Una sosta nel paese più alto d'Istria dove da tanto tempo mancano i profumi di uomini e animali

Mala Učka, la desolazione dell’abbandono

Mario Schiavato

Quante volte sarò passato da quel paese abbandonato durante le mie giornate da “magnachilometri”, durante quel mio solitario girovagare per i monti dietro casa? Mah... di certo un’infinità! Per raggiungere la vetta del Monte Maggiore con i suoi 1401 metri più i 4 della torretta belvedere costruita nel 1911 dal Club turistico di Abbazia. La lapide che ricordava l’evento murata sopra la porta d’entrata e scritta in italiano è stata logicamente divelta e la direzione dell’attuale Parco Naturale, pur efficientissima, non si è impegnata a rimetterla al suo posto! Andavo su da una parte o dall’altra, indifferentemente partivo da Apriano, da Abbazia, da Laurana per poi finire, oltre la vetta, magari al Lisina oltre l’Alpe Grande e il Sasso delle acque, o talvolta raggiungevo Ika lungo il Rio dei gamberi, o Moschiena lungo un altro torrente e non poche volte, nelle giornate lunghe e piene di sole, allungavo il passo per arrivare oltre il Perun, il Kremenjak, il Šikovac addirittura fino sul Sissol e poi correvo giù, raggiungevo Fianona per riuscire ad acchiappare l’ultimo autobus proveniente da Pola (allora non c’era la Ipsilon di oggi!) e tornare a casa col buio.

Alla ricerca di fossili

Conoscevo a menadito tutti i sentieri, (molti assieme all’indimenticabile amico Willy Petrić, pennello e barattolo di vernice in mano, li ho anche marcati), anche quelli più nascosti e abbandonati da ormai molti anni. Arrivare a Mala Učka (Piccolo Montemaggiore in italiano), il più alto paese dell’Istria, significava d’estate abbeverarsi alla fontana del... fascio – era di ghisa, costruita durante il ventennio al centro del paese –, ad agosto ingozzarsi di dolcissime ciliegie, in autunno raccogliere le more di rovo per la marmellata e, ai tempi in cui mia figlia frequentava la facoltà di biologia, cercare e raccogliere i fossili, che nei pressi del paesello sono molto numerosi. Dato che lavoravo alla domenica, era al lunedì che me ne andavo quasi sempre da solo, catturato di solito dai vasti cieli aperti, dalla ricca vegetazione che nessun altro monte affacciato all’Adriatico ne ha di uguale. Lo hanno dichiarato illustri biologi che sin dall’antichità sono passati da queste parti, compreso l’illustre Federico II re di Sassonia (vedi la lapide murata a Laurana).

Quando c’era anche una scuola...

Adesso a causa... dell’età e delle gambe malate devo scegliere un’altra strada per arrivarci. Arrivato magari con un autobus al passo del Poklon inizio la discesa verso l’Istria sulla vecchia serpentina che salta il Monte, tracciata come mulattiera già al tempo degli scambi tra Liburni e Istri, consolidata dai romani e fatta strada vera e propria, anche se il macadam, sotto Giuseppe II d’Austria (da qui appunto il nome di Giuseppina) nel 1785. Il primo picco che incontro è il Krog, dai fiumani normalmente chiamato Fortezza, che con i suoi conclamati 1000 metri esatti (anche se in effetti sono 1003). Più avanti raggiungo le poche case di Vela Učka (Grande Montemaggiore) e infilo una stradetta che passa addirittura accanto alla vecchia scuola costruita ai tempi dell’Italia e che sta a significare che allora in questi posti viveva molta più gente di adesso.

... e quando pulsava la vita

Arrivare oggi a Mala Učka ti si stringe il cuore: rari cespugli, spiccano sui prati i molti fiori, mentre nel cielo non è raro che volteggino le poiane. Oltre una specie di poggiolo appare il paesino che appunto con i suoi 1000 metri è il più alto dell’Istria e, una volta almeno, apparteneva al comune di Pisino. Oggi dunque una ventina di case diroccate (solo pochissime rifatte!), dai tetti sfondati, le stalle di un tempo che avevano i tetti coperti di paglia sono annerite dal fumo e dalle piogge. Poco lontano gorgoglia il torrentello Studena, originato da una sorgente che scaturisce più in alto sul costone di fliss a sud del monte e che giù si perde in un crepaccio che sgravia le acque nella vallata, in parte nel letto della Boljunčica.

Al tempo in cui vi pulsava la vita queste case dovevano essere bellissime: tutte di pietra strappata dal monte, avevano un non so che di pastorale. Oggi l’abbandono le fa andare lentamente in sfasciume. Civettuoli i ballatoi sopra gli ingressi dal portale ad arco, gli atri hanno ancora lembi di intonaco dipinto a fiori imprigionato in pareti e soffitti di giunchi intrecciati. Spaziose le cucine spesso a forma circolare (chiamate tòrnice; in I'R ogništa) onde permettere una migliore irradiazione del calore offerto dalle fiamme del focolare messo al centro. Sopra la cappa, grate di assicelle per la stagionatura dei formaggi (e anche dei prosciutti). Per le scale di legno – attenzione ai crolli! – si può talvolta salire alle stanze da letto molte provviste di caminetto perché d’inverno qui doveva far freddo sul serio! Dietro le case le stalle, tutte con i tetti di paglia ma ormai da tanto divorati dal tempo.

L’orrida devastazione del 30 aprile 1944

Provo una strana sensazione aggirarmi tra le mura sbrecciate, sotto gli archi che sembrano attendere l’ingresso di mandrie e di greggi al tramonto. Che il paese fosse morto lo avvertivo non soltanto dal silenzio, rotto dal frusciare del fogliame dei grandi noci e dal cinguettio degli uccelli, ma anche dall’assenza degli odori peculiari del villaggio: il profumo di uomini e di animali, di fumo, di fieno, di letame. Dopo l’ultimo conflitto mondiale la gente ha abbandonato queste dimore. Pian piano è scesa nel litorale, con giovani e vecchi, in cerca di migliori condizioni di vita. Ed è palese che dopo l’orrida devastazione con l’incendio appiccato dai nazifascisti il 30 aprile del 1944 (c’è una lapide fissata alla roccia a ricordarlo, mentre nel cimitero di Moschiena riposano i morti, che furono uno ogni cinque abitanti), si è cercato di ricostruire qualche casa. Ma non è bastato. La gente è scesa dal monte.

I pastori macedoni scomparsi

Da queste parti è anche difficile acquistare un rudere per restaurarlo, per adibirlo a sede di vacanza: troppe le questioni giuridico-patrimoniali irrisolte, come ci ha detto un vecchio che per caso abbiamo incontrato. E così negli orti abbandonati non ci sono più le famose, saporite patate, gli alberi da frutto inselvatichiscono anche se parecchi continuano a dare le ciliegie, le susine gialle, mele, noci e, strano data l’altitudine, anche qualche fico anchilosato che cerca di farsi strada tra la sterpaglia.

C’è stato qualche anno fa, anzi più di qualche anno fa, chi ha cercato di trarre profitto dall’abbandono totale. Una volta qui il possesso delle greggi era regolato dal sistema del cosiddetto “kvarnar” (quaranta capi). E chi aveva “kvarnar kvarnara” stava bene, i pascoli erano immensi lungo i dorsali alti della costa liburnica, chilometri e chilometri di rara macchia mediterranea fino a Trebišće, Grabrovo, Bersezio... Erano arrivati perciò alcuni allevatori da Tetovo che possedevano più di un “kvarnar kvarnara”, i quali pastori non riuscivano a trattenere molto i loro prodotti caseari tanto erano richiesti soprattutto dalle varie “konobe” a servizio dei turisti. Questi pastori per lo svernamento raggiungevano l’Istria bassa, addirittura il Prostimo di Dignano e di Gallesano. Si pensò addirittura – dato che si disponeva di oltre tremila pecore – di acquistare un impianto di mungitura automatica. Poi arrivò la cosiddetta “guerra patriottica” e tutto questo decadde in breve tempo, i pastori e i loro greggi chissà dove sono finiti ed è un peccato perché la richiesta di formaggio pecorino da parte del turismo è molto alta.

Per la Giuseppina verso il Poklon...

Oggi? Gli interi versanti abbandonati sono coperti da una folta erbaccia legnosa che degrada il terreno e rappresenta anche un grande pericolo di incendi nella stagione calda e secca. Qualche anno fa le fiamme erano arrivate fino alla Valdarsa in quanto non ci sono strade o sono tracciate appena e non permettono un servizio antincendio. E, bisogna alla fine sottolinearlo, quassù la rigogliosità dei pascoli è confortata da circa 3000 mm di pioggia annua per metro quadrato (solo 1200 ad Abbazia e meno di 800 sulla costa occidentale della penisola istriana!).

Con tutti i miei ricordi, con i miei rimpianti, lascio questo paesino deserto, gli ampi panorami, l’aria pulita, il torrente che mormora quieto, le poiane che solcano il cielo e, assieme al vecchio che ho qui incontrato e che piange nel lasciare il rudere della sua casa, ritorno a malincuore sulla strada Giuseppina e poi su verso il Poklon.

Tratto da:

  • © La Voce del Popolo - http://www.edit.hr/lavoce/2011/110430/speciale.htm
  • Pagina versione carta - http://www.edit.hr/lavoce/2011/foto/reportage110430.pdf

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Created: Wednesday, May 04, 2011; Last updated: Saturday May 07, 2022
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