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Fogolèr / ognjišće
(focolare basso) e napa / napa (cappa).
A sinistra: panca / banak (panca); a destra: scagneto / škanjet
(sgabello). MZ Pinguente. |
La cucina e gli utensili di uso
domestico
[Tratto da: © Roberto Starec, Mondo
popolare in Istria, Cultura materiale e vita quotidiana dal Cinquecento
al Novecento, Collana degli Atti, Centro di Ricerche Storiche -
Rovigno (Trieste - Rovigno, 1996), p. 71-89.]
L'alimentazione
Soprattutto nei villaggi minori gli interni delle abitazioni erano
angusti, estremamente semplici, quasi spogli di arredi. Soltanto alcune
case di famiglie più benestanti erano meglio fornite, più spaziose, e
offrivano maggiori comodità. Le poche testimonianze di cui disponiamo
ci dipingono ambienti disadorni e situazioni abitative che sembrano poco
mutare nell'arco di tre secoli. Così Tommasini nel Seicento:
«Dormono per consueto sui
pavimenti, e sopra la paglia, l'inverno intorno al fuoco, ed altri hanno
lettiere di legno mal fatte, e con paglia, adoprano di raro i materazzi
di lana, senza lenzuola, riposando entro le loro coltre, e dormendo per
lo più mezzo vestiti».38
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Donne davanti al
focolare basso.
Dignano. Foto Emilio Voivoda, 1925 c. |
Nel
1847 Antonio Facchinetti osserva:
«Generalmente le case
degli Slavi Istriani, poche eccettuate, contengono una sola stanza, che
loro serve di cucina, di tinello, di camera da letto, da cantina, da
granaio, e talvolta, tra i più poveri, anche di ricovero ai loro
animali».39
Ancora nel 1935 Gustavo Cumin così descrive l'abitazione di un
artigiano vasaio di Castelnuovo d'Arsa / Rakalj (Barbana):
«Essa consiste di un unico
ambiente che funziona da cucina, da stanza da letto e da officina.
Nell'unico ambiente si osserva allora un vasto focolare a terra, comune
del resto in tutti i fabbricati rurali della zona. Un tavolo, una madia,
alcune sedie e dei letti montati su dei cavalletti costituiscono l'unico
e rudimentale ammobiliamento».40
In genere, anche nelle case provviste di diverse stanze, la cucina cuƒina
/ hiža, kuca (termini che indicano
anche la casa tutta), kužina
costituiva 1'ambiente più importante, dove la famiglia passava la
maggior parte del tempo, soprattutto d'inverno e quando pioveva.41
In genere il focolare aperto fogolèr / ognjišće,
sollevato di pochi centimetri dal pavimento, era situato accanto ad una
parete o nell'angolo tra due pareti. Quando il focolare era collocato in
un vano rettangolare o semicircolare sporgente dal corpo dell'edificio,
si presentava di solito più nettamente rialzato.
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Donne sul focolare basso. ? Foto
?, 1950 c. |
Donna sul focolare rialzato. S. Servolo / Socerb (S. Dorligo
della Valle). Foto B. Orel, 1949. |
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Focolari di tipo
tradizionale si conservano ancora, ma generalmente non più in uso (se
non in qualche costruzione declassata a rustico, per preparare il
pastone degli animali), sostituiti dalla "cucina economica" in
muratura o in ferro spacher /
špaher
o da moderni fornelli a gas. La legna veniva posta ad ardere sulla base
di pietra o mattoni del focolare, appoggiata ad un alare di ferro
battuto cavedòn / želizo, zaklad,
kavidòn, kobilica, in modo da far
circolare meglio l'aria e favorire la combustione. Nel tipo munito di un
solo montante verticale, la traversa orizzontale dell'alare è sorretta da un lato da un piedino
e dall'altro da due. Nel tipo con due montanti, vi sono quattro piedini.
Nelle case più benestanti il grande alare doppio [vedi sotto], spesso splendidamente
lavorato, rappresentava un ornamento di prestigio. I montanti spesso
portano dei supporti circolari, dove d'inverno si ponevano le brocchette
per intiepidire il vino, ed erano muniti di bracci ruotabili a cui si
sospendevano piccoli recipienti per cucinare o riscaldare le pietanze.
In mancanza degli alari, si potevano appoggiare i legni di più piccole
dimensioni su di un grosso ceppo zoco, talpo / panj,
cok. In qualche
caso, ad esempio a Pirano, il piano del focolare poteva avere al centro
una cavità quadrata sulla quale si disponeva la legna. Accessori
indispensabili erano le graticole gradela / grdela e i treppiedi
trepiè
/ trepije, trinog per sorreggere le pentole di terracotta, le molle
malete / mulete, klešće e la paletta
paleta / paleta, lopatica, popečak
per spostare i ceppi e la cenere, il tubo sufieto, folo / puhalnica in
cui si soffiava per attizzare il fuoco. Sulla parte inferiore della
cappa del camino napa / napa correva una mensola di legno (spesso ornata
con una gala di tela increspata), dove venivano collocati vari piccoli
recipienti di terracotta, legno o metallo, e altri utensili come il macinino per il caffè.
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Da sinistra: cavedòn /
želizo (alare ad un montente); id. ZPM Parenzo. Provenienza: ?; Ferenzi / Ferenci
(Visinada) |
Cavedòn / želizo (alare doppio),
cadena / kadine (catena); bronžin / kotal (paiolo). EMI
Pisino. Provenienza: Grubissi / Grubiši (Pisino); Surani / Šurani
(Pisino); ? |
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Cavedòn / želizo (alare doppio). PM Capodistria.
Provenienza: Capodistria. |
Cavedòn / želizo (alare doppio). EM Zagabria.
Provenienza: Ceppi / Čepić (Portole) |
Dal camino pendeva una catena
cadena / kadine, komo štre,
verugi, alla quale veniva agganciato il grande paiolo
di rame o bronzo bronzìn, lavefo, stagnada, caldiera /
kotal, laveč, štenjada. Di rame o di ferro era anche la padella con lungo manico
farsora / pr šura, cura usata per friggere. Ai lati e davanti al focolare
stavano panche panca / banak e piccoli sgabelli scagneto /
škanjet, skamblica. Nelle case in cui il focolare era al centro dell'apposito
vano sporgente, spesso dei grandi sedili in pietra lo circondavano su
tre lati.42 |
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A sinistra dall'alto: gradela / grdela
(graticola); molete / mulete (molle); paleta / paleta
(paletta); a destra: trepiè / trepije (treppiede;
id. EMI Pisino. Provenienza: Serbani / Srbani (Vertineglio);
Momiano / Momjan (Buie); ?; Surani; Bernobici. |
L'acqua doveva essere portata dal pozzo, dalla fontana o
dalla sorgente e veniva conservata in diversi recipienti per essere
usata con parsimonia. l'acquaio di pietra scafa / škal era murato in una
parete che dava verso l'esterno, nella quale era praticato il foro di
scarico che permetteva di far defluire l'acqua sporca. La tavola tola /
miza poteva essere rotonda o rettangolare, con o senza cassetti. Alla
fine dell'Ottocento un informatore di Muggia così racconta a Cavalli:
«Da una parte c'era la tavola, che si tirava in mezzo quando si doveva
mangiare. Fino a quando non si era di comunione, non si andava a tavola
con il padre e con la madre; davano da mangiare quello che mangiavano
loro, ma si stava in disparte, su uno sgabello» [tradotto dal dialetto
muggesano].43
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Tola / miza (tavola); carega / kariga
(sedia). MZ Pinguento. Provenieanza: Brazzana / Pračana (Pinguente);
Milino grande / Veli Mlun (Pinguente). |
Scienale di sedia - carega / kariga - con rilievi
antropomorfi e zoomorfi. ZMP Parenzo. Provinienza: Villanova di S.
