Sui rumeni dell'Istria

Riassunto Storico-Bibliografico

di G. Vassilich

Vréme tot véncè - Tempus omnia
vincit.
— (V. L'Istria, IV, 236;
Saggi di lingua istro'rumena

[Tratto da: Giuseppe Vassilich, "Origine dei Rumeni e della loro lingua" (PDF), Archeografo triestino. Nuova Serie - Vol. XV. Stabilimento Tipografico di Lodovico Hurmanstorfer (Trieste, 1899-1900), pag. 157-237.]

DUE PAROLE D'INTRODUZIONE.

Vive nell'Istria un picciol popolo, chiuso oggidì in più ristretti confini di quello che alcuni secoli fa noi fosse, il quale, sebbene alla lingua d'affari ed ai costumi potrebbe esser ritenuto di famiglia slava, pure non lo è.

Dei vaghi accenni negli scrittori dei secoli passati, le indagini di alcuni letterati sì nostrani che forestieri, e sopra tutto le prove indubbie della lingua un di parlata da questo popolo, dimostrano ch'esso appartiene alla nazione rumena.

Che di piccole colonie rumene vi fossero nei secoli scorsi anche sull'isola di Veglia, è provato da documenti e da reliquie linguistiche; e si ritiene generalmente, non senza fondamento, che i così detti Cici eziandio sieno di ceppo rumeno.

Di questi Rumeni d'Istria, oggi più o meno slavizzati, si occuparono non pochi scrittori. La serie delle ricerche, specie da parte di scrittori istriani, incomincia dalla metà circa del nostro secolo ; ma tali ricerche, sebbene degne di lode, non apportarono gran luce sulla loro origine.

Sul quale proposito si possono distinguere due scuole : la prima, rappresentata da letterati istriani, supponeva che questi Rumeni sieno nati sul suolo dell'Istria; la seconda, composta da scrittori non istriani, ritiene non soltanto, che questi Rumeni sieno venuti qui da altri paesi, ma vuole eziandio, che la loro immigrazione risalga ad un'epoca relativamente recente.

Anche le indagini relative possono dirsi di due specie: quelle della prima consistono in disquisizioni più o meno lunghe di scrittori che arrischiano delle congetture, quasi sempre non confortate da prove; queste ricerche vanno dal 1846 al 1860.

[160] Coll'anno 1861 s'iniziano le investigazioni della seconda specie, e vanno fino ai nostri giorni. I lavori sono più voluminosi, appoggiati su raffronti linguistici, e, quello che più monta, sono scritti da uomini competenti in materia, da valenti glottologi; epperò le loro conclusioni son degne della più grande considerazione.

Scopo pertanto del presente lavoruccio si è quello di riassumere gli studi e le indagini degli altri, pubblicate sin qui, su questi Rumeni d'Istria; e quantunque non sembri, il riassunto avrà qualche piccolo merito, perchè esporrà in ordine cronologico la genesi, lo sviluppo e le conclusioni finali sull'origine di questo popolo, destinato fra breve a perire come tale, in un periodico nostro ed in lingua nostra; laddove le ricerche più interessanti sulla lingua e sulla patria originaria di questi Rumeni d'Istria sono estese quasi tutte in lingua tedesca e sono pubblicate in periodici o riviste che non passano per le mani dei più. Per quanto modeste, il riassunto conterrà, qua e là, anche delle osservazioncelle mie.

Opere principali sulle quali si basa la Parte 1.

Miklosich Fr., Die slavischen Elemente im Rumunischen, nel vol. XII delle Denkschriften ecc. dell'Accademia delle scienze in Vienna, 1862. — Nell'introduzione si parla dell'origine dei Eumeni e della lingua rumena. — Sulla fonetica dei tre dialetti rumeni: il daco, il macedone e l'istro, ei tratta da par suo nei:

Beiträge zur Lautlehre der rumun. Dialekte, inseriti nei vol. 98°-102° dei Sitzungsberichte ecc. dell'Accademia stessa.

Rösler Rob., Romänische Studien, Lipsia, 1871. In questi egli risuscita la teoria di Sulzer, (Geschichte des transalp. Daciens, Vienna 1781-82) che fa venire i Rumeni settentrionali dal mezzodì del Danubio appena al principio del XIII sec.

Jung Giulio, Die Anfänge der Romänen, nel periodico per i ginnasi austriaci, 1876 ; e Römer und Romanen in den Donauländern, Innsbruck, 1877; nei quali, di fronte al Rösler, egli propugna la teoria della continuità dei Rumeni nell'antica Dacia.

Pič Gius. Lad., Ueber die Abstammung der Rumänen, Lipsia, 1880, che condivide la teoria di Jung.

Tomaschek G., Ueber Rosalia und Brumalia, nei Sitzungsberichte ecc. dell'Accademia di Vienna, vol. 60°, 1869 — Zur walachischen Frage, nel periodico per i ginnasi austriaci, 1876; — Zur Kunde der Hämus-Halbinsel nei Sitzungsberichte ecc. dell'Accademia di Vienna, vol. 99°, 1882. In tutti e tre i lavori egli porta dei nuovi contributi sull'origine dei Rumeni.

Jireček C. G., Geschichte der Bulgaren, Praga, 1876, in cui, oltre alla storia dei Bulgari, che è intrecciata con quella dei Rumeni, si parla diffusamente di questi e della lingua rumena.

Picot M. E., Les Roumains de la Macédoine, Parigi, 1875, nella Riv. d'antropol. vol. IV.

 PARTE PRIMA.

Origine dei Rumeni e della loro lingua.

Prima di trattare dei Rumeni d'Istria, non istaran male due parole sui Rumeni in generale. Sebbene l'origine di questo popolo sia stata l'oggetto di molte e dotte ricerche, si può dire tuttavia, ch'essa sia ancora avvolta nell'oscurità e che nella questione non venne detta ancora l'ultima parola. La causa di ciò va attribuita alla mancanza, o almeno alla scarsità, delle notizie su questo popolo durante il Medio Evo.

Giusta l'opinione più comune, i Rumeni si fan derivare dai coloni romani importati dall'imperatore Traiano nella Dacia, dopo la conquista del paese.(1)

I Daci, popolo battagliero e turbolento, (2) un ramo dei diffusissimi Traci, come i Geti loro affini, molestavano colle loro scorrerie i possedimenti romani al mezzodì del Danubio.\

Già sotto Domiziano il valoroso loro re Decebalo, che aveva invaso la Mesia, (86) fu vinto bensì; ma Roma dovette obbligarsi ad un annuo tributo, se volle avere la pace (90).

Nel 101 Decebalo, perchè gli era stato ricusato questo tributo, riprese le armi. Traiano, a capo d'un numeroso esercito, passò il Danubio, sconfìsse i Daci, prese la loro capitale Sarmizegethusa e li obbligò a chieder la pace (103).

Nel 104 i Daci si sollevarono di nuovo. Traiano tornò sulle rive del Danubio, gettò sul fiume un ponte di pietra di cui si vedono ancora oggidì le rovine (Pons Traiani presso Cerniz), entrò più volte nella Dacia, vinse Decebalo che si tolse la vita, e conquistò il paese.

In onore del vincitore la capitale s'ebbe il nome di Ulpia Traiana e la Dacia fu fatta provincia romana (106). A colmare [164] i vacui causati dalle guerre, Traiano importò nella nuova provincia numerosi coloni ch'ei trasse da tutto il mondo romano. (3)

Sotto i deboli successori di Traiano questa provincia fu esposta all'invasione de' Goti. Decio, in una spedizione contro di loro, nel 251, vi lasciò la vita; e sotto Gallieno (260-268) la Dacia andò perduta. (4) Riuscì, gli è vero, a Claudio II (269) di sconfiggere presso Naïssus (Nissa) i Goti che avean varcato il Danubio, onde gli venne il soprannome di Gotico; ma Aureliano (270-276), vedendo di non poter mantenere la provincia della Dacia di fronte all'avanzarsi dei Goti, la cedette loro tacitamente nel 272; ritirò quindi dalla Dacia tanto i coloni trapiantativi da Traiano quanto i provinciali e li trasferì alla sponda destra del Danubio, fra le due Mesie, regione che da lui s'ebbe il nome di Dacia Aureliani. (5)

[165] Fin qui le cose procedono lisce, non così nei secoli seguenti.

Abbiamo, nelle regioni situate ad ambe le sponde del Danubio inferiore, un avvicendarsi, un sospingersi, un mescolarsi di popoli, alcuni dei quali le visitarono soltanto di passata, altri vi posero stabile dimora per più o meno tempo, e tutti apportarono dei sensibili spostamenti nelle sedi delle prische popolazioni (Goti, Sloveni, Unni, Avari, Gepidi, Bulgari, Magiari, Peceneghi, Cumani....) finché, molti secoli più tardi, troviamo i Rumeni, non più alla riva destra del Danubio, ove li abbiamo lasciati, bensì alla sinistra, cioè nelle odierne sedi; ed altri Rumeni, probabilmente un ramo dei primi, troviamo nella Macedonia, nella Tessaglia, attorno al Pindo... Ne nasce pertanto una prima questione non peranco risolta dai dotti:

I. Gli odierni abitatori della Moldavia e Valacchia sono i diretti discendenti dei coloni di Traiano e dei provinciali Daci romanizzati, oppure sono derivati da quei Romani e provinciali che furono trasportati da Aureliano nella Mesia?

II. E se ci troviamo nel secondo caso, come sembra più probabile, come e quando i Rumeni della Dacia di Aureliano, posta alla sponda destra del Danubio inferiore, passarono alla riva sinistra ed occuparono le odierne sedi? — Il Miklosich, un autore competentissimo in materia, (6) si professa fautore dell'ultima ipotesi, e ritiene che il passaggio sia avvenuto verso la fine del V secolo, allorquando gli Sloveni (7) occuparono le regioni dell'Emo orientale.

[166] E siccome di Rumeni si trovano anche nella Macedonia e nei paesi circonvicini, gli è facile — dic'egli — che nella stessa epoca e per la stessa causa sia avvenuta anche la migrazione d'una parte di loro verso mezzogiorno. Gli Sloveni, cioè, avrebbero agito quasi un cuneo cacciato frammezzo ai Rumeni, scindendoli in due rami, dei quali l'uno si diresse al settentrione, passò il Danubio e diede orìgine agli odierni Rumeni di Moldavia e Valacchia; l'altro si diresse verso mezzogiorno, e sarebbe rappresentato dai Rumeni della Macedonia, Tessaglia e dei paesi contermini.

Ma questa del Miklosich non è che una congettura, da prendersi sul serio quanto si vuole, perchè parte da un glottologo eminente che conosce a fondo la questione; essa resta tuttavia sempre una congettura; e di congetture sull'origine dei Rumeni ce ne sono diverse.

I Rumeni delle regioni poste al settentrione del Danubio furono per lungo tempo considerati quali diretti discendenti dei Daci misti coi coloni di Traiano; in quelli della Macedonia e Tessaglia si voleva scorgere i discendenti dei coloni romani e dei provinciali trasportati da Aureliano nella Mesia.

Ma se noi prendiamo alla lettera l'affermazione di Flavio Vopisco, dobbiamo ammettere, che la Dacia nel III secolo fu sromanizzata; e che venne nuovamente romanizzata, durante il Medio Evo, col mezzo di Romani, meglio Rumeni, immigrati dai paesi che giacciono al mezzodì del Danubio inferiore.

Questa teoria, già propugnata da altri nel secolo passato, venne risollevata negli ultimi tempi da Roberto Rösler. (8) Secondo lui, gli attuali Rumeni settentrionali non sarebbero i diretta discendenti di quei Romani cui Traiano trapiantò nella Dacia; si bene i discendenti dei Rumeni meridionali, emigrati a pochi [167] alla volta ed in varie riprese dalla Mesia, Tracia e Macedonia, al principio del secolo XIII.

Ciò spiegherebbe il fatto, che del vasto territorio linguistico romano esistente nei primordi del Medio Evo al mezzodì del Danubio e dei Balcani, non si siano colà conservati che pochi avanzi dispersi e senz'alcuna relazione. La maggior parte adunque dei Rumeni meridionali sarebbe passata oltre al Danubio dando così origine ai Rumeni settentrionali.

Prima di muovere qualche obbiezione a questa teoria si noti però, che le investigazioni posteriori misero in sodo, che i Rumeni erano ben conosciuti al settentrione del Danubio, secondo una notìzia tolta a Niceta Choniate, (9) intorno al 1164; i fautori poi di questa teoria, possono provare con dati abbastanza attendibili, che la trasmigrazione avvenne anche prima, cioè, verso il 1100.(10)

Quest'ipotesi, della non immediata origine romana dei Rumeni settentrionali, trovò una viva opposizione nei patrioti Rumeni, i quali si sentirono offesi nel loro orgoglio nazionale, che non tollera si ponga nemmeno lontanamente in dubbio la loro diretta origine romana. E difatti a quest'ipotesi si possono muovere varie obbiezioni. Eccodo alcune. L'affermazione di Vopisco non va intesa nel senso, che tutti i coloni romani e i provinciali romanizzati della Dacia, sieno stati trasferiti da Aureliano nella Mesia, alla sponda destra del Danubio; e ciò perchè una simile misura difficilmente si poteva porre in pratica; si deve piuttosto ammettere, che una parte più o meno grande della popolazione Daco-romana, specie i contadini e la piccola borghesia, sia rimasta nella Dacia; di modo che il paese non fu affatto sromanizzato. Per poter accettare interamente la teoria di Rösler, occorreva che la Mesia, la Tracia e la Macedonia avessero avuta una popolazione romana o romanizzata molto intensa, ciò che non fu.

Si sarebbe piuttosto tentati di spiegare la romanizzazione dei territori posti al mezzodì del Danubio, non tanto per [168] l'influenza diretta del romanismo, la quale non fu mai colà molto forte; si bene col mezzo dell'immigrazione di numerosi Daco-Romani, i quali sarebbero fuggiti dinanzi ai Peceneghi, ai Cumani e ad altre stirpi barbare dell'impero bizantino. Ad una di queste immigrazioni accenna anche Vopisco; non è escluso però che ne seguissero altre nei secoli successivi. D'altro canto, contro questa supposizione si può subito obbiettare: se i Daco-Romani emigrarono in masse dal settentrione al mezzodi, il numero dei superstiti al settentrione, ridotto ai minimi termini, non avrebbe potuto conservare incolume la lingua, ma si sarebbe slavizzato o magiarizzato. Gli è vero, che in simili casi — nel contatto, cioè, di due nazionalità differenti — più che il numero conta la coltura; ed in questo caso, di fronte agli Slavi ed ai popoli di ceppo uro-altaico, prevaleva certamente l'elemento romano.

Contuttociò, a favore dell'ipotesi di Rösler, sta un fatto decisivo: la breve durata, cioè, della signoria romana nella Dacia (circa un secolo e mezzo). Bisogna però tener presente, che le condizioni in cui avvenne la romanizzazione della Dacia, furono differenti da tutte le altre provincie romanizzate. In queste i coloni romani si trovarono in rapporto di grande inferiorità di fronte agli indigeni; quindi per romanizzare questi, ci voleva un tempo più lungo. All'incontro, quando la Dacia venne occupata dai Romani, se la non era affatto disabitata, la era certamente molto spopolata dalle lunghe guerre, come ce lo attesta Eutropio. Per una celere romanizzazione di questa provincia bastava adunque una numerosa popolazione romana, o almeno parlante il latino, la quale poteva tanto più facilmente mantener puro il suo carattere nazionale, in quanto non aveva da combattere contro elementi stranieri.

Malgrado ciò si può dire, che il problema circa l'origine dei Rumeni settentrionali non può dirsi risolto; ma abbisogna di ulteriori ricerche e discussioni, specie dal lato linguistico.(11)

Secondo me, la storia dei Bulgari deve guidare i dotti nello scioglimento della quistione risguardante l'origine dei Rumeni.

[169] D'origine uro-altaica, i Bulgari fondarono nel VII secolo un regno, che all'epoca del massimo sviluppo abbracciava tutte le provincie un dì romane ad ambe le sponde del Danubio (I regno dal 678 al 1019). Sebbene avessero sottomesso le stirpi slave che prima di loro occupavano la penisola balcanica, ricevettero a poco a poco la lingua dei vinti; divennero cioè un popolo slavo.

Essi furono per tre secoli i nemici più temibili dell'impero bizantino; ma venne l'alleanza di questo coi Russi sotto Sviatoslav (964-973), venne l'occupazione dell'odierna Ungheria per parte dei Magiari, vennero le vittorie di Giovanni Zimiscè, venne infine la guerra sterminatrice di Basilio II (976-1026) [Greek text], che fiaccò la tracotanza dei Bulgari, i quali dal 1019 al 1186 dovettero sottostare al dominio greco. Durante quest'epoca ritengo, che i Rumeni, approfittando dell'occasione propizia, abbiano abbandonato i monti e sieno tornati a poco a poco nelle sedi dei loro antenati, dando così origine ai Rumeni settentrionali; laddove alcuni ne rimasero, e diedero origine ai Rumeni meridionali. Nel 1186 i Bulgari poterono fondare un secondo regno (1186-1393); ma questo non ebbe nè l'estensione nè la potenza del primo; e quindi i Rumeni del settentrione poterono egualmente prosperare e diffondere le loro colonie.(12)

I Rumeni o Rumuni, come da sè si appellano, sono conosciuti dagli altri popoli col nome di Valacchi.

Questo nome venne loro dato dagli Slavi circonvicini.

Tanto gli Slavi che gli antichi Tedeschi chiamarono con questo nome (nell'ant. alto ted. walah, nel medio alto ted. walh) dapprima i Celti, poi i Romani. Il walh ted. in bocca slava divenne Vlah, plur. Vlahi, che i Greci scrissero [Greek text], da leggersi Vlahoi, latinamente Vlachi, donde l'italiano Vàlachi o Valàcchi. (13)

[170] I Rumeni o Valacchi si distinguono in:

  1. settentrionali o Daco-Rumeni;
  2. meridionali o Macedo-Rumeni.

I primi (circa 8 milioni) abitano nella Moldavia e Valacchia, in una parte della Transilvania, dell'Ungheria e della Bessarabia; i secondi (circa un milione) in una parte dell'antica Tracia, Macedonia e Tessaglia.

I Rumeni settentrionali vennero detti dai Greci dell'età di mezzo [Greek text] (Mavrovlachi, Vlachi neri), i meridionali [Greek text] (Kutsovlachi, Vlachi zoppicanti), i quali, dagli Slavi della Turchia son detti anche Zinzari. (14)

Dal greco [Greek text] provenne il latino Morolachi, Morlachi, (onde l'italiano Morlacchi) col quale nome si designavano nel medioevo i Rumeni parlanti la lingua rumena; laddove nei secoli a noi più vicini si chiamarono Morlacchi anche gli abitanti d'una parte del litorale ungaro-croato-dalmato, i quali probabilmente provengono dai primi, ma si sono affatto slavizzati. Questa distinzione va tenuta ben presente per quando parleremo dei Rumeni e dei Morlacchi dell'Istria.

Ed ora due parole della lingua rumena.

Questa lingua è una delle così dette lingue romanze o neolatine, (15) che si stacca però alquanto dalle lingue sorelle ed ha dei caratteri speciali, dovuti ad influssi stranieri.

La sua origine risale al principio del II secolo d. Cr., e deriva dall'unione della lingua romana rustica o vulgare,(16) (sermo rusticus, vulgaris, plebeius...) parlata dai coloni importati da Traiano, colla lingua parlata dai Daci. Secondo il Miklosich, (17) è senza fondamento l'opinione del Šafařik, che vuole i Rumeni (e con ciò la lingua rumena) sieno nati dalla fusione di Geti, Romani e Slavi, appena nel V o VI sec. d. Cr.

[171] Nè, dic'egli, si può accettare l'opinione del Kopitar, che stabilisce l'origine della lingua rumena ai tempi in cui i Romani posero stabile dimora alle coste orientali del mare Adriatico.

Che i Rumeni sieno pretti Romani è anche infondato; perchè già dai passi degli scrittori poc'anzi riferiti risulta, che i coloni importati da Traiano nella Dacia furono tolti da tutto il mondo romano. D'altro canto non puossi ammettere, che, dopo la vittoria su Decebalo, la Dacia sia rimasta priva di nomini in senso assoluto; una parte della prisca popolazione vi sarà rimasta; ne consegue, che già i primi coloni della Dacia dovevano parlare una lingua romana rustica bastarda, mista coli'elemento indigeno, il dacico.

Trasportata la colonia daco-romana nella Mesia da Aureliano, (III sec.) la lingua rumena non dovette qui subire dei gran cambiamenti, in quanto i Daci e i Geti si fan parenti. (18)

Più tardi, specie dal V sec. in poi, entra nell'unione degli elementi indigeni col romano, anche l'elemento sloveno. (19)

Nella lingua rumena c'entrarono eziandio altri elementi stranieri, come il vecchio bulgaro-turanico, l'albanese, lo slavo, il magiaro, il neo-greco ed il turco. (20)

La lingua rumena (limba rumîneâscâ, var. romana, romena, romuna) in relazione alla divisione accennata dei Rumeni, ha due dialetti principali:

  1. il daco-rumeno e
  2. il macedo-rumeno. (21)

Generalmente, quando si parla di lingua rumena, si accenna [172] al daco-rumeno, che solo giunse a dignità letteraria. II rumeno, di fronte alle altre lingue romanze, si trovò in condizioni affatto speciali, e perciò presenta anche dei caratteri peculiari.

Nei tratti principali conserva il fondo latino, ma gli elementi stranieri frammistivi (bulgaro-turanici, albanesi, slavi, magiari, neo-greci e turchi) gli danno una fisonomia tutta propria. (22) Si noti, che l'elemento slavo (23) è rappresentato nella lingua rumena da moltissimi vocaboli, e questo fatto ci darà la chiave per ispiegare la slavizzazione dei Rumeni dell'Istria, ora che passeremo a parlare di essi.

Ma non si tratta soltanto dell'abbondante elemento slavo nel rumeno; le condizioni politiche dell'Europa fecero sì, che la lingua dell'amministrazione e dei tribunali fosse la serba fino al seo. XVII, e la lingua della chiesa fosse il vetero-sloveno e che persino nei lavori letterari i Rumeni settentrionali si servissero dell'alfabeto cirillico fino al principio del nostro secolo, laddove quelli del mezzodì adottarono la scrittura greca.

[173] Non va dimenticato ancora, che i Rumeni sono gli unici di ceppo romano che appartengono alla chiesa greca; epperò anche questo fatto riuscì pregiudizievole alla sviluppo puro della loro lingua, perchè si trovarono in relazione cogli Slavi ortodossi, come d'altro canto fu contrario allo sviluppo della loro nazionalità il dominio turco esercitato col mezzo dei greci Fanarioti.(24) [174]


APPENDICE

A) Saggiuolo della lingua moderna daco-rumena (Cfr. Rovera, Gram. della lingua rumena — Man. Hoepli, Milano, 1892, pag. 79). (traduz. letterale mia).

Importanţa agriculturel in România.

'România a fost, de când există o ţară, maǐ presus de tôte agricolă. Descendenţii al poporului roman, noi Românii am păstrat până adi aceiaşi aplecare pentru lucrările câmpuluǐ ca şi strămoşiǐ noştri. Istoria ne spune, că Romaniǐ socotiaŭ, că numaǐ arta militară şi agricultura sunt îndeletnicirǐ demne de ómeniǐ liberi. Artele mecanice şi comerciul nu se bucurau de mare favòre la Roma. Noǐ am păstrat cu atâta sfinţenie gran favore a Roma. deprinderile strămoşilor noştri, că cu dauna chiar a intereselor nóstre, am nesocotit ca şi dênsiǐ meseriile şi comerciul. Suntem dar agricultorǐ de rasă".

 

 Importanza dell'agricoltura in Rumenia.

La Romania è stata, da quando esiste il paese, sovratutto agricola. Discendenti del popolo romano, noi Rumeni abbiamo  conservato fino ad oggi le stesse inclinazioni per i lavori del campo come  gli antenati nostri. L'istoria ci dice, qualmente i Romani calcolavano, che oltanto l'arte militare e l'agricoltura sono occupazioni degne di uomini liberi. Le arti meccaniche ed il commercio non godevano (di) gran favore a Roma. Noi abbiamo conservato così religiosamente  le usanze degli antenati nostri, anche con danno evidente degli interessi nostri, abbiamo negletto fin anco essi i mestieri e il commercio. Siamo dunque agricoltori di razza.

P.S. Aurelian.

Saggiuolo poetico (Cfr. Rovera, Gram., pag. 8).

Omul gânditor.

Sub rază uneǐ lampe ce palid licăreşce,
Incăt abia p'o carte scriptura se zăreşce,
In mijlocul tăcerii stă omul gânditor,
Şi ascuns în sênul nopţiǐ de-a tutulor privire,
Străbate, cercetèză universala fire
Şi lasă fără marginǐ gândiriǐ sale sbor.

 

 L'uomo meditabondo.

Sotto il raggio d'una lampada che pallidamente luccica,
In modo che a mala petia lo scritto a'un libro si scorge,
In mezzo al silenzio sta l'uomo meditabondo,
E ascoso in seno della notte di tutti allo sguardo,
Percorre, investiga l'universale essere
E lascia senza margini al suo pensiero libero il volo.

Nicolae Scurtescu (1844-1879) [175]

B) Saggiuolo del dialetto macedo-rumeno. (Dalle Rumun. Untersuchunger del Miklosich, vol. 32, p. 230, 231, loco cit.)

Dalle Rum. Untersuch. p. 233 (trascritto con caratt. latini).

IX.

Avému táo ghinne, sse suntu mplinne te aua, ma
Habemus duas vineas, et sunt pienae uvis, sed

nica nu atziumsira, sse va se asteptu putzéna zamáne, pan
adhuc non maturaverunt, et expectabo breve tempus, donec

se atziunca nchene. sse atumtzia cara se ntultziásca, va se molliu
maturescant bene. et tum quando dulcescent, humectabo

sesenca sse mpusle, tra se le úmplu pán te supra, sse cara se
cupam et dolia, ut ea impieam usque supra, et quando

chiárpa patrutzitze te tzele, va se arúcu protlu ghenu tru
fervebunt quadraginta dies, fundam primum vinum in

anna mpnte (p. 235).
unum dolium.

XV.

Am tru cartünna a mea unu hicu, unu nucu, unu
Habeo in horto meo unam ficum, unam nucem, unam

cortzu, unu meru, unu tziressiu, am sse stucche multze, sse
pirum, unam malum, unam cerasum, habeo etiam alvearia multa, et

facu multa nniere sse tziara te tziara, sse vintu tru annu cate una
facio multum mel et ceram, et vendo in anno singulas

parte, sse vlechiu sse tra vetea a mea. tora mpacáe toe mastore,
partes, et servo etiam pro ipso ma nunc locavi duos opifices,

tra se aréma toe trápure, tra se ghénna multa apa, sse se
ut foderent duas fossas, ut veniret multa aqua, et

atapa cartünna.
irrigaretur hortus.

[176] Fonti principali sulle quali si basa questo riassunto, disposte in ordine cronologico.

A. Della prima serie (1846-1860):

  • Covaz Antonio, Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria, nel giornale del Dr. Kandler "L'Istria" — 1846, pag. 7, 8.
  • Kandler Dr. Pietro, Lettera a.... nell'occasione della scoperta d'un'aretta con iscrizione a Iesnovico presso l'Arsa. — Ibid. 1846, p. 12.
  • Detto (veramente la firma si desidera) — Della geografia genetica dell'lstria, — Ibid. 1846, pag. 41, sgg.
  • Detto, Qualcosa sulla lingua romanica, — Ibid. 1848, pag. 246, 247.
  • Detto, Saggi di lingua valaca, come si parla dai Romanici d'Istria, — Ibid. 1849, pag. 236, sgg.
  • Detto, Dei popoli che abitarono l'Istria, — Ibid. 1861, pag. 73 sgg.
  • Detto, Dei Morlacchi che abitano la parte montana della Vena (fra il Risano e Pinguente) 1861, pag. 125, sgg.
  • De Franceschi Carlo, Sulle varie popolazioni dell'Istria, (Lettera al Dr. Kandler) — Ibid. — 1852, pag. 225, sgg.
  • Combi C. A., Cenni etnografici sull'Istria, nella "Porta orientale", 1869, pag. 99, sgg; in particolare pag. 108, sgg.
  • Detto, Etnografia dell'Istria, nella "Rivista contemporanea" di Torino (fascic. Sett. 1860 e Giugno 1861) — ristampata nel volume "Istria", Milano, 1886, pag. 150, sgg. in ispecie pag. 158, sgg.
  • Paropat Adriano (pseudonimo?) — Saggio della lingua parlata a Seiane, 1860? (in foglio volante).

B. Della seconda serie (1861-1900):

  • Ascoli G. I., Sui Rumeni o Valachi dell'Istria, negli "Studi critici", Milano, 1861, Vol. I, pag. 48, sgg.
  • Miklosich Dr. Fr., Die Istrischen Rumunen, quale appendice al lavoro: Die slavischen Elemente im Rumunischen, nei "Denkschriften der K. Akademie der Wissenschaften", Vienna, 1862, vol. XII, pag. 55-69. [177]
  • Kandler Dr. Pietro, Li Cici, in appendice alla "Storia monografica di Trieste, del canon. Vincenzo Scussa, Trieste, 1863, e 1885, pag. 253 sgg.
  • Maiorescu Dr. Giovanni, Lettera al Covaz, pubblicata nel periodico di Capodistria "La Provincia", 1872. pag. 934, 935.
  • Detto, Itinerar in Istria, şi vocabular istriano-roman, Jassi, 1874.
  • Bidermann H. J., Die Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich, Graz, 1877, pag. 78, sgg.
  • Miklosich Dr. Fr., Über die Wanderungen der Rumunen in den dalmatinischen Alpen und den Karpaten, nel vol. XXX, Vienna, 1880, delle "Denkscriften..." pag. 1, sgg.
  • Detto, Beiträge zur Lautlehre der rumunischen Dialekte (daco-macedo-istro-rumeno) nei "Sitzungsberichte der philos.-histor. Classe der Kais. Akademie der Wissenschaften, Vienna, vol. 98° 1881, pag. 519-550; vol. 99°, 1882, pag. 5-74; vol. 100°, 1882, p. 229-301; vol. 101°, 1882, p. 3-94; vol. 102°, 1883, p. 3-66.
  • Detto, Rumunische Untersuchungen, nelle "Denkschriften..." Vienna, 1882, pag. 1-90; specialmente la parte: Istro-rumunische Sprachdenkmäler, che abbracciano le raccolte del Dr. Antonio Ive e del Dr. Teodoro Gartner, pag. 1-90.
  • Rački Dr. Fr., La Croazia avanti il secolo XII, nel vol. 57° del Rad dell'Accad. jugoslava, 1881, P. II, pag. 102-149; e specialmente la parte che tratta dei Vlachi, pag. 138-149.
  • Lechner Dr. Carlo, Die Rumunen in Istrien, nelle "Mittheilungen aus Justus Perthes' geogr. Anstalt, vol. 29°, 1883, pag. 294-299.

PARTE SECONDA.

Sui Romeni dell'Istria - Loro sedi - Quando e donde vennero.

Detto così brevemente e in sulle generali dei Rumeni della Dacia e della Macedonia, passo all'oggetto del mio lavoro, ai Rumeni d'Istria.

Abitano dessi nei seguenti villaggi: Possert, Gradigne, Letai, Grobnico, Susgnevizza, Berdo, Villanova e Jessenovizza nella Valdarsa superiore; a Xeiane sul Carso di Raspo nel Castelnovano. (25) Ce n'erano anche a Cherbune, Tupliaco,

Scopliaco... a S. Lucia di Schitazza... ma oggidì vanno sempre più scomparendo. Il numero dei parlanti il rumeno nell'Istria oscillava, verso la metà del secolo, fra 3000-6000. laddove una più recente statistica ufficiale li riduce in cifra rotonda a 3000 soltanto. (26) Questi Rumeni parlano il loro dialetto soltanto nell'intimo della famiglia, quasi lingua di confidenza; del resto adottarono la lingua, i costumi e persino la religione degli Slavi contermini. (27)

[179] Generalmente, anche i così detti Cici, che costituiscono ancora oggidì un indovinello etnografico, vengono considerati quali Rumeni slavizzati. (28)

Che i Rumeni siano stati una volta più numerosi nell'Istria ed avessero occupato un territorio più esteso, risulta da esplicite testimonianze di scrittori degni di fede. Già il vescovo di Cittanova G. F. Tommasini (1695-1664) nei suoi Commentarii (29) parlando di Pinguente, così si esprime:

Usansi indifferentemente due lingue, schiava ed italiana, ma nel castello più l'italiana, e la schiava di fuori. I Morlacchi che sono nel Carso hanno una lingua da per si, la quale in molti vocaboli è simile alla latina.

Non è gran cosa; ma visto che si parla di Morlacchi, col qual nome nei secoli addietro si designavano i Rumeni, e che usavano una lingua in molti vocaboli simile alla latina [180] (notisi quel: in molti vocaboli) questa lingua non poteva essere che la rumena, perchè questa, oltre all'elemento latino, ha in sè; come abbiamo veduto, molti altri elementi stranieri.

Giov. Maria Manarutta, lo storiografo di Trieste, conosciuto col nome dell'ordine monastico di Fra Ireneo della Croce (1627-1713) nella sua Istoria antica e moderna della città di Trieste (30) lasciò scritto così:

Un'altra memoria antica, degna di osservazione non minore delle già adotte antichità romane, osservo in alcuni popoli addimandati Chichi (si legga alla veneta Cici) habitanti nelle ville d'Opchiena, Tribiciano e Gropada, situati nel territorio di Trieste, sopra il monte, cinque miglia distante dalla città verso Greco: Et in molti altri villaggi, aspettanti a Castelnuovo nel Carso, giurisdizione de gl'Ill.mi Signori Conti Petazzi, quali, oltre l'idioma sclavo, comune a tutto il Carso, usano un proprio e particolare consimile al Valacco, intrecciato con diverse parole e vocaboli (sic!) latini, come scorgesi dall'ingiunti, et a bel studio qui da me riferiti.

Parlando quindi della loro origine (che ai nostri giorni non può, nonchè essere discussa, nemmeno esser presa in considerazione) riferendosi al Lucio, l'illustre storico dalmatino, per l'origine dei Rumeni o Valacchi, dice: Che perciò anche i nostri Chichi, addimandansi nel proprio linguaggio Rumeri... (31)

Da questa preziosa notizia ricaviamo dunque,

  1. che i Cici parlavano una volta il rumeno;
  2. che dicevansi Rumeri, cioè, Rumeni; ed ancora,
  3. che questi Cici equivalgono ai Morlacchi dei vescovo Tommasini;

ciò che peraltro risulta anche dalla lettera del 1540 riferita dal Kandler nel giornale L'Istria. (32)

[181] Anche lo storico della Carniola G. W. Valvasor (1641-1693) ci fa intravedere, se non chiaramente, almeno alla larga, che i Cici parlassero una lingua diversa dagli altri popoli della Carniola inferiore: i Vipacchi, i Carsolini e i veri Carniolini.

Ecco quanto egli ci lasciò scritto:

Das dritte Geschlecht der Einwohner nennet man die Tschitschen...

Diese hausen ztvischen Neuhaus und S. Serff: kommen zwar in der Tracht den jetzgeschriebenen Karstner gar nahe; bleiben aber in der Sprache weit von ihnen und reden ihre besondre. (33)

Se anche l'autore non dice, che i Cici a' suoi tempi parlavano il rumeno, dice però, che parlavano una lingua speciale, molto diversa dagli altri Carsolini; meraviglia pertanto, che il Miklosich (34), di solito tanto guardingo nelle sue opinioni, s'esprima cosi recisamente riguardo alla lingua dei Cici. — Schon zu Valvasor's Zeiten jedoch sprachen die ihm bekannten Čičen slavisch. I. 7. 156 (35).

Ho già detto, che di Rumeni ce n'erano nei secoli scorsi anche sull'isola di Veglia, e propriamente nei villaggi di Castelmuschio, Dobrigno, Dobasnizza, Poglizza, (36) e secondo il [182] De Franceschi anche di Besca (37); sicché sarebbero stati sparsi da un capo all'altro dell'isola.

Questi Rumeni, dell'esistenza dei quali s'hanno documenti certi e di antica data, sono spariti: o meglio, circondati da Croati, furono da questi assimilati. E però degno di nota il fatto, che sebbene tagliati fuori dal mondo rumeno e circondati da Croati, abbiano dessi potuto conservare la loro lingua fino a questi ultimi tempi, nei quali si raccolsero dei preziosi cimelii; e appena nel 1876 mori l'ultimo Poglizzano parlante il rumeno. (38)

Vedremo più avanti, che questi Rumeni, detti dagli Italiani Morlacchi, dagli slavi Vlachi, erano sull'isola di Veglia già nel XV secolo; (39) e i documenti che ne parlano ci potranno servire di guida per giudicare dei Rumeni d'Istria.

E chi sa, che un documento del 1321 (40) — finora ignorato — nel quale si parla di vlaške zemlje a Dobrigno sull'isola di Veglia — il che vorrebbe dire: di terre appartenenti ai Vlachi, cioè, ai Rumeni — non ci possa servire a stabilire, che di Rumeni ce n'erano su quest'isola già al principio del secolo XIV.

[183] Degno di nota si è certamente il fatto, che quei Rumeni dell'isola di Veglia, detti nei due documenti del conte Giovanni Frangipani (del 1465 e 1468) Vlachi e in italiano Morlacchi, appariscono nel documento del 1463 (41) nell'Istria, quali assoldati, o almeno guerrieri dello stesso conte, col nome di Cici; e questo sarebbe il primo documento in cui si nominano i Cici e servirebbe a dimostrare, che Vlachi, Morlacchi e Cici sono tutt'uno.

Ed ora passiamo ad esaminare le due questioni che più c'interessano: quando e donde vennero i Rumeni nell'Istria?

Sono dessi nati sul suolo istriano dall'unione di coloni romani cogli abitanti indigeni, o sono Rumeni, già parlanti il rumeno con tutte le sue particolarità, vo' dire cogli elementi estranei ch'esso accolse là ne' paesi dell'Emo, immigrati qui in epoche a noi più vicine?

Passando in rassegna le investigazioni e le deduzioni degli scrittori nostrani e stranieri, ma specialmente quelle dei due insigni glottologi, l'Ascoli ed il Miklosich, spero di poter dimostrare:

  1. che tanto i Rumeni dell'isola di Veglia, ora estinti, quanto quelli dell'Istria ancora esistenti, ma quasi affatto slavizzati, appartengono allo stesso ceppo;
  2. che con tutta probabilità vi immigrarono nel sec. XIV dalla Maior Vlachia. (42)

Prima però di esaminare i lavori dell'Ascoli e del Miklosich, passerò in rassegna le ricerche dei nostri e degli stranieri sui Rumeni dell'Istria.

Il primo ad occuparsene si fu il pisinotto Antonio Covaz, il quale pubblicò nel 1846 un breve articolo dal titolo: Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria, e riferì un saggiuolo della lingua [184] da essi parlata. (43) Quanto alla loro origine, ecco com'egli si esprime:

Nè credasi che questa schiatta di gente da altre regioni in tempi a noi vicini nell Istria passasse... l'immigrazione rimonta a tempi pia lontani, e la colonia dei RinUiani dy Istria ha la stessa origine di quelle che vediamo conservare la stessa lingua nella Dacia, Epiro, isole dalmate e forse in più altri paesi.

Nello stesso anno 1846 la scoperta d'un aretta con lapide, rinvenuta a Jesnovico (Jessenovizza?) presso l'Arsa a' piedi del Monte Maggiore, (44) offriva l'occasione al Kandler (nella lettera ch'egli indirizza al parroco di Vragna, Don Matteo Musina) di esporre indirettamente la sua opinione sui Rumeni d'Istria.

Dopo aver discorso della lapide, così il Kandler conchiude:

penso che un comune, quasi colonia di militi, vi fosse nella Valdarsa, alla quale Augusto donò i terreni) e che posta fuori di ogni consorzio, conservò la lingua romanica fino a questi tempi, in cui è per dare il luogo alla slava; e penso pure, che simile colonia fosse nella valle di Castelnuovo a tutela della colonia di Trieste, colonia, che per i più frequenti contatti, prima dei fratelli alVArsa abbandonò la propria lingua.

Quest'opinione, accennata qui di volo, viene meglio esplicata dal Kandler nell'articolo: "Dei popoli che abitavano l'Istria" (45) e cioè, che i Rumeni della Valdarsa siano nati nell'Istria dal connubio di coloni romani col popolo che allora l'abitava.

Egli dice (pag. 76) che una colonia fu collocata da Augusto nella valle dell'Arsa, da Finale (Bogliuno) a Felicia (Chersano), [185] ch'è quanto dire, lungo il fiume Bogliunciza, dalle sorgenti al lago d'Arsa; e che questa colonia presidiava il passaggio del Monte Maggiore. Un'altra colonia venne posta nella vallata di Castelnuovo; ma che questa non fu Augustea, ma sembra piuttosto che fosse Claudia, (pag. 77).

Dopo aver detto della calata dei Longobardi nell'Istria, delle scorrerie degli Slavi (Sloveni?) Unni ed Avari, i quali, valicato il Montemaggiore, avrebbero uccise le guarnigioni e fatto una tale strage delle popolazioni nella Valdarsa, che, "dura ancora la fama essere stata la valle coperta di cadaverin egli prosegue, che i Croati occuparono il paese fra l'Arsa e la Cettina nel IX secolo, e "convien credere, che frammistisi ai Liburni, occupassero, non solo l'agro albonese, ma altresì le pendici orientali del Monte maggiore." (pag. 78) "Le pia antiche popolazioni non furono cacciate ed uccise, nè sull'agro albonese nè sulle isole (intendi del Quarnero); su quello durarono lungamente le vestigie di altro popolo, su queste durano tuttora di popolo che parlava il volgare romanico." Nel IX sec, continua il Kandler, gli Slavi sono fra il Risano e la Dragogna... sulle alture dell'Istria interna, intorno il filone che unisce Lupoglau e Pisino... pretti Latini vi sono nella Valdarsa, intorno a Pola, nella vallata di Castelnuovo...

Siccome il Kandler accenna poscia al trasporto di Morlacchi in Istria nei sec. XV, XVI e XVII da parte di Venezia e alle devastazioni degli Uscocchi, ciò che segue deve riferirsi a quei secoli o ai seguenti.

Pag. 79. Nel territorio di Trieste, in Opchina, rimanevan traccio della lingua volgare latina, della rumena; rimanevano tracce di questa lingua sul Carso di Pinguente, nella Valdarsa, — ed in altri tratti di paese non precisabili. — Slave erano le pendici orientali del Montemaggiore; Fiume era italiana, come eziandio Fianona ed Albona....

In mezzo alle popolazioni slave dell'interno durava la lingua rumena, e coloro che la parlavano eran detti Ciceroni, Ciciliani, Cici, per la pronunzia sonora del ci. Nell'interno dell'Istria la lingua romanica aveva fatto luogo alla slava; il romanico usavasi come lingua familiare e delle donne nei [186] villaggi di Gradigne, Lettay, Susgnevizza, Villanova, Tepenovizza, Berdo, Cepich; vacillava in Chersusio (pag. 80) e Cosliaco, era sparita dall'agro albonese; solo Seiane manteneva la lingua, Mune oscillava....

Pag 80. Quel terreno che oggidì è tenuto dai Cicci (che van distinti dai Berchini) formava l'agro dei Giapidi, sul quale all'epoca romana venne condotta colonia di soldati... Nella parte tenuta dai Cicci 200 anni fa si parlava il romanico, oggidì ristretto alla sola Seiane, che non tarderà a fondersi col rimanente.

Rimangono ancora romanici nella Valdarsa, ove indizi certi fanno ritenere, che vi fosse colonia, non di rango nobiliare, ma inferiore, però di romani... (46)

Carlo de Franceschi, il compianto estensore delle "Note storiche" s'occupò nel 1852 nel giornale già citato delle varie popolazioni dell'Istria, e quindi anche dei Cici e dei Rumeni di Valdarsa. (47) Dopo aver riassunto quanto da altri era stato pubblicato fino allora in tale proposito, ecco quale opinione aveva egli sull'origine dei Rumeni d'Istria:

(Pag 236) "Se i Rumeni provengono dalla nazione Daco-romana, ritengo che sieno penetrati in Istria per la via di mare insieme cogli Slavi che riscontriamo nel territorio di Albona ed in tutta la Valdarsa..., 9 E a pag. 235 egli spiega meglio il suo pensiero: uQuesta stirpe era sparsa per tutta la Valdarsa e per Vagro albonese, però mista alla razza croata porfirogenita, che venuta per mare dalla parte del Quarnero, occupò quel tratto di [187] paese. Si può credere, che i Romanici, venuti in questa provincia assieme ai Croati porfirogeniti, avranno conosciuto la lingua slava per i mutui contatti che forse duravano molti anni ancora al Danubio e nelle lente trasmigrazioni assieme intraprese ..." Che questa tribù romanica pervenne per la via di mare sbarcando sull'agro albonese, gliene fornisce un indizio forte (pag. 237) il trovarne avanzi a Besca (48) sull'isola di Veglia.  - Che poi la tribù croata dell'albonese e della Valdarsa venne dalla Dalmazia marittima glielo dimostrano i cognomi... eguali a quelli delle isole e del litorale della Dalmazia.

Come si vede, il De Franceschi si scosta di molto dall'opinione dei precedenti scrittori, quanto all'origine dei Rumeni d'Istria, e li vuole immigrati; ma come vedremo più avanti, non concorda coll'Ascoli e col Miklosich ne quanto all'epoca nè quanto alla via tenuta nell'immigrazione.

Un altro scrittore, C. A. Combi, in un lavoro pubblicato nel 1869 dal titolo: Cenni etnografici sull'Istria, s'occupò anche dei Rumeni. (49) Dopo aver detto delle loro sedi odierne e del prò continuo slavizzamento, quanto alla loro origine, l'autore vede (pag. 110) "nei moderni avanzi romanici i discendenti dei Latini di Roma".

Dello stesso argomento s'occupò il Combi nella Rivista contemporanea di Torino (50) ristampato poi nel volume Istria (51) ove a pag. 159, toccando dell'origine di questi Rumeni, dice: "si che il giudizio, ch'essi tenessero un giorno tutto il confine [188] della provincia, coloni e soldati di presidio, ci vien fatto agevolmente, anco senea riandare il passato, alla sola vista di quest'ultime reliquie di Roma.... alle falde dei Caldiera."

Dunque il Combi combina colla teoria del Kandler, colla teorìa già nota, che, cioè, i Rumeni d'Istria sieno nati ivi e sieno i discendenti di coloni romani. (52)

Con questo lavoro cessano, dirò cosi, le investigazioni da dilettanti su questi Rumeni; incominciano invece i lavori serii di giudici competenti in materia, di glottologi, i quali, a base do' loro giudizi, pongono lo studio della lingua parlata da questi Rumeni ed istituiscono de' raffronti con quella dei Daco- e Macedo-Valacchi, giusta i dettami della moderna filologia comparata.

Prima di passare ai lavori della seconda serie (1861-1900) fermiamoci un tantino su questa teoria dei nostri scrittori, i quali, ove si tolga qualche lieve scostamento, propendono a vedere nei Rumeni dell'Istria gli avanzi di un popolo nato dalla fusione di coloni romani colla popolazione che abitava anticamente quella parte dell'Istria orientale, ove nei secoli scorsi abitavano ed abitano tuttodì delle colonie rumene; un popolo dunque non immigrato, ma nato sul suolo istriano; questo popolo poi, quantunque rumeno, si sarebbe lasciato slavizzare dagli Slavi che li circondano da tutte le parti.

Vediamo un po', se una tale teoria possa reggersi.

Lasciamo da parte due fatti per noi ora poco importanti:

  1. le prove della specie delle colonie romane importate nella Valdarsa;
  2. quale sia stato il popolo preromano-istriano, il quale venne a contatto colle supposte colonie romane.

I primi abitatori dell'Istria chi li vuole Traci, chi Uliri, chi Celti, chi Liburni; (53) ma quand'anche sapessimo con [189] precisione a quale di queste popolazioni appartenevano gl'Istri, (54) ci troveremmo di fronte a de' nomi, a null'altro; in quanto che nulla si sa della lingua da essi parlata.

Non basta; quella parte dell'Istria, ove troviamo i Rumeni, pare fosse abitata dai Laburni, della cui lingua anche nulla sappiamo. Pare a me, che questa teoria della fusione di un elemento romano-rustico coll'elemento indigeno preromano, possa esser invocata piuttosto per ispiegare i dialetti italiani dell'Istria occidentale, specie della costa; anziché per rendersi conto di un dialetto rumeno isolato; parlato da pochi, e proprio in quella parte dell'Istria, che meno reliquie conserva della subita romanizzazione!

Esaminiamo la lingua parlata da questi Rumeni, e vedremo, che questa teoria è insostenibile. — Come vedremo più avanti, il dialetto istro-rumeno ritrae del daco- e del maoedo-ruxneno; ma dopo le indagini più recenti, lo si avvicina più al macedo-rumeno. (55) Ora teniamo ben presenti questi due fatti:

  1. quali elementi concorsero a formare la lingua rumena?
  2. quali risultati se n'ebbero?

Non si può dire con precisione, ma quasi tutti i dotti s'accordano nel dire i Daci appartenenti al numeroso e assai sparso popolo traco-illirio. (56) Anche le colonie romane venute a contatto coi Daci ci sono ignote; sappiamo però che furon scelte da tutto l'orbe romano. (57)

[190] Ebbene, dall'innesto del latino rustico parlalo da questi coloni tolti da tutto il mondo romano su base traco-illiria, ai ebbe una lingua neo-latina speciale, la rumena.

Abbiamo visto però, che a formare questa lingua concorsero molti altri elementi, come il vetero-sloveno, il bulgaro-turanico, l'antico illirico o albanese, lo slavo, il magiaro, il neo-greco ed il turco.

Ora, il rumeno dell'Istria assomiglia al rumeno della Dacia e della Macedonia; quindi dobbiamo ritenere, che per produrre gli stessi effetti, vi dovevano concorrere le stesse cause; in altre parole:

  1. la popolazione dell'Istria, ove abitano oggidì i Rumeni, doveva essere eguale a quella della Dacia;
  2. le colonie romane venute a contatto con essa, dovevano esser eguali a quelle trasportate da Traiano nella Dacia;
  3. la lingua nata da questo connubio ebbe l'occasione di accogliere in sè, nell'Istria, tutti quegli elementi estranei poc'anzi accennati, che la colonia di Traiano accolse invece là nelle lontane regioni dell'Emo, regioni che furono il teatro di tante trasformazioni etniche!

Chi mai potrà ammettere una simile coincidenza di cause e di effetti! — Nessuno.

Vediamo ora, se sia accettabile la teoria del De Franceschi.

Egli ammette:

  1. che i Rumeni dell'Istria provengano dai Rumeni della Dacia;
  2. che siano immigrati nel secolo IX insieme coi Croati, e per la via di mare;
  3. che l'elemento slavo, ch'entra nella lingua parlata dai Rumeni d'Istria, debbasi ascrivere ai contatti di questi coi Croati al Danubio e nelle trasmigrazioni assieme intraprese.

Che questi Rumeni siano venuti in Istria per la via di mare, lo consiglia il fatto, nel trovare dei Rumeni a Besca sull'isola di Veglia; (58) che i Croati dell'agro albonese e della Valdarsa sieno venuti dalla Dalmazia marittima, lo persuadono [191] i cognomi (ed i costumi) di questi, eguali a quelli delle isole e del litorale della Dalmazia.

Come si vede, la teoria del De Franceschi ha molti punti di contatto colla teoria propugnata dall'Ascoli e dal Miklosich, che, come vedremo, vuole i Rumeni d'Istria immigrati e non nati sul suolo istriano; soltanto egli si scosta da loro nell'epoca dell'immigrazione; poi, non essendo filologo, ascrive l'intrusione dell'elemento slavo nel rumeno d'Istria a cause non vere; e finalmente, senza volere, entra nella questione della venuta dei Croati in Istria, che, a rigor di termine, non entra direttamente nell'argomento da noi trattato. L'opinione che i Croati avessero occupato l'agro albonese e la Valdarsa, nel IX sec. come abbiamo veduto, era condivisa anche dal Kandler; soltanto egli riteneva, che i Rumeni della Valdarsa originavano da colonie romane ed abitavano colà prima dei Croati. Tanto l'uno che l'altro sono indotti ad abbracciare quest'opinione dal racconto della venuta dei Croati in Dalmazia e Croazia che ne fa Costantino Porfirogenito nel suo libro "De administrando imperio", e al noto passo sui confini settentrionali della Croazia, dalla parte dell'Istria orientale, fin oltre ai Caldiera; (59) ma gli studi critici recenti del Dr. Benussi, nel suo reputatissimo lavoro: Nel Medio Evo, dimostrano il contrario e mi dispensano dal fermarmivi ulteriormente. (60)

Io non andrò certamente ad ingolfarmi qui in una questione, che non entra nel mio argomento, cioè, quando e come vennero i Croati di qua dal Monte maggiore; quello che puossi accettare con qualche certezza si è:

  1. che l'elemento slavo della lingua rumena entrò in essa già nei paesi dell'Emo-Balkan, ed i Rumeni d'Istria l'avevano già nella loro lingua, quando vennero qui;
  2. che singole parole slave entrarono nella loro lingua anche nell'Istria, sia dai Croati che dagli Sloveni moderni, ma in tempi recentissimi;
  3. che ripugna [192] a credere, che i Croati sieno venuti nelle regioni accennate dell'Istria nel IX secolo e per via di mare, ciò che sarebbe stato assai difficile;
  4. che non consta da nessuna fonte attendibile, che di Rumeni ci siano stati mai a Besca; sibbene a Castelmuschio, Dobasnizza e Poglizza, villaggi dell'isola di Veglia;
  5. che l'eguaglianza dei costumi, della lingua, dei cognomi dei Croati dell'agro albonese e della Valdarsa (e dicasi pure: del Pisinato e della Liburnia) con quelli delle isole e del litorale della Dalmazia, dimostrano soltanto la loro comune origine; si può però tenere per certo, che non sono venuti per mare, si bene per terra; non nel IX sec., ma nei secoli seguenti, e per lenta espansione.

La venuta dei Rumeni poi nell'Istria avvenne più tardi, come vedremo; e non ha nulla di comune colla venuta dei Croati.

A queste opinioni, dettate ai nostri dall'amor di patria, ma non sorrette da prove e che non reggono ad una critica seria, bisogna contrapporre un'altra, che proviene dai raffronto della lingua, in quanto che la storia, nel caso nostro, non ci aiuta affatto.

Questo raffronto, dovuto a due linguisti di fama nota e riconosciuta, ha posto in sodo, che il dialetto istro-rumeno ritrae d'ambo i dialetti rumeni, cioè, deldaco e del macedone, ma più di quest'ultimo.

Gli è perciò, che bisogna cercare la patria originaria dei nostri Rumeni, non nell'Istria, ma nei paesi attorno all'Emo, ove ebbero origine ambo i rami dei Rumeni o Valacchi, cioè, tanto il ramo settentrionale (Daco-Rumeni) quanto il meridionale (Macedo-Rumeni); bisogna poscia cercare la via da essi tenuta nella immigrazione, e stabilire, almeno approssimativamente, l'epoca nella quale vennero nell'Istria. A queste questioni rispondono i lavori della seconda serie, che incominciano col 1861.

Il primo che studiò scientificamente il dialetto rumeno della Valdarsa si fu l'insigne glottologo G. I. [Graziadio Isaia] Ascoli, il quale, avuto il materiale nel 1860 dal parroco Antonio Micetich, nativo di Berdo — ch'ebbe quasi a lingua materna il rumeno di Valdarsa e ch'era ignaro affatto degli altri due dialetti rumeni [193] — pubblicò nel 1861 i risultati delle sue indagini negli Studi critici. (61)

L'Ascoli adunque, da quel glottologo competente che si è, sebbene a malincuore, ribatte l'opinione del Combi iutorno all'origine dei Rumeni o Valacchi dell'Istria. Di questi (e di quelli dell'isola di Veglia) s'era occupato, ne' suoi Studi linguistici anche il filologo lombardo Biondelli; ma come avverte lo stesso Ascoli, al Biondelli non giunsero che notizie imperfette su codesti Rumeni, e quindi anche i giudizi suoi non sono in tutto attendibili. L'Ascoli, a giorno di quanto s'era detto e stampato fin li su questi Rumeni, dall'esame linguistico da lui fatto, dice doversi recisamente rifiutare l'opinione del Combi (cui accede il Kandler) "che vede nei Rumeni d'Istria i discendenti dei militari romani e dei coloni latini, onde sarebbersi munite a' tempi di Augusto le frontiere della provincia e popolati i suoi monti di confine e le terre dell'Arsa." (pag. 52).

Secondo tale ipotesi, il latino rustico di codesti coloni romani si conserverebbe nel rumano delle accennate regioni dell'Istria, (pag. 53), come il latino rustico d'altri coloni romani ci è mantenuto nel rumeno della Dacia (valaco, daco-romano); e la consonanza dei due parlari rumeni (Daco- e Istro-Rumeno) altro non proverebbe, se non comunanza di romana origine. Ma ciò è ben lungi dal vero. Noi vedremo che si tratta di due idiomi (prescindiamo per il momento dalle varietà del valaco extraistriano) "i quali debbono ritenersi uno idioma istessissimo, e il cui fondamento latino si mostra affetto di tanti e tali peculiari alteramente in parte non lieve dovuti ad influsso straniero, che, il volerne supporre fortuita coincidenza nei due paesi, ripugna assolutamente alla ragione; ond'è che non esiteremo ad annoverare i Rumeni d'Istria, d'accordo col Biondelli, tra quelle genti, che per sottrarsi alla barbarie degli Osmani migrarono in cerca di nuova patria." (62)

[194] Finito l'esame del rumeno valdarsese, nel quale riscontra delle caratteristiche comuni ai dialetti tnacedo- e daco-rumeno, riporta il Padre nostro dei Valdarsesi (che fra parentesi somiglia quasi perfettamente a quello dell'isola di Veglia) e poi conchiude:

"Diremo che Dacoromâni e Macedo Valachi sien venuti a mescolarsi nell'Istria, o non diremo piuttosto.... che il rumeno di Valdarsa rappresenti un dacoromano più antico di quel che oggidì si parla (o meglio si scrive) in Valachia, un dacoromano in cui si mantengono certi caratteri di antichità proprio tuttora dei macedo-valachi, ma perduti nel dacoromano moderno? (63)

"Gli elementi slavi del rumeno di Valdarsa.... conterranno per avventura qualche prezioso adJitamento circa la precisa patria di codesti coletti.... comunque sia.... nessuno vorrà più mettere in dubbio il valachismo di questo dialetto Valdarsese. Il quale non è quindi (come credono i letterati d'Istria) una diretta propaggine latino-istriana, ma sì il latino rustico elaborato compiutamente a nuova liu, ma, tra ogni specie di straniero influsso, là negli ultimi paesi che il Danubio bagna." (64)

Io credo, che queste parole non han bisogno di commenti.

Dunque già l'Ascoli, un glottologo cui bisogna fare tanto di cappello, sentenziò:

  1. la lingua parlata dai Valdarsesi è rumena;
  2. questa lingua non è nata qui, ma nei paesi del Danubio inferiore e vi venne importata.

Quando, non à detto chiaramente; è detto però, da un popolo che, per isfuggire alla barbarie dei Turchi, venne in cerca di nuove sedi; dunque, se non nel secolo XIV, almeno nel secolo XV.

Ma eccoci finalmente giunti al creatore, si può dire, degli lstro Rumeni e del terzo dialetto rumeno, cioè, dell'istro-rumeno, che viene accettato oggidì da tutti coloro che si occupano di romanologia. Quest'uomo, conosciuto nel mondo glottologico [195] per i tanti lavori pubblicati, che consacrò tanta parte di sè allo studio del rumeno, è il rinomato slavista, già prof, dell'Università di Vienna, Fr. Miklosich, morto nel 1896.

Il suo primo lavoro sui Rumeni dell'Istria uscì nel 1862, in appendice al lavoro: "Die slavischen Elemente im Rtununischen." (65)

Egli lavorava all'insaputa dell'Ascoli, ma le conclusioni dei due filologi sono le stesse. Il Miklosich, conoscitore profondo di tutte le questioni dibattute fra i dotti circa l'origine dei Rumeni e della loro lingua, non si perde in lunghe disquisizioni, ma taglia corto. Anche delle questioni circa l'origine dei Rumeni d'Istria egli ha piena contezza; anzi riporta le prove della lingua che s'erano stampate sin lì, e su queste appoggiato, fonda il suo giudizio. Queste prove consistono:

  1. nei due raccontini del Covaz, pubblicati nel giornale l'Istria (66): Doi omir amnat a en ra se calle.... e Jarna fost a, e cruto race...
  2. nel Pater Noster, l'Ave Maria ed il Credo, pubblicati nelle Novise di Lubiana (67) in e 22 proverbî dettati dal cooperatore di Mune, prima di Susgnevizza, Don Lor. Rakovez, il quale offrì al Miklosich anche una piccola raccolta di vocaboli di Xejane e Susgnevizza.

Delle voci ch'entrano in queste poche e brevi composizioni (350 circa), egli ci dà un piccolo vocabolario, colla spiegazione e la relativa derivazione; di queste 360 voci sono di origine slava 113.

Il Miklosieh dunque, dopo aver accennato all'opinione del Kandler, quanto all'origine di questi Rumeni, opinione che già conosciamo, contrappone la sua: All'opinione (così dic'egli press'a poco) che i Rumeni d'Istria sieno nati lì, bisogna contrapporre un'altra che nasce dalla somiglianza della lingua dei Rumeni istriani con quella dei Rumeni abitanti intorno al Mar Nero ed Egeo. Secondo questa opinione (che come abbiam [196] visto è pur quella dell'Ascoli) si fanno derivare dal Danubio inferiore, nel paese dell'Emo, (68) ambo i rami del popolo rumeno, cioè, i Macedo- e i Daco-Rumeni; e quantunque in questo primo lavoro il Miklosich non lo dica chiaramente, si bene nei lavori successivi, la deduzione è questa: Se i Rumeni d'Istria parlano una lingua che ritrae dei dialetti macedo- e daco-rumeno, cercate la patria dei primi nella patria dei secondi, dunque al Danubio inferiore.

Prima di passare al secondo e più importante lavoro del Miklosich sui Rumeni d'Istria, conviene ch'io dica due parole di due altri scrittori, intendo del Maiorescu e del Bidermann. Il letterato rumeno Giovanni [Ioan] Maioreseu visitò l'Istria e l'isola di Veglia, collo scopo precipuo di raccogliere il materiale e studiare il rumeno delie due regioni ancora nel 1857; ma la lettera, di cui ci occuperemo tosto, venne pubblicata appena nel 1872. (69)

Nel 1874 pubblicò poi a Jassy, quale frutto delle sue ricerche, il libro: "Itinerar in Istria şi vocabular istriano-roman." Nella lettera stampata nel 1872 (e diretta al Covaz nel 1861) il Maiorescu descrive dapprima il suo viaggio di 12 giorni, fatto a piedi da villaggio a villaggio nella Valdqrsa, ove da quei Rumeni, specie da quelli di Xejane (ch'egli scrive Jejune, da pronunciarsi Xejune) venne ricevuto oome un apostolo. Fu anche a Poglizza, sull'isola di Veglia, ove un vecchio di 80 anni si ricordava ancora di alcune espressioni rumene. I Poglizzani lo assicurarono, che i loro antenati erano Vlachi, cioè, Rumeni. A Veglia conobbe il Dr. [Giambattista] Cubich, ma questi parve geloso del suo manoscritto (che conteneva una raccolta di voci e di modi di dire dell'antico dialetto di Veglia, e che fu poi pubblicata nel 1861 (70) nel giornale L'Istriano, N.ri 13, 14, 16 e 17, e ripubblicate nelle Notizie naturali e storiche sull'isola [197] di Veglia, (71) e gli concesse di confrontare soltanto il Padre-nostro e l'Avemaria dei Poglizzani (72) col testo di quelli di Valdarsa. Anch'egli trovò, che la lingua rumena di Poglizza è eguale a quella di Valdarsa e di Xejane.

Racconta egli ancora, che il Dr. Cubich gli lesse qualche cosa "di altra lingua romantica" (sic!) usata nella città di Veglia e ne' suoi dintorni, e soggiunge ancora, che fra tutti i dialetti romanici a lui noti, questo (della città di Veglia) si accosta di più al rumeno. (73)

Ecco le conclusioni del Maiorescu: (74)

Dopo la colonizzazione della Dacia con coloni romani, tutte le regioni fra il Danubio e l'Adriatico si copersero con colonie rumene, parlanti una lingua romanica. La trasmigrazione dei Barbari ha causato degli spostamenti in queste colonie rumene, in sostanza però la popolazione rumena rimase sul suolo primiero. Cessate le incursioni dei Barbari, le popolazioni rumene si rialzarono e nei sec. VII e VII) formarono dei piccoli stati o Banati, alcuni dei quali esistettero fino al IX e X secolo.

[198] Gli odierni Vlahi o Morlacchi (i Maurovlahi del prete Diocleate) che parlavano un dì la lingua dei Vlahi della Moldavia e Valachia, della Macedonia e Tessaglia, e che lasciata la propria lingua, si distinsero dai Croati della Croazia e Dalmazia soltanto per il rito religioso (greco), come i Vlahi o Morlachi dell'Istria, che accanto ai Croati conservano la lingua romanica, soltanto in pochi villaggi, ma che 170 anni fa, per dichiarazione di Fra Ireneo della Croce, si estendevano anche sul Carso di Trieste e di Castelnuