anche i frati, come già precedentemente detto, si sobbarcarono il compito di istruire alcuni giovani fin dai tempi più antichi, anche perché avevano necessità di delegare a gente del paese la gestione delle loro proprietà: campagne, animali, ecc.; infatti, i documenti ritrovati confermano che i bravari (capi mandria, fattori) dell'epoca sapevano scrivere in italiano e far di conto. [13]

Verso la prima metà del XIX secolo, le famiglie più benestanti iniziarono a mandare i loro figli a studiare alle scuole superiori dei centri vicini più importanti: a Lussinpiccolo quelli che volevano fare i Capitani di Lungo Corso, a Pisino o Rovigno gli agrari, a Zara o Fiume per gli studi umanistici ed a Padova e poi a Graz per gli studi universitari. Le femmine furono mandate a studiare e imparare le buone maniere dalle suore (Muneghe) di Cherso.

Dopo la caduta di Venezia per opera della Francia rivoluzionaria e di Napoleone ed a seguito del trattato di Campoformio del 1797, l'Istria, la Dalmazia e le isole del Quarnero furono assegnate all'Austria; Napoleone infatti barattò questi territori, assieme con la stessa Venezia, cedendoli in cambio dei terrirori del Belgio, confinanti con la Francia. Successivamente, dopo la battaglia di Austerliz del 1805, tutti i possedimenti austriaci sulla sponda orientale dell'Adriatico, passarono sotto il neocostituito Napoleonico Regno D'Italia. In questo periodo fu costruita dai francesi l'attuale strada che da Lussinpiccolo porta a Cherso. Infine nel 1815, a seguito del Congresso di Vienna, le isole del Quarnero, come tutta l'Istria e la Dalmazia, passarono sotto il dominio Austriaco, tuttavia inizialmente poco mutò rispetto alla precedente amministrazione veneziana, rimasero le stesse leggi, abitudini, lingua, scrittura, ecc. La lingua amministrativa e comunque la lingua ufficiale rimase l'italiano, come in tutto il territorio dell'Istria, Trieste e Fiume comprese, e della Dalmazia.

A questo proposito può valer la pena segnalare alcuni dati storico-statistici riguardanti questo periodo, raccolti negli archivi di Stato delle Province Venete, dai quali risulta che, tra il 1796 ed il 1814, nella Milizia Cisalpina-Italiana dell'allora napoleonico Regno d'Italia, e particolarmente nella composizione dei corpi armati delle Provincie Venete posizionati sulla riva destra del Mincio, tra cui figurava anche un Reggimento di Fanteria Dalmata, si trovano registrati, tra ufficiali e sottufficiali i seguenti cognomi (per brevità vengono omessi i nomi propri): Lupi, Lecchi, Sigovich, Tomich, Catturich, Mattiassi, Boni, Bracco, Bussani, Cavedoni, Zanetti, German, Santolin, Niccolich, Milossevich, Zanelli, Zuliani, Zucchi, ed altri abbastanza diffusi nella nostra regione.

Dalla fine del XVIII secolo Neresine divenne il paese più importante e produttivo della parte nord dell'isola di Lussino, tutti i centri minori delle due isole quali S. Giacomo, Puntacroce (che divennero poi frazioni di Neresine), Belei, Ustrine, la stessa Ossero, ecc, incluse le isole di Unie e Sansego, facevano riferimento a Neresine per l'acquisto di prodotti di falegnameria (mobili), ferramenta, stoffe, vestiario, la costruzione di carri, botti, piccole barche, scarpe, secchi, grondaie, attrezzi agricoli, sementi, ecc. L'artigianato divenne fiorente e portò ad un notevole miglioramento del tenore di vita della popolazione.

In questo periodo anche la coltivazione delle olive subisce un forte incremento per la sempre maggiore richiesta di olio, furono costruiti altri due frantoi, uno a Magaseni in riva al porto dai Zorovich (Sule), ed uno in Biscupia. Da un censimento agricolo del 1828, risulta che nel territorio di Neresine esistevano 9.398 alberi di ulivo.

Dall'inizio del XIX secolo lo sviluppo di Neresine segue abbastanza sincronicamente quello di Lussinpiccolo, diventato il più grande e ricco centro dell'isola, grazie alle attività cantieristiche e marinare di quella popolazione; infatti, in questo periodo cominciò anche il grande sviluppo della marineria lussignana, con la costruzione di una notevole flotta di velieri di grande e piccolo cabotaggio e la fondazione dei cantieri navali (squeri), ciò stimolò l'arrivo a Lussinpiccolo di nuove popolazioni: carpentieri e calafati dalla sponda italiana dell'Adriatico, capitani e marinai dalla Dalmazia. Anche alcuni Neresinotti andarono a lavorare a Lussino come marinai e negli squeri, dove impararono il mestiere e misero le basi per il futuro sviluppo marinaro del paese.

Verso la metà del XIX secolo nella sola Lussinpiccolo erano attivi ben sei squeri e la costruzione navale procedeva col ritmo di venti navi all'anno, alcune di portata superiore alle mille tonnellate. Lussinpiccolo divenne il capoluogo politico ed amministrativo di tutte le isole del Quarnero, ossia Lussino, Cherso, Sansego, Unie, San Piero dei Nembi, Premuda, Ulbo, Selve, ecc. A Lussinpiccolo trovarono sede il tribunale, il catasto dei terreni, la direzione marittima e tutti gli altri istituti amministrativi. [14] All'inizio del XIX secolo fu aperta anche la scuola nautica per la preparazione dei Capitani di lungo Corso, inizialmente come scuola privata, fondata e gestita dai due fratelli preti lussignani, Don Giovanni e StefanoVidulich, successivamente divenne scuola pubblica, una delle prime dell'Impero Austroungarico. Di Lussinpiccolo e Lussingrande esiste comunque un'ampia documentazione storiografica, per cui si rimanda a questa per eventuali approfondimenti.

Tornando al paese di Neresine, dobbiamo dire che il forte sviluppo portò un consistente benessere soltanto ad una parte della popolazione, ossia a quelli che per primi avevano imparato a leggere e scrivere, che divennero così gli amministratori e gestori delle attività del paese; alcuni di questi divennero grandi proprietari terrieri, altri si dedicarono al commercio, all'artigianato e in generale alle attività produttive più remunerative, mentre la restante parte della popolazione continuò la dura vita del bracciantato agricolo scarsamente remunerato. Se poi consideriamo che l'acqua potabile poteva essere fornita solo dalla raccolta di acqua piovana nelle cisterne, di cui tutte le case erano dotate, che nei periodi estivi la siccità durava anche molti mesi e che le famiglie numerose (con più di otto-dieci figli) erano la grande maggioranza, si capisce che le condizioni di vita non dovevano essere per tutti molto agevoli. Dai dati anagrafici di questo periodo risulta che la mortalità infantile era enorme, oltre il 40% dei decessi riguardava bambini al di sotto dei 10 anni, e le donne morte per parto erano numerose. Nell'anno 1840 morirono 67 persone, di cui 41 nel solo mese di agosto, per una non meglio precisata epidemia gastrica contagiosa (probabilmente il colera).

Nella seconda metà del XIX secolo le condizioni sanitarie della maggioranza della popolazione rimanevano comunque abbastanza precarie, sia per la dura vita dei lavoratori agricoli, costretti a ricavare il sostentamento per le famiglie dalle aride pietraie dell'isola, sia per le poco salubri condizioni ambientali di alcune aree di Bora, cioè la zona della parte meridionale dell'isola di Cherso dove molte famiglie di Neresine risiedevano gran parte dell'anno, nelle piccole case di campagna, per dedicarsi con maggiore assiduità ed efficienza all'allevamento delle pecore ed ai lavori agricoli. Queste aree, con epicentro Puntacroce, furono ufficialmente dichiarate dalle autorità sanitarie locali, zone malariche.

Verso la fine del secolo il governo austriaco proibì addirittura l'allevamento delle capre, considerando questi animali nocivi per lo sviluppo della vegetazione dell'isola. Questo insensato provvedimento fece mancare alla popolazione uno dei principali e più energetici alimenti: il buon latte di capra, con cui fino ad allora erano nutriti soprattutto i bambini. Il risultato fu una grande incidenza di rachitismo infantile, diventato quasi endemico. Tra i vari documenti ritrovati nelle soffitte dei discendenti c'è un interessante certificato del medico distrettuale, che, accertate le precarie condizioni di malnutrizione di un'intera famiglia, con bambini affetti da rachitismo, in deroga alle vigenti disposizioni legislative, autorizzava la famiglia al mantenimento di una capra, per prioritari motivi sanitari.

In paese a quel tempo non esistevano infrastrutture pubbliche che potessero contribuire allo sviluppo, si fa riferimento a scuole, strutture sanitarie, banche, uffici comunali, ecc.; a questa mancanza sopperirono in parte alcuni cittadini dotati di una buona istruzione scolastica e di buoni mezzi finanziari, in primo luogo vanno citati Domenico Zorovich, padre e figlio, soprannominati Sule, commercianti di ricca e antica famiglia, che si dedicarono, oltrecché ai loro commerci, a fornire il finanziamento alle attività imprenditoriali del paese, in sostanza fornivano prestiti a coloro che volevano fare investimenti produttivi. Contrariamente a quanto si continua ad insinuare, senza il minimo fondamento documentale, i Sule prestavano i loro soldi a interessi equi, in linea con le condizioni del mercato di allora, come risulta da numerosi manoscritti contabili trovati nelle soffitte delle case dei discendenti (non per niente si continua tutt'oggi a dire che "l'Austria era un paese ordinato"); ciò non toglie che con questa attività fecero i loro lauti guadagni, più con lo spirito del banchiere che con quello del benefattore.13

Dapprima essi fornirono finanziamenti ai commercianti del paese per l'acquisto delle merci, numerosi documenti contabili analizzati dettagliano elenchi di partite di mercanzia come: 20 brazze de [15] tela canavina, 6 rodoli defogli de corame, 10 pacchi de fazzoletti, 20 berrette, 10 rodoli de corda de ½ oncia, 5 quarte de semenze, ecc. Alla fine di ogni partita il conto veniva pagato al fornitore in contanti. Il debito con Domenico Zorovich veniva dettagliato e a volte parzialmente scontato, con per esempio: due carri de legni, o 4 giornate de sumìso (da sumisàr = trasporto di merci a dorso d'asino), due giornate de trebìt de dona (testuale! Trebìt = togliere le pietre dai campi e prati per liberare il terreno per la coltivazione), ecc., più il contante da restituire a tempo debito. Successivamente i finanziamenti divennero più consistenti, prevalentemente per l'acquisto di nuove campagne, per la costruzione della casa, ecc. A questo proposito mi piace ricordare i comandamenti della nonna che ossessivamente ripeteva: "sparagno primo guadagno, bisogna far debito col Sule per comprar una nova diélniza (pezzo di terreno), e appena pagado il debito, subito far altro"; la nonna, per quanto analfabeta, fu la prima in paese a mettere il motore diesel sul veliero di famiglia.14

Il Sule è stato anche quello che ha aperto la strada al paese verso l'armamento navale; a un uomo esperto quale lui era, non poteva passare inosservato l'enorme sviluppo economico che in quel tempo stava attraversando Lussinpiccolo, dovuto alla grande espansione dell'armamento navale e alla diffusione dell'industria cantieristica. Egli infatti, dopo aver studiato l'organizzazione navale di quella popolazione, decise di buttarsi anche lui nell'affare ed entrò come socio al 50% nell'armamento di una nave di lussignani. Visto il buon andamento economico di questa attività, comperò in proprio, verso il 1845, la prima nave di Neresine, il "Neresinotto", facendola navigare con equipaggio formato da marinai del paese; subito dopo ne comperò un'altra, denominata "Lauro" e poi un'altra ancora denominata "Elice", (fatti citati anche nella "Storia documentata dei Lussini" del lussignano dott. Matteo Niccolich); ma la sua vocazione era piuttosto quella del banchiere che non quella dell'armatore, quindi convinse il capitano di una delle sue navi, tale Camalich, anche suo miglior amico, a mettersi in proprio cedendogli la nave, naturalmente provvedendo lui stesso a prestargli i soldi per l'acquisto. L'armamento del paese dava buoni frutti, conseguentemente anche altri cominciarono a puntare l'attenzione verso la nuova attività: in pochi anni Neresine si era dotata di una sua significativa flotta di velieri, mentre il Sule continuava a prosperare concedendo crediti ai nuovi potenziali armatori.

L'armamento navale di Neresine era caratterizzato dalla compartecipazione di più famiglie nella proprietà di una stessa nave: ogni nave era divisa in 24 parti chiamate carati, quindi molti cittadini divennero caratisti, ricavando da questa attività la maggior e di guadagno per il sostentamento delle famiglie.

Nell'armamento navale si distinsero con maggiore successo, fin dalla seconda metà del XIX secolo, le varie famiglie Camalich (Costantignevi, Eujeniovi, Antuoniovi, Andreovi e Jurićevi), Matcovich (Zizzerićevi, De Dolaz e Marchićevi), Rucconich, Ghersan, Lecchich, nonché le famiglie di San Giacomo Sattalich, Zorich e Nesi, per citare soltanto quelle più significative. L'elenco delle navi di Neresine, nei vari periodi della storia della sua marineria, è dettagliato nell'allegato "B".

L'attività navale trasformò in pochi anni la maggior parte degli abitanti del paese da contadini in provetti marinai, quindi essi si dedicarono prevalentemente alla vita del mare, pur conservando le poche proprietà terriere e le poche pecore occorrenti per le necessità famigliari, di cui si occuparono le donne e gli uomini tra un imbarco e l'altro. Soltanto le famiglie dei grandi proprietari terrieri continuarono e incrementarono l'attività agricola e l'allevamento del bestiame, e tra queste vanno segnalate: i Soccolich-Casteluagnevi, i Bracco-Gaetagnevi, i Maurovich de Cluarich, i Bracco-Pussići, i Zorovich-Menisićevi, i Soccolich-Rocchićevi, e poche altre.

L'attività marittima indusse gli uomini a navigare su e giù per l'Adriatico e per l'intero Mediterraneo, visitando posti nuovi e conoscendo nuove popolazioni, apportando un arricchimento di esperienze e conoscenze per tutto il paese.15

Questa professione tuttavia, ha costretto gli uomini a stare molto tempo lontano da casa, quindi quando le navi passavano in prossimità delle natie isole, veniva colto ogni pretesto per fare "una capatina" in paese. L'anelito del ritorno veniva sentito con maggiore intensità nei giorni delle principali festività tradizionali: Natale, Pasqua, carnevale, Agosto (la fiera annuale), Madonna della [16] Salute, ecc. In quei giorni il porto era pieno di "barche", ce n'erano anche in Sonte, in Vier, a San Giacomo e perfino in Caldonta. Tutti cercavano di rientrare per stare in famiglia, soprattutto i giovani, per non perdere il contatto con le ragazze e non mancare al ballo che si teneva la sera di questi giorni festivi.

Vale la pena di raccontare l'aneddoto della goletta Milan del "paron de barca" Zuclich: era un ben attrezzato veliero, noto per la sua buona "tenuta di mare" e la sua velocità; alla vigilia delle feste di Natale si trovava nel porto di Fiume, e l'equipaggio, dopo aver ultimato le operazioni di scarico delle merci si preparava a partire per far ritorno al paese, purtroppo quel giorno si scatenò un fortunale di bora, quindi sarebbe stato troppo pericoloso mettersi in mezzo al Quarnero con quel tempo, d'altra parte passare le feste a Fiume sarebbe stato altrettanto triste. Il "paron de barca" chiamò quindi l'equipaggio, composto da tre giovani marinai e disse loro: "Chissà quanto dura sta bora, magari de sta stagion la se bona de durar anche 4-5 giorni, mi passar Nadal fora de casa proprio non posso, scolté, mi ciogo el vapor e vado a casa, voi poi quando bonazza venì sò con la barca, ma me racomando…". I ragazzi accompagnarono il capitano al piroscafo di linea portandogli la valisa, poi al ritorno a bordo cominciano a pensare alle feste, alla ragazza, al paese, e a questo punto decidono: "che bora o no bora che lori i và, che no se pol star soli a Fiume con ste feste". In conclusione il "paron de barca", mentre il piroscafo navigava sotto costa, all'altezza di Lubenizze, vede il Milan a vele spiegate che raggiunge e sorpassa il "vapor", e se ne va in un mare di schiuma verso Ossero. I ragazzi, ormeggiata la barca in Vier vanno a prelevare il "paron de barca" allo sbarco dal "vapor" e insieme se ne tornano a casa felici e contenti, il "paron" un po' meno felice dei sui marinai, perché ancora sotto l'impatto emotivo provocato dal recente pericolo scampato dalla sua barca.

In pochi anni la perizia professionale dei marinai di Neresine divenne proverbiale. In tanti anni di navigazione, prima a vela e poi a motore, non si è mai verificato un naufragio o un'avaria di grande rilevanza, anche se la competizione individuale, precipua dei Neresinotti, induceva spesso i capitani (quasi sempre anche paroni de barca), ad ardite sfide col mare per "arrivare prima" dei concorrenti. A questo proposito vale la pena di ricordare l'impresa del "Mariza", veliero del paron de barca Valentino Bracco (lo stesso che vedremo più avanti portare in salvo una cannoniera austriaca durante la prima guerra mondiale). Partendo un po' azzardatamente da Zrqveniza sotto previsione di fortunal de bora, fu sorpreso dal fortunale in pieno Canal di Morlacca; non potendo rifugiarsi a Segna per il forte vento, che nasce proprio da quel posto e avendo le "mure a destra" (le vele rande dal lato della fiancata di destra), sotto Segna fa una virata all'orza di 360 gradi per passare le mura a sinistra, con una manovra di poggia la banda (strambata) avrebbe probabilmente rotto l'alberatura, e decide, non avendo altra scelta, di buttarsi nelle strettissime e temutissime bocche, chiamate le porte di Segna, tra l'isola di Veglia e l'isolotto di Prvic, riuscendo a manovrare egregiamente il veliero, pur essendo mutilato di un braccio, e passare indenne nel Quarnerolo; manovra questa considerata impossibile a chiunque con fortunal de bora; il posto, infatti, era chiamato il cimitero delle navi per i numerosissimi naufragi accaduti in passato in circostanze simili.

Per quanto non si siano registrati naufragi veri e propri, accaddero purtroppo alcune disgrazie del mare, tra queste viene segnalata, perché ben documentata dalle "carte" in possesso dei discendenti, quella accaduta a bordo del pielego "Adriatico". Il 12 gennaio 1883 il veliero, in navigazione verso Traù, fu sorpreso da un fortunale; al comando si trovava il proprietario, Giovanni Vescovich di Neresine che, per un colpo di vento fu gettato in mare colpito dal boma della vela, a nulla valsero gli sforzi degli altri marinai per cercare di recuperarlo nella tempesta. I poveri marinai neresinotti, raggiunto a fatica il porto di Traù, fecero denuncia al Capitano di Porto, che stilò la documentazione del sinistro e l'inventario del veliero in italiano, ora in possesso dei discendenti. La vedova, con tre figli piccoli a carico, inviò una supplica a Vienna per ottenere una pensione, che le fu concessa, consentendole con questa e col provento della vendita del veliero, di sopravvivere ed allevare i figli.

La nuova attività marinara del paese diede un forte impulso a tutta l'economia locale, si iniziò così il taglio dei boschi per produrre legname, che grazie ai nuovi mezzi di trasporto, trovò ampio [17] mercato nella sponda italiana dell'Adriatico (Venezia, Chioggia, poi anche i porti romagnoli) e verso la Dalmazia.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

Il taglio di boschi consentì anche il reperimento di nuovi pascoli (nòvine) per l'allevamento ovino, con un conseguente notevole incremento della produzione di formaggio, lana e carne. Alcune famiglie, da sole, arrivarono a possedere oltre 2000 pecore e a produrre fino a 150 kg di formaggio la settimana, che veniva tutto esportato, assieme alla lana, nei vicini centri, come Basca nell'isola di Veglia, Lussinpiccolo, Zara, e la stessa Venezia, come documentato dai libri contabili ritrovati. I commerci erano diventati così fiorenti, che una volta la settimana il piccolo piroscafo di linea "Francopan", faceva scalo a Neresine per imbarcare le molte merci in uscita e sbarcare quelle in arrivo.

Già verso l'inizio XIX secolo, in concomitanza con la crescente domanda di formaggio e legname, sorse la necessità di sfruttare maggiormente i terreni di Bora ampliando i pascoli e pulendo i boschi (garije), perciò, data la grande distanza di queste campagne dal paese, nacque l'esigenza di costruire delle case di campagna in cui risiedere durante la stagione di maggiore attività lavorativa, senza quindi dover andare su e giù dal paese tutti i giorni. Sono nati così in mezzo ai boschi vari nuovi stuagni (singolare stuan o stuagne) o stanze (anche stanzie), anche molto distanti gli uni dagli altri, raggiungibili solo attraverso stretti sentieri.16 Tra i più importanti possiamo citare: Verin, Lose, Matalda, Garmosai, Dracovaz, Gracisće, Parhavaz, Murtovnik. Alcuni di questi erano costituiti da quattro o cinque case. La stessa Puntacroce si è formata partendo da vari stuagni costruiti per questo scopo, e di fatto questo paese è stato sempre considerato come parte integrante di Neresine, sia per lingua, cultura e tradizioni.

Lo sviluppo della marineria fu assecondato dal governo austriaco, stimolato anche dall'attivismo politico lussignano. Furono infatti costruite in quel periodo varie ed importanti strutture portuali, quali il porto di Neresine, il porto di Rovensca a Lussingrande, i "Garofulini" (massicce strutture cubiche in pietra, portanti al centro una robusta bitta, per consentire l'ormeggio delle navi nei porti naturali delle isole in caso di condizioni atmosferiche avverse) in Vier, Caldonta, San Giacomo, Ustrine, San Martin di Cherso (attuale Martinsciza), ed in altri rifugi strategici naturali delle isole. Nel porto di Neresine fu fondato anche uno squero per la costruzione dei grandi velieri, da cui fu varata un'unica grande nave, la "Maria Salute" dell'armatore Eugenio Camalich (Euieniovi); poi lo squero fu chiuso, probabilmente per motivi di non convenienza economica, data la grande efficienza e vicinanza di quelli di Lussinpiccolo.

A seguito dello sviluppo dell'attività marinara, gran parte degli uomini del paese, ormai diventati marinai provetti, si imbarcarono sulle nuove navi, molti perché cointeressati come caratisti ed altri perché le paghe di bordo erano più remunerative; quindi per le attività di campagna cominciò a scarseggiare la manodopera, così i proprietari terrieri ricorsero a manodopera dei paesi vicini come Belei, Plat, Srem, Orlez, dalle isole di Veglia, Arbe, Pago, ecc.; arrivarono anche lavoratori da Castua (Castuavzi), da Gorizia (Gorinzi) e dal Friuli e Carnia (i gromaciari); questo fatto portò al rafforzamento di varie comunità come Puntacroce ed altre.

Verso la fine del XIX secolo cominciarono ad affermarsi le nuove navi in ferro, dotate di macchine di propulsione a vapore, e molti marinai di Neresine trovarono imbarco sui grandi piroscafi di linea delle compagnie di navigazione Lloyd Austriaco ed Austro-Americana di Trieste, così ebbero modo di conoscere ulteriormente il mondo e scoprire che in America c'era una grande richiesta di manodopera, molto ben retribuita; molti marinai quindi decisero di disertare dalle navi e fermarsi a lavorare a New York. Molti rimanevano in America due o tre anni, accumulavano un bel gruzzolo e poi tornavano al paese, per costruirsi la nuova casa, aprire un negozio, comperare la "barca", comperare campagna, ecc. Gran parte dei capi famiglia fecero quest'esperienza, anzi era diventata consuetudine andare in America per pagare in due o tre anni i debiti fatti col Sule. Alcuni giovani non ancora sposati, rimasero lì definitivamente, altri richiamarono la famiglia ed altri continuarono ad andare e ritornare, finché le leggi americane sull'immigrazione non si fecero più restrittive. A New York si [18] formò così una piccola comunità di Neresinotti, basata sulla solidarietà reciproca e sul nostalgico ricordo del paese; fu anche fondata nel 1898 una società di mutuo soccorso, chiamata nel gergo american-neresinotto "Susaida" (storpiatura del vocabolo inglese Society), che forniva aiuto economico in caso di malattia o mancanza di lavoro ai compaesani in difficoltà. Tale società esiste tuttora con le sole funzioni di club associativo di Neresinotti e di celebrazione della festa della patrona del paese, la Madonna della Salute, con messa solenne e "party" serale con ballo.

Verso la metà del XIX secolo il paese aveva ormai raggiunto i 1000 abitanti,17 manifestando nuove esigenze sociali, fu quindi istituito il comune unico di Ossero-Neresine, includente San Giacomo e Puntacroce, con notevole autonomia di Neresine, considerando che la grande maggioranza della popolazione risiedeva nel suo territorio. Il primo sindaco (podestà) che prese fortemente a cuore gli interessi del paese, fu tale Giovanni Bracco a cui va il merito di aver promosso la costruzione della sede del municipio (la Comun), la scuola elementare, la costruzione del Duomo, l'ufficio postale (affidato al figlio Marco), in paese fu anche aperto un ufficio doganale (la finanza) e arrivò anche il "gendarme" (poliziotto) (in dialetto neresinotto antico: andarme o anduarm).

Poiché l'istituzione della scuola pubblica fu un fatto molto importante per Neresine, ed anche l'elemento più determinante per il forte sviluppo del paese, vale la pena di raccontare più estesamente questa parte della nostra storia.

La scuola elementare pubblica fu istituita nel 1842, col nome di "I. R. Scuola Elementare Minore Italiana", insediata nel nuovo edificio fatto costruire dal Comune per lo scopo, con obbligo di frequenza per tutti i ragazzi del paese dai 6 ai 14 anni. Nel 1850 la scuola assunse il nome di "I. R. Scuola Triviale". Nel 1858 cambiò (grazie a Dio) ancora nome in "I. R. Scuola Elementare di Modello" ed infine nel 1868 assunse il nome definitivo di "Scuola Popolare". L'obbligo alla frequenza era rigidamente fatto osservare dalle autorità governative, che emanavano dure sanzioni ai genitori dei ragazzi inadempienti, con multe pecuniarie per i benestanti e obbligo di lavoro gratuito per alcune giornate a favore del Comune, per i meno abbienti.

Dopo l'emanazione, nel 1848, della Costituzione da parte del Governo Centrale di Vienna, e la conseguente "democratizzazione", vennero abolite alcune leggi con contenuto eccessivamente autoritario. Purtroppo nella diocesi di Veglia, qualcuno che aveva particolari interessi, forse anche di natura politica, sparse "ad arte" la voce che le donne non avevano più l'obbligo tassativo di frequentare la scuola pubblica, quindi a Neresine la scuola fu disertata da tante ragazze, che furono tenute a casa dalle famiglie meno acculturate, perché più utili per i lavori domestici e per quelli di campagna. La scuola italiana ha sempre avuto, fin dalle origini, insegnanti laici, e dopo una prima dipendenza dalla Luogotenenza di Trieste, passò, fino al 1869, sotto le dipendenze di (in ordine gerarchico): a) "Reverendissimo Concistoro Vescovile di Veglia". b) "I. R. Capitanato Circolare di Pisino". c) "I. R. Ispezione Distrettuale di Cherso".

Tutti i documenti relativi alle attività scolastiche erano inviati alle autorità competenti, redatte in lingua italiana, questo fatto non giungeva gradito al Concistoro Vescovile di Veglia, che in concomitanza del rafforzamento della politica di slavizzazione intrapresa dal governo centrale di Vienna ed in accordo col I. R. Ministero del Culto e della Pubblica Istruzione, il 25 luglio 1846 emanava il Decreto n° 1044/411, con cui intimava al maestro di Neresine di sostituire nell'insegnamento la lingua italiana con quella croata, aggiungendo che, qualora i cittadini desiderassero che la lingua italiana continuasse ad essere insegnata ai loro figli, avrebbero dovuto mandare "adeguata implorazione" al "Reverendissimo Concistoro Vescovile". I Neresinotti, dopo agitate riunioni in Comune, inviarono un ben motivato memoriale, dimostrando la necessità della conoscenza della lingua italiana per gli abitanti del paese, in quanto fortemente impegnati nel crescente sviluppo dell'armamento navale, che utilizzava esclusivamente questa lingua. Il Concistoro, in data 3 ottobre 1846, a seguito anche delle relazioni inviate dalle autorità politiche locali, che paventavano gravi problemi di ordine pubblico in paese, emanarono il Decreto n° 1444/605, che diceva: " Visto il rapporto del primo [19] corrente, n° 399, il cui allegato si ritorna, si dispone che nella scuola filiale di Neresine sia impartita l'istruzione in lingua croata ed italiana, quale lingua secondaria"18

Nonostante il Decreto a Neresine si continuò l'insegnamento della sola lingua italiana, anche perché il maestro, oltre ad essere fortemente sostenuto dalla popolazione, non conosceva il croato. Il Concistoro, con Decreto del 23 gennaio 1847, lamentava che nella scuola si continuasse l'insegnamento della sola lingua italiana, ribadendo l'ingiunzione di introdurre la lingua croata, ma nulla avvenne, tant'è che con successivi Decreti del 19 novembre 1849 e 30 aprile 1851 ribadì le precedenti ingiunzioni. Naturalmente le ingiunzioni del Concistoro restarono lettera morta. Infine, visto lo scarso successo fin qui ottenuto con gli imperiosi comandi, nel 1858 si venne a più miti consigli, ordinando alla scuola di Neresine, che accanto alla lingua croata, si insegnasse di pari passo anche quella italiana, come seconda lingua del paese. A seguito di ciò vennero istituite due sezioni distinte, quella italiana e quella croata. L'insegnamento della religione, per quattro ore la settimana, veniva impartito dal sacerdote canonico nella sola lingua croata in entrambe le sezioni, anche se l'insegnante conosceva bene l'italiano. È abbastanza comica una relazione dell'ispettore di Cherso del 1864, (sollecitato dall'insegnante di religione), in cui redarguisce aspramente il maestro di Neresine, per gli infiniti errori linguistici e grammaticali da lui commessi nel tentare di insegnare il croato (che lui evidentemente conosceva assai poco) ai ragazzi.

A seguito della nuova legge scolastica del 1868, il Concistoro Vescovile di Veglia cessò di avere diretta ingerenza nelle scuole dell'isola. Il 9 dicembre 1869 si costituì a Lussino il Consiglio Scolastico Distrettuale delle isole del Quarnero, a norma di una legge Provinciale del febbraio dello stesso anno.

Nel 1888 fu mandato a Neresine un secondo insegnante, la maestra Maria Dibarbora, a cui venne affidata la sezione italiana. Il Consiglio locale, con atto n° 69 dell'8 ottobre, riferiva al Consiglio Scolastico Distrettuale di Lussino, che quell'anno gli iscritti, dai 6 ai 12 anni, erano 161, di cui 3 nella sezione croata e 158 in quella italiana. Nel 1890 la sezione italiana aveva 164 alunni e quella croata 19. Infine, nel 1895, dopo tante lotte e battaglie politiche, si venne alla divisione della Scuola Popolare di Neresine, formando due scuole separate, una italiana con due insegnanti ed una croata con un nuovo insegnante, Franco Cattarinich di Basca (Veglia). La scuola croata fu insediata in una casa lungo il porto, adattata per lo scopo, mentre quella italiana rimase nella sua sede originale.19

L'insegnamento della religione continuò per alcuni anni ad essere comunque impartito in lingua croata anche nella scuola italiana, perché il frate insegnante, malgrado specifiche direttive dell'I. R. Ministero del Culto e della Pubblica Istruzione, si rifiutava di usare l'italiano nelle sue lezioni, finché, proprio per questo motivo, la Direzione Didattica lo espulse dalla scuola.

Il primo aprile 1904 la "Lega Nazionale" apri la scuola elementare anche a S. Giacomo.

In pochi anni di fatto il paese divenne bilingue e specialmente le giovani generazioni incominciarono a parlare indifferentemente, sia il dialetto italiano che quello slavo.

Fu anche istituito dalla "Lega Nazionale" l'asilo comunale, nei locali a pianterreno dello stesso edificio della Comun, per i bambini da tre a sei anni. Come non ricordare a questo punto la cara vecchia maestra Maria (Zuclich), educatrice dei bambini del paese dalla fondazione dell'asilo fino alla sua chiusura nel 1945.

Tornando al XIX secolo, a mano a mano che l'alfabetizzazione della popolazione cresceva, aumentava anche il benessere, almeno per quelle famiglie che per prime si erano dotate di strumenti culturali adeguati, sorse quindi l'esigenza di costruire nuove case, più adatte alle nuove necessità. Questo fatto provocò la corsa verso l'accaparramento delle aree più vicine al mare, soprattutto quelle attorno a quella che divenne la piazza principale del paese, al cento della quale fu trovata un ricca falda d'acqua dolce, che con la costruzione di un pozzo, garantì la disponibilità di fresca acqua potabile per la popolazione per tutto il corso dell'anno. La piazza, con al centro il pozzo circondato da un robusto muro circolare di protezione, ed abbelita da grandi alberi di pocriva (bagaloro), uno dei quali, grandissimo, fu anche un simbolo del paese, divenne il centro della vita sociale ed assunse il nome di studènaz, ossia posto fresco o frescura.

Un'altra falda acquifera fu trovata in Biscupia (vrucìch = sorgente) e fu costruito un altro pozzo. [20]

In breve tempo le famiglie più benestanti abbandonarono le case d'origine, generalmente site alle pendici del monte, per costruire quelle nuove e più grandi nel nuovo centro del paese.

I primi a muovessi, verso la prima metà del XVIII secolo, furono gli Zorovich (Sùievi), che abbandonarono la casa d'origine in Veli Dvuor, per costruire quella nuova e più "moderna" nel lato nordest della Piazza, seguiti subito dopo dai Sigovich, anch'essi provenienti da Veli Dvuor, che si insediarono in tutta la zona ovest (lato a monte) della piazza stessa, poi i Soccolich (Casteluagnevi) nel lato sud, e così via gli altri.

In questo slancio verso il progresso economico-sociale si inserisce, nel 1878, la costruzione, nel punto più prestigioso della piazza del paese, del nuovo Duomo, dedicato, per affinità e consuetudine di approdo dei velieri di Neresine a Venezia, alla Madonna della Salute. Le cronache del tempo ci raccontano che la grande pala dell'altare maggiore fu donata dall'allora Patriarca di Venezia Trevisanato, trasportata a Neresine in pompa magna dal veliero "Neresinotto" di Domenico Zorovich, entrato trionfalmente in porto, scortato dagli altri due velieri "Lauro" ed "Elice", dello stesso armatore, impavesati a festa, tra il tripudio della popolazione festante.20

Verso l'inizio del XX secolo fu costruito anche il nuovo cimitero, sul terreno del vecchio cimitero dei frati, non senza grandi contrasti di ordine politico-nazionalistico coi frati stessi, sulla lingua da usare nelle cerimonie funebri. Testimonianza di tali contrasti è la tomba di famiglia di Domenico Zorovich (Sule), posta all'esterno del cimitero stesso, che dalla prima introduzione della lingua croata in alcune preghiere da parte dei frati, non mise più piede in chiesa.21

L'inizio del XX secolo trova il paese in grande sviluppo; la corsa verso il progresso economico e sociale si concretizza con la costruzione di molte nuove case, l'allargamento e ammodernamento di quelle vecchie, ma soprattutto con la grande espansione dell'armamento navale. Allo scoppio della prima guerra mondiale il naviglio di Neresine aveva ormai superato le 30 unità.

La parentesi della prima guerra mondiale purtroppo portò ad una crisi generale e molta miseria, molti giovani del paese furono mandati a combattere, prevalentemente sul fronte russo, alcuni purtroppo non tornarono più.22

Finita la guerra, col passaggio delle isole del Quarnero assieme all'Istria e Fiume all'Italia, lo spirito imprenditoriale dei Neresinotti si risvegliò più vigoroso di prima, si ebbe quindi un forte incremento dell'armamento navale e dei commerci con l'Italia, le navi vennero dotate di propulsione a motore e iniziò così una nuova fase espansiva. Alcuni armatori aprirono sedi a Venezia, Fiume e Spalato. Il cittadino di Neresine Elio Bracco, nipote del sindaco Giovanni di cui sopra, trasferì a Milano la sua attività di rivenditore di prodotti farmaceutici, ingrandendosi al punto da fondare un'industria farmaceutica propria, che poi i suoi due figli, entrambi nati e cresciuti a Neresine, ulteriormente svilupparono, fino a farla diventare la più grande industria chimica privata italiana (dati del 1970).

Dal 1918 al 1922 l'amministrazione pubblica del paese continuò ad essere esercitata secondo i canoni della precedente gestione austroungarica, in attesa del completamento del nuovo schema oganizzativo dell'amministrazione italiana. Nel 1922 fu eletto plebiscitariamente a nuovo sindaco Giuseppe Rucconich (Osip Cotigar-Tonce).

FACE="Arial" La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati. In questo periodo nascono forti tensioni con Ossero, perché le autorità provinciali, contrariamente a quanto previsto in un primo tempo e concordato con il sindaco di Neresine, decisero, sotto la forte spinta di osserini molto influenti, principalmente il dott. Domenico Stanich, ex deputato dietale e sindaco di Pola e il senatore del Regno Francesco Salata, di creare due comuni separati, quello di Ossero, includente Ustrine e Puntacroce e quello di Neresine, includente solo San Giacomo. A questa decisione la ribellione degli abitanti di Neresine fu fortissima ed unanime, perché la gran parte dei territori del nuovo comune di Ossero erano ormai di proprietà dei neresinotti e dei sangiacomini (oltre l'80%), quindi essi non volevano con le loro tasse mantenere i pochissimi e ormai poveri osserini. Dai verbali degli agitatissimi dibattiti comunali sull'argomento, aperti anche a tutta la popolazione, vengono chiaramente fuori i dati del problema. Il nuovo schema organizzativo, prevedeva l'assegnazione al comune di Ossero di 8.172 ettari di terreno, mentre a quello di Neresine rimanevano [21] 2.053 ettari. La popolazione del nuovo comune di Ossero era di 606 abitanti, di cui 301 di Ossero, 95 di Tarsich, 9 di Lose e 201 di Puntacroce. La popolazione del nuovo comune di Neresine era invece di 1.983 abitanti, di cui 1.704 di Neresine e 279 di San Giacomo; inoltre, per le entrate comunali dovute alle imposte dirette, Neresine e San Giacomo potevano contare all'epoca, oltre che sui redditi agricoli, anche su 41 navigli a "velo" (vela) ed Ossero su due soli. La ribellione in sostanza consisteva nel rifiuto dei neresinoti di mantenere con le loro tasse i "nullatenenti" osserini, senza aver voce in capitolo, né sulle entrate, né sulle spese, (conflitto questo, antico e sempre presente tra gli abitanti dell'isola di Lussino, lussignani in testa, e gli osserini). In sostanza il conflitto tra Neresine e Ossero andò avanti alcuni anni, tant'è che a Neresine nacque anche il partito di quelli che volevano piuttosto abolire del tutto il comune di Neresine e lasciare unicamente quello di Ossero, in quanto in questo ipotetico comune i neresinotti avrebbero comunque avuto la stragrande maggioranza dei voti e quindi del potere decisionale. La questione col tempo si risolse con soluzioni di compromesso includendo nel territorio di Neresine anche Puntacroce, anche perché i pochi osserini non avevano né argomenti, né un rapporto di forza sufficiente per contrastare gli interessi dei Neresinotti.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

In questo periodo, a seguito del forte incremento della popolazione e della notevole disponibilità economica delle casse comunali, furono costruite dal Comune alcune importanti opere pubbliche, quali: -

  • La ristrutturazione della piazza e la sua completa lastricatura con grandi blocchi di pietra liscia, includendo nella lastricatura anche la strada che dalla piazza porta a marina (porto). Nell'ambito di questi lavori fu messo in disuso il vecchio pozzo e demolito il robusto muro di protezione che lo circondava, al suo posto fu costruito un nuovo pozzo suo lato sudovest della piazza stessa, dotato di una originale pompa manuale con nastro a tazze, da cui fu assai più facile prelevare l'acqua fresca, mettendo semplicemente in rotazione la grande ruota a maniglia di cui la pompa era dotata; il nuovo complesso di pompaggio venne a sua volta circondato da robusto muro circolare di protezione, tuttora esistente.
  • La costruzione della strada di circonvallazione del centro del paese (strada nova), da S. Maria Maddalena attraverso il conalinna (canale naturale convogliante lo scolo delle acque piovane) e S. Antonio, e la costruzione della cappella di S. Antonio nella stessa strada nova.
  • La costruzione della strada nuova che da Neresine va a S. Gicomo passando da Potocine, inclusa la cappella di Santa Rita sulla stessa strada.
  • Gli altri lavori furono: la costruzione dell'edificio della Banca (Cassa Rural), il dragaggio e ristrutturazione del porto, il dragaggio del canale di Tiesni, che da Ossero porta a Neresine, i quattro salisi (selciati) che portano in Piazza, il saliso che dalla strada principale porta al cimitero e alla chiesa e convento dei frati, la strada che da Magaseni (porto) passando per Rapoće si congiunge alla strada principale, l'allargamento di altre strade secondarie del paese, ecc.

Fu anche istituita la banda musicale comunale, che ebbe una certa notorietà per alcuni anni, anche fuori paese; tuttavia la prevalente professione marinara della popolazione, ha provocato frequenti assenze per causa di lavoro di alcuni suonatori, facendo quindi mancare quell'assiduità di esercitazione musicale, necessaria per l'attività della banda, che alla fine si sciolse poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Col benessere era cresciuta notevolmente anche la spinta verso l'acculturamento della popolazione, le famiglie più benestanti mandarono i figli, almeno quelli più "portati", a proseguire gli studi "fuori paese", naturalmente la maggior parte andò a studiare alla "Nautica" di Lussinpiccolo e diventarono Capitani di Lungo Corso, altri frequentarono i ginnasilicei di Zara e Fiume, per poi proseguire negli studi universitari a Trieste o Padova. Il fervore culturale portò al potenziamento della biblioteca comunale, che cominciò ad essere frequentata da molti giovani, specialmente dalle ragazze.23

Allo scoppio della seconda guerra mondiale il paese era all'apice del suo sviluppo, Neresine aveva raggiunto i 2000 abitanti, San Giacomo ne aveva circa 350 e Puntacroce aveva superato i 200. [22]

face="Arial">Esistevano nella sola Neresine: la scuola materna (asilo), la scuola elementare, la scuola secondaria di avviamento professionale, la Farmacia (Cicin), il medico condotto e dentista (dott. Marconi), la levatrice (Morin), la banca (Cassa Rurale), un nuovo ufficio postale e telegrafico, il teatro con palcoscenico e bar (buffet), adibito appunto a rappresentazioni teatrali, cinematografo e sala da ballo, a seconda delle esigenze, il campo sportivo per il gioco del calcio e ben attrezzati campi per il gioco delle bocce.

Esistevano anche i seguenti pubblici esercizi:

  • N° 5 Negozi di vendita alimentari (Canaletti, Rucconi, Sigovini, Gerconi, Zorini-Zorovich).
  • N° 2 forni e vendita pane (Menesini e Ollovini-Olovich) più pasticceria (Ollovini-Olovich).
  • N° 2 Negozi di frutta e verdura (Sigovini e Vescovi).
  • N° 2 Rivendite sale e tabacchi più cartoleria (Sigovini e Rucconi).
  • N° 1 Rivendita giornali e cartoleria (Vescovi).
  • N° 2 Negozi di stoffe e abbigliamento (Smundin e Buccaran).
  • N° 1 Sartoria per uomo (Cavedoni)
  • N° 2 Negozi di generi casalinghi (Vescovi e Cavedoni).
  • N° 3 Macellerie (Castellani Romano, Castellani Carlo e Bracco Gaetano).
  • N° 2 Calzolerie e vendita scarpe (Pinesich e Sigovini-Sigovich) più altre 4 o 5 calzolerie minori. N° 1 Orologiaio e orefice (Cremenich).
  • N° 3 Locali pubblici: Trattoria Stella D'oro (Boni), Albergo Amicorum (Vodinelli), Trattoria-Caffé (Garbassi).
  • N° 3 Falegnamerie e costruzione di mobilio (Lecchi-Lecchich, Cavedoni Giuseppe e Cavedoni Celestino) più altri artigiani falegnami.
  • N° 2 Negozi di ferramenta (Cavedoni e Lecchi-Lecchich)
  • N° 3 Fabbrerie (Morin, Linardich e Marinzoli-Marinzulich).
  • N° 2 Attività di autotrasporto (Buccaran e Lupis), camion e servizio taxi.
  • N° 1 "Pompa" distributore di benzina.
  • N° 3 Attività costruzione barche (Soccolich-Ciuciuric, Soccolich-Scarbich e Buccaran) più altri artigiani minori.
  • N° 1 Bottaio e costruttore di carri e di ruote per carri (Cremenich).

In quel periodo l'attività armatoriale, quella che portava la maggiore ricchezza al paese, era al suo massimo sviluppo e molte famiglie erano cointeressate, come caratisti, nell'armamento navale. Nel 1940 i bastimenti di piccolo e medio cabotaggio iscritti al compartimento marittimo di Neresine superavano le 30 unità, per oltre 6.000 tonnellate complessive di portata. Altri bastimenti di Neresinotti, ma iscritte a compartimenti marittimi di altre città erano: le navi Romilda, Mater Dolorosa ed il piroscafo in ferro di 2000 tonnellate di portata Esperia. L'armatore Eugenio Matcovich (Zizzerićevi) costituì una notevole flotta di grandi navi in ferro, trasferendo la propria sede, prima a Spalato e successivamente, dopo la costituzione del regno di Jugoslavia, a Londra.

Nel 1939 la famiglia Camali (Costantignevi) aveva anche fondato il cantiere navale per la costruzione di navi (l'attuale squero).

N.B. I nomi riportati nella sola versione italianizzata, sono come risultavano nell'epoca in esame e che a tuttora sono rimasti immutati nei discendenti.

Lo seconda guerra mondiale interruppe la grande espansione socioeconomica che stava attraversando il paese. Tutte le navi, inclusi gli equipaggi, furono "militarizzate" e destinate al trasporto di merci e materiale bellico verso i territori occupati dalle forze armate italiane, prevalentemente verso l'Albania e la Grecia, alcune anche per i normali trasporti logistici nell'intera area mediterranea. Purtroppo durante la guerra la maggior parte del naviglio di Neresine fu affondato, anche con gravi perdite umane.24 [23]

face="Arial">Dopo l'armistizio dell'Italia dell'8 settembre 1943, cominciò a Neresine, come in tutti gli altri territori coinvolti nella guerra, una generale incertezza, gran parte degli uomini scampati alla guerra, ritornarono, più o meno avventurosamente, a casa, tutti i territori furono occupati dai tedeschi, le popolazioni furono abbandonate a se stesse, al paese mancò ogni tipo di approvvigionamento esterno. Per assicurare i fondamentali generi alimentari alle famiglie, ossia quelli che per primi sono venuti a mancare, come la farina di grano per fare il pane e quella per la polenta, gli uomini si diedero da fare, incominciando a dissodare i terreni incolti per incrementare le coltivazioni; gli altri prodotti, per quanto carenti non crearono grossi problemi: lo zucchero, totalmente mancante fu rimpiazzato dal miele e dai fichi secchi, la carne ed il pesce non mancarono, così come i legumi e le verdure.

Il vero problema restava il pane, infatti, quelli che non possedevano terreni da dissodare, o comunque che si resero conto che dagli aridi terreni dell'isola non c'era più molto da ricavare, escogitarono altri sistemi di approvvigionamento, ossia pensarono di andare clandestinamente nel Veneto ed in Istria a comperare il grano direttamente dai contadini produttori, utilizzando come merce di scambio i prodotti tipici del paese, ossia lana, olio d'oliva, formaggio, fichi secchi, pelli di pecora, grappa, e qualunque altro prodotto commerciabile nelle fertili terre venete ed istriane. Il grano acquistato veniva poi portato nei mulini vicini alle zone di produzione, per essere macinato e ricavare quindi la preziosa farina da portare a casa.

I primi che organizzarono l'approvvigionamento della farina di grano con lo scambio merci, furono tre capifamiglia del paese che utilizzarono la "Piata", un barcone a fondo piatto (da cui il soprannome, perché il vero nome della barca era "Stella"), normalmente usato per la raccolta della sabbia per uso edilizio, dal fondale delle baie dell'isola. La "Piata" non aveva buone caratteristiche di navigabilità in mare aperto, ma fu scelta perché era l'unica barca di una certa dimensione disponibile ed ache perché era dotata di un piccolo motore diesel "Satima a testa calda" di 6 cavalli "leggeri". I tre attraversarono il Quarnero di notte tenendosi molto a largo dalla punta di Promontore e dalle coste istriane per paura dei tedeschi, puntando direttamente verso la laguna veneta, inoltrandosi poi nei vari canali della campagna veneziana. Ritornarono dopo una diecina di giorni, con la barca carica di farina di qualità "doppio zero", mai più vista dall'inizio della guerra. Il successo di questa prima spedizione aprì la strada a molti altri analoghi viaggi; gli uomini del paese si organizzarono e quasi tutti i capifamiglia fecero questa pericolosa esperienza, con i piccoli caici del paese (ben pochi superavano i cinque metri di lunghezza). Per questi lunghi viaggi furono scelte le barche più robuste e dotate di "scafo", a cui furono aggiunti dei "boccaporti", in modo da formare una coperta completa fino a poppa. Con queste piccole imbarcazioni, e col solo aiuto di una piccola vela e di robusti remi, perché ben poche avevano il motore, affrontarono corsaggiosamente l'attraversamento, sempre notturno, del pericoloso Quarnero, alcuni dirigendosi verso il canale Quieto in Istria, che poi risalivano inoltrandosi nelle campagne del Bujese; altri spingendosi fino alla più lontane lagune di Grado e Marano, alla ricerca del prezioso cereale. Nel viaggio di ritorno generalmente si fermavano a Cittanova, dove c'era un mulino, in cui finalmente potevano macinare il grano acquistato ed ottenere l'agognata farina. Ogni caicio portava a casa, dai sei ai dieci quintali di farina. Il viaggio di ritorno era particolarnente rischioso perché le barchette erano talmente cariche da sporgere dal mare non più di trenta o quaranta centimetri, ed attraversare il Quarnero in quelle condizioni era veramente un'impresa temeraria. Per gli uomini di Neresine, tutti esperti marinai, non fu certo il mare il principale pericolo, nonostante le piccole barche, ma la feroce guerra che veniva condotta senza il rispetto di nessuna regola civile dai tedeschi occupanti. Purtroppo due capifamiglia di Neresine, Antonio Berri e Gaudenzio Bracco (Guavde Mercof), durante il loro viaggio verso la ricerca di cibo per la famiglia sono stati barbaramente mitragliati ed uccisi lungo la costa dell'Istria dai tedeschi, probabilmente per derubarli delle loro mercanzie, come testimoniato da alcuni pescatori che hanno assistito al tragico fatto; infatti non sono più stati ritrovati, né i corpi, nè la barca. Questa tragedia ha sconvolto la popolazione di Neresine, anche perché i due compaesani hanno lasciato le giovani mogli ed i numerosi figli piccoli, senza mezzi di sostentamento, e la moglie di Gaudenzio era anche in attesa del terzo figlio. [24]

Altri tragici avvenimenti sconvolsero il paese negli ultimi anni di guerra, tra cui si ricorda l'affondamento del motoveliero Redentore e del panfilo Haiduk ormeggiati in Sonte, da parte di un aereo inglese, ma soprattutto una retata compiuta in una domenica dell'etate del 1944, da parte di una squadra di miliziani Ustascia, per conto dei tedeschi, che bloccate le osterie del paese, affollate di gente nella giornata festiva, riuscirono a sequestrare tredici persone, che furono deportate in Germania, per essere forzatamente imbarcate su navi tedesche del Baltico, perché prive di gran parte dell'equipaggio, decimato dalla guerra. Gli altri uomini del paese riuscirono a fuggire nascondendosi nelle campagne circostanti. Dei tredici deportati dodici riuscirono a scappare negli ultimi mesi di guerra e ritornare avventurosamente a casa, uno, il diciottenne Mario Zorovich (Rossich), prossimo al diploma di Capitano di Lungo Corso, purtroppo perì nell'affondamento della nave su cui era imbarcato.

La guerra purtroppo ha sconvolto ed annientato in poco tempo tutto quello che faticosamente era stato messo in piedi in tanti anni di duro lavoro. Le poche navi sopravvissute sono state confiscate e nazionalizzate, senza risarcimento, dal governo comunista Jugoslavo subentrato nel 1945.25 Dal punto di vista storico, dobbiamo dire che con il passaggio delle due isole sotto il governo Jugoslavo cominciò il rapido ed irreversibile declino del paese di Neresine. Il nuovo regime del comunismo di Tito proibì ogni attività che comportasse la libera iniziativa e questo per lo spirito imprenditoriale dei Neresinotti fu il dramma più grande. Venne inoltre messa in atto una feroce discriminazione nei confronti di tutti quelli che si ritenevano di "sentimenti italiani" (la grande maggioranza), alimentata anche dal fanatismo nazionalistico croato dei nuovi arrivati e da quello dei paesani di "sentimento croato", mettendo diligentemente in pratica il famigerato "Piano Cubrilovich", dal nome di un ministro di Tito e teorico del lavaggio etnico, i primi con consapevolezza ideologica, i secondi, forse, per inconsapevole stupidità (o incoscienza).

Se a questo aggiungiamo la confisca e nazionalizzazione dei beni della chiesa26 e di ogni altro bene o proprietà privata di qualche valore, l'avversione, se non vera e propria persecuzione, verso la religione degli antenati, l'imposizione del lavoro "volontario" obbligatorio (radna snaga), che mandava ai lavori forzati in Istria e Croazia soprattutto i cittadini considerati non ligi al regime e "italiani", la pratica dell'imprigionamento e tortura da parte della polizia politica di "persone sospette", abbiamo un chiaro quadro della tragedia che si era abbattuta sul paese.27

Uno dei primi provvedimenti messi in atto dal muovo regime fu l'assegnazione del titolo di "nemico del popolo" alle persone più abbienti del paese, armatori e caratisti, due dei quali, dietro delazione furono mandati nelle foibe istriane; quelli scampati alle foibe per fortunata casualità, si videro costretti a fuggire per primi in Italia. Le proprietà dei "nemici del popolo", ricche case ben arredate, campagne, lo squero con una barca in costruzione, ecc., vennero confiscate e nazionalizzate. Che la feroce persecuzione verso i "nemici del popolo" non avesse scopo meramente politico, ma anche l'appropriazione dei loro beni ad uso personale di alcuni, lo si capì dopo; infatti, il segretario del partito fascista del paese, in carica fino al giorno prima dell'occupazione, ma nullatenente, non fu perseguito.

La fase successiva a questi interventi è stata "l'assegnazione" delle case dei "nemici del popolo" ad alcuni capi del "partito" croato del paese, inclusi mobili ed arredamento; la casa di Domenico Camali armatore, mandato nelle foibe, è stata adibita a residenza del poliziotto del paese (komandir). I nuovi proprietari hanno comunque regolarizzato il possesso delle case con formali atti di acquisto dallo Stato, anche se le somme versate erano sostanzialmente simboliche; infatti, anche la stima peritale del valore economico delle proprietà è stata fatta da loro stessi.

Naturalmente ogni attività commerciale privata è stata abolita, tutti i negozi del paese sono stati chiusi e nazionalizzati, così come gli altri locali pubblici. Per dare una parvenza di legalità alla nazionalizzazione, il valore degli esercizi, con tutto ciò in essi contenuto, è stato valutato ai prezzi di inventario del 1939, e su questa valutazione soltanto il 20% è stato rimborsato e non a tutti, ma solo ad alcuni; è rimasto per un po' di tempo in attività, col solo servizio di bar, il locale di Garbassi in piazza. Per la vendita di generi alimentari è stata aperta la cooperativa di proprietà statale "za druga" [25] (per il compagno), prima nei locali della grande bottega del Vescovi e successivamente in quelli del negozio di stoffe Smundin. La scuola materna (asilo) è stata chiusa, i locali della scuola sono stati adibiti a trattoria-bar di proprietà pubblica, data in gestione a persona "di fiducia". I calzolai del paese per lavorare hanno dovuto entrare nella cooperativa gestita dal partito e così via per tutte le altre attività del paese, perfino quelle agricole. Tutti gli uomini (e molte donne), rimasti bloccati per il primo periodo, hanno dovuto andare a lavorare nell'unico squero sopravvissuto di Lussinpiccolo.

Oltre a questo la storia ci impone di dire che il trattato internazionale di pace, sottoscritto anche dal governo jugoslavo, che prevedeva il passaggio dell'Istria e delle isole del Quarnero alla Jugoslavia, prevedeva anche per la popolazione residente, la facoltà di optare per la cittadinanza italiana o jugoslava, ossia andarsene liberamente portando con se soltanto i propri beni trasportabili in Italia, oppure rimanere. La stragrande maggioranza della popolazione del paese optò per l'Italia, ma le autorità locali respinsero sistematicamente questa richiesta di opzione, temendo che coll'esodo in massa anche le poche attività rimaste, necessarie per la sopravvivenza di quelli che avevano scelto di restare, si sarebbero paralizzate. A questo punto è riemerso il senso di indipendenza e l'amore per la libera iniziativa che ha sempre caratterizzato i Neresinotti, quelli che non si sentivano di accettare le imposizioni del regime, hanno scelto la fuga clandestina con ogni mezzo: l'attraversamento dell'Adriatico con le piccole barche locali, attraverso le campagne dell'Istria, ecc. Nel giro di due o tre anni la maggior parte dei giovani e comunque uomini con capacità lavorativa, abbandonarono per sempre il paese, portando con se i soli vestiti che avevano addosso, lasciando a casa le mogli, i figli ed i vecchi genitori, senza mezzi di sostentamento, con l'intenzione di ricongiungersi appena possibile. Soltanto dopo il 1950 le autorità locali incominciarono a lasciar partire le mogli ed i figli dei fuorusciti, in molti casi tenuti in ostaggio per oltre 4 anni. Addirittura alcuni genitori mandarono in Italia i figli adolescenti (9-12 anni), a cui era permesso di andare fino a Trieste in gita scolastica, a condizione che non fossero accompagnati da parenti stretti, per sottrarli a un futuro senza libertà. I ragazzi, una volta arrivati in Italia, venivano accolti dall'organizzazione per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati, nata nel frattempo e animata dal neresinotto padre Flaminio Rocchi, che provvedeva a mandarli nei collegi opportunamente predisposti, per farli proseguire negli studi.

In conclusione della sommaria ricostruzione storica possiamo dire che il paese di Neresine, dai 2000 abitanti del 1945, è passato nel 1956 a circa 300 abitanti, senza contare i nuovi immigrati che sono arrivati in paese dopo il 1945, per sostituire quelli scappati o espulsi dalla politica del lavaggio etnico.

In un conteggio accuratamente realizzato nel 2003, dei 2000 abitanti del 1945, ossia neresinotti aventi entrambi i genitori nati a Neresine, non si è riusciti a contarne più di 90 rimasti.

I fuorusciti esuli dall'ex Venezia Giulia e Dalmazia entro il 1951, qualificati profughi giuliano-dalmati, hanno avuto la possibilità di rioptare per la cittadinanza italiana in Italia, presentando documenti adeguati, ridiventando così cittadini italiani a tutti gli effetti.

I Neresinotti si stabilirono, una parte a Trieste, un'altra parte nell'area veneziana ed una parte ancora a Genova, località queste più congeniali per quei molti che erano marittimi di professione. Un'altra parte, dopo un primo soggiorno in Italia, emigrarono in America, prevalentemente a New York, richiamati da parenti, amici e compaesani già residenti, altri ancora andarono in Canada, Australia e Sud Africa.

In qualunque parte del mondo comunque essi siano andati, hanno portato con sé "l’ inprinting" culturale del paese, basato sulla voglia di lavorare, sull'onestà e la costante tendenza al miglioramento economico e sociale. Infatti tutti, pur partendo dal patrimonio personale dei soli vestiti che avevano indosso, hanno raggiunto una posizione sociale ed economica di elevato livello, ed alcuni anche di notevole rilievo. [26]

In merito alla spinosa questione del riconoscimento da parte del Governo Italiano della nazionalità italiana agli esuli, soprattutto a quelli nati dopo il 1918 e quindi in Italia, il rigore storico ci impone di fornire un'importante precisazione.

Molti di quelli che a suo tempo ebbero respinta la richiesta di opzione dalle autorità jugoslave (tutti quelli di Neresine) e che non poterono scappare in Italia entro i primi cinque o sei anni dalla fine della guerra, perché troppo vecchi, perché legittimamente non se la sentivano di lasciare i genitori anziani o i figli piccoli, oppure perché troppo giovani e minorenni, raggiunta la maggiore età o sistemate meglio le cose con quelli che rimanevano, se ne andarono negli anni successivi; continuarono addirittura a scappare fino agli anni sessanta. Per questi la politica del governo italiano fu crudelmente ingiusta, suggerita forse da improvvide valutazioni di "esperti" che non conoscevano a fondo la situazione. In sostanza a questi non fu concessa la cittadinanza italiana, tranne qualche caso "particolare". Gli sventurati fuorusciti di questo periodo, qualificati come apolidi, dopo qualche anno di internamento nei campi profughi italiani, furono costretti ad emigrare tramite l’IRO (International Refugees Organization), dove possibile: Australia, Canada, Sudafrica o dietro specifico richiamo (con garanzia economica) da parte di cittadini americani, negli Stati Uniti. Per la maggior parte dei Neresinotti quest'ultima soluzione è stata quella più praticata, perché quasi tutti avevano parenti o amici negli USA.

Le fughe in Italia, proprio perché fanno parte della storia del paese, meritano un approfondimento. Secondo le direttive politiche del nuovo regime, i cittadini di Neresine ritenuti "italiani" dovevano essere sottoposti al trattamento del lavaggio etnico previsto dal manuale Cubrilovich, quindi a una forma di terrorismo di stato, fino ad indurli a fuggire, mentre quelli ritenuti "croati" dovevano essere costretti a restare, anzi per questi, il solo sospetto di tramare la fuga in Italia era diventato reato penale. Ciò nonostante la stragrande maggioranza dei Neresinotti preferì comunque optare per la cittadinanza italiana, ma il comitato popolare del paese (odbor), incaricato della questione, stabilì che tutti erano di madrelingua croata e quindi la loro richiesta di opzione non poteva essere accolta. La sola alternativa a questo punto rimase la fuga, ed infatti, come già detto sopra, molti fuggirono. Per arginare lo stillicidio delle fughe fu organizzata una ferrea sorveglianza, con motovedette della polizia e della marina in costante perlustrazione delle coste occidentali delle isole e del mare circostante; nonostante ciò centinaia di persone riuscirono ad attraversare l'Adriatico con le piccole barche locali. Dall'isola di Sansego in pochi anni scapparono più di 1000 persone (su circa 2000 abitanti complessivi), intere famiglie, e tutti con le piccole, ma robuste barche a remi o a motore, tipiche di quell'isola. Nel 1948 la polizia, per scoraggiare ulteriori tentativi di fuga, mitragliò e uccise due disarmati presunti fuggiaschi di Sansego, esponendo come monito in riva a Lussinpiccolo (di fronte alla farmacia), la barca catturata con i cadaveri, così come erano caduti. I parenti invano giurarono che si trattava di normali pescatori intenti a fare il loro lavoro. La versione dei parenti è apparsa a tutti la più credibile, perché conoscendo l'astuzia e l'abilità marinaresca dei Sansegotti, mai si sarebbero fatti sorprendere in fuga in pieno giorno, e soprattutto in ogni barca si imbarcavano non meno di otto-dieci persone, per alternarsi ai lunghi remi (vesli) e garantire una costante ed elevata velocità, almeno per le prime venti miglia del tragitto. Nello stesso periodo una barca con quattro fuggitivi, tra cui due conosciuti lussignani, sparì in mare durante un altro tentativo di fuga. Nel 1998 un turista, pescatore subacqueo tedesco, scopri una barca affondata vicino alla costa con dei resti umani a bordo; segnalato alle autorità il ritrovamento, si scoprì che si trattava dei fuggiaschi, anch'essi uccisi dalla milizia, con evidenti fori di proiettile nei crani. Il fatto è stato doverosamente ricordato dalle attuali autorità comunali di Lussinpiccolo, con una lapide commemorativa in cimitero.

A seguito dei drammatici fatti riportati, le fughe per un certo tempo si diradarono, intanto i Neresinotti che lavoravano nel cantiere (squero) di Lussinpiccolo, cominciarono a sorvegliare le motovedette della polizia, annotando gli orari di partenza e di rientro in porto delle stesse, scoprendo che non uscivano mai con tempo brutto e perturbato, questa constatazione diede via libera alle fughe. Infatti, per le successive fughe vennero scelti prevalentemente i sabati del periodo invernale, quando [27] soffiava più forte la bora o minacciava maltempo. Il sabato era il giorno più favorevole perché fino al lunedì successivo, giorno di rientro al lavoro, nessuno si sarebbe accorto della loro mancanza. Cinque Neresinotti, in un caicio di cinque metri partirono da Biscupia alle nove di una certa sera con forte bora, attraversarono nell'oscurità con la piccola vela il canale fino a Caldonta, costeggiarono fino a Punta Croce (Suha Punta), poi si mollarono in poppa passando a sud dell'isola di San Piero de' Nembi, puntando direttamente su Pesaro, dove giunsero alle quattro del pomeriggio del giorno successivo: impresa straordinaria per perizia marinaresca e per consapevole coraggio. Fecero il percorso ad una velocità media di circa cinque nodi!

Altra rocambolesca fuga fu quella di tredici persone, tra cui due donne ed un bambino di tre anni e mezzo, avvenuta nel dicembre del 1951, con una grossa barca di circa 10 metri, sequestrata per lo scopo dai fuggiaschi insieme al suo equipaggio. La barca era adibita al trasporto di merci e "passeggeri" tra il paese e Fiume, sotto il "patrocinio" delle autorità politiche locali. Il capobarca era uno ligio al regime, mentre il motorista era segretamente complice dei fuggiaschi. La fuga fu a lungo studiata e ben organizzata: una mattina alcuni dei fuggitivi si imbarcarono sulla "Menka" (questo era il nome della barca) in partenza per Fiume come normali passeggeri. Appena lasciata alle spalle, nel buio della mattina invernale, Ossero, il motorista complice fermò il motore simulando un guasto. Il capobarca saltò giù nello spazio del motore per vedere cosa era successo e aiutare il motorista a riparare il guasto; a questo punto gli altri si impadronirono della barca e dissero che avevano intenzione di scappare in Italia. Il capobarca comincio ad imprecare e ad urlare cercando di impedire il sequestro, tuttavia i fuggiaschi gli dissero che se non si calmava lo avrebbero legato e chiuso nella stiva, e avrebbero proseguito comunque malgrado le sue proteste. Il capobarca, vista la mala parata si calmò e gli altri invertirono la rotta dirigendosi verso Tomosina, una baia deserta e riparata nella sponda occidentale dell'isola, sul versante del monte Ossero opposto quello del paese, dove gli altri fuggiaschi si erano nel frattempo recati nella notte per essere anch'essi imbarcati. La fuga si concluse felicemente a Pesaro nella stessa giornata. Il povero capobarca durante il viaggio ebbe modo e tempo di riflettere sulla situazione, per cui alla fine decise anche lui di rimanere in Italia.

Altra fuga nella storia di Neresine che vale la pena di raccontare è quella di una barca di 50 tonnellate denominata Seca, precedentemente si chiamava Zora, ma il nome era stato cambiato a seguito di un decreto delle autorità locali, che intendevano, col cambio dei nomi di tutte le barche esistenti, eliminare ogni eventuale riferimento a religione o italianismi. La barca era di proprietà dei fratelli Zorovich (Ferdinandovi), di famiglia "di sentimenti croati" del paese.28 Quando due dei fratelli si sono resi conto cosa comportasse l'ineludibile adesione al partito comunista di Tito, (un terzo fratello se n'era già accorto scappando in Italia nel 1951), decisero anche loro di scappare con le famiglie, ma sbarcare in Italia in quel tempo avrebbe comportato per loro qualche rischio, perché erano compromessi col regime; quindi decisero di proseguire il viaggio con la stessa barca, fino in America, dove avevano il fratello maggiore, residente da molti anni e assai benestante, che li avrebbe aiutati e finanziati. La prima tappa della fuga fu Ancona, dove chiesero di sostare soltanto per il periodo necessario ad organizzare il viaggio e acquistare gli approvvigionamenti necessari. Il Fratello minore scappato con la famiglia alcuni anni prima (con il dirottamento della Menka precedentemente descritto), che si trovava ancora in un campo raccolta profughi italiano, trovava difficoltà ad emigrare tramite l'organizzazione IRO, a causa dei precedenti politici della sua famiglia, (altri due fratelli rimasti a Neresine rimasero fedeli al partito ed al regime), decise quindi di unirsi "clandestinamente" a loro per riuscire così ad emigrare finalmente in America. Si unì a loro anche un capitano di lungo corso dalmata, con la moglie, compagno di campo profughi del fratello minore: sarebbe stato utile per la navigazione oceanica, di cui i fratelli non avevano esperienza. Partirono infatti da Ancona, fecero tappa in alcuni porti del Nord Africa e alle isole Canarie e poi salparono definitivamente per la Florida. Purtroppo dopo pochi giorni il motore della barca, vecchio e malandato, si ruppe definitivamente costringendoli a proseguire il viaggio con la sola piccola e vecchia vela (era [28] la vela della vecchia barca del suocero del fratello minore, affondata durante la guerra). I viaggio durò alcuni mesi, ma alla fine, anche se molto avventurosamente, raggiunsero l'agognata meta.29

Vale la pena di raccontare anche l'emblematica vicenda di un altro compaesano di nome Bracco, nipote di uno dei perseguitati dal governo austriaco durante la prima guerra mondiale, perché italiano e figlio di quel Valentino di cui si parla in altra parte di questa storia. Il padre aveva, come tutti gli altri optato per la cittadinanza italiana, ma essendo mutilato di un braccio e anziano non poteva scappare, confidando sul fatto che, continuando a richiedere l'espatrio in Italia, prima o poi le autorità locali avrebbero ceduto, cosa che è effettivamente accaduta nel 1962, ma lui a quel tempo era già morto. Tra l'altro il fratello ventunenne era stato nel frattempo condannato a tre anni di durissima galera, perché accusato, di progettare, assieme ad altri coetanei, anch'essi condannati, la fuga in Italia.30

Il nostro, a quel tempo solo diciannovenne, era il 1955, aveva una bella passera di 4 metri (piccolo caicio aperto), battezzata "illegalmente" Zingara, decise con questa di scappare comunque in Italia. Preparò bene la fuga. Il giorno prescelto, era un pomeriggio d'estate, equipaggiato di cibo, acqua da bere e di una pistola, probabilmente più per darsi coraggio che per difendersi, partì dal porticciolo dei frati facendo vedere che andava come al solito a pescare. Diversamente dal solito però, la sorella lo accompagnò e lo salutò abbracciandolo e piangendo; la cosa fu notata da uno zio materno del fuggiasco, esponente di primo piano del partito croato del paese, presente in quel momento nel porticciolo.

Comunque il ragazzo uscì dal porticciolo, tirò su la vela e si diresse verso Ossero e poi verso Ustrine, dove in una piccola baia aspetto che si facesse buio, quindi iniziò il viaggio verso l'Italia.

In piena notte, appena lasciate le coste dell'isola di Unie, vide il fascio di luce dei fari di una motovedetta che perlustrava la zona, subito dopo arrivarono altre due motovedette, il ragazzo, terrorizzato dall'eventualità di essere scoperto, tirò giù la vela, tolse l'albero, riempì la barca d'acqua e si gettò in mare, sperando di non essere visto. Le motovedette girarono a lungo nella zona senza accorgersi di lui, poi si appostarono nello specchio di mare tra le isole di Sracane (Canidole) ed Unie. Quando scomparvero alla sua vista, recuperò la barca, la svuotò dell'acqua, recuperò l'albero e la vela, e vogò velocemente verso la vicina isola di Unie, dove si nascose. Quando si fece giorno le motovedette rientrarono alla base, una verso Lussino e le altre due verso Pola. Lui controllò lo stato della barca e delle attrezzature, e si rese conto che nella manovra di affondamento aveva perso in mare le provviste di cibo e l'inutile pistola, si salvò solo una bottiglia d'acqua ed un cestino di uova, che aveva chiuso nello scomparto sotto al banco di poppa. Forse per l'incoscienza dovuta alla giovane età o forse per la più forte spinta della disperazione, decise di proseguire comunque il viaggio. Trangugiò tutte le uova del cestino, si mise ai remi e iniziò a vogare verso l'Italia, vogò disperatamente ed ininterrottamente per tutta la giornata, fintanto che non fu certo di essere fuori della portata delle motovedette, poi alzò la vela e prosegui il viaggio con maggiore rilassatezza, finché un peschereccio italiano lo vide e lo tirò su a bordo, barchetta compresa. Rimase a bordo con loro per due giorni finché i pescatori finirono la campagna di pesca prevista, poi lo portarono nel porto di Fano e gli diedero anche qualche soldo per le prime spese.

In Italia vivevano due sue sorelle, una a Genova ed una a Livorno, regolari cittadine italiane, che garantirono per lui e lo presero con sé. A Genova, dove si stabilì, trovò lavoro presso una grande industria metalmeccanica in qualità di fresatore. Col denaro guadagnato prese in affitto un piccolo appartamento e aiutò la madre e le altre due sorelle, rimaste a Neresine, inviando regolarmente pacchi di vestiario e aiuti economici, tuttavia non era libero né di circolare per l'Italia né di usufruire dei diritti di cui godevano tutti i cittadini italiani, perché lo stato italiano gli negò la cittadinanza, in quanto minorenne, quindi non in grado di optare o per altri misteriosi motivi, si beccò perciò anche lui la qualifica di apolide!

Quando alla fine la madre, il fratello reduce dalle galere titine e le sorelle riuscirono a venire regolarmente in Italia, dopo un periodo di soggiorno in campo profughi, furono costretti ad emigrare in Australia, perché la patria non li voleva. [29]

Il giovane di cui si parla aveva le carte in regola per diventare cittadino italiano a tutti gli effetti, sia dal punto di vista "politico" che da quello umano; tra l'altro in Australia, a somiglianza del padre di cui si parla più avanti, dimostrò una grande perizia marinara e doti di grande coraggio, salvando da annegamento, col rischio della propria vita, i naufraghi di una barca a vela, rovesciatasi durante una tempesta. Per questo fatto gli fu conferita dal governatore australiano, nell'annuale celebrazione degli eroi civili di quel paese, una medaglia d'onore appunto al merito civile.

Il destino umano riserva spesso risvolti incredibili, ed anche nel nostro caso si è verificato un ulteriore fatto che vale la pena di raccontare: - Un giorno, davanti alla casa australiana dove abitava il compaesano, avviene un incidente automobilistico, con scontro tra due macchine; il nostro si affretta a soccorrere uno dei conducenti, una giovane leggermente contusa e avendo assistito al fatto, rende testimonianza scritta a favore della ragazza, che a suo avviso aveva ragione. La sera dello stesso giorno si presenta a casa sua il padre della ragazza, per ringraziarlo dell'aiuto dato alla figlia, e avendo letto il nome del nostro compaesano nelle carte dell'incidente, gli chiede notizie sulla sua provenienza, perché si ricordava bene quel nome. Salta così fuori che il padre della ragazza era un istriano delle parti di Pola, ed era il comandante di una delle motovedette della polizia (anche lui successivamente fuggito verso la libertà), mandate alla ricerca del fuggitivo, nella fatidica notte della fuga precedentemente raccontata, dietro specifica segnalazione dello zio; non solo ma gli racconta anche che per le successive tredici notti avevano continuato a cercarlo invano.

Le fughe raccontate sono quelle che hanno fatto più clamore ed anche quelle più note, ma infinite altre meno note o del tutto sconosciute, ma non per questo meno avventurose e temerarie, sono avvenute nei primi quindici durissimi anni del dopoguerra, tutte comunque testimonianti il forte carattere dei Neresinotti, il loro attaccamento alla libertà e soprattutto il drastico rifiuto di ripercorrere a ritroso, il faticoso cammino verso il progresso e la vita libera e civile, compiuto dai loro antenati. [30]

In conclusione di questo capitolo in cui si racconta la storia di Neresine, viene inserita una bella poesia: essa è stata scritta da un nostro conterraneo, sposato con una neresinotta e costretto, come tanti altri, ad emigrare in Canada. La poesia è priva di pregi letterari, ma è ricca di sincero amore per la natia terra ed è quella che meglio di qualunque altra cosa, descrive la sorte toccata alle nostre genti.

IDENTITÀ

Ma noi cosa siamo papà?
Non sono sicuro per verità,
credevo d'essere italiano,
nvece mi sento più istriano.

Questa domanda semplice e schietta
merita una risposta chiara e diretta,
vorrei tanto dirlo con tutto il cuore,
che alla mia patria aspiravo con amore…..

Ma non posso dire d'esser fiero
quando mi trattano da straniero…,..,
E infatti non c'è da ignorare,
che siamo in tanti così a pensare!

Noi le terre le teniamo care:
l'Istria, Pola e Zara circondate dal mare,
Fiume, Cherso, Lussino sul Quarnaro,
tra i ricordi belli c'è anche quello amaro.

Fuori di noi comunque non c'è quasi nessuno,
che si ricorda che dell'Italia eravamo tutt'uno,
lasciammo patria e terra con dolore
e oggi nel mondo ci siamo fatti onore,

Ma quello che ci ferisce vivamente,
è che gli italiani di noi non sanno niente,
e quando sentono dove siamo nati,
automaticamente ci credono croati.

Un tempo eravamo parte della gloria,
Ora siamo quasi persi nella storia.
È la verità che scrivon queste mani,
Purtroppo siamo noi gli ultimi Mohicani!

È per questo figlio che non rispondo,
come te non capisco veramente questo mondo,
lascia però che ti racconti la storia dei fiumani,
zaratini, istriani, polesani, chersini e lussignani,
che un tempo eravamo tutti italiani.

Come vedi la storia è lunga molto,
e ti rendi conto di quello che ci han tolto!
La grande odissea di noi giuliani
cominciò subito nei campi profughi italiani.

E tu figlio mio sei più fortunato,
perché non ci sono confusioni dove sei nato,
sei canadese, italiano, australiano e americano,
ma se ti chiedono, digli che tuo papà era fiumano,
istriano, zaratino, polesano, chersino e lussignano.

Boris del mar (Cimini) [31]


NOTE

1. In merito ai ruderi della chiesetta, trattasi di una piccola costruzione in cui è ancora riconoscibile il soffitto a volta della cappella di stile Romanico, caratteristico del periodo indicato. Sono prive di qualsiasi fondamento storico le informazioni, che qualcuno ha cercato di far passare in tempi recenti, secondo cui la chiesetta era dedicata a Santa Maria Maddalena ed era la prima chiesa del paese, costruita dagli ipotetici immigrati croati arrivati alla fine del XIV secolo, durante l'appartenenza delle isole al regno di Ungheria, (probabilmente il nome è stato scelto per dare una qualche consequenzialità con la vera prima chiesa del paese, appunto quella di Santa Maria Maddalena). A parte la grande discrepanza di date tra il periodo di costruzione della chiesetta con l'ipotesi immaginata, non ha nessun senso, né storico, né logico, la costruzione di una chiesa in mezzo ai boschi, senza nessuna traccia di abitazioni nel raggio di chilometri, salvo che non si pensi ad un eremo, come appunto ricordato negli Annales Camaldolenses, e come confermato anche dalla chiesetta di S. Nicola, sita in vetta al monte Ossero, dello stesso periodo. (Luigi Tomaz - Ossero e Cherso nei secoli prima di Venezia).

2. Il nuovo nome Televrin affibbiato al Monte Ossero, fu uno dei primi interventi, nell'ambito dell'indirizzo ideologico del regime comunista, verso la cancellazione di ogni riferimento di parvenza religiosa o di sospetto retaggio non ortodossamente legato al nazionalismo slavo. Altro intervento in questa direzione fu l'imposizione di cambiare i nomi a tutte le imbarcazioni esistenti, sia nomi italiani sia croati, con altri, a scelta dei proprietari, preventivamente approvati dalle autorità politiche locali. Questo è stato il mezzo di maggior parvenza "democratica", perché uguale per tutti, per eliminare sostanzialmente nomi di barche come "Hvala Bogu", "Sveti Mikula", "San Francesco", "Cristina", ecc. Anche il nome dell'isoletta di Ilovik al posto di San Pietro de' Nembi, trae origine da queste intenzioni i
deologiche.

3. Il periodo storico in cui il paese di Neresine ha avuto origine, almeno nella popolazione e nella struttura come ci è stata tramandata e come ce la ritroviamo oggi, si può stabilire con sufficiente approssimazione tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, infatti, non sono state trovate tracce, né di abitazioni, né di documenti, che possano avvalorare la presenza di un significativo numero di abitanti prima di questa data. Nello stesso testamento di Colane Drasa, redatto nel 1509, e conservato nell'archivio del convento di Neresine, per quanto molto dettagliato nelle descrizioni delle proprietà e del territorio, ed anche molto preciso nel chiedere "ch 'el corpo suo sia portato al monasterio suo per lui fatto in Neresine de 'frati osservanti et che lì sia sepelido in la gesa de San Francesco in la capella grande avanti lo altar grando…", non viene menzionato, né un paese, né una popolazione di significativa consistenza, abitante attorno al convento o comunque a Neresine. Anche le vicissitudini storiche verificatesi in quel periodo in tutta l'area orientale dell'Adriatico, fanno ritenere molto attendibile la data di nascita del paese sopraindicata.

Enver Imamovich, nel suo libro "Nerezine na otoku Losinju" del 1979, disserta lungamente sull'arrivo dei croati nell'isola ed in particolare a Neresine, durante i 51 anni di appartenenza della regione al regno di Ungheria, ossia dal 1358 al 1409, coll'evidente intento di dimostrare l'appartenenza degli abitanti del paese all'etnia croata, anticipando così di oltre un secolo la nascita del paese. A parte il fatto che è del tutto irrilevante che la popolazione del paese, sicuramente di origine slava, provenga dalla Croazia, o dalla Moravia, oppure dall'area balcanica, o da qualsivoglia altra regione dell'Europa orientale, a Neresine e dintorni non sono state trovate tracce di alcun genere di tale presenza, mentre sono state trovate abbondanti, e ben più antiche, degli antichi greci e dei romani. Le isole, anche durante, la formale appartenenza al regno d'Ungheria, rimasero comunque di fatto con regolamenti legislativi, lingua e consuetudini instaurate dalla Repubblica di Venezia: probabilmente gli Ungaro-Croati non avevano né mezzi, né tempo, né interesse di occuparsi anche delle nostre piccole ed aride isole; se non per il ritiro dei tributi da parte del conte Saraceno, fedele feudatario di Ludovico, a cui quest'ultimo avava donato le due isole, quale compenso per i servigi resigli; infatti, negli archivi di Ossero sono stati trovati vari documenti di questo periodo, redatti in lingua latina, riguardanti obblighi, regolamenti e patti tra le varie comunità di allora, facenti capo al Conte di Cherso ed Ossero, ma non sono stati trovati documenti in croato o altre lingue slave, né riguardanti questo periodo, né altri periodi successivi.

4. P. Vittorio Meneghin. - Il convento di S. Francesco in Neresine.- Da "Atti e memorie della Società Istriana di archeologia e Storia Patria". Venezia 1969.

5. In merito alla data di inizio della costruzione della Chiesa di S. Francesco e dell'annesso Convento dei Frati, per rigore storico deve essere precisato che, come risulta dai documenti conservati nell'archivio dello stesso Convento di Neresine, esso fu edificato sul terreno in riva al mare adibito a vigneto, lungo 28 passi e largo 20, donato da tale Domenico Sutcovich ai Frati Minori, con atto del 27 maggio 1505. Il 23 ottobre dello stesso anno, Giovanni Contarini, [32] Conte di Cherso ed Ossero, governatore delle isole per conto della Repubblica di Venezia, sedendo "sub logia magna Chersi", ratificava la donazione e Colane Drasa da Ossero l'accettava quale procuratore dei Minori Osservanti. Il giorno seguente Fra Francesco Dragoni (De Dragonibus), vicario provinciale degli Osservanti di Dalmazia, chiedeva al sacerdote Don Cipriano Colombis, vicario del vescovo di Ossero, l'approvazione ecclesiastica per la costruzione della Chiesa e relativo Convento, che Colane Drasa, nobile osserino, aveva deciso di innalzare a Neresine in espiazione dei suoi peccati, a suffragio dei suoi parenti defunti ed a vantaggio degli abitanti della diocesi di Ossero e di tutta l'isola. Da quanto sopra appare evidente che la costruzione non può essere iniziata prima dell'ottobre 1505, molto probabilmente nel 1506, perché il 2 gennaio 1507 il Consiglio di Cherso ed Ossero prendeva in esame la supplica presentata dai Minori Osservanti di Neresine, che pregavano si condonasse loro un debito di quaranta lire, per impiegarle nella prosecuzione della fabbrica del Convento. Colane Drasa morì nel 1513, quando la Chiesa era già ultimata; la sua consacrazione avvenne nel 1515, come testimoniato da una lapide, presente nella stessa Chiesa. Le precisazioni sopra riportate diventano pertinenti, se si considera che gli attuali Frati Minori Osservanti hanno deciso di commemorare i 500 anni della fondazione della Chiesa e Convento nell'agosto 2003, con congruo anticipo quindi, rispetto alla reale data della ricorrenza storica.

La ricerca di una motivazione di tale anticipo, ci porta ad affermare che probabilmente sarebbe stato difficile mantenere aperta la Chiesa e il Convento alla reale data della scadenza storica, ossia il 2005; infatti, dopo la morte dell'ultimo frate residente, avvenuta alcuni anni fa, l'onere di celebrare i riti religiosi, anche se saltuariamente e soltanto nelle maggiori festività, veniva svolto da un anziano frate di Veglia, che oltre alla fatica dei doveri religiosi, doveva sobbarcarsi ogni volta anche un disagevole viaggio di andata e ritorno fino a Neresine. Attualmente è stato trovato un altro anziano frate e mandato a Neresine quale frate residente, tuttavia quest'ultimo ha qualche problema di "salute ….", inoltre è costretto a vivere da solo in quell'enorme complesso, senza nessun aiuto per farsi da mangiare, farsi il bucato, le pulizie ecc., quindi la sua permanenza è assai discutibile. Altro problema è l'attuale scarsa partecipazione dei fedeli alle Messe domenicali di precetto, non più di 15 persone, ed il numero è in continuo calo per la progressiva diminuzione, per naturale estinzione, degli ormai vecchi abitanti.

Se si tiene conto, inoltre, dell'attuale carenza di vocazioni religiose in Croazia, specialmente per i Frati Francescani, della precaria affidabilità dell'attuale frate residente, dello scarso numero di fedeli, soprattutto del rione Frati e che in paese è già presente un parroco, si teme che la chiusura definitiva della chiesa e del Convento sia inevitabile. Quindi tanto valeva "chiudere in bellezza", con la struttura ancora in "attività", al di là del rigore delle date storiche.

6. L'ipotesi secondo cui la bella tavoletta della Madonna delle Grazie sia stata portata in paese dalla Bosnia, dai primi immigrati in fuga dall'invasione turca, è stata fatta circolare in paese alla fine del XIX secolo, probabilmente dai frati croati sull'onda dell'offensiva nazionalistica filoslava da essi scatenata. Anche il Fabianich sbrigativamente la dice di "greco penello", anche se più competenti ed accurati studi la attrbuiscono a un madonero (pittore di madonne) del XV secolo, di scuola sicuramente non orientale. La provenienza dalla Bosnia del quadro, riportata come voce di paese anche da P. Vittorio Meneghin, contrasta fortemente con la sequenza degli avvenimenti storici che hanno coinvolto le isole e la regione in quei lontani tempi. Infatti, la cappella della Madonna delle Grazie, era già dotata, fino ad un'epoca molto più recente, di un quadro della Madonna di un certo pregio di Girolamo di Santa Croce, sopra il quale e poi stato successivamente collocato quello della Madonna delle Grazie, quindi il nuovo quadro è stato posto nell'attuale ubicazione in tempi molto più recenti, presumibilmente nel XIX secolo, conseguentemente l'potesi del suo arrivo dalla Bosnia con gli immigrati in fuga dai turchi è perlomeno sfasata di due secoli. P. Pietro Iachetti nelle sue ricerche storiche del 1863 (da ricerche negli archivi Vaticani di P. Flaminio Rocchi), dice che il quadro si trovava addirittura nella cappella della residenza personale della regina di Francia Maria Antonietta, che a seguito della rivoluzione francese fu salvata da una sua fante (inserviente) e fatta pervenire alla corte imperiale di Vienna, assieme ad altri ogetti personali della regina. Gli "Annali Francescani" (Vol. VI 1875) registrano che l'imperatore Francesco Giuseppe, appena insediato nella carica imperiale Asburgica, regalò alla chiesa di S. Francesco di Neresine una rilevante somma di denaro assieme ad oggetti di culto, tra cui molto probabilmente c'era anche il quadro della nostra Madonna delle Grazie. Questa versione coincide molto più verosimilmente, per epoca storica, con i rilievi strutturali ed architettonici eseguiti sull'altare della Madonna e con la ristrutturazione della chiesa fatta in quel periodo.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

7. Da vari documenti dell'archivio del convento di Neresine risulta che, per contrastare un'imposizione emessa nel 1721 dal vescovo di Ossero Nicolò Drasich, al fine di ottenere il pagamento delle decime, dovute per il possesso delle proprietà del convento, il 4 ottobre 1722, festa di S. Francesco, i Frati fecero solenne atto di rinuncia a tutti i loro beni, per poter più puramente osservare la regola francescana che vieta la proprietà, trasferendo il possesso dei loro capitali a quattro procuratori prestanome, che amministrarono i possedimenti passando i frutti ai religiosi; a quest'ultimi rimaneva l'imposizione di soddisfare gli obblighi a cui i beni erano stati vincolati, obblighi consistenti prevalentemente nella celebrazione di un determinato numero di Messe. Da questi documenti si rileva che alcune rendite consistevano in tre quote da cento lire che si riscuotevano da Gaudenzio Ballon, Nicolò Draganich e Giuseppe Chirincich; tra i beni, una casetta ed alcune terre lasciate da Margherita Leni, 456 pecore suddivise nelle mandrie di Michal, Potok e Murtovnik. I frati rinunziarono anche ai diritti che avevano sul torchio di Giovanni Petris, allogato [33] nel loro "mandracchio" (porticciolo), le cui rendite dovevano venire riscosse dai procuratori del convento e passate a quest'ultimo.

In altre scritture le proprietà sono elencate con maggior precisione. Vengono ricordate alcune: "mezzo gorgo" detto Pradicchia, lasciato al convento nel 1682 da Stefano Racich, una casetta in Kalmaz (Halmaz), altra casetta lasciata agli altari di S. Francesco e di S. Antonio da Antonia vedova Berichievich, alcune serraglie boschive e pascolative dalle parti di Puntacroce lasciate da Antonio Dragan, altra serraglia verso Bora, detta anch'essa Pradicchia, lasciata dagli eredi Lenicich, alcuni orti ed una casetta a Lussingrande, un pezzo di terra a S. Giacomo; vari lasciti di animali ed alcuni pascoli acquistati dal convento.

Da quanto sopra si può dedurre che fino alla prima metà del XVIII secolo, una buona parte delle proprietà terriere attorno al paese era ancora in possesso di cittadini di Ossero, Cherso, o comunque di non neresinotti. Dagli stessi documenti risulta invece che i "bravari" (capimandria) erano di Neresine: Marinzulich quello di Garmosal, Soccolich e Rucconich gli altri.

8. In merito alla lapide sepolcrale di Francesco Dragozetich, è del tutto priva di fondamento l'ipotesi, sostenuta da Donato Fabianich nel suo libro "Storia dei Frati Minori in Dalmazia - Zara 1864", e ripresa recentemente da alcuni giornali croati, secondo cui, i Drasa (che lui ha sempre erroneamente chiamati Drosa) avrebbero illirizzato il loro cognome in Dragozetich. Infatti, i discendenti della famiglia Drasa, di cui esiste ampia documentazione storica, almeno fino al XIX secolo, hanno mantenuto inalterato il loro cognome. Nella battaglia di Lepanto (1571), il sopracomito (comandante) della settima Galea del corno sinistro dello schieramento cristiano, quella di Cherso ed Ossero, denominata "S. Nicolò con la Corona", era Colane Drasa di Ossero, molto probabilmente nipote di Simone Drasa esecutore testamentario del nostro vecchio Colane, appartenente alla stessa famiglia. Il sopracomito Colane Drasa nella battaglia si distinse con grande onore, tanto da meritarsi solenni encomi ufficiali dalla Repubblica di Venezia. Da altri documenti dell'archivio del convento, risulta che nel 1690, il capitano Francesco Drasa, lasciava ai frati: "animali da pascolo n° 50, et li animali vivi da frutto posti nella mandria di Garmosal con tutte le sue raggion, habentie et pertinentie, ombrie et bonazze, spettanti a detti pascoli." Altri documenti del 1818 menzionano ancora i Drasa di Ossero. D'altra parte da altri antichi documenti risulta che, contemporaneamente ai Drasa, risiedevano ad Ossero anche i Dragosetich. Da dati anagrafici di Neresine risalenti all'inizio del 1800, risulta anche che Domenico Rucconich di Neresine sposò Maria Dragosetich andando ad abitare a Ossero; poi rimasta vedova, la Dragosetich si risposò, nel 1824 (all'età di 31 anni) con Antonio Zorovich ancora di Neresine, andando ad abitare a Neresine al N° civico 99. Dalla ricostruzione dell'assetto urbanistico del paese e dall'individuazione di numeri civici delle case dell'epoca, Antonio Zorovich apparteneva alla famiglia dei Suievi (Sule), la più ricca famiglia di Neresine, quindi anche la Dragosetich molto probabilmente apparteneva a famiglia molto benestante.

9. Tra le antiche carte ritrovate, è stato possibile ricostruire qualche pezzo di storia personale degli antenati, tra cui vale la pena di ricordare quella di Giovanni Rucconich, pronipote del padre guardiano del convento dei frati Antonio Rucconich (1721-1807?), educato nel convento dal prozio, ed essendo intellettualmente molto dotato, era diventato l'amministratore generale dei beni del convento. Giovanni Rucconich fu anche per molti anni il gestore dell'amministrazione pubblica del paese, egli realizzò nel 1827 il primo censimento delle "anime" (600 abitanti), il censimento delle case con dettagliata elencazione degli abitanti e relativi dati anagrafici; nel 1828 realizzò anche il censimento agricolo del territorio del paese con specifico conteggio degli alberi di ulivo esistenti (9.398). Purtroppo Giovanni Rucconich, fu assassinato verso la metà del XIX secolo a Ossero, il giorno della festa patronale di S. Gaudenzio da alcuni osserini, che lo gettarono dalle alte mura facendolo precipitare sugli scogli sottostanti, per loschi motivi d'interesse (probabilmente in quanto amministratore generale dei beni del convento dei frati).

10. In una supplica dei primi anni del 1800, indirizzata dai rappresentanti della popolazione all'Imperatore d'Austria, tesa ad ottenere la permanenza dei frati a Neresine, si legge: - "… per la scarsezza di Religiosi (intesi come preti diocesani), in questo suburbio della città di Ossero nominato Neresine, necessitati sono stati li nostri antenati d'introdurre in esso suburbio un monastero di otto religiosi dell'Ordine de' Minori Osservanti di S. Francesco, per la coltura spirituale di questa popolazione. E scorgendo per questo popolo sempre più necessari qui li detti religiosi per l'adempimento de' Legati di Messe dai nostri antenati lasciati, ove nella loro chiesa soltanto in questo paese, due miglia distante dalla città stessa, tumulati vengono li nostri cadaveri; assistono questi alle sacramentali confessioni, all 'infermi di un solo cappelan Curato che qui esiste tra le case disperse per le campagne, ed altri benefici spirituali che da essi riceviamo… Noi dunque Capi di questo popolo di Neresine d'Ossero, udite anche le fervorose istanze dello stesso, e noi tutti ben volentieri prostrati ai Piedi di sua Sacra Regia Apostolica Maestà, umilmente imploriamo la conferma qui de ' stessi religiosi a tenore di prima. "

11. Il Glagolito è una lingua veteroslava, inventata e introdotta in alcune nazioni slave dai santi evangelizzatori Cirillo e Metodio nel IX secolo. Il clero slavo della Moravia ebbe a quel tempo la concessione papale di usare tale lingua invece del latino, in quanto il popolo ed i preti di cristianesimo recente, erano troppo incolti per poter usare il latino nelle funzioni religiose. [34]

I preti glagoliti nel corso del medio evo furono espulsi dalla Moravia, alcuni si installarono in Dalmazia, trovando qualche appoggio presso le popolazioni slave di recente immigrazione. Nei secoli successivi, nonostante l'esistenza di validi seminari e di preti esperti di latino, che rendevano superflua li e altrove l'antica concessione sull'uso del glagolito, parte del clero croato ancora conservava questa lingua in opposizione al latino, intendendo la concessione un diritto da mantenere comunque. L'uso del glagolito nei riti religiosi serviva loro per sostenere e rinforzare politicamente l'appartenenza all'etnia slava di interi abitati, anche se tale lingua non era compresa e conosciuta dalla popolazione. Nel XIX secolo il glagolito era praticamente scomparso ovunque, tranne che nella diocesi di Veglia. Alcuni preti e monaci slavi, sulla scia delle lotte nazionali tra slavi e italiani, iniziate verso la seconda metà del XIX secolo, tentarono, col consenso (o ordine) del vescovo di Veglia, di imporre l'uso del glagolito anche nelle isole di Cherso e Lussino, senza peraltro riuscirvi, per la tenace opposizione della popolazione.

12. Le informazioni sulle varie contrade sono ricavate da alcuni documenti, tra cui dei manoscritti originali, costituiti dai certificati di morte di tutti i deceduti a Neresine dal 1830 al 1860, scrupolosamente compilati, con tutti i dati personali, la contrada e numero di casa dell'abitazione, e la causa di morte. I certificati sono stati redatti per uso ufficiale di registrazione anagrafica da Giovanni Ghersan, su incarico del parroco di Ossero (che aveva funzioni di pubblico ufficiale). Il Ghersan era anche il sacrista (sacrestano) della Canonica di Neresine, ed era stato ufficialmente riconosciuto nelle sue funzioni dall'autorità governativa di Lussinpiccolo, e da questa regolarmente retribuito. I certificati da lui compilati, erano firmati, oltre che col suo nome e cognome, anche col titolo "professionale" di "Visitator de' morti".

13.I Sule, persone dotate di buona istruzione (capitani di lungo corso, medici, ecc.), furono i primi grandi commercianti del paese; essi comperavano dai contadini locali ogni tipo di mercanzia, che poi rivendevano nel mercato internazionale di allora. Le prime attività commerciali che intrapresero furono: l'acquisto intensivo da ogni parte delle isole di foglie d'alloro, bacche d'alloro e salvia ed il loro immagazzinamento, per poi rivenderle alle industrie di lavorazione in Austria e Germania. Per questo scopo costruirono lungo il porto del paese vari edifici per lo stoccaggio delle merci, appunto i magazzini, da cui derivò il nome "Magaseni" del porto stesso. Costruirono anche il più grande torchio del paese, quello appunto di Magaseni. Successivamente organizzarono ogni tipo di commercio: l'acquisto e rivendita di legname da ardere (ifassi) e dei prodotti di produzione locale, come formaggi, lana, olio, ecc. Organizzarono per primi anche l'acquisto, come grossisti, delle merci e dei prodotti finiti necessari alle attività del paese. La sempre crescente domanda di legname da ardere da parte delle industrie veneziane del vetro e da parte dell'intera area veneziana, per le esigenze del riscaldamento invernale delle abitazioni civili, li spinse, per primi in paese, a dotarsi, in proprio, di una piccola flotta di navi, per il trasporto del legname e delle altre mercanzie, in arrivo ed in partenza.

14. Trattasi del veliero denominato Màriza di 120 tonnellate di portata, poi ribattezzato nel 1923 Absirtides, in cui è stato installato un motore "Satima a testa calda", di dieci cavalli di potenza. Il bastimento con quel piccolo motore riusciva a fare 3,5 nodi di velocità, propulsore che era utilissimo nelle lunghe bonacce estive del golfo di Venezia e per le manovre di attracco nei porti, specialmente in quello di Venezia. Prima dell'evento dei motori le manovre di attracco erano fatte con l'ausilio della passera di bordo (di solito un robusto caicio aperto di circa quattro metri o poco più, attrezzato per essere spinto da robusti remi), che veniva utilizzata per portare le zime (cime) a terra, ma soprattutto per rimorchiare il veliero dentro il porto di attracco. Particolarmente faticoso era l'approdo nel porto di Venezia: per portare la nave dall'imboccatura del Lido fino alle bricole della Salute, o alle Zattere, consueto posto di attracco delle barche di Neresine, bisognava aspettare, prima la marea favorevole e poi rimorchiarla con la passera spinta da due vogatori, per tutto il lungo percorso, fino al posto di ormeggio. La passera veniva anche utilizzata, nelle lunghe bonacce estive, per rimorchiare la "barca" verso le zone di mare, che manifestavano segni di qualche parvenza di brezza.

15. In merito all'armamento navale, questa attività, negli anni dalla fine della prima guerra mondiale fino all'inizio della seconda, ebbe uno sviluppo straordinario, e coinvolse intensamente pressoché tutta la popolazione, ben poche erano le famiglie che non fossero cointeressate nella gestione di una nave, come armatori o caratisti. Con l'introduzione della propulsione a motore, iniziata attorno al 1920, il volume di affari del settore navale ebbe un incremento rilevante, per l'aumento dell'intensità dei traffici, dovuto alla maggiore speditezza della navigazione, che non doveva più sottostare ai capricci del vento. La richiesta di legname da parte di tutta l'area veneziana, divennne sempre maggiore, anche per l'aumentata regolarità delle consegne dei carichi. A seguito di ciò nacque anche un nuovo mestiere: "il motorista", personaggio del tutto nuovo ed al di fuori dei tradizionali canoni lavorativi paesani, ma molto importante, perché dalla sua perizia professionale dipendeva la maggiore o minore regolarità dei viaggi, quindi i migliori motoristi divennero quelli più richiesti e meglio retribuiti. I ragazzi del paese non mancavano mai di assistere alle manovre di attracco delle navi in porto, disputando animatamente tra di loro sulla perizia marinaresca dei vari capitani, nell’ormeggiare le "barche". Si potevano udire valutazioni "professionali" come: "el se gà armisà in riva vecia con solo quattro colpi de avanti e zinque de indrio, …e con la prova in fora"; oppure: "per armisarse soto la Comun, el ga dà fondo davanti el garofulin, poi el se gà girà con tre de avanti adagio e quatro de indrio meza, e i ga [35] butà le zime in tera senza la pasara ". I ragazzini del paese riconoscevano ogni "barca" dal rumore del motore; quando passavano la Cavanela di Ossero e iniziavano la navigazione in Tiesni, verso Neresine, essi, senza ancora scorgere la nave, già preannunziavano: "questo sè el Do Fradei (Due Fratelli), oppure "questo sè el Calandić (San Giuseppe), oppure ancora "la Madonna del Rorsario, el Tacito, el San Antonio", e così via, e raramente si sbagliavano.

16. Le case di campagna di Bora, molto probabilmente hanno origini più antiche, perché vari ruderi sparsi qua e là per la campagna, alcuni nomi di loghi, come Stuari Stuàn, Stagnìna, Selò ed altri simili e documenti del XVI e XVII secolo ritrovati, che fanno riferimento alle stanze di Garmosal, Potok, Mical e Murtovnik, certamente confermano tali insediamenti. Gli stuagni o stanze (o anche stanzie) di Bora citate, tuttavia sono, o ricostruzioni di vecchie case o costruzioni più recenti, come si può evincere dalla tipologia architettonica e dal loro stato di conservazione.

17. Dai documenti ritovati nei vari archivi, risulta che l'incremento della popolazione ha avuto il seguente andamento: nel maggio 1827 gli abitanti di Neresine erano 600; 1000 nel 1850; 1047 nel 1880; 1180 nel 1890; 1308 nel 1900; 1665 nel 1910: Nel 1921 fu fatto un accurato censimento da cui emerge che Neresine aveva 1704 abitanti, Ossero 405, San Giacomo 279 e Puntacroce 201. Infine nel 1940 Neresine da solo raggiungeva i 2000 abitanti.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati. 18. In merito all'istituzione della scuola elementare pubblica italiana e croata, ci fu un acceso dibattito tra la popolazione del paese, di cui sono rimaste le testimonianze documentali nei verbali delle sedute comunali, riguardanti la questione e in altri resoconti dell'epoca. Da tali documenti e dal racconto dei nonni, emerge che quando il Concistoro Vescovile di Veglia, da cui dipendeva la scuola di Neresine, decise con decreto del luglio del 1846, di abolire la scuola italiana in paese e di istituire al suo posto quella croata, successe una rivoluzione, la cittadinanza si ribellò in modo deciso, provocando qualche preoccupazione alle autorità governative, in merito al mantenimento dell'ordine pubblico. Ci furono molte riunioni in Comune sulla questione, tutte verbalizzate. Il sindaco del paese Giovanni Bracco, portavoce di quelli che volevano la scuola italiana, portò il forte argomento del grande e rapido sviluppo dell'armamento navale, richiedente la conoscenza della lingua italiana per tutti gli operatori del nuovo settore, perché questa era ovunque nell'Adriatico e in gran parte del Mediterraneo, l'unica lingua del mondo navale e dei commerci ad esso legati, quindi essenziale per il crescente sviluppo del paese. Sulla base di queste considerazioni fu inoltrato ricorso al Concistoro Vescovile, con la firma anche di tutti i "notabili". Alla fine il Concistoro decise, nel 1858, anche dietro sollecitazione dei responsabili dell'ordine pubblico locale, che assieme alla lingua croata si continuasse l'insegnamento anche della lingua italiana, fu tuttavia mandato un Dispaccio dal Ministero del Culto e della Pubblica Istruzione di Vienna, con severa raccomandazione ai maestri: "che veruna edizione dell'opera Le mie prigioni di Silvio Pellico, non sia adoperata nelle scuole quale libro d'esercizio per apprendere la lingua italiana". Le ingiunzioni del Concistoro di istituire la scuola croata rimasero comunque lettera morta per alcuni anni, perché il maestro, tra l'altro, non conosceva bene il croato. Le cose nella scuola bilingue andarono avanti in modo abbastanza raffazzonato, finché, dopo il passaggio della scuola sotto la giurisdizione del Consiglio Distrettuale di Lussino, nel 1895 furono istituite due scuole separate, una italiana ed una croata. Le autorità del Consiglio Distrettuale decisero anche che le lezioni della scuola croata si svolgessero nelle ore pomeridiane, usufruendo di un'aula della stessa scuola italiana. Questa decisione parve alla maggioranza della popolazione come un ulteriore impedimento al regolare funzionamento della scuola italiana, quindi insorse con decisione, impedendo con la forza l'ingresso del maestro croato Cattarinich e dei suoi alunni nella scuola. A seguito di ciò si svolsero laboriose trattative con le stesse autorità, arrivando alla fine alla decisione di dotare la scuola croata di un nuovo e separato edificio scolastico, anche con il contributo economico delle stesse casse comunali. Fu scelta, perché disponibile, la casa in riva al porto di Alessandro Camalich, tuttavia per adattarla alle nuove esigenze furono necessari alcuni lavori, che richiedevano un certo tempo per essere eseguiti, quindi fintanto che la nuova sede non fosse pronta bisognava trovare una sede provvisoria. Il Consiglio Distrettuale decise di adibire a questo scopo un locale dell'edificio comunale. Il Comune si oppose energicamente a queste decisioni, e nella seduta di Rappresentanza del 26 aprile 1898 emise la delibera n° 568 che dice: — "La Rappresentanza comunale, udite le esaurienti comunicazioni del sig. podestà Giacomo Salata, ne approva con lode il contegno energico tenuto di fronte agli atti dell'autorità scolastica e politica nella questione del collocamento della scuola croata di Neresine, contro i quali eleva solenne protesta; ringrazia l'Eccelsa Dieta che se ne occupò rilevando le ragioni del comune e l'inclita Giunta provinciale ed i Suoi delegati che prestano aiuto alla Deputazione comunale; approva i ricorsi prodotti all'Eccelsa Corte di Giustizia in affari amministrativi per tale collocamento, all 'Eccelso I. R. Ministero del Culto e della Pubblica Istruzione contro lo scioglimento del Consiglio scolastico locale, illegale nelle forme e ingiustificato nella sostanza, e all'Eccelso I. R. Consiglio Scolastico Provinciale contro l'imposto risarcimento dell 'indennizzo dell 'alloggio al maestro della scuola croata suddetta; riconfermando ipropri deliberati d.d. 28 maggio e 19 dicembre 1897, fa voti, che lasciato l'edificio scolastico comunale ad esclusivo uso della scuola italiana, siccome la necessità evidente e molteplici riguardi richiedono, sia trasportata con tutta sollecitudine la scuola croata nella casa Camalich, previ lavori d'adattamento più necessari, per li quali viene data facoltà alla Deputazione comunale di trattare col proprietario e di chiedere poi l'approvazione della Rappresentanza prima del contratto, ciò tutto affinché sia ripristinata presso ambedue le scuole l'istruzione intera e sia fatto cessare l'odierno stato di cose, dannose ad entrambe le scuole. Deplora che in onta alla precisa disposizione [36] dell'articolo 1 della legge provinciale 11 febbraio 1873 n° 11 B.L .P. e alle sollecitazioni della podestaria, non siasi peranco ridata al comune quella ingerenza, che nell 'amministrazione scolastica del suo circondario la legge gli accorda e per gli ingenti sacrifici fatti a vantaggio della pubblica istruzione gli compete; ed esprime la speranza che infuturo nelle questioni scolastiche si avrà maggiore riguardo della legale Rappresentanza della popolazione.

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

Il sig. podestà viene incaricato di comunicare questi deliberati all'Eccelso I. R. Ministero del Culto e dell'Istruzione col tramite dell'Eccelso I.R..Consiglio scolastico provinciale e separatamente, anche alla Giunta provinciale. "Malgrado tutte le proteste, anche solenni, l'intenzione politica del governo di favorire in tutti i modi la scuola croata ebbe il sopravvento, decidendo comunque di installare la classe della scuola croata nell'edificio cumunale. Il commissario politico Osti, rappresentante dell'Autorità Scolastica Distrettuale, accompagnato da un plotone di gendarmeria, chiesta la chiave al podestà, ebbe la seguente risposta: "Protesto ancora una volta nell'interesse morale-educativo di ambedue le scuole e non acconsento in nessun modo di cedere la stanza che si reclama. La chiave è qui, io non la cedo che con la forza." Il commissario politico dovette ricorre alla forza e le chiavi vennero consegnate.

Alla fine della controversia la scuola italiana riprese regolarmente l'attività didattica nell'edificio comunale di origine, e la scuola croata nella nuova sede in riva al porto.

Dopo il passaggio delle isole alla Jugoslavia, le autorità locali fecero installare una lapide commemorativa nell'edificio dell'ex scuola croata al porto, tuttora esistente.

19. Dagli archivi della scuola italiana di Neresine sono emersi molti altri dati interessanti:

Anno scolastico 1900-1901.

  • Maestri: Roberto Tonolli e Maria Dibarbora.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 177, di cui 95 maschi e 85 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 39, di cui 21 maschi e 18 femmine.
  • Totale complessivo: 216. (Nda. Gli alunni "obbligati" erano quelli che ripetutamente bocciati, non avevano conseguito, fino l'età di 14 anni, la licenza della quinta classe elementare).

Anno scolastico 1901-1902.

  • Maestri: Tonolli e Dibarbora.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 37, di cui 31 alla scuola italiana e 6 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 179, di cui 97 maschi e 82 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 31, di cui 14 maschi e 17 femmine.
  • Totale complessivo: 210.

Anno scolastico 1902-1903.

  • Maestri: Tonolli e Dibarbora.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 38, di cui 31 alla scuola italiana e 7 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 179, di cui 97 maschi e 82 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 37, di cui 19 maschi e 18 femmine.
  • Totale complessivo: 216.

Anno scolastico 1903-1904.

  • Maestri: Tonolli e Dibarbora; sottomaestro Arturo Dorigatti.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 42, di cui 29 alla scuola italiana e 13 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 154, di cui 81 maschi e 73 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 46, di cui 22 maschi e 24 femmine.
  • Totale complessivo: 200. Dopo l'elezione del Patriarca Sarto di Venezia, grande amico di Neresine e di alcuni Neresinotti, alla Soglia Papale col nome di Pio X, il corpo docente della scuola italiana, a nome della scolaresca, mandò un telegramma di riverente augurio al nuovo papa per il suo genetliaco, che rispose: "Dirigenza Scuola Italiana - Neresine - Il Santo Padre, commosso per gli auguri espressigli, ringrazia e benedice con tutta l'effusione del cuore codesto corpo docente e tutti gli scolari."

Anno scolastico 1904-1905.

  • Maestri: Tonolli e Dibarbora; sottomaestro Arturo Dorigatti.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 28, di cui 21 alla scuola italiana e 7 alla scuola croata.
  • Ulteriori 3 alunni passarono durante l'anno scolastico, dalla scuola croata a quella italiana.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 146, di cui 73 maschi e 73 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 44, di cui 23 maschi e 21 femmine.
  • Totale complessivo: 190. La "Lega Nazionale" apre la nuova scuola a S. Giacomo, alleggerendo quella di Neresine di 36 scolari.

Anno scolastico 1905-1906.

  • Maestri: Tonolli e Scoppinich, sottomaestro Pio Malis.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 42, di cui 31 alla scuola italiana e11 alla scuola croata.
  • Ulteriori 22 alunni passarono durante l'anno scolastico, dalla scuola croata a quella italiana.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 157, di cui 82 maschi e 75 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 40, di cui 16 maschi e 24 femmine.
  • Totale complessivo: 197.

Anno scolastico 1906-1907.

  • Maestri: Tonolli e G. Rucconich, sottomaestro G. Salata.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 35, di cui 29 alla scuola italiana e 6 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 166 di cui 79 maschi e 87 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 42, di cui 17 maschi e 25 femmine.
  • Totale complessivo: 208.

Anno scolastico 1907-1908.

  • Maestri: Tonolli e T. Malis, sottomaestro G. Salata.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 29, di cui 18 alla scuola italiana e 11 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 153 di cui 76 maschi e 77 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 41, di cui 21 maschi e 20 femmine.
  • Totale complessivo: 194.

Il fattaccio: - A seguito di uno Speciale Decreto dell'I. R. Ministero del Culto e dell'Istruzione di Vienna, emesso nel 1897, che stabiliva che nella scuola italiana di Neresine anche l'istruzione religiosa dovesse essere impartita nella lingua della scuola, la Direzione Didattica sollecitò ripetutamente il frate insegnante in tal senso, il quale, seguendo anche le direttive del vescovo Mahnich di Veglia, si rifiutò di aderire alle ingiunzioni dell'Autorità Scolastica, per cui fu espulso dalla scuola. A seguito di ciò l'I. R. Consiglio Scolastico Provinciale conferì l'abilitazione all'insegnamento sussidiario della religione ai docenti Tonolli e Malis. La reazione del Vescovo non si fece attendere; [37] e si concretizzo con la scomunica dei due maestri e delle autorità provinciali che avevano concesso l'abilitazione, proibendo al clero di avere contatti con gli scomunicati. Non sono state trovate carte nell'archivio della scuola che ci facciano sapere come si sono evoluti gli eventi, ma da altri documenti rinvenuti negli archivi Vaticani, risulta che il Papa Sarto, Pio X, sia intervenuto personalmente e duramente nei confronti del vescovo di Veglia, per redimere, tra altre questioni, anche quella della scuola di Neresine. Il Papa successivamente rimosse dalle sue funzioni il vescovo Mahnich richiamandolo a Roma "per altri incarichi".

Anno scolastico 1908-1909.

  • Maestri: Tonolli e T. Malis, sottomaestra Editta Marotti.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 31, di cui 24 alla scuola italiana e 7 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 142 di cui 69 maschi e 73 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 44, di cui 23 maschi e 21 femmine.
  • Totale complessivo: 186.

Anno scolastico 1909-1910.

  • Maestri: Tonolli e P. Lorenzoni, sottomaestro G. Rucconich.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 40, di cui 31 alla scuola italiana e 9 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti: 146 di cui 67 maschi e 79 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 46, di cui 23 maschi e 23 femmine.
  • La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati. Totale complessivo: 192.

Anno scolastico 1910-1911.

  • Maestri: Tonolli e P. Lorenzoni, sottomaestro G. Rucconich.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 40, di cui 31 alla scuola italiana e 9 alla scuola croata.
  • Altri 2 alunni passarono durante l'anno scolastico, dalla scuola croata a quella italiana.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti:151 di cui 69 maschi e 82 femmine; a
    lunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 51, di cui 25 maschi e 26 femmine.
  • Totale complessivo: 203

Anno scolastico 1911-1912.

  • Maestri: Tonolli e P. Lorenzoni, sottomaestro G. Salata.
  • Nuovi alunni iscritti alla classe prima: 34, di cui 25 alla scuola italiana e 9 alla scuola croata.
  • Alunni dai 6 ai 12 anni frequentanti:151 di cui 65 maschi e 86 femmine; alunni "obbligati" dai 12 ai 14 anni: 40, di cui 19 maschi e 21 femmine.
  • Totale complessivo: 191.

La Direzione scolastica di quest'anno era composta da: Gaudenzio E. Marinzulich (Zanettićevi), Preside del Consiglio Scolastico Locale. Eliodoro (Elio) Bracco, Referente scolastico. Roberto Tonolli da Aldeno (Trento), maestro superiore definitivo di seconda categoria. Pia Lorenzoni da Rallo (Trento), maestra definitiva di terza categoria. Gaudenzio Salata da Ossero, sottomaestro provvisorio abilitato.

A proposito della scuola di Neresine, vale la pena sottolineare che, tra le varie "inesattezze" commesse da Enver Imamovich, nel suo libro "Nerezine na otoku Losinju", c'è anche una che riguarda la scuola, ossia una vecchia e bella fotografia di gruppo, raffigurante tutti gli scolari della scuola popolare mista di Neresine, incluso l'insegnante che non voleva o non sapeva insegnare la lingua croata, fatta passare come foto di gruppo della sola scuola croata, che addirittura ancora non esisteva in quanto tale. Si dilunga anche, in più pagine, a nominare con nome e cognome ciascun ragazzo della foto, ignorando che circa il 90% di quelli menzionati era iscritto alla sezione italiana, come dai documenti dell'archivio della scuola ampiamente riscontrato.

Altra "inesattezza" dell'ignaro Imamovich, è la parte, invero molto estesa, in cui si compiace di trascrivere una sfilza di filastrocche e poesiole insegnate ai bambini della scuola elementare croata, fatte passare per i canti del folclore paesano.

20. Si racconta che il pulpito della chiesa, edificato in legno finemente lavorato con figure di riferimento religioso, fosse stato costruito dall'artigiano "marangon" Domenico Cavedoni, molto rinomato per la sua perizia professionale e per la gelosia dei segreti della sua arte. Per scolpire il pulpito e per realizzare le opere più difficili, lavorava di notte e da solo, alla luce di "potenti" lumi a petrolio, anche perché di giorno doveva occuparsi del suo attivo laboratorio e dei numerosi garzoni che vi lavoravano. Si dice che per i lavori notturni in chiesa avesse consumato, appunto per l'illuminazione, due latte di petrolio, della capacità di circa venti litri l'una.

21. La tomba di famiglia di Domenico Zorovich (Sule), è stata posta all'esterno del cimitero, a seguito dei gravi contrasti politici che lo stesso Domenico Zorovich ha avuto coi frati croati, a seguito della forzata introduzione della lingua croata, in alcune preghiere del rituale della chiesa, in sostituzione del latino. Domenico Zorovich fu uno dei più strenui sostenitori del mantenimento del latino, a tal punto che, pur essendo credente cattolico convinto, in letto di morte rifiutò l'assistenza dei frati croati! Testimonianza di ciò è il necrologio fatto stampare dalla famiglia alla sua morte, rinvenuto tra vecchie carte, che dice: "Splenda l'eterna pace all'anima di Domenico Zorovich da Neresine — Capitano Mercantile, che sul cadere del giorno 6 di gennaio 1910, a soli 67 anni, placidamente spirava — O Dio di pietà e misericordia, accogli pietoso l'anima del tuo servo Domenico, che cattolico per principi ed educazione, si allontanava dalla Tua Casa solo quando, contro ogni diritto di storia e di giustizia, s'introdusse la politica abolendo la lingua latina nelle sacre funzioni. Il suo vivo attaccamento alla lingua universale della Chiesa Cattolica gli sia messo fra le opere buone, assieme al vivo desiderio che avea, nei supremi istanti, di ricevere i conforti religiosi."

22. Tra le varie carte ritrovate c'è il necrologio, fatto stampare dal maestro della scuola elementare di Neresine, Roberto Tonolli, per commemorare gli ex allievi della scuola italiana, caduti in guerra che dice: - "Anime pietose e credenti spargete fiori, lacrime epreci espiatrici, sulle fosse ignorate e lontane dei miei discepoli della Scuola Popolare Italiana di Neresine, Isola di Lussino, che divelti quali tenere piante dal tremendo uragano della guerra mondiale, da [38] questo mondo di miserie, salirono a Dio:

  • Gianni Zuclich d'anni 27, morto a Vienna 1918.
  • Giuseppe German d'anni 19, morto ad Insbruk 1915.
  • Venanzio Soccolich d'anni 23, morto in mare 1918.
  • Martino Buccaran d'anni 26, morto a Neresine 1919.
  • Antonio Sigovich d'anni 28, morto a Sebenico 1919.
  • Romano Gercovich d'anni 19, morto a Bressanone 1918.
  • Eugenio Bracco d'anni 22, morto in Galizia 1914.
  • Antonio Santulin d'anni 20, morto a Cornovitz 1917.
  • Giovanni Berichievich d'anni 20, morto nei Carpazi 1917.
  • Gaudenzio Salata, collega, d'anni 33, morto a Neresine 1919".

23. Nell'ambito dello sviluppo culturale di Neresine nel XX secolo, merita un ricordo Luigi Sigovich, da tutti conosciuto come Gigi. Il Gigi era una persona dotata di grande intelligenza, purtroppo all'età di tre anni fu colpito da una grave forma di rachitismo (come altri tre suoi fratelli), quindi è cresciuto in modo deforme, rattrappito su se stesso, superava di poco il metro d'altezza, pur avendo grandi mani (e testa) da longilineo. Fin da bambino ha vissuto come e con gli altri suoi coetanei in perfetta normalità, incurante della propria deformità. La sua grande personalità, la sua innata saggezza ed il suo spiccato senso dell'umorismo, anche autoironico, lo fecero diventare una specie di "leader" tra i suoi compagni. Ultimo di numerosi fratelli, per le restritezze economiche della famiglia, non potè frequentare altre scuole, oltre alle elementari del paese, dove comunque si distinse per profitto ed intelligenza; malgrado ciò, assetato di conoscenza, da autodidatta acquistò un consistente bagaglio culturale, di gran lunga superiore a quello che la sola scuola elementare gli aveva potuto dare. Dotato anche di grande modestia, non ostentava mai la sua superiorità intellettuale con gli altri, anzi, molto probabilmente non ne era nemmeno del tutto consapevole, tuttavia tutti ambivano alla sua amicizia ed era ricercato in ogni circostanza di socializzazione. Al gioco delle carte era il partner più richiesto, al gioco della morra era imbattibile, nelle "gangade" era sempre protagonista. Di professione faceva il ciabattino, la sua calzoleria nello stuagne Sigovićevo in Piazza, era diventata il club culturale del paese, e mentre lui continuava a lavorare al suo deschetto, intorno a lui c'erano sempre tre o quattro amici venuti per discutere su ogni argomento ed a scherzare. I suoi amici, quando avevano dei problemi, anche con la ragazza, ricorrevano a lui per consigli, consulenze o soltanto per conforto.

Una delle usanze del paese era quella di ingaggiare per una o più giornate un calzolaio, per fargli riparare tutte le scarpe rotte della famiglia, accumulatesi durante un intero anno di lavoro ed anche per fargli confezionare le scarpe nuove necessarie per il fabbisogno famigliare. Il contratto prevedeva che il calzolaio svolgesse il suo lavoro nella casa del cliente, in cui si recava la mattina, armato del proprio deschetto e del rusak (zaino) contenente tutti gli ordegni (attrezzi) del mestiere; il cliente, da parte sua, oltre al prezzo pattuito, doveva fornire anche il pranzo al lavorante. Il Gigi naturalmente era il calzolaio più richiesto. Mi ricordo da bambino, quando il Gigi veniva a lavorare a casa nostra, io per quelle giornate dimenticavo tutti i giochi e stavo tutto il giorno accanto a lui ad ascoltare affascinato i sui discorsi e probabilmente anche ad importunarlo coi miei.

Discutere col Gigi di argomenti importanti, con contenuto anche filosofico o politico, era un'esperienza indimenticabile, perché la sua infervorata razionalità dialettica, il sapiente modulare della profonda voce, affascinava e convinceva tutti. Anche alcuni turisti, intellettualmente dotati, giunti in vacanza in paese, avendolo conosciuto, sono rimasti affascinati dalla sua personalità e gli sono diventati grandi amici.

Questo ricordo del Gigi, oltre ad essere doveroso, è certamente condiviso da tutti i compaesani, ovunque si trovino nel mondo.

24. I marinai di Neresine che persero la vita con le loro navi per azioni belliche furono: Giuseppe Carlini (Carlich) a Civitavecchia durante un bombardamento ed il conseguente affondamento del San Francesco, di cui era anche caratista (1943); Fruttuoso (Frutto) Camalich, comandante e caratista, durante l'affondamento in Grecia della sua nave Nuovo Impero (1943); Andrea Ollovich, durante l'affondamento di una nave da guerra in cui era imbarcato, lasciando sola la giovane moglie, da poco sposata, in attesa della prima figlia; Marino Camalich, comandante e proprietario del San Vincenzo, sequestrato ed ucciso in Dalmazia dai partigiani comunisti di Tito (1944).

Altri giovani neresinotti morti in guerra o per causa di guerra furono: Antonio (Toni) Rocchi Capitano di lungo corso, Marino Rocchi marinaio, Marino Matteoni marinaio, Lino Bracco marinaio, Willy Sattalich ufficiale esercito (Russia), Mario Zorovich (Rossich) (Germania), Giuseppe Bracco (Jose Mercof) motorista, Antonio (Toni) Zuclich, Giuseppe Marinzulich (Jose Ambrosich) marinaio, Maurizio (Izio) Marinzulich.

25. Le navi di Neresine scampate alla guerra furono soltanto sette, di cui sei confiscate e nazionalizzate dol governo jugoslavo, ossia: Madonna del Rosario, Ricordo, Carmen, Daniele Manin, Eugenio C, Anita, mentre la Rita, rimasta in Italia, ha continuato a navigare nel Mediterraneo fino al 1953, anno in cui naufragò sulle coste rocciose della Corsica, durante una tempesta.

26. A proposito dei beni della chiesa, trattasi delle proprietà del Convento dei Frati, consistenti nel torchio (il frantoio per macinare le olive e produrre l'olio) sito nel porticciolo, del cosiddetto "bosco dei frati" e della vigna e pineta prospicienti la chiesa. Questi terreni sono stati assegnati all'azienda statale "Losinska Plovidba ", che ne ha usufruito per costruire un campeggio. Quando dopo la guerra di secessione jugoslava del 1992 e la costituzione dello Stato indipendente di Croazia, i beni statali sono stati privatizzati, stranamente i terreni del convento e relativo campeggio sono diventati di proprietà della società privata "Losinska Plovidba", di cui sono diventati a loro volta proprietari [39] alcuni dirigenti della vecchia ex azienda statale. Invano i frati hanno chiesto e continuano a chiedere la restituzione dei terreni confiscati; secondo il nuovo stato di diritto, pare che i nuovi proprietari dei beni, abbiano legittimità legale di tenerseli. Attraverso lo stesso meccanismo "legale" anche il Municipio, l'edificio della vecchia scuola elementare, la Cassa Rurale ed anche lo squero, sono diventati proprietà privata. In merito al torchio (Tuorich) dei frati, dopo la confisca, tutti i macchinari sono stati smantellati e sparsi nei dintorni, e ciò per utilizzare l'edificio come magazzino o meglio ricettacolo d'ogni sorta di rottame e vecchie cianfrusaglie, di fatto è stato utilizzato da due privati cittadini del rione Frati, come loro magazzino, senza per questo spendere un solo pensiero per la manutenzione e conservazione dell'edificio; infatti, dopo tanti anni d'incuria, il tetto ed il piano intermedio sono crollati, gli infissi delle porte e finestre sono stati divelti; quello che è stato il simbolo di una storia e di una nobile tradizione del paese e che per più trecento anni ha egregiamente resistito alle intemperie, alle raffiche rabbiose della bora ed alla vetustà, nulla ha potuto contro la nuova cultura instauratasi in paese. A proposito di cultura, è doveroso dire che, il neresinotto Aldo Sigovini, sensibilmente toccato dal forte degrado del tuorich dei frati, ha promosso il suo restauro, utilizzando dei finanziamenti, previsti da una legge della Regione Veneto, di cui era anche funzionario, la n° 15/94, che prevede la tutela e valorizzazione della cultura veneta in Istria e Dalmazia. Il finanziamento, fornito al Comune di Lussinpiccolo, attuale proprietario dell'edificio, è stato parzialmente utilizzato per la ricostruzione del tetto (con coppi moderni, stile villetta al mare), la restante parte dovrebbe essere utilizzata, si spera presto, unitamente ad un contributo da parte dello stesso Comune, per il completamento del restauro.

27. Per dovere storico e per onorare i nostri compaesani che hanno subito la galera, e più degli altri hanno patito violenze e torture, ci sembra giusto ricordarli: - Domenico Camali armatore e Gilberto Buccaran segretario comunale, arrestati il giorno dopo l'occupazione, per delazione di persone note e dopo poco uccisi, probabilmente nelle foibe istriane. Giovanni Menesini, sindaco del paese, arrestato assieme ai due precedenti, ma fatto riportare a Neresine dal presidente dell’Odbor (nuovo sindaco) Ivan Zorovich (Scrivanelo) per effettuare la consegna della contabilità comunale e di altre documentazioni amministrative, è stato pretestuosamente da lui trattenuto per alcuni giorni in paese, facendo in modo che perdesse il posto nella barca in partenza per le foibe; ha avuto quindi salva la vita, grazie ai ritardi artatamente procurati. Giovanni Garbassi (Garbaz) arrestato e detenuto per un certo tempo per motivi sconosciuti. Silvestro (Silvio) Bracco, arrestato e torturato per dieci giorni, nell'intento di fargli confessare inesistenti loschi traffici "politici", che secondo le autorità paesane dell'odbor, egli conduceva durante i suoi viaggi a Trieste con la piccola barca Rigel, di sette metri di lunghezza. Giuseppe (Bepi) Rucconich e Giovanni (Nino) Cicin detenuti per alcuni mesi in prigione senza processo, dietro delazione di un compaesano, confidente della polizia politica, per reati non noti. Anna Bracco ventunenne, arrestata e torturata per oltre dieci giorni dalla polizia politica, per aver accompagnato a Trieste alcuni ragazzi del paese, affidatili dai genitori, affinché potessero espatriare in Italia. Domenica Camali (vedova di Pasquale dei Pasqualignevi), imprigionata e picchiata per ragioni non note. Bortolo Rucconich, portato a Volosca ed incarcerato per 40 giorni senza motivo noto. Renato Bracco, imprigionato. Marino Sigovich, incarcerato alcuni mesi per ragioni non note. Rino Bonich incarcerato per ragioni non note. Beniamino Soccolich (Begnamo Castelanić), incarcerato perché padre di Piero e Giuseppe (Bepićiu), fuggiti con la barca Menka di cui si parla in questa storia. Dolores (Dora) Castellani-Boni, incarcerata perché suocera di uno di quelli fuggiti, assieme a moglie e figlio piccolo, con la Menka. Nives Rocchi-Piccini incarcerata perché moglie di uno dei fuggiti con la Menka. Degli altri compaesani incarcerati si parla nella sottostante nota 30.

28. In merito alla barca Zora, poi ribattezzata Seca, per verità storica sembra giusto fornire altre precisazioni. Trattasi della barca in costruzione presente nello scalo piccolo dello squero, ma già ultimata, confiscata, assieme allo squero stesso, ai proprietari Camali (Costantignevi), dichiarati "nemici del popolo". Poco dopo, alcuni dei fratelli Zorovich (Ferdinandovi), sono diventati i nuovi proprietari della barca, dietro formale (anche se non sostanziale) acquisto dallo Stato Jugoslavo.

29. La storia di questo viaggio è stata raccontata in un bel libro, intitolato "La mia Odissea col mare", scritto dalla moglie del minore dei tre fratelli Zorovich fuggitivi, Nori Boni Zorovich e recentemente pubblicato dalla Edizioni Segno - Tavagnacco (UD).

30. La condanna alla dura galera di questi neresinotti, arrestati il 29 marzo 1949, fa parte a pieno titolo della storia del paese, non solo perché nei cinquecento anni di esistenza di Neresine non si erano mai verificati avvenimenti di questo genere, ma soprattutto perché conseguenti a totale assenza di motivazioni giuridicamente sostenibili; infatti, come si legge nella motivazione scritta della condanna, emessa dal tribunale di Lussinpiccolo, ed in possesso dei superstiti, essi sono stati riconosciuti colpevoli di tramare la fuga in Italia, e le prove di questo reato erano le testimonianze e delazioni di alcuni compaesani, compiacenti al regime (tutti noti). Non solo, ma per rigore storico bisogna anche dire, che i capi politici del paese manifestarono esplicitamente il loro compiacimento verso le condanne, a tal punto, che uno di loro si premurò di andare ad Ossero, il giorno in cui i prigionieri venivano trasportati nelle carceri "rieducative" di terra ferma, per impedire ai parenti, accorsi per un ultimo saluto ai loro cari, di avvicinarsi alla nave, durante la regolamentare sosta in quello scalo. Il dovere storico ci impone anche di ricordare i nomi di questi sventurati e la pena a cui furono condannati: Roberto (Bertino) Berri a cinque anni, Quirino Marinzulich (Chirin [40] Ambrosić) a 4 anni e 4 mesi, Latino Bracco a tre anni, Domenico (Eto) Boni a 15 mesi, gli altri, ossia Giovanni (Nino) Soccolich (Bubgnić), Igino (Gino) Lecchich, Narciso Vescovich, Antonio (Toni) Linardich e Simeone (Sime) Buccaran a pene variabili da un anno ad alcuni mesi. Eto Boni e Nino Soccolich (Bubgnić), scontata la pena, furono mandati per altri 2 anni in uno speciale reparto "di rieducazione" dell'esercito jugoslavo, dove patirono sofferenze, ancora più gravi di quelle della sola galera. Merita una particolare menzione anche Giorgio Boni, di Dragosettich, uomo dimostratosi di grande personalità e dirittura morale, sposato con una donna di Neresine e da considerarsi di fatto compaesano a tutti gli effetti, che processato in altra sede per gli stessi motivi dei precedenti, fu condannato a 7 anni di galera; il malcapitato, nella convinzione di essere innocente interpose appello, così si beccò altri 7 anni! La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati. [41]

La facciata è molto semplice, con un'unica porta arcuata. Al centro dell'architrave, in un tondo circondato da una corona d'alloro, scolpito lo stemma Drasa; nel timpano vi finestrella orbicolare. Le finestrine oblunghe della parete sinistra sono gotiche, quella superstite destra a pieno arco.Nell'interno numerose lapidi sepolcrali sparse qua e là sul pavimento, delle quali ha sigillo egregiamente ed iscrizione consunti; parecchie contrassegnate sigla S. F. (San Francesco). Queste erano tombe di proprietà del convento nelle si concedeva sepoltura chi richiedeva, perché quando sorse chiesa alcuni defunti Neresine seppellivano essa. proposito nome monte che sovrasta il paese, alto 589 metri, come abbiamo visto, nei tempi più antichi chiamava Garbo, poi Ossero, probabilmente ricavato dalle prime cronache venete facevano riferimento alla città infine, dal 1945 Televrin, questo tutto nuovo, mai riscontrato né passato, nella tradizione orale tramandata dagli antenati.

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Created: Monday, March 19, 2007; Last Updated: Monday, May 02, 2022
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