Lorenzo 1872-1873. |
Le sedie carega / kariga, stolica, con o senza braccioli,
avevano generalmente il sedile impagliato. Normalmente tavole e sedie non presentavano motivi ornamentali. Esemplari con
intagli zoomorfi o antropomorfi sono molto rari. Semplici intagli di
tipo geometrico sono invece comuni nelle rustiche cassapanche casela /
kasela, generalmente di faggio, ornate con linee parallele che formano
motivi diagonali e a spina di pesce, che venivano fabbricate in Cicceria
e nei villaggi sulle pendici del monte Maggiore, e vendute in tutta la
regione. In origine usate anche per riporre gli abiti, nell 'ultimo
secolo venivano impiegate soltanto come dispensa, per conservare il
grano e la farina. Gli esemplari più piccoli potevano contenerne circa
cinquanta chili, quelli più grandi casòn / kasun anche seicento. |
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Casela / kasela (piccola
cassapanca) con incisioni a line parallele. ZMP Parenzo.
Provenienza: Velenichi / Veleniki (Parenzo) |
Casòn / kasun (grande
cassapanca) a linee parallele. ZMP Parenzo. Provenienza: Vlenichi
/ Veleniki (Parenzo). |
Secondo la procedura tradizionale, la farina veniva impastata insieme al
lievito, al sale e all'acqua tiepida (bollente per la farina gialla) in
una conca rettangolare albòl / nacve, scavata da un unico pezzo di
legno. Si impastava con le mani o mediante un apposito bastone cròsola
/ krocula, munito di due sottili impugnature laterali e di una
estremità a stampella che veniva appoggiata sotto I' ascella. La conca
per impastare poteva anche essere incorporata nella madia per la farina
panariòl / panjarol, kudinje, costituendone il coperchio a ribalta. La
madia era anche chiamata, per metonimia, con gli stessi termini usati
per la conca. Soprattutto nei villaggi della zona slovena
settentrionale, dove molte donne preparavano grandi quantità di pane
per venderlo a Trieste o a
Capodistria, dopo la prima lavorazione nella
madia si usava anche una specie di tavolino gràmola / gromula con i bordi rialzati da tre lati, al quale era fissata una
leva con cui si batteva l'impasto.
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Albòl / naćve (conca) cròsola / krocula (atrezzo per
impastare. ZMP Parenzo. Provenienza: Mattosovi / Krunčići
(Orsera); Decovi / Dekovići (Parenzo) 1908.
A destra: Panaričl / panjarol
(madia). EMI Pisino. Provenienza: Piemonte / Završje (Grisignana). |
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Si usava disporre il pane a
lievitare su di un 'apposito asse còncolo / konkolo, talvolta provvisto
di scomparti rotondi, con il quale lo si portava poi a cuocere in fomo.44 Tommasini(1650 circa) scrive:
«Delli frumenti nativi non si fa
il pane bianco, ma bruno, e rossiccio, non stimato; solo da quei di
Pinguente nati nei terreni bianchicci, si fa pane bellissimo, e bianco
come latte, ma portato fuori di là, non riesce così bianco, o sia la
temperie di quell'aria, o pur l'acque soavissime che ivi dalle fontane
si raccogliono».45
Facchinetti (1847), riferendosi ai croati dell'area
centro-meridionale, osserva:
«Per il pane si servono di farine di grano
turco, di segala, di spelta, e di orzo. Il frumento lo vendono sempre.
Non però le altre biade di cui fanno uso essi medesimi, neppure se ne
hanno d'avvantaggio, temendo sempre gli anni di carestia».46
Vesnaver
( 1901) annota per Portole:
«Una volta il pane si faceva di frumento,
di pirra e segala, e di pirra e sorgo. Poi anche di pirra e granturco,
chiamato mistura. Oggi si fa pan bianco, o sia di fior di farina
(fioreto); pane di cruschello (semolin) detto pan scassà, e cioè
farina di frumento, a cui venne levato il fior di farina e la crusca; e
pan giallo, o sia di g!anturco. Aggiungasi ancora il pan de tuta farina,
e cioè fior di farina e cruschello insieme, ossia di farina, a cui
venne levata via soltanto la crusca (sèmola».47
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Scansìa / šcancija (piattaia). EMI Pisino.
Provenienza: Marleti / Mrleti (Pisino) |
Nella cucina trovava anche posto, appesa al muro o più recentemente
come parte superiore della credenza, la rastrelliera o piattaia scansìa,
scoladora / škancija. Su di essa venivano riposti piatti e
piccoli recipienti. I recipienti domestici, usati per cucinare e come
contenitori di cibo e bevande, erano di vari materiali, per lo più
fabbricati da artigiani locali, ma anche importati. Verso la metà del
Seicento
Tommasini osserva:
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Suca / tikva (zucca) rivestita da una maglia di rame usata
come borraccia. CI Dignano. Provenienza: Dignano |
«Mangiano in vasi di legno, e qualche
piatto di terra. Cuociono le carni in pentole nere, che si fanno in
Carnia, sono assai golosi, ma tutti amici del vino, ponendo in esso
tutte le loro delizie. Bevono in boccali bianchi di Romagna, chiamati boccalette».48
Il recipiente più elementare, ancora di uso corrente
nella prima metà del Novecento, era la borraccia fatta da una zucca
svuotata suca / tikva, talvolta irrobustita da una maglia di filo di
ferro o di rame, chiusa da un torso di pannocchia usato come tappo. Vari
tipi di corbelli sestèl, sàina, cosara, corba,
coladora / košara, krba
venivano realizzate intrecciando il vimini. Le bottiglie di vetro
butilgia / ćanka, acquistate nelle fiere o nelle botteghe dei centri
maggiori, spesso venivano protette impagliandole o avvolgendole con lo
spago. Nelle zone più povere ancora fino alla seconda guerra mondiale
si usavano ciotole scudela / skleda, čaša e boccali
bocaleta / bukaleta, drvenjak, žban di legno.
Vari tipi di botticelle
botaso, bariloto,
caratèl / butaco, barilica, karatel, ponka servivano sia in casa, sia
soprattutto per portare l'acqua (cui spesso si aggiungeva un po' di
aceto) quando si andava in campagna. Oltre ai grandi paioli, erano di rame altre pentole più piccole e i mestoli
casiòl / pajak.
Sul focolare aperto si usavano diversi recipienti di terracotta non
smaltata: le pentole panciute lòlifa, pignata de tera / lonac, con o
senza manici, talvolta provviste di tre piedini lòlifa a tre pie /
lonac trinog, i tegami bassi tècia / teca, e la coppa strèpigna /
čripnja che veniva coperta con le braci e sotto la quale si ponevano a
cuocere piccole quantità di pane.
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Ai lati: scudela / skleda (ciotola); al centro casiòl /
pajak (mestolo). EMI Pisino. Provenienza: Prapoce / Prapoće
(Pinguente); id.; Bresacco / Brižac (Pisino). |
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Da sinistra: bronzin / kotal
(paiolo); id.; id.; in basso:
casiòl / pajak (mestolo). MZ Castua, Provenienza: Castua |
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Ai lati: lòlifa / lonac (pentola); id.; al centro:
lòlifa / lonac (pentola) con manici. ZMP Parenzo.
Provenienza: Pauletici / Pavlettići (Portole) 1818 MP; Castelnuovo
d'Arsa / Rakalj (Barbana; Zubini (Portole) ai 14 Maggio 1856- |
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La stufa nelle case contadine era
praticamente sconosciuta, anche se gli inverni sono piuttosto freddi e
nelle zone più elevate spesso nevica. La cucina aveva quindi anche la
funzione di soggiorno invernale, essendo grazie al focolare l'unica
stanza riscaldata. Nelle altre stanze ci si difendeva dal freddo con
mezzi di riscaldamento portatili. Si riempiva con le braci lo scaldino
di terracotta o di ferro scaldaleto, mòniga / ognjenica,
škaldaleta, fogera e lo si portava nelle camere. I vasi di maggiori
dimensioni zara / žara servivano per conservare e tenere fresca l'acqua,
ma anche per il vino o l'olio.
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Botaso / butaco
(botticella), EMI Pisino. Provenienza, da sinistra in alto: ?;
Laghini / Laginji (Gimino), ?; Antonzi / Ravnica (Portole);
Chersicla / Kršikla (Pisino); Bernobici. |
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Da sinistra in alto:
lòlifa / lonac (pentola con manici); in basso ai lati:
bocaleta / bukaleta (boccale); al centro: lòlifa / lonac
(pentola). EMI Pisino. Provenienza: Castelnuovo d'Arsa; ?;
Colmo / Hum (Pinguente); id.; Castelnuovo d'Arsa; Pauletici. |
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In alto ai lati: tècia / teća (legame); al
centro: scaldaleto / ognjenica (scaldino). In basso da
sinistra:
tècia / teća (legame); strèpigna / čripnija (coppa);
lòlifa a tre pie / lonac trinog (pentola con piedini). EMI
Pisino. Provenienza: ?; Castelnuovo d'Arsa; Colmo / Hum; id.; ?;
Castelnuovo d'Arsa. |
I boccali erano anch'essi talvolta
realizzati in terracotta grezza, ma erano comunemente diffusi brocchetti
di ceramica smaltata bocaleta / bukaleta, ad un manico, provvisti di un
corto beccuccio schiacciato, spesso ornati con scritte augurali, che
venivano importati dall'Italia (nel Seicento, secondo Tommasini, dalla
Romagna, nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento dalle zone di
Bassano, Pordenone, Pesaro) o dalla Slovenia. Facchinetti (1847) scrive:
«Invece di gotti gli slavi per lo più adoperano certi boccaletti,
denominati - zdravice - fatti a forma di calice, e di cui quasi ogni
famiglia slava ne è provveduta. Zdravice -propine; e deriva dal verbo
zdraviti - salutare. Gli slavi mai bevono, od offrono il boccale senza
dir prima: zdravlje - salute!». 49
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Da sinistra: zareta / žareta
(bottiglia di terracotta); zara / žara (giara); bocaleta /
bukaleta (brocca). MS Sicciole. Provenienza: Pirano. |
Bocaleta / bukaleta (brocca). PM
Capodistria. Provenienza: ? W. Luomo che liepo [= bello] |
Piatti inglesi di ceramica, anche con
figurazioni di imitazione cinese, prodotti nel Sette e Ottocento in
quantità industriali, e tazzine cìcara / kikara di maiolica di
Marsiglia venivano portate soprattutto dai marittimi.50
In merito all'alimentazione delle classi popolari, Tommasini (1650
circa) osserva:
«Mangiano pane di formento sin che ne hanno, avendone
assai poco, e al quale suppliscono con quello di segala, d' orzo, di
pira, di sorgo e sarasino, facendo li pani rotondi. Allevano molti
animali porcini, dei quali salate le carni ne fanno lor cibo; usano
anche così dei bovi, e vacche, che ammazzano l'inverno per servirsene
d'estate. Fanno li prosciutti senza lardo con la sola carne, con poca
fregagione di sale, e molto stimati. La carne di
manzo, e vacca, viene
seccata al fumo; mangiano assai latte, e non sanno far formaggio, ne
burro che stii bene. Mangiano assai castrati, e bevono le zonte [= vino
ricavato aggiungendo acqua ai raspi dopo la prima pigiatura] l'inverno.
Sono intemperanti col
vino e mezzi vini nell 'inverno, che poi d'estate
sono costretti di bever l'acqua pura, o con l'aceto». 51
Nel 1689
Valvasor scrive:
«Del resto gli abitanti di Castua di solito vivono
nelle loro case alquanto sobriamente e parsimoniosamente; si contentano
abitualmente di cibi a base di latte e di diverse verdure cotte;
mangiano pane affatto rustico di spelta e simile. Il vino e l'olio per
la maggior parte li vendono, tanto più che questa regione ne produce
moltissimo, e sono paghi di dissetarsi con fresca acqua di pozzo»
[tradotto dal tedesco]. 52
Nel Settecento e ancor più nell'Ottocento, a
causa della pressione demografica, la carne divenne cibo sempre più
raro. Ancora nella prima metà del Novecento nelle frazioni rurali la
carne bovina compariva sulla tavola soltanto la domenica e nelle feste principali dell'anno, relativamente più frequente era 1'uso della carne suina, secca o insaccata. l'alimentazione era perciò
prevalentemente basata sul pane (di grano o di altri cereali) e su altri
cibi di derivazione vegetale. La cucina di tutti i giorni si serviva,
oltre che di verdure come cappucci, cavoli, rape e zucche, di polenta
polenta / palenta, di patate e di legumi. Il mais, la patata e i
fagioli, coltivazioni importate dal Nuovo Mondo, si erano
progressivamente affermate, come in tutta Europa, dal XVI al XVIII
secolo. Si usavano frequentemente cibi semiliquidi, come farinate con
acqua o latte fui, scròbolo, sùgolo / žuf, škroboli,
šugoli,
minestroni di verdure
manestra / maneštra, nelle feste il
brodo di manzo
e di pollo con pasta o riso. Sulla costa era comune il brodetto di
pesce.
Hacquet, le cui osservazioni si riferiscono agli ultimi decenni
del Settecento, annota:
«Il cibo quotidiano è per lo più la polenta,
e il vino essendo a basso prezzo è la
bevanda ristoratrice del
contadino povero. Agli abitanti della costa non mancano i buoni
pesci,
tra i quali è comune il tonno (tonina), ma le
sardine superano tutti
gli altri».
E sugli abitanti della Liburnia:
«Il granoturco fa spesso
le veci del pane. La carne si mangia poco, così come presso tutti gli
altri slavi. La frutta e il vino costituiscono la massima parte del loro
nutrimento. Trovai in Istria, come anche presso alcuni liburni le bacche
di ginepro spagnolo, Juniperus oxycedrus L. (la spezia principale dei
Marocchini per tutte le loro pietanze ), in uso per la distillazione dell'acquavite, e devo confessare che queste
bacche rosse hanno un buon sapore dolcigno, e sono molto gradevoli per
insaporire parecchie cose» [tradotto dal tedesco].53
Nel 1806 Bargnani
scrive che «il cibo ordinario dell'infima classe del popolo litorale è
il pesce fresco» e che «anche nell'interno pochi sono quelli che
provveduti non sieno di pesce salato».54
Due note della Scuola [=
confraternita] di S. Antonio di S. Domenica di Visinada del 1795 e del
1796 riportano, in occasione di una cena degli associati, questa lista
cibaria: «tre quarti olgio, due libre riso, una pechia [ = cassetta di
abete] de pesse, una damigiana di vin».55
A Muggia, secondo la
testimonianza di un'informatrice nata nel 1806 riportata da Cavalli, la
merenda mattutina consisteva in sardelle salate e polenta, a pranzo si
mangiavano cappucci e fagioli conditi con un soffritto di farina e
cipolla, oppure la fbroada (verze bollite inacidite con il lievito e
condite con un pesto di lardo, aglio e prezzemolo), a cena polenta con
pesce fritto, e si beveva acqua con aceto, poichè il vino prodotto era
destinato alla vendita .56
Caratteristici della cucina istriana erano (e
sono) la iota / jota, denso minestrone di fagioli, cappucci acidi e
patate, e tra i vari tipi di pasta fatta in casa i fuzi /
fuzi. Nelle
case relativamente benestanti le ricorrenze calendariali imponevano
determinate pietanze. Per l'Ascensione era tradizione mangiare al
mattino lingua di maiale e finocchi. Per la cena di S. Martino si mangiava tacchino in
tegame con lasagne lazagna / lazanja. Relativamente numerosi erano i
tipi di dolci per le diverse festività, tra cui si possono ricordare:
le frittelle frìtola / fritula e i crespelli cròstolo / hrostola, le
colombine tìtola, pìgnula /
titica, jajarica e le focacce pasquali pinsa /
pinca, le ciambelle
busolà / busula, la putiza / putica
[anche chiamata
oresgnaza / orehnjača] i parpagnachi /
poprnjak. Nei matrimoni ancora nel Novecento i
confeti /
kunfeti erano semplicemente chicchi di granoturco fatti scoppiare e
imbiancare nell'olio caldo. 57
Infine va ricordato che, nell'ambito della
medicina popolare, si riteneva che alcuni alimenti, come certe erbe e
frutti selvatici, possedessero proprietà terapeutiche. Erano perciò
somministrati agli ammalati e alle donne durante la gravidanza e dopo il
parto. Due rimedi universali frequentemente adoperati per combattere
varie infermità, sia per uso interno che esterno, erano l'olio d' oliva
e la grappa.58 Alla metà del Seicento,
Tommasini illustra diverse
pratiche terapeutiche popolari, nelle quali spesso coesistono rimedi
naturali e soprannaturali. Ad esempio:
«In tutti i luoghi usano medicar
la febbre in questo modo; pigliano vino potente, e lo fanno bollire,
ponendovi dentro un poco di canella, e pepe, lo danno così caldo al
febbricitante, che facendolo star ben coperto acciò sudi, il più delle
volte risanano a meraviglia. Sogliono anco per le febbri ricorrer ai
sacerdoti, che gli scrivono un breve [= biglietto da portarsi al collo
per devozione] col nome del santo protettore di quel luogo, ovvero
l'evangelio della suocera di Simeone febricitante».59
Note:
-
TOMMASINI 1837, p. 59.
- Facchinetti
1847, p. 87 (anche in Colli 1984-85, p. 213).
- Cumin
1935, p. 403-404.
- Sugli interni in genere cfr.
Cavalli 1893, p. 71 -73;
Gorlato A. 1949-50, p.
34-35; Gušić-Ribarić
1952, p. 27; Gorlato A.
1954, p. 11-13; Gušić
1955, p. 117-118 e tav. 22;
Jardas 1957, p. 182-186;
Jardas 1971, p. 27-28;
Gorlato L. 1975, p. 183-184;
Ribarić Radaus 1975b, p.
11-12; Ivetić - Zrnić
1980 e, p. 6 e 10 : Ciglič
1983; Gorlato A. 1983, p.
133-135 e 198; Stepinac -
Fabijanić 1986-89, p. 315-316 e 319-320;
CiGlič 1987;
Ciglič 1989, p. 102-103;
Mihelić 1991, p. 97-98;
NikoČević 1991;
Gotthardi - Pavlovsky
1994, p. 189-194.
- Sui focolari e sugli accessori per il fuoco cfr.
Fischer 1896, p. 9-10;
NlCE 1948; Gušić 1955, p.
118 e tav. 23; Jardas
1957, p. 271-272 e folo 10-11;
Mikac 1963a, p. 289-292;
Cerovac - Jakovljević 1971, p. 6;
Budicin 1975-76;
Scheuermeier 1980 II, p.
67-68 e foto 313; Makarović
G. 1981, p. 144; Zagar
1985, p. 9-14: Milićević
1988a. p. 67-70; Ciglić
1990, p. 117; Ciglić
1993, p. 57-61.
- Cavalli
1893, p. 71.
- Sulla preparazione del pane cfr.
Cavalli 1 893, p. 95;
Vesnaver 1901, p. 30-35;
Gorlato A. 1949-50, p.
55-56; Scheuermeier 1980
II, p. 186,199-200e 196-197;
Gorlato A. 1983, p. 138-139;
Jakomin 1987, p. 44-66 e 124-138:
Berk - Bogataj - Pukšić
1993, p. 175.
- Tommasini
1837, p. 17.
- Facchinetti
1847, p. 100 (anche in Colli
1984-85, p. 226).
- Vesnaver
1901, p. 30-31.
-
TOMMASINI
1837, p. 59.
- Facchinetti
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1975-76; Scheuermeier
1980 II p. 35 e 45; Makarović
G. 1981, p. 240; Barlek
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1815, p. 54 e 114-115).
- Apih
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-
Babudri
1931, p. 56.
- Cavalli
1893, p. 75.
- Sull'alimentazione e sulla cucina tradizionale cfr.
Tomasin 1891. p. 198-199;
Cavalli 1893, p. 75-76;
VESNAVER 1901, p. 36-40;
Rismondo 1914, p. 6 e 8;
Babudri 1926. p. 42-43;
Babudri 1931. specialmente p. 30-37, 55-62 e 193-202;
Lovljanov 1949;
Gorlato A. 1949-50, p.
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p. 15-16: Nikočević 1987;
Morato 1989, p. 29;
Fast 1990.
- Sulla medicina popolare cfr.
Facchinetti 1847. p.
97-100 (anche in Colli
1984-85, p. 221-222);
Babudri
1926, p. 36-38; Rimondo
1937. p. 244-255; Milićević
1968; Makarović M. 1977;
Makarović M. 1978;
Milićević 1983, p. 235;
Milićević 1985b.
-
TOMMASINI
1837, p. 59-60.
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Created: Monday, April 01,
2002; Last Updated:
Thursday, March 30, 2023
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