Questo Giovanni Golobich di Modrussa dovrebbe essere il Preposito della
chiesa di Pisino, indicato sotto l'anno 1531 nella serie di quei Prepositi
dal Kandler nella sua opera Indicazioni per riconoscere le cose
storiche del Litorale. Reca meraviglia che egli, sacerdote, non seppe
tradurre la parola slava podreka in quella di patriarca,
poichè ripetutamente dice Raimundus podreka de
Aquileja. Similmente
sbaglia sovente nei nomi dei luoghi, cui non sa applicare l'appellativo
italiano; il che lo mostra straniero all'Istria.
NB.: "Hic sequi deberent confinia Bullearum, Momiani, Grisignanae,
Pirani, aliorumque locorum dictionis Venetae, quorum descriptio brevitatis
causa fuit omissa."
E chiude:
"Et ego Presbiter Nicolaus Capellanus Domini Comitis et Plebanus
Gollogorizae, Publicus Auctoritate Sacrae Romanae Ecclesiae et Comitatis
Pisini Notarius et Cancellarius, etc."
Non v'è poi menzione della copia fatta dal prete Crisanich, nè che
l'esemplare latino sia traduzione d'un testo slavo — com'è manifesto per
indubbî indizî — nè chi la esegui ed in qual anno. Lo scrittore
apparisce senz'altro istriano, conoscendo bene la denominazione italiana
dei luoghi; che poi egli tradusse da un testo slavo, lo si scorge dal
mantenere p. e. la dizione slava di Mochor invece di Ermagora,
Bilelmus per Guglielmo, Carmin per Cormons, Marchès in
luogo di Marchio, quantunque una volta in principio lo avesse
adottato ecc., e per varie caratteristiche di lingua poi egli si palesa
posteriore in tempo al Golobich.
Veniamo ora a discorrere dell'esemplare italiano dell' Istrumento di
reambulazione, trovato, come fu accennato più sopra, a Moschienizze, e
corrispondente all'altro scoperto dal cav. [49]
Luciani a Venezia — nel sopraccitato Archivio dei Provveditori e
Sopraintendenti alla Camera dei confini — Istria, busta 6.
Questo esemplare porta l'intestazione notarile di Pre Giacomo Crisanich
nella seguente forma:
"Io Pre Giacomo Crisanich di
Barbana con pubblica
facoltà Apostolica, e de' Signori Notaro, facio la fede, qualmente abbi
scritto in publica forma questo istrumento sopra scritto col linguaggio
Latino, Tedesco, e Slavo, scritto dall' originale, ed istromento de'
confini su accennati colla mano del signor Giacomo Skrigno, e del signor
Bernardo da Gorizia, e dal signor Pre Nicolò da Golegoriza publichi Notari
per ciò su accennati, l'istrumento fu scritto, come si contiene colla mano
di loro sottoscritti. E con ciò io Pre Giacomo antedetto ho scritto questo
detto istromento de verbo ad verbum fedelmente, giustamente, e rettamente,
niente aggiongendo nè tralasciando, il che confonder potesse l'umano
ingegno, essendo interprete e (el) Magnifico ed Illustre signor Giorgio
Elikar essendo degno della Contea di
Pisino l'anni del Signore 1502 e col
suo proprio sigillo impresso confermò e per ciò il nome, et il mio segno
solito e consueto imposi per maggior fede del su scritto."
In calce poi si legge la seguente nota:
"Segniae die 15. 9bris 1740:Vigore praesentium, ego infrascriptus universis, ac singulis,
respective quibusq. expedit, indubiam fidem facio, qualiter ex instrumento
illyrico, vulgo vocitato glagolitico, cui prima deside-ratur pagina, mihi
in originali exhibito, hanc italicam copiam fideliter, juste, ac genuine
(quantum illyrica frasis patiebatur) de verbo ad verbum formauerim, ac
descripserim, quamvis descriptionis intervallo ob angustiam temporis meae
quaedam aliquib. in locis limaturae đeluciđanđae Italicae phrasis
Illyricae magis uniformandae causa irrepserint.
In quorum fidem ac majus robur haec propria manu subscriptas, ab usuali
sigillo firmatas extradedi.
Segniae die et anno, quibus supra.
Ant. Ios. Cerovacz Can.cus
Capitularis Segniensis, Protonot
Apostol."
[50] La traduzione italiana del Cerovacz è di gran lunga inferiore a quelle
del Bellassich e dello Snabel, sia rispetto alla lingua che riguardo all'
interpretazione, e siccome esso è straniero all' Istria, che mostra di non
conoscer punto, non è nemmeno in grado di dare ai luoghi la comune
denominazione italiana, riportandoli invece come gli trovò scritti nel
testo slavo, dove sono indicati nella forma loro attribuita dai contadini
slavi.
Questa copia, come si scorge dalla testé riportata nota del Cerovacz,
manca d'un foglio contenente l'introduzione dell'Istrumento di
reambulazione, ed una parte della medesima, cioè sino al punto dove i
Pinguentini chiedono ai comunisti di Sovignaco e Verch la concessione di
poter tagliare nei loro boschi il legname occorrente per uso domestico.
Confrontata colia copia Bellassich, vi mancano inoltre alcuni passi;
termina come quella colle attestazioni notarili di Prè Nicolò di
Gollorizza e Giacomo Crisanich di
Barbana.
Però, immediatamente dopo la predetta autenticazione di Prè Giacomo
Crisanich, vi si trova la seguente strana aggiunta fatta in via di ricordo
dallo stesso Prè Nicolò di Gollogorizza, estensore dell'originale
Istrumento in lingua slava.
Ci permettiamo soltanto di aggiungere, per intelligenza dei lettori,
fra parentesi, le denominazioni italiane delle persone e dei luoghi
indicati slavamente dal traduttore.
"E dopo tali spartimenti de' termini ai fine d'un anno e mezzo, il
Comune Veneto, ed il loro Doggie spedirono i di loro messi e le lettere al
signor Conte, acciochè da loro venisse a cagione di buona amicizia e
vicinanza, e per essere stati cosi in buona armonia a tali termini col
signor Marchese, e con quelli i quali con lui furono, e per aver dato a
ciascun il suo, e cosi in pace tali Comuni fra loro viveranno, e che il
Comune Veneto voglia col signor Conte in buona volontà e vicinanza con
loro stare, e con que' Signori della sua Contea, e così il sig. Conte
spedi i suoi messi, che' si presenti il sig. Menardt (Mainardo)
servo o sia Vassallo di Sovignaco, il sig. Milcher (Vilker?)
Vassallo da Lupoglava, il sig. Panspetal Vassallo da Mulano (Mondano),
il sig. Giacomo Vassallo da Rauna (Vragna), il sig. Filippo
Macich Vassalo à Coslachi (Cosliaco), il sig. Giacomo servo o sia
Vassallo da Gerdosello, il sig, Rodger (Ruggiero) [51] Vassallo da Rigrano (Nigrignano) ed il sig. Orozon Vassallo, e
così vennero tutti questi signori ed a sufficienza con loro Nobili e buoni
uomini, e così li mostrò le lettere de' Signori Veneti, e del loro Doggie,
ed i messi aspettavano à tali lettere la risposta, e pregavano ch'il sig.
Conte spedisce a Venezia i suoi messi, e cosi lungamente consultarono frà
loro, e cosi il sig. Conte li raccomandò la sua Contea fin che ritorni da
Venezia, e così andò con quelli messi e con lui 4 Cavaglieli,
primieramente il sig. Rodolfo, il sig. Andrea, il sig. Beloli, il sig.
Martino, e così vennero a Venezia, ed il Commune Veneto col suo Doggie
degnamente ed allegramente ricevettero il sig. Conte, e così lo vollero
introdurre nella loro casa: ma il sig. Conte cortesemente li ringraziò, e
così andò al suo alloggio, e così ogni giorno i Signori Veneti li facevano
grand'onore e ciascun dì l'invitavano, che con loro venisse nella loro
casa, e così non volse andare fin'à 40 dì; e così avendolo ingannato,
quando andò con loro nella loro casa, non lo vollero lasciare fuori, se
non li promette di voler fare secondo il loro volere, e così che debba
distruggere Tinana (Antignana) tutta, e Terviso, e Moulano
(Momiano), e Cosgliun (Castiglione o Castion presso
Buje) e Nigran (Nigrignano), e quando il sig. Conte venne avanti
Sant Lorec (San Lorenzo) non lo vollero lasciar in città, quando
venne a Tinana (Antignana) allora già la gente Veneta l'avevano
tutta diroccata, ed ammazzata molta gente, e tagliatala, ed ivi furono i
quali erano feriti dalla sentinella di Mulano (Momiano), e di
Cosgliun (Castiglione), di Nigrano (Nigrignano), e così là
si presentarono al sig. Conte feriti, ivi li parteciparono d'essere tutti
quei luoghi diroccati, e così venne a
Pisino, ed ivi trovò tutti i Signori
in gran cordoglio, e piangenti, e cosi ivi si trattennero appresso lui
otto di, e così licenziò tutti alle loro case, sig. Panspetal Vassalo, ed
il sig. Rodgiero Vassallo rimasero appresso il signor Conte, che non
avevano case, e cosi li distribuì i suoi sudditi a Berma (Vermo), a
Trusa (Treviso), a Gemino, a Zarec, a Racischia (Gallignana),
a Cerdole (Ceroglie), a Botogna (Bottonega), a
Chersicoli (Chersicla) a Borutti (Borutto), ed in altri
luoghi, e come venne a casa il sig. Menardt morì il terzo dì, e la sua
Signora, e due figliuoli e figlia, e sei servitori suoi nei luoghi del
defunto, ed il Velkar e la sua Signora e due figliuoli e figlia, [52] ed il sig. Giacomo Zran (di
Vragna?), il figliuolo e tre figlie,
e la sua Signora, il sig. Filippo de Coslaco, e la sua Signora, il figlio
e la figlia, ed il sig. Giacomo de Romolo (?), e la sua Signora, e due
figli, il sig. Panspetal, colla sua Signora, e tre figli e due figlie, ed
il sig. Rodgiero e la sua Signora, il figlio e figlia, e così fu fatto che
tutti que' signori morirono, e così furono estinti, e cogl'altri
Principali e Nobili della Contea, e così furono morti, e così subito il
Comune Veneto cominciò impossessarsi de' luoghi del sig.
Raimondo Podreke
(Patriarca), e de' luoghi del sig. Conte, e del di lui confine. E ciò
scrissi io Prè Nicolò giustamente, come successe e fu fatto, e fui
presente a tutto questo à Venezia ed à
Pisino, e ciò scrissi per una
memoria di tal fine di tanti Signori essendo io parimenti debole della mia
vita avvicinandomi alla morte."
Noi possediamo adunque finora due testi slavi dell' Istrumento 5 maggio
1325, Indizione VIII, due traduzioni latine, e tre italiane del medesimo
fatte in tempi diversi. Nel Bauzer, come nota il
Kandler vi deve esistere
altra copia latina, e per accertarsi che esso pure sia traduzione dallo
slavo basta il cenno fattovi dallo stesso
Kandler (9) che il Marchese
Guglielmo di Cividale viene chiamato Wilhelmus Marchio de
Cabdada, nome questo che gli slavi danno a quella città. Abbiamo
osservato di sopra che il
Kandler, per le ragioni esposte nel suo commento
all'Atto inserito nel Codice dipl. istr. nella traduzione italica
di Patricio Bellassich, ritenne che la reambulazione in discorso seguisse
nell'anno 1275, alla quale opinione aderirono più tardi il Czöernig, il
Ljubić ed il
Kukuljević.
Con tutta la reverenza che professiamo verso i suddetti autorevoli
scrittori, noi crediamo essere dimostrabile che nemmeno al 1275 si possa
riportare la data dell'Istrumento e della reambulazione, e che anzi esso
sia assolutamente falso.
In primo luogo non combinerebbe coll'anno 1275 l'indizione VIII, mentre
allora correva la III.
Osserveremo poi che il Marchese d'Istria Guglielmo di Cividale, il
quale sarebbe intervenuto quale rappresentante del [53] Patriarca col Conte
Alberto II alla reambulazione, governò l'Istria
appena nel 1363-65; (10) che nella serie conosciuta dei Marchesi
patriarchini nessuno apparisce di nome Guglielmo fuori di lui; e che nel
1275 fu Marchese d'Istria Goffredo di Ermano della Torre, e nel 1277
Corrado della Torre detto Mosca, e dal 1319 al 1329 Francesco della Torre.
(11)
Nell'anno 1275 apparisce Abbate di S. Pietro in Selve Semprebono,
e quell'Alberto che sta nell'Istrumento non esisteva nemmeno nel 1325,
perchè allora era Abbate Mengosio. (12) Parecchi dei luoghi che
nell'Istrumento si vedono di ragione del Conte si trovavano nel 1275
ancora in possesso del Patriarca.
Diffatti il patriarca
Raimondo nello stesso anno aveva dato il castello
di Momiano a Conone e Volrico dello stesso luogo,(13) ed appena nel
1312 per poca fedeltà dimostrata da quella casa, e quantunque nel 1295
Volrico avesse messo tutta la sua masnada a disposizione del Patriarca,
questi cedette il possesso del castello al Conte d'Istria.(14)
L'Istrumento mostra come assolutamente appartenenti al Conte,
Cosliaco,
Chersano,
Sumberg e Cozur. Si deve ritenere però che nè nel 1275 nè nel
1325 essi ancora appartenessero a' Conti di
Pisino come lo dimostrano i
fatti seguenti:
Nel 1332 possedevano Cosliaco come vassalli i fratelli Filippo e
Volrico. Avendo quei terrazzani fatti prigionieri due sudditi veneti di
Parenzo, la Repubblica s'accordò colla contessa Beatrice che governava la
Contea pel minore suo figlio Gio. Enrico di poter farne vendetta e
prendere quel castello, su cui [54] essa sembra vantasse diritti di proprietà; a che permise che i Veneti
occupassero il di lei castello di
Chersano nominandovi podestà
Marco Venier, per dirigere di là le operazioni d'assedio. Ma quando
Cosliaco era sul punto di doversi arrendere, questo si rivolse al
Patriarca, il quale fece occupare come proprietà della Chiesa aquileiese
il Castello, penetrandovi con venti Cavalieri il di lui Vice-Marchese
d'Istria. L'impresa dei Veneti per ciò falliva. Proponeva la Repubblica
che la questione tra il Patriarca e la Contessa intorno la proprietà di
Cosliaco venisse rimessa in arbitri; sembra che
l'arbitramento fu
accettato, ma non se ne conosce l'esito.(15)
Che il castello di Chersano occupato dai Veneti con permissione della
Contessa fosse, come viene detto, di proprietà di questa, è lecito
dubitare; essa potrebbe avervi vantato forse dei soliti diritti pretesi in
forza di occupazione in tempi anteriori in occasione di guerre dei Conti
d'Istria col Patriarcato, alle cui spese tanto questi che Venezia
cercavano d'estendersi; e giacchè questa aveva già posto un podestà a
Chersano è verisimile che l'impresa dei Veneti contro
Cosliaco per segreta
convenzione mirava a far cadere in mano della contessa
Cosliaco, e
Chersano ai Veneti.
Comunque sia la cosa, è certo che nella pace del 14 agosto 1274 seguita
a Cividale fra il Patriarca
Raimondo ed il Conte
Alberto II è accennata la
distruzione nella precedente guerra del castello di Carsac (Carsano)
di ragione del Patriarca; (16) ed è certo del pari che nell'anno
1338, addi 23 d'agosto, Patriarca Bertrando investiva il nobile Carlo
Crothendorter, rappresentato dal Preposito della Chiesa di
Pisino,
Guglielmo, a titolo di feudo della metà del Castello di
Carsano con tutti
i diritti e pertinenze già goduti dal defunto suo padre Enrico. (17) Secondo
il Kandler appena nel 1358
(18) colla pace seguita tra Lodovico re d'Ungheria
il Patriarca, il conte d'Istria ed i Veneziani,
Chersano e
Sumberg,
[55] staccati dal territorio d'Albona sarebbero stati dati al Conte
d'Istria; ma questa dovrebb'essere semplice congettura del
Kandler;
attesochè nell'atto di pace non si fa cenno di quei castelli, ed il
patriarca ed il conte essendo alleati del re, non v'avea ragione di
togliere al primo due castelli per darli al secondo. Apparisce però che da
Vienna, 2 settembre 1388,
Alberto duca d'Austria concesse in feudo la metà
del Castello di Chorsan nell' Istria ad Ugone di
Duino suo capitano della
Carniola. Nel 1450 Chersano trovavasi in possesso dei Veneti, poichè in
quell'anno Doge Francesco Foscari rinnova investitura feudale ad Antonio
Gartschaner (Cherschianer) delle ville di
Gartschan e
Sumberg già
possedute da lui, suo padre e progenitori, in feudo della Chiesa
Aquileiese; (19) però nel 1457
Chersano era già ritornata agli
Austriaci, che vi avevano costruito, cioè ricostruito, il Castello. (20) Lo
stesso Patriarca investiva nel 24 ottobre del 1341 Pietro Davanzo di
Firenze della villa di Cozoro (Cozur) in Istria, qui locus fuit
et est feudum antiquum Ecclesie Aquiljensis, con tutti i diritti a
flumine Arse usque ad aquas safeas; (21) dunque questa villa non poteva
appartenere nel 1275 o nel 1325 al Conte d'Istria nè egli farne donazione
a Filippo Macich di Cosliaco. Dunque da quanto abbiamo esposto
risulterebbe che negli anni 1275-1325 il Conte d'Istria non possedeva ne
Cosliaco, nè Chersano, nè Cozur.
E ritornando a Cosliaco, osserveremo che nell'anno 1367 Patriarca
Marquardo investiva il nobiluomo Doimo di San Vito del Fiume delle ville
di Jaschinbik (oggidì Jessenovik) presso il Castello di
Cosliaco e di
Latoy (Letai) situata tra il detto castello e Bray (Bellai), però solo
vita durante dell'investito. (22) Ciò farebbe ritenere che il Conte
d'Istria non era ancora giunto al possesso di quella regione, e quindi
nemmeno del Castello di Cosliaco attiguo a Jaschinbik.
Addì 3 di luglio del 1363 fu segnata una convenzione tra i Comune di
Albona rappresentato dal Lovrizza capitano generale [56] di quella terra e dai giudici e consiglieri (tra i quali compariscono
un Rumen o Romano ed un Lupatino, nomi che appaiono anche nell'Istrumento
del 1325) e tra Filippo signore di
Cosliaco per la giudicatura nella
festività e fiera di San Pietro della Villa, che esso Filippo dimostrò con
testimoni aver egli ed i suoi antecessori esercitata ab antiquo; e
fu stabilito, ch' egli continuerà ad avere la giurisdizione per rendere
giustizia durante la fiera; che però nè egli nè i suoi successori possano
obbligare nessun Abbate, Chierico o Laico ivi dimorante a preparargli
nessun pranzo, merenda o altro pasto, nè ad alcun altra angheria
nell'incontro di quella fiera, salvochè l'Abbate non lo volesse fare di
sua libera volontà; e che la detta chiesa debba rimanere, come da antico,
coi suoi territori, pascoli ed altre cose ad essa chiesa spettanti, del
Comune di Albona. (23) Quest'atto fu redatto in
Albona in lingua latina,
sebbene i nomi degli Albonesi intervenuti alla Convenzione siano slavi. Il
che concorre a mostrare falso l'atto di confinazione di cui ci occupiamo
che sarebbe stato esteso nelle lingue latina, tedesca e slava.
Da questo documento intanto rileviamo che nel 1363 vi fu un Filippo
signore di Cosliaco, che questi ed i suoi predecessori avevano ab
antiquo la giurisdizione della fiera di San Pietro al confine fra
Albona e
Cosliaco, che la chiesa era dell'Abbazia, che questa Abbazia in
quell'anno esisteva, parlandosi di Abbate e di chierici, e che quindi la
sua distruzione asserita nell'Istrumento di confinazione del 1325 non era
ancora seguita, e finalmente che le asserzioni essere quella chiesa di S.
Pietro stata riconosciuto del comune di
Sumberg, e che la giurisdizione su
quella fiera sia allora stata attribuita al lontano signore di
Vragna, non
sono ammissibili.
Nell'anno 1380 e precedenti vi fu lunga guerra ed asprissima fra il
Patriarca ed i Veneti, i quali misero in campo forti armate, terminata
colla pace di Torino nel 1381.(24) La distruzione dell'Abbazia di S.
Pietro potrebbe pertanto venire posta in quell'epoca. Certo è però
soltanto che nel 1368 Cosliaco era dei Conti d'Istria.(25)
[57] Nell'Atto di reambulazione uno dei personaggi maggiormente spiccanti si
è Filippo Macich signore di Cosliaco. Come abbiamo veduto, nel 1332 era
proprietario di questo castello un Filippo; e Filippo chiamavasi pure
quello che stipulò nel 1363 con Altana la convenzione per la giurisdizione
sulla fiera dell'Abbazia di S. Pietro; potrebbe ritenersi pertanto che
siano l'identica persona; e costui dovrebbe essere il padre di quei Nicolò
ed Ermano fratelli (Gotnicar) appellati de Castro Wachsenstein seu alio
nomine Cosliaco in Istria sito, i quali assieme coi loro figli (che
dovevano essere già maggiorenni per obbligarsi) donarono nell'anno 1395
alll'Ordine dei Paolini della regola di S. Agostino la chiesa della B. V.
di Cepich al lago sotto il detto Castello, con tutti i beni e possessioni
alla medesima assegnati dal loro padre felicis memoriae, Filippo.(26)
Siccome poi abbiamo veduto che nel 1332
Cosliaco era del Patriarca, la
convenzione di Filippo signore di quel castello con
Albona nel 1363 fa
credere che lo fosse ancora in quest'anno, altrimenti non si spiegherebbe
come un dipendente della Contea potesse esercitare atto di giurisdizione
sopra un luogo d'altro Stato, cioè sopra S. Pietro situato nel territorio
patriarchino d'Albona.
Questi signori Gotnicar derivarono il loro nome verosimilmente dal
castello di Gutenek, detto in slavo Gotnik, di cui anteriormente saranno
stati in possesso. Il
Valvasor li chiama Gutteneker. Forse il nome
originario di famiglia era Macich, quando questo non fosse uno
storpiamento del nome Moyses famiglia che negli anni 1430 e 1436
apparisce investita da Federico duca d'Austria del castello di
Cosliaco.(27)
Altri documenti indicatici dal chiarissimo signor Consigliere
ministeriale Giovanni Kobler di Fiume, dotto ed indefesso raccoglitore di
materiali per la storia della sua patria, mostrano che nell'anno 1342, li
25 giugno, Patriarca Bertrando dava in feudo il Castello di
Cosliaco a
Giorgio e Rodolfo figli di Ugone di
Duino ed a Ugolino cugino dei
medesimi, e sotto la data degli [58] 11di marzo del 1374 Marquardo patriarca conferiva ad Ugone di
Duino suo
Marchese d'Istria il villaggio Vaniol nell'Istria, vita sua
durante, e nello stesso anno in data da Senosetsch, 7 novembre Nicolò ed
Alberto di Eberstein rinunziavano allo stesso Ugone il Castello di
Vaniol nell'Istria. Questo luogo detto in altre carte Baniol
non è altro che Bogliuno, e forse storpiamento dell'antico nome di
Finale.
Dunque nè Cosliaco nè
Bogliuno erano della Contea negli anni 1275 e
1325.
Alla reambulazione sarebbe intervenuto anche il signore di
Lupoglavo
Viliker o Velkar vassallo del Conte d'Istria.
Ma nel 1275 Lupoglavo non apparteneva ancora alla Contea, poiché nel
1264 Patriarca Gregorio investiva Enrico di
Pisino ed i figli di questo
del castello di Lupoglau, e d'una villa, "que est sub
castro, que Ober-Lupoglau dicitur," (28) né ancor vi apparteneva nel
1300, poiché Enrico figlio del fu Enrico de Merinvuels (Marenfels)
— cosi chiamano i tedeschi Lupoglavo — riconobbe d' avere in feudo dalla
Chiesa aquileiese il castello di
Lupoglavo colla sottoposta villa ad esso
spettante. (29)
Al seguito del Marchese Guglielmo di Cividale è indicato nell'Atto di
confinazione il signore Manzol o Mazol, o Mangol (secondo i diversi
testi), al quale in ricognizione della sua fedeltà il Patriarca
aveva dato Marcenigla (Marceniga). Consta però da atti del 1371, 27
marzo, che D. Patriarcha Marquardus concesse nobili viro
Manziglo qm. Ottonis de Cernomel in pattern remumerationis serviciorum
suorum ad rectum et legalem feudum in villam nostrani de Marchnech sitam
in Istria, quam olim a nobis, et eadem Ecclesia Aquilejensi obtinebat in
Feudum nobilis Herardus de Herbersteyn miles ad nos devolutam, quia idem
Herardus sine egitimis heredibus ex se descendentibus diem clausit
exéremum.(30) Questo Manciglo di Marcenech è il Manzol di Marcenigla,
ed è troppo evidente che nell' Istrumento del 5 Maggio 1825 fu riportato
un fatto dì data assai posteriore.
[59] Basterebbero le cose da noi sinora esposte per dimostrare che
l'istrumento di cui ci occupiamo non può essere nè del 1325, nè del 1275
come suppone il Kandler, all'opinione del quale opporremo altre
considerazioni ancora.
Nell'anno 1275, li 24 febraio, seguiva in Cividale una tregua tra il
Patriarca
Raimondo e Conte
Alberto per sè e per le città di
Capodistria e
Pirano, dopo magne discordie et guerre discrimen, per quod utrimque
strages horum locorum incendia cum depopulatione etiam et rerum
destructione plurima prouenerunt.
Varie questioni dovevano venir risolte per poter conchiudere la pace.
Quella, se il castello di Cormons appartenesse al Patriarca od al Conte,
restava riservata al futuro parlamento del Friuli; l'altra riguardo a
Gemona fa rimessa in due arbitri; altri due arbitri, cioè il Marchese
patriarchino dell' Istria Goffredo della Torre ed Enrico di
Pisino,
dovevano far rilievi e decidere intorno tutte le questioni per offese e
danni recatisi vicendevolmente dai due potentati nelle precedenti guerre.
Quest'ultimo affare richiese naturalmente molto tempo, sicché la pace
definitiva fu conchiusa appena nel 1277.(31) Non è dunque
ragionevolmente possibile che nell'anno 1275, anzi sino al 1277, siavi
stata la ricognizione di confini di cui si tratta, che promette un finale
assetto di ogni vertenza pendente, una durevole pace, e sincera amicizia.
In vece, la discordia scoppiò di nuovo nel 1278 tra il Conte
Alberto II ed
il Patriarca
Raimondo, che s'unirono poi soltanto per resistere ai
Veneziani comuni nemici, i quali cercavano d'allargare i loro possedimenti
istriani.(32)
Se le ragioni addotte dal Kandler pongono fuor di dubbio che la
reambulazione ed il relativo Istrumento non possono essere avvenuti nel
1325, i fatti storici da noi esposti vengono a dimostrare con pari
evidenza che non è neppure ad essi attribuibile, come vorrebbe il
Kandler,
la data del 5 maggio 1275, e meno ancora quella del
Ljubić che la fa
retrocedere al 5 marzo di quell' anno, quindi soli 9 giorni dopo conchiusa
la tregua.
[60] Ma noi riteniamo non essere la pretesa reambulazione seguita nè prima,
e nemmeno dopo gl' indicati anni, e che l'Istrumento sia apocrifo,
e null'altro che un'impostura escogitata assai più tardi, a fine di
valersene nelle incessanti questioni di confine che si agitarono tra i
Veneti ed i Principi Austriaci subentrati ai Conti d'Istria nei loro
possedimenti in questa provincia.
La reambulazione, giusta l'introduzione dell' Istrumento, aveva per
iscopo di determinare e precisare i confini tra i territori spettanti al
Conte d'Istria, e quelli del Patriarca, e le terre possedute nell'Istria
dai Veneziani. È strano però che non viene nominato alcun luogo di cui si
potesse desumere che fosse soggetto alla Repubblica.
La reambulazione non è completa, come dovrebb' essere stata; ed inoltre
in buona parte riguarda la revisione di confini tra comuni appartenenti al
Conte; operazione questa in cui non entravano per nulla il Marchese
patriarchino ed i Veneziani. Non è completa, perchè si tace dei confini
tra Rozzo e Colmo patriarchini da una parte, e
Lupoglavo e Semich, che
sarebbero stati del Conte, dall'altra; similmente non furono riveduti i
confini sul Montemaggiore tra Lupoglavo,
Vragna,
Bogliuno e
Cosliaco che
si pretendevano allora della Contea, ed i patriarchini di
Castua,
Veprinaz, Moschienizze. Non si passò nemmeno a stabilire i limiti di
Sanvicenti del Conte con Valle del Patriarca, nè di Castione o Costigliene
(Coslun), comitale, con Cittanuova, veneta, e manca pure la
confinazione tra Antignana soggetta al Conte da un lato, e gli agri di San
Lorenzo e Montona dall'altro.
All'opposto si stabilirono i confini esterni tra i comuni del Conte:
Gollogorizza con Cerovglie, Gallignana,
Bogliuno e Gradigne, e quelli tra
Bogliuno e
Pedena e Cherbune; e verso il territorio di
Pola e
Dignano
furono pure risolte le questioni di confini tra
Barbana, Golzana e
Sanvincentì, tutti luoghi del Conte.
La reambulazione portata dal controverso Istrumento apparisce
inverosimile per le ragioni sopraddette, ed anche perchè, come fu già
accennato, essa avrebbe presupposto uno stabile e definitivo assestamento
di domini fra il Patriarca, il Conte d'Istria ed i Veneziani, che era
impossibile perchè contrario alle intenzioni tanto del Conte che della
Repubblica, intesi entrambi ad allargarsi. Il [61] Marchesato d'Istria non era mai in pieno e quieto dominio dei
Patriarchi. Nel 1112 s'era formata la Contea d'Istria coll'assegno fatto
di Pisino e di
Pedena ad Engelberto di Eppenstein, la quale passò poi da
questa famiglia ai Conti di Gorizia. La Contea era affatto indipendente
dal Marchesato, ed i Conti da una parte, dall' altra i Veneziani che
avevano posto piede in Istria in base di antichi diritti e di atti di
dedizione, s'affaticavano senza posa ad estendere sempre più i loro domini
a spese di quelli del Marchesato patriarcale. Quindi continui contrasti e
guerre; le tregue e le paci durano brevissimo tempo.(33) Subentrati nel
1374 ai Conti d'Istria i Principi Austriaci, e poi nel 1420 i Veneti ai
Patriarchi riguardo agli ultimi loro possedimenti in Istria, le questioni
si riaccesero tra i Veneziani e gli Austriaci, ognuno dei quali tendeva ad
avere l'intiera provincia. Ove questa sin dal 1200 avesse avuto un solo
padrone, le sarebbero state risparmiate quelle incessanti agitazioni,
discordie e guerre con esternimi di uomini e di luoghi e devastazioni di
campagne ed animali, che furono, coll' aggiunta delle molte pesti, la
principale causa della secolare sua deiezione, da cui viene risorgendo
dopo la sua unificazione avvenuta appena al principiare del secolo in cui
viviamo.
È detto nell'introduzione dell'Istrumento che al marchese Guglielmo fu
conferita dal patriarca piena autorità tanto nel temporale che
nell'ecclesiastico. In quest'ultimo riguardo ciò 6 assolutamente
inammissibile, essendochè la podestà ecclesiastica in assenza o per
impedimento del patriarca veniva, com'è naturale, esercitata sempre da un
delegato ecclesiastico, sotto il titolo di vicario.
Nell'Istrumento sono accolti dei fatti estranei alla reambulazione,
come la notizia che allora i vescovi di Pedena abitavano nel monte di
Vermo presso la chiesa di S. Michele (che dista due ore e mezzo da
Pisino)
e che soltanto nei giorni pontificali andavano a funzionare a Pedena,
oltre alle condizioni sotto le quali Pietro Slovenanin di Gallignana fu
fatto cavaliere, e la cagione per cui a Manciglo venne assegnata
Marcenigla.
[62] I Conti d'Istria s'intitolavano sempre Conti di Gorizia: in
quest'Istrumento
Alberto è chiamato Conte di Metlica (Moettling) e
Pisino,
e mai di Gorizia; e persino, cosa notevole, il titolo di
Pisino è posposto
a quello di Metlica, lontano possedimento di altra provincia.
La reambulazione avrebbe durato niente meno che ventun giorni. Vi
sarebbero intervenuti dodici principali cavalieri col cingolo d'oro,
ognuno dei quali aveva un seguito di altri dodici di minor grado, ed
altrettanti pedoni. Di questi cavalieri di primo rango quattro coi
relativi dipendenti accompagnavano, ultimata l'operazione, il
Marchese a titolo di corteggio sino a
Capodistria (si noti però che i
Marchesi solevano abitare nel castello di Pietrapelosa), gli altri otto
ritornarono col Conte a Pisino.
Il Marchese venne pure con grande scorta, e sono nominati quindici
cavalieri, e s'intende che anch'essi avevano i loro servi. Finalmente
sarebbero intervenuti alle reambulazioni i giudici è zupani di ogni
singolo comune percorso, i quali (cosa ben strana!) non venivano già
licenziati dopo regolate le cose del loro comune, ma erano costretti senza
scopo ad accompagnare il Conte ed il Marchese in tutte le successive
reambulazioni, ingrossando di tal guisa ogni giorno la già numerosa
comitiva sino a compiuta operazione. Perfino il Vescovo di
Pedena, dopo
sbrigate le sue faccende a Gimino avrebbe trottato a fianco del Conte per
parecchi giorni, senza alcuna ragione, sino al di lui ritorno a
Pisino.
Dimodochè si può calcolare a oltre 450 il complessivo numero delle persone
componenti questa pomposa comitiva. Per quei tempi era un piccolo
esercito! Come poi una tal moltitudine coi rispettivi cavalli venisse
alloggiata la notte nei piccoli villaggi e castelli, e come si provvedesse
di vitto, nessuno saprebbe immaginarlo, perchè la cosa sta fuori dei
limiti del verisimile, specialmente poi avuto riguardo alle condizioni
dell' Istria in quei tempi.
E tutta questa turba si sarebbe aggirata con grandi disagi per l'Istria
ventun giorni per regolare i confini! Cosa che poteva agevolmente farsi,
come fu sempre fatto in tutte le questioni per confini, mediante un paio
di commissari a ciò deputati da ambe le parti.
[63] Incominciate già nel 1263 (34) siffatte questioni, continuarono
vivissime tra Patriarchi, Conti e Veneti, e tra Veneti ed Austriaci sino
alla fine del secolo XVIII, della cui definizione venivano incaricati
sempre commissari.
Difatti, come si vede dal Codice diplomatico istriano, nel 1367
Patriarca Marquardo nominava con pieni poteri Stefano Vigilio e Ranieri de
Vecchi a commissari per comporre le questioni di
Montona ed altri castelli
della Contea.
Nel 1368 vennero dallo stesso Patriarca eletti Giovanni de Stegberg,
Mancellino capitanio dell'Istria e Lovrica suo fedele d'Albona per
definire col Conte le questioni vertenti tra
Due Castelli ed i sudditi di
quest'ultimo.
Nel 1388 Doge Antonio Venier deputava Francesco Zane e Marco Venier a
regolare le differenze per confine tra
Montona e
Pola di fronte alla
Contea d'Istria.
L'opera Notizie storiche di
Montona del Dr.
Kandler, reca altre
simili commissioni per regolare i confini tra Veneti ed Austriaci, e vi si
trova, tra l'altro, un'interessante Relazione (Arricordo) 3 agosto 1457
delli Antonio Venier e Francesco Caodelista commissari veneti, dal quale
si rileva che i commissari austriaci produssero un istrumento falso
con cui pretendevano giustificare gli usurpi di terreni a danno dei
Montonesi, il quale essendo stato dagli oratori veneti dimostrato
apocrifo, non fu da quelli più allegato. Abbiamo qui il notevole fatto che
già allora nelle questioni di confine si ricorreva a documenti
falsificati.
Dalle cose finora esposte risulta, ci pare, a sufficienza dimostrata
l'apocrifità dell'Istrumento 5 maggio 1325. Ma quanto ora saremo per dire
lo dimostrerà viemmaggiormente.
Il testo slavo di cui si servi nell'anno 1740 il canonico di Segna
Cerovaz per la sua traduzione italiana, porta in calce la Memoria da noi
riferita del Nodaro Pre' Nicolò di Golagorizza sopra importanti fatti
posteriormente successi, dei quali tutti egli sarebbe stato testimonio.
Prescindendo dalla circostanza che questa Memoria comparisce dopo la
certificazione notarile di Prè Giacomo Crisanich [64] portante la data del 1502, e sarebbe perciò solo sospetta, osserveremo
comprender essa accumulati vari fatti storici tra loro distinti, che
successero in epoche diverse e di parecchi anni tra loro lontane, svisati
ed in nessuna relazione l'uno coll'altro.
Vi è detto che un anno e mezzo dopo la reambulazione il Conte
Alberto
venne insidiosamente invitato dal Doge a recarsi a Venezia, ove dopo 40
giorni di dimora sarebbe stato costretto a promettere la distrazione de'
suoi Castelli di Antignana, Treviso, Momiano, Castion e Nigrignano, e che
difatti ancora prima del suo ritorno i sudditi veneti gli avevano
diroccati.
Qui si allude evidentemente alla pace stipulata a Venezia li 21 agosto
1324 tra i Veneziani e Conte
Alberto II. (35)
Scoppiata nel 1343 tra essi la guerra pel castello di San Lorenzo,
posseduto dai Veneti e che il Conte pretendeva a sè tributario, questi
cadde prigioniero dei Provveditori Andrea Morosini e Marino Grimani, i
quali lo lasciarono libero, come sembra, sulla sua parola d'onore, per lo
che furono aspramente rimproverati dal loro Governo.(36) Stipulata una
tregua, il Conte si condusse poi a Venezia a trattare la pace. Essa fu
conchiusa a condizioni gravi pel Conte, il quale dovette promettere
verrebbero demoliti i castelli, le mura ed i fortilizi di Treviso, Momiano
ed Antignana, nè possano più rifabbricarsi; che pure nessun altro
castello o fortificazione egli possa erigere da
Valle sino al fiume
Quieto, e che nelle questioni di confini tra i suoi luoghi ed i luoghi dei
Veneti la decisione spetti al Doge. (37)
Dal racconto di Prè Nicolò risulterebbe che i sudditi veneti appena
risaputa la pace e le sue condizioni, che il Governo veneto si sarà
affrettato di far loro conoscere, e prima che il Conte ritornasse in
Istria, andarono a demolire i castelli e le fortificazioni, e che i
sudditi del Conte, forse ancora ignari della pace, vi facessero
opposizione accompagnata da spargimento di sangue.
[65] Stando dunque alla narrazione di Prè Nicolò la réambula-zione avrebbe
dovuto aver luogo non più nel 1325, bensì nel 1342.
Continuando egli la sua Memoria, ci racconta come in seguito morirono
tutti i vassalli del Conte nominati nell'Istrumento, colle loro famiglie,
indicando presso ciascuna il numero degl'individui colpiti da morte, e
finalmente s'estinse la famiglia del Conte, e scese nella tomba egli
stesso. Indi aggiunge: "e cosi subito il Comune Veneto cominciò
impossessarsi dei luoghi del sig.
Raimondo Podreka (Patriarca), e
dei luoghi del sig. Conte e deii di lui confini."
Queste morti sembrano riferirsi alle stragi che fece la terribile peste
del 1360-61 in Istria ed in tutta Europa, e che sarà penetrata
sterminatrice anche nei castelli, senza che però si possa supporre che per
essa s'estinguessero tutte le famiglie indicate. Dovette però risentirsene
grandemente la provincia, se il Governo Veneto in data 17 novembre 1376
ordinava a tutti i Rettori che per ripopolare la campagna ed i luoghi
dell'Istria venga proclamato, che tutti quelli, i quali entro un anno
venissero ad abitarvi, saranno liberi da ogni angheria personale e reale
di dette terre e luoghi per lo spazio di cinque anni. Ed ancora
anteriormente le pesti andavano distruggendo la popolazione dell'Istria,
poichè in un deliberato del Senato sotto la data 27 agosto 1348 si
osserva: et cum terre nostre de Istria sint multum exute de civibus. qui
propter postem preteritam defecerunt, et maxime civitas Pole, vadit pars
ecc.(38)
Il Conte
Alberto II d'Istria però morì appena nel 1374 senza
successione, onde la Contea di Pisino passò, in forza di stipulati patti
di mutua successione, nei Duchi d'Austria.
Dunque la Memoria di Prò Nicolò sarebbe redatta dopo il 1374.
Che i Veneti incominciassero appena allora a impossessarsi delle terre
del Patriarca è falso, perchè a quell'epoca erano padroni della massima
parte dell'Istria patriarchina; senonchè il presunto Prè Nicolò sembra
accennare alla successiva completa conquista dei territori ancora rimasti
al Patriarca ed alla [66] distruzione del suo dominio temporale in Istria, avvenuta nel 1420; il
che porterebbe a ritenere che la Memoria fu scritta almeno intorno il
1400.
Ma questo Prè Nicolò, pievano di Gollogorizza, ha egli mai esistito?
Rispondiamo affermativamente; ed è egli l'unica persona, fra le
nominate nell' Istrumento del 5 maggio 1325, che potrebbe stare al suo
posto, per essere istorìcamente provata la sua esistenza in quell' anno.
Dal diploma di data 24 marzo 1335, Indizione III, riportato nel
Codice diplomatico istriano, si scorge, che l'Abbate di Bosazzo per
incarico del Patriarca Bertrando: quia sibi constitit ex publico
instrumento quod dominus Nicolaus plebanus Gologoricie generalis Vicariuso
olim Venerabilis patris domini Fratris Enoch Dei gratia Episcopi
Petenensis in spiritualibus, et temporalibus, in Millesimo trecentesimo
vigesimo quarto, Indictione VII, die VIII exeunte Novembris de predicta
plebe Gallignane vacante per mortem olim presbiteri Johannis de
Justinopoli dicte plebis plebani provido viro presbitero Cernar de
Pisino
superiori providit, et ipsam plebem sibi contulit, eundem presbiterum in
plebanum jam dicte plebi preficiendo, de cujus potestate, et auctoritate
conferendi nec per Instrumentum speciale, nec per insertionem factam in
Instrumento provvisionis predide constitit, nec constare potuit ecc.,
esso Abbate annullava quest'elezione, nominando in vece a pievano di
Gallignana il prete Jacopo di Lavazzo proprio Vicario di Manzano.
Questa notizia è per noi sotto più aspetti importante.
Risulta in primo luogo dimostrato che nel 1324 Gollogorizza era già
plebania ossia parocchia, contro l'opinione del
Kandler e dello
Scematismo ecclesiastico della diocesi di
Trieste-Capodistria, che
pone appena nel 1656 l'istituzione di questa parocchia.
Questo Prè Nicolò doveva essere uomo di vaglia se, morto il Vescovo
Enoch, era, vacante sede, per molti anni Vicario in spiritualibus et
temporalibus della diocesi di Pedena; doveva essere erudito nel
latino, lingua sempre usitata nella liturgia di quella come di tutte le
altre diocesi dell' Istria, e che pure dev'essere stata delle plebanie, se
alla pieve di Gallignana era preposto un plebano nativo di Justinopoli e
poi un friulano di Lavazzo, che difficilmente si può ammettere
conoscessero la [67] lingua e liturgia slava. E questa semplice circostanza potrebbe
indicare che a quel tempo a Gallignana gli Slavi non erano ancora tanto
numerosi da dover loro dare sacerdoti della loro lingua.
Pertanto, se esso Prè Nicolò fosse intervenuto, come vien detto nella
Memoria citata, non solo alla reambulazione, ma anche alla stipulazione
della pace del 1344 in Venezia, egli vi sarebbe stato nominato nell'Atto
relativo, e siccome conosceva il latino ed anche il tedesco, perchè nell'
Istrumento di reambulazione si qualifica cappellano del Conte, il quale
parlava soltanto il tedesco ed ignorava affatto il latino, sarebbe senza
dubbio stato adoperato quale interprete, senza bisogno di ricorrere per
questa bisogna ai due frati tedeschi Guglielmo di Colonia e Corrado di
Bolzano, ed allo scrivano del Conte di Gorizia, od almeno vi avrebbe
figurato, siccome uomo di somma fiducia del Conte
Alberto, in concorso dei
medesimi.
Il preteso Istrumento di reambulazione è redatto in forma e stile tale
da non potersi ammettere che la sua compilazione derivi da persone
istruite come dev'essere stato il Vicario Prè Nicolò, ed i Nodari del
Patriarca; la Memoria poi, che si vuole aggiunta dallo stesso Prè Nicolò,
dimostra nello scrittore un idiota dei più grossolani.
Ora si presenterebbe il quesito: quando venne fabbricato questo falso
Istrumento?
Abbiamo veduto che nel medesimo e nell'aggiuntavi Memoria si accennano
a fatti e persone che sono degli anni 1363-65 (Marchese Guglielmo di
Cividale), 1371 (Manzol o Mancillo di Marcenigla), 1374 (morte del Conte
Alberto II), 1400-1420 (cessazione del dominio temporale dei
Patriarchi). Si può dunque ritenere senza timore d'andare errati che
quella Scrittura venne elaborata tra il 1400 ed il 1502 almeno, nel
quale ultimo anno ne sarebbe stata tratta la prima copia che si conosca.
Abbiamo pure veduto che nella tentata regolazione di confini fra
Montona veneta e la
Contea nell'anno 1457, i commissari austriaci produssero un documento
ripudiato dai commissari veneti perchè riconosciuto falso. Potrebbe
essere questo di cui ci occupiamo, rimesso poi in luce nel 1502 dal
citatovi Capitanio di Pisino [68] Giorgio Ellacher, sebbene noi propendiamo a crederlo fabbricato sotto
la sua amministrazione.
Ma questo Istrumento può egli ritenersi redatto, come nel medesimo sta
espresso, in tre lingue, latina, cioè, tedesea e slava?
Fra coloro che l'hanno per sincero, carne il
Kandler ed il Czoernig,
mentre il secondo lo ammette trilingue, il primo, per le valide ragioni
indicate nel suo Commento, lo vuole latino soltanto. Difatti, tra le
moltissime scritture pubbliche antiche di pgni genere, nessuna finora
comparve redatta in lingua slava; il latino e più tardi l'italiano sono le
sole lingue adoperate in tutte le confinazioni che pervennero in buon
numero sino a noi.
Ciò nel}' Istria propria fra i monti ed il mare; altrimenti stavano le
cose nella confinante Liburnia dove preponderava V elemento e lo spirito
slavo, sicchè in questa lingua ebbero gli statuti municipali ed altre
scritture, come testamenti scritti da preti e libri di nascite, morti e
matrimoni.
Senonchè essendo per noi apocrifo quell'Istrumento, la questione delle
lingue usitate nelle scritture dei secoli XIII e XIV diviene oziosa, e
dobbiamo soltanto proporci il quesito: se la falsificazione fu fatta in
una o in tre lingue. Crediamo in una sola, cioè nella slava.
Uno dei tre esemplari originali latino-tedeschi-slavi sarebbe stato
deposto nel castello di Pisino. Il prete e nodaro Giacomo Crisanich
dichiara d'averlo trascritto integralmente nel 1502 in tutte e tre le
lingue, ed essere stato confermato col suo suggello dal magnifico Capitano
di Pisino Giorgio Ellacher alla presenza dei Giudici Biasio de Biasio e
Standorfer (?) di Dignano e del Giudice Antonio Malusa e dieci consiglieri
di Pola, delegati ad udirlo ed ispezionarlo in causa di certe questioni di
confini. In una delle copie latine sta invece espresso che l'Ellacher nel
1502 confermò la copia e ne fu interprete al Giudice Biagio di
Dignano
venuto in persona ad udirlo. Anche nella copia italiana del Cerovaz è
detto che l'Ellacher fu l'interprete senza indicare però a quale
persona.
Dal che si deve dedurre, che al delegato o delegati italiani di
Dignano
e Pola (di questi ultimi ne sarebbero stati undici?!) non fa esibito
TIstrumento originale, ma la copia [69] fatta dal Crisanich, e che nemmeno di questa si volle, come sarebbe
stato naturale, rilasciarne ad essi copia, ma ne fu fatta soltanto r
interpretazione dal Capitano Ellacher.
Però, se l'Istrumento originale trilingue esisteva nel 1502, se
esisteva la copia autentica integrale che si pretende fatta dal Crisanich,
perchè, anzichè dare ai delegati il brano latino relativo alla questione
di confini insorta tra Pola e
Dignano, onde possano recarlo seco, gliene
venne fatta interpretazione (dallo slavo)? Come avvenne poi, che nell'anno
1526, cioè soli ventiquattro anni più tardi, occorresse far dallo slavo
una traduzione latina dell' Istrumento ad opera del prete Giovanni
Golobich, e precisamente della stessa copia autentica del Crisanich, la
quale oltre il testo slavo conteneva anche il latino ed il tedesco?
Di questa incongruenza, che avrebbe svelata la falsificazione, devono
essersi accorti più tardi coloro cui interessava di far giucare
l'Istrumento nelle continue questioni di confine tra Venezia e gli Stati
Austriaci, e specialmente in quelle che furono risolte colla sentenza
arbitramentale a Trento dd. 7 giugno 1535, dove agli arbitri fu spedita la
copia latina del Gollobich, sicchè ricorsero all'espediente di far
apparire che dalla pretesa copia trilingue del Nodaro Giacomo Crisanich
altri Nodari ne traessero soltanto copie slave, dalle quali poi si fecero
traduzioni latine ed italiane.
Come sta indicato nei testi slavi, latini e italiani che or possediamo,
un esemplare dell'originale Istrumento trilingue fu consegnato al
Patriarca, uno venne depositato nel castello di
Pisino, l'altro in quello
di Gorizia. E perchè due esemplari originali al Conte, e nessuno ai
Veneziani, che pur diconsi intervenuti mediante il Marchese del Patriarca,
pei loro possedimenti istriani, alla reambulazione?
È chiaro, che se fosse stato detto in quest'Atto che uno degli
originali venne rimesso alla Repubblica, questa che gelosamente conservava
nel suo Archivio anche gli atti meno importanti, avrebbe facilmente
scoperto, per la mancanza dell' Istrumento, la falsità dell' asserzione, e
l'apocrifità del medesimo. Che se poi ano degli originali fosse stato
depositato nell'Archivio dei Conti di Gorizia, esso sarebbe stato
rinvenuto dal Barone Czoernig che lo compulsò per iscrìvere la sua
Storia di Gorizia [70]
e del Patriarcato d'Aquileja, e da altri esploratori. Un atto di
tanto volume e rilievo poi non sarebbe sfuggito al cancelliere Odorico de
Susanni, il quale compilò nell'anno 1367 il Catalogo di tutti
gl'istrumenti risguardanti il patriarcato d'Aquileja trovatisi
nell'Archivio patriarcale, pubblicato dall'Abate Bianchi sotto il titolo:
Thesaurus Ecclesiae Aquilejensis; nel qual Catalogo esso non è
punto accennato.
Di copie tedesche non s'ebbe mai sentore.
Convien dunque ritenere che quest' Istrumento provatamente apocrifo
venne fatto redigere da qualche Capitanio della Contea di
Pisino a bella
posta in lingua slava e con caratteri glagolitici noti soltanto ai preti
della campagna (nè certo a tutti), con V intenzione di viemmeglio
mascherarne la falsificazione, e che poi in vari tempi ne furono eseguite
traduzioni latine e italiane allo scopo di servirsene nelle secolari
contese di confini coi Veneti, com'è dimostrato dall'essersi queste
rinvenute nell'Archivio generale di Venezia fra gli atti appunto che
trattano di questioni confinarie.
Per compilare questo Istrumento slavo, era necessario servirsi
dell'opera di preti versati in questo linguaggio. Diffatti, oltrechè fu
posto come preteso nodaro estensore dell'Atto Pré Nicolò pievano di
Gollogorizza, veggiamo comparire come autori delle copie o testimoni alla
loro autenticazione o come traduttori i nodari preti Giacomo e Levato
Crisanich, Vincenzo Brencovich, Michele Marcovich, Giorgio Glavanich,
Giovanni Golobich ed Antonio Giuseppe Cerovaz. Il solo Patricio Giuseppe
Bellassich traduttore italiano non sembra uomo di Chiesa; e trovai sotto
questo preciso nome al principio del 1700 un cancelliere della Contea di
Pisino.
Meno i due ultimi, tutti codesti individui appariscono vissuti nel
1500, ed accennandosi al Capitanio di
Pisino Giorgio Ellacher ed al
Vice-Capitanio Bartolomeo Raunoch, entrambi della prima metà di quel
secolo, siccome aventi una qualunque ingerenza in quelle copie e
traduzioni, si può ritenere che l'Istrumento fu elaborato sotto
l'amministrazione dell'uno o dell'altro.
Se nell'Archivio generale di Venezia si potrà rilevare quando la prima
volta venne portato in campo dagli Austriaci quel documento, sara più
facile determinare l'approssimativa data della sua origine.
[71] Il compilatore era senz'altro uomo di non molta levatura, mostrando
d'avere avuto qualche cognizione superficiale della storia dei secoli
precedenti, confondendo però le date e affastellando, quasi fossero
contemporanei, persone e fatti tra loro assai distanti. È strano poi che
la pena di 300 marche stabilita a chi contravvenisse a quanto veniva
determinato sulle linee dei confini dei singoli comuni, dovesse venire
divisa non già fra il Patriarca, il Conte ed i Veneziani, bensì fra il
Conte, tutti gl'intervenuti nobili, ed i singoli comuni danneggiati in
parti uguali.
Ma chi avrebbe ciò mandato ad esecuzione, chi avrebbe esatto queste
penalità fra comuni soggetti a potentati diversi, e ripartite le tangenti
spettanti ai singoli numerosi nobili patriarchini e comitali intervenuti
alla reambulazione?
La Memoria poi che Prè Nicolò avrebbe aggiunta all' originale slavo, e
che, come fu notato, si trova riportata nella traduzione del Cerovaz dopo
l'autenticazione notarile di Giacomo Crisanich, mostra ad evidenza
derivare essa da un prete ignorantissimo, dico prete, perchè solo i preti
usavano la lingua slava ed i caratteri glagolitici cotanto disformi dai
latini; e lo stile adoperatovi è precisamente quale si trova nella piccola
Cronaca di Bogliuno, ed in alcune notizie che in via di ricordi essi
solevano segnare nei secoli XV e XVI sui cartoni dei messali ed altri
libri liturgici slavi, a'nostri tempi raccolti e trasportati a Lubiana,
ove esistono nella Biblioteca ginnasiale ed in quella della Società
storica della Carniola.
Per poter elaborare questo falso Istrumento due erano i modi da
adottarsi. Il compilatore cioè, o doveva portarsi sopraluogo,
intraprendendo reambulazioni su tutte le linee ove si toccavano già i
territori del Patriarca, del Conte e dei Veneti informandosi e annotando i
confini ed i singoli loro segni, e tracciando quelle nuove linee che
intendeva far apparire a vantaggio della Contea, oppure egli deve aver
avuto sott' occhio vecchi atti di confinazione, da cui desumere il
materiale della compilazione, che poi alterava a vantaggio della Contea in
quei passi che si riferivano a questioni di confine allora esistenti, e
lasciando inalterati i passi che riguardavano confini su cui non vertevano
contestazioni.
[72] Il primo modo era troppo laborioso, e che non fosse seguito lo si
scorge dalla più sopra indicata mancanza di confinazione tra alcuni
comuni. Convien quindi ritenere essere stato applicato il secondo.
Infatti troviamo riferite nell' Istrumento scritture di anteriori (che
si dicono le prime) confinazioni degli anni:
1025, |
tra
Pola con Momorano, e Castelnuovo o Rachele; |
" , |
tra
Dignano e Goran e San Vincenti, Barbana e Golzana;
|
1058, |
tra Barbana e Goran di
Dignano;
|
1087, |
tra Momiano e Castelvenere;
|
1125, |
tra Fianona e
Chersano;
|
1130, |
tra San Lorenzo, Corridico e Due Castelli; |
" , |
tra San Lorenzo, Corridico, Treviso e
Montona che si toccano a
Ternova Loqua; |
" , |
tra Buje e Momiano; |
" , |
tra Grisignana, Momiano e Sorbaro; |
" , |
tra Castion di Nigrignano e Buje;
|
1140, |
tra Barbarla e Goran di
Dignano;
|
1150, |
tra Barbana, Santivanaz e Cozur;
|
1170, |
tra Gollogorizza e Cerouglie; |
"
|
tra Cozur ed Albona;
|
1187, |
tra
Pirano, Momiano e Castelvenere;
|
1195, |
tra Sovignaco, Verch e Pinguente;
|
1200, |
tra Momiano, Oscurus e Sorbaro;
|
1271, |
tra
Montona e Treviso. |
Si dovrebbe adunque ritenere che il falso Istrumento venisse elaborato
colla scorta degli or citati atti, i quali sarebbonsi sin allora trovati
nell'Archivio del Castello di Pisino; mentre è a credersi che istrumenti
di confinazione si formassero sin dall'istituzione della Contea d'Istria
che si fa risalire all'anno 1112, ed in seguito, a misura che la medesima,
dapprima limitata a
Pedena e
Pisino, si veniva ingrandendo, e si
conservassero per la loro importanza. Di quell'Archivio oggidì nulla più
rimane che qualche fascio di carte del 1500 e 1000; ma èsse mostrano a
sufficienza che si teneva conto di tutti gli atti di [73] rilievo, anzi del dettaglio delle amministrazioni e delle controversie
tra signoria e sudditi; sicchè siamo tratti a credere che lo stesso sia
avvenuto anche nei secoli precedenti; anzi che vi si conservassero
gl'istrumenti di confinazione, lo si scorge chiaramente dalla Relazione
del vescovo di Pedena Antonio Zara, e di Gregorio Cramer dd. 28 marzo 1605
all'Arciduca d'Austria, dove raccomandano che i medesimi vengano custoditi
sotto doppia chiave.(39)
La completa distruzione dell'Archivio successe tra il 1830 ed il 1840,
quando la Signoria fu privata della giurisdizione civile e politica
avvocata dallo Stato, e le polverose carte contenenti chi sa qual tesoro
per la storia, credute inutili e di niun valore, venivano mano mano levate
dagli scafali dagl'inservienti per accendere il fuoco nelle stufe, e da
qualche ingordo basso impiegato per venderle ai pizzicagnoli del
distretto, dai quali alcune poche vennero casualmente ricuperate.
Se le sopra enumerate scritture di confinazione esistevano realmente, e
se il compilatore dell' Istrumento 5 maggio 1325 le adoperò onestamente
riportando i confini come stavano nelle stesse indicati, quell'Atto,
quantunque apocrifo, ha storica importanza, poiché lo scorgere accennati
confini, trifini, formati da chiese campestri, da stagni, da rupi
ed altri stabili segni tuttora riconoscibili, porterebbe come bene osserva
il Kandler, a riferirli a divisioni di territori ben più antiche, svelando
essi segni l'arte gromatica dei Romani, e permettendo così di risalire in
gran parte alle ripartizioni territoriali da essi stabilite, durate sino a
Carlo Magno (800), e sostanzialmente anche dopo, sino intorno al 1000, con
quei cangiamenti che il progrediente sistema feudale faceva loro subire.
Mentre l'organismo romano si conservava meglio alle spiagge, questi
cangiamenti si effettuarono specialmente nell'Istria interna. Il trasporto
di Slavi nella nostra provincia dovrebbe avere concorso a produrre più o
meno mutazioni territoriali, attesoché dediti com'erano per lo più alla
pastorizia, conveniva avervi principale riguardo nell'assegnare loro e
dividere i [74] territori. Noi veggiamo difatti nell' Istromento, che i confini tea i
comuni venivano determinati sempre per regolare il pascolo fra un comune e
l'altro. Se pertanto le indicate scritture esistevano realmente, si può
ritenere che parecchie furono fatte nell'incontro delle varie traslazioni
nell'Istria, e ci potrebbero venire in sussidio per istabilirne la sinora
ignota epoca.
Sarebbe pertanto utile d'istituire indagini per accertarsi della
sincerità ed esattezza dei confini riportati nell' Istrumento, che
potrebbe agevolmente farsi coll'opera simultanea d'intelligenti persone
dei singoli comuni, prendendo per base i confini attuali, i quali
ragionevolmente devono ritenersi risalire ad epoca molto remota, cioè alla
primitiva costituzione dei comuni odierni, essendochè questi gelosamente
li conservano e difendono, e se per qualsiasi causa possono essere
avvenute delle alterazioni, queste non devono essere di grande momento,
purchè non derivino da cessioni territoriali a Stati contermini in seguito
a conquiste, stabilite da trattati di pace.
Noi intanto abbiamo verificato che i confini attuali di Gollogorizza in
gran parte ed in modo essenziale non corrispondono a quelli recati
dall'Istrumento. Ora confina a settentrione con Previs e Borutto, ad
oriente con Pas e Gradigne. Dei tre primi luoghi non è ivi alcun cenno,
s'indica invece che confina con
Bogliuno, da cui appunto lo dividono
Borutto e Pas. La rammentata chiesa di S. Ganciano, di cui abbiamo veduto
gli avanzi, è situata nel comune di Borutto ed ivi appresso è il trifinio
tra questo, Gollogorizza e Pas. L'altra chiesa nominata, di 6. Nicolò, ora
pure in rovine, è collocata sopra una catena di monti al cosine tra
Gradigne e Possert, il qual ultimo luogo è sul versante orientale verso la
valle di Bogliuno, mentre Gradigne ne è situato sull'occidentale fra
Possert e Gollogorizza con Cherbune. La chiesa di S. Bartolomeo sta
tuttodì in piedi nella valle dell'Arsa ed appartiene a Tupliaco, che però
potrebbe essere stato in antico contrada di Cherbune. Il monte Goretino
ora non fa parte di Cherbune ma di Pedena, a cui per la naturale
posizione, vicinissima a Pedena, deve avere sempre appartenuto.
Se vero fosse che ancora all'epoca dell'Istrumento,
Bogliuno toccava
Pedena e Cherbune presso l'or nominata chiesa di S. Bartolomeo, ciò
porterebbe a riconoscere avere Bogliuno avuto [75] un ampio agro che dai limiti di
Lupoglavo s'estendeva sino al
lago
d'Arsa e più oltre, ed abbracciava, oltre il comune attuale, quelli di
Borutto, Pas,
Vragna, Possert,
Letai,
Berdo,
Cepich,
Susgnevizza,
Villanova e
Jesnovik, agro che presuppone appartenenza a città. Il vero
nome romano di Bogliuno è, come fu già detto, Finale, durato sino
al secolo XVIII. Il Kandler riconosce in questo Finale il caput
d'una tabella o colonia agraria romana precisamente entro i confini
da noi indicati.
Diremmo ancora soltanto che le informazioni da noi prese intorno alla
confinazione tra le terre del Conte d'Istria e l'agro patriarchino di
Montona ci mostrano una differenza notevole tra l'asserto passato ed il
presente, poichè giusta l'Istrumento avrebbe appartenuto al Conte Montreo
e Navaco, mentre ora fanno parte del comune di
Montona già patriarchino,
poi veneto, cui furono anche attribuiti dalla sopraccitata sentenza di
Trento, come si rileva dalle relative scritture esistenti nell'Archivio
provinciale di Parenzo, contenenti anche le esatte mappe dei confini
controvergi.
Su questa linea vi furono particolarmente secolari litigi di confini
durati quasi «ino alla caduta della Repubblica.
Abbiamo osservato più sopra che le antiche scritture di confinazione
tra comuni menzionate nell' Istrumento di reambulazione, se effettivamente
vedute ed adoperate dal compilatore dell'apocrifo Atto, potrebbero per
avventura additarci il tempo delle varie trasmigrazioni di Slavi nella
nostra provincia.
La storia ci dimostra ad evidenza che l'Istria mai venne occupata o
dominata da qualche nazione slava.
I Croati stabilitisi intorno al 620 nella Dalmazia, nello estendersi
successivamente verso settentrione non oltrepassarono i confini
dell' Istria; il loro regno, giusta il Porfirogenito, arrivava sino alle
catene del Montemaggiore; anzi sembrerebbe che giungesse soltanto sino al
fiume Tarsia (l'odierna Fiumara) e che quindi la città di S. Vito,
oggidì Fiume, non v'avesse mai appartenuto. Qualche autore scrisse che i
Croati s'estesero sino all'Arsia, ma fu errore di scambio col
suddetto fiume Tarsia.
Gli Slavi dell'Istria vi si stabilirono non già per violenta invasione
ed occupazione, bensì gradatamente in varie epoche, per traslazioni
operate da principi e comuni istriani all' effetto [76] di colonizzare contrade qua e là disertate di popolo, in seguito alle
pesti e guerre che avevano recato stragi fra gl'indigeni.
Lo stabilire le varie epoche di questi trasporti, e da quali paesi si
effettuarono, è argomento riservato agl'indagatori delle nostre cose
storiche, specialmente ai giovani nostri, che a cotesti studi intendono,
infiammati da amore di patria.
Noi intanto ci facciamo ad esporre in proposito i nostri pensamenti.(40)
Lo storico dei Longobardi Paolo Diacono ci narra bensì d'irruzioni
devastatrici di Slavi avvenute nell' Istria intorno al 600, ma furono,
come chiaramente fa conoscere, incursioni passaggere, senza che quei
barbari si stabilissero nella provincia, la quale continuò a rimanere in
possesso dei Bizantini, sotto il governo degli Esarchi di Ravenna.
Appena dal
Placito tenutosi nella valle del Risano nell'anno 804 vien
fatta menzione di Slavi trasportati tre anni innanzi in alcune contrade
dal Duca di Carlo Magno Giovanni, il quale assegnato aveva loro delle
terre dei comuni e delle chiese, e che per la loro rapacità, ed essendo
ancora pagani, riuscivano oltremodo molesti agl'Istriani. Ma avendo egli,
in seguito ai forti reclami per ciò fatti dai deputati della provincia ai
messi dell'Imperatore, promesso di cacciarli, non può esservi dubbio che
codesti importuni ospiti furono espulsi, e che anche sotto i successori di
Carlo Magno non vennero più intodrotti.
Ma dopo il 1000 dell' èra volgare incomincia quel doloroso periodo
durato pel corso di cinque o sei secoli in cui V allargarsi del
sistema baronale, poi l'agitarsi delle città per riavere l'autonomia
municipale, le sanguinose contese tra loro, indi le continue guerre tra i
Veneziani, i Conti di Gorizia ed Istria ed i Patriarchi, e più tardi coi
Principi Austriaci pel possesso dell'Istria, ridussero questa in miserande
condizioni. Questo periodo, il più ricco d'avvenimenti, nè inglorioso,
della storia nostra, reclama uno scrittore che ne dissipi le tenebre che
ancora l'avvolgono. A mostrare il triste stato della provincia in quei
tempi, [77] accenneremo qualche fatto, ed addurremo alcune testimonianze storiche.
Nel 1193 i Pisani alleati degli Ungheri in guerra coi Veneziani
prendono Pola. Doge Enrico Dandolo li caccia, e dirocca le mura della
città dal lato di mare (Kandler, Annali). Nel 1242
Pola si ribella
ai Veneti, che nell'anno seguente la ricuperano incendiandola; essa
dovette promettere di non riedificare le smantellate mura (Minotto).
Nel 1262 Patriarca Gregorio dava il beneficio della pieve di Lint, di
cui era plebano, al Vescovo eletto di
Pedena Vernardo, perchè Ecclesia
(petinensis) propter guerrarum discrimina in temporalibus pene
penitus est collapsa, ita quod idem Electus nequit de ipsius reditibus
sibi et sue familie vite necessaria ministrare (Cod. dipl. istr.).
Dall'atto di pace seguita li 8 Marzo 1285 tra Venezia da una parte, il
Patriarca
Raimondo, il Conte
Alberto e
Trieste dall'altra risulta che
super diversis et variis insurrexerunt jurgia, contentiones e' lites, ex
quibus postmodum tanta guerrarum discrimina provenerunt maxime in
provincia Istriae, quod propter incendia, depopulationes, spolia, et
infinitas rapinas crudèli caede sunt caesi quamplures.(41)
Negli anni 1287, 1288, 1289, 1290 e 1291 continuavano guerre in Istria;
di quest'ultima si dice nell'istrumento di pace che era guerra
saevissima, in miserabiles trages hominum, locorum desolationes, rerum
dispendio et animarum invalescente periculo.(42)
Durante le lunghe mortali lotte della Repubblica di Venezia con quella
di Genova, le città venete dell'Istria ed i loro territori furono
orribilmente devastati. Nel 1354 l'ammiraglio genovese Paganino Doria
prende Pola,
Parenzo,
Capodistria ed altre città ponendole a ruba e fuoco;
furono distrutti Muggia, Due Castelli, San Giorgio al Quieto. Nulla
diremo, per non dilungarci di soverchio, delle altre guerre di cui
l'Istria fu misero teatro, nè delle desolazioni operate dagli Ungheri e
Croati dei re d'Ungheria Ludovico e Sigismondo, in guerra coi Veneziani,
né delle [78] lunghe e feroci lotte al principio del 1500 e nel 1600, tra Veneziani
ed Austriaci.
Ma forse più che le guerre, le pesti furono cagione della desolazione
della nostra patria. Per V attivissimo commercio che i Veneziani
esercitavano coll' Oriente, avveniva che ad ogni tratto qualche nave
trasportasse a Venezia la peste, la quale poi facilmente s'estendeva anche
all' Istria. Venezia ne fu invasa negli anni 991, 1006, 1010, 1073, 1080,
1102, 1118, 1137, 1149, 1151, 1157, 1165, 1178, 1182, 1205, 1217, 1222,
1230, 1245, 1248, 1263, 1277, 1284, 1293, 1301, 1307, 1312, 1330, 1343,
1347-48, 1349, 1350-51, 1359, 1360, ed altri successivi in gran numero.(43)
Sappiamo da documenti che alcune di queste pesti desolarono l'Istria,
specialmente poi quelle del 1349 e 1360. Dobbiamo ritenere che quella del
1006 la quale disertò Lubiana ed il Carnio e s'estese poi in Friuli, a
Venezia ed altre parti d'Italia, penetrata nell'Istria per mare e per
terra sia stata a noi particolarmente micidiale, in guisa da necessitare
la colonizzazione di alcune contrade con famiglie slave, locchè veniva poi
ripetute in varie epoche successive di mano in mano che nuove pesti
spopolato avevano il paese dagl' indigeni abitanti. I dialetti, i tipi ed
i cognomi dell'attuale popolazione sarebbero bastanti indizi per ritenere
che questi coloni slavi vennero tolti in parte dalle isole della Dalmazia,
in parte dalla costa marittima della Croazia tra Buccari e Segna che viene
denominata Vinodol (ed in carte antiche Valdevino e Vallis vinaria).
Questi trasporti dovrebbero avere incominciato dopo il 1000, poichè
appena più tardi compariscono alcune denominazioni slave di villaggi e
castelli, come nel 1102 Golgoriza, Cernogradus e Bellegradus (Cod.
dipl. istr.) e di nomi di persone, come in atti del 1199
Pribisclavo gastaldo di Barbana, Sclavogna de Pismo de supra,
Stipizo di Plagna (Porgnana), luogo in vicinanza di Barbana e Golzana
Mirosclavo e Pridizio.(44)
Qualora pertanto si ritenga vera l'esistenza delle scritture di vecchie
confinazioni accennate nell'Istrumento di reambulazione, [79] al tempo che questo fu redatto, cioè intorno al 1500, si potrebbe
supporre che le loro date segnino i principi e la continuazione del
trasferimento degli Slavi nei contemplati comuni, dacchè ogni
colonizzazione involve determinazione dei confini delle terre assegnate.
Ciò vediamo fatto anche nell'occasione dei trasporti di Morlacchi,
Albanesi e Greci avvenuti nei secoli XVI e XVII. Le vecchie confi nazioni
portano date del 1058 al 1271, le quali trovano approssimativo riscontro
cogli anni di parecchie delle pesti sopra enumerate. Sicché si avrebbero
indizi che le più vecchie immigrazioni di Slavi siano avvenute in questo
periodo, nel quale difatti, come si è detto, principiano a comparire dei
nomi di villaggi e persone slave; oltre due vie slavoniche, che l'una da
Pola, l'altra da
Parenzo conducevano nell'interno della provincia.
Come fecero più tardi i Morlacchi ed Albanesi, anche questi primitivi
Slavi si divisero secondo famiglie le terre pubbliche loro in corpo
assegnate, accasandosi ognuna nel centro della propria tangente.
Aumentatesi per propagazione queste singole famiglie di robusta schiatta,
originarono quelle molte villette o casali sparsi per la campagna che
conservano il nome dell' originaria famiglia, e che oggidì possono servir
di base a riconoscere approssimativamente il numero che al certo non era
grande delle prime investite in un comune. I luoghi murati rimasero degli
antichi abitanti italiani, soliti per indole e civiltà a vivere uniti,
conservando oltre la propria possidenza campestre i traffici ed i
mestieri, mentre gli Slavi, dediti soltanto all'agricoltura e pastorizia,
e vivendo come sino ad oggidì in massima parte isolati in casali nelle
campagne aperte, si crearono essi medesimi il pia forte e stabile ostacolo
al proprio incivilimento.
Questa convivenza delle due razze italiana e slava, senza fondersi
assieme ancora al tempo della pretesa reambulazione, [80]
sarebbe attestata dall' asserta circostanza che i nuovi atti di revista
confinazione venivano rilasciati al popolo di ogni singolo comune in
lingua latina e slava. Ma siccome abbiamo dichiarato falso l'Istrumento,
dev'essere falso del pari quest'asserto di scritture redatte in due lingue
nella nostra provincia, dove non apparisce mai usata che la latina e poi
l'italiana.
Ritenendo noi redatto l'Istrumento nella prima metà del 1500, quando il
protestantesimo aveva trovato proseliti anche nell'interno dell'Istria e
precipuamente fra il clero che sembra volesse farne istrumento per iscopi
di risorgimento nazionale e politico degli Slavi meridionali, diffondendo
libri liturgici ed altri in lingua slava perfino nelle provincie
turco-slave, crediamo che la compilazione di quell'Atto in lingua slava e
l'indicazione che i risultati della reambulazione venissero comunicati
alle popolazioni oltreché nell'usitato linguaggio latino anche nello
slavo, siano state ispirate dallo stesso scopo nazionale politico.
Osserveremo che nel 1563 i sacerdoti Matteo Zivcich, Vicario del Preposito
di Pisino, Levato Crisanich (che apparisce trascrittore dell'Istrumento
nel 1545), Francesco Claj di Gallignana ed Un prete benestante Fabiani,
rivedevano la versione di alcuni libri sacri scritti in lingua slava con
caratteri glagolitici per uso della missione luterana.(45)
Se il nostro sospetto fosse vero, l'agitazione slava che i preti
stranieri ed alcuni indigeni vanno da alcuni anni suscitando nell'Istria,
sarebbe una seconda edizione dei tentativi fatti nel 1500. Questi allora
abortirono perchè repressi dall'Arciduca Carlo; oggidì stà loro di fronte
altra forza, quella del prevalente elemento italiano, il quale saprà
sostenere, calmo, costante e imperterrito, la guerra mossagli
nell'intendimento d'impedire il progresso dell'antichissima ed unica
nostra civiltà.
Carlo De Franceschi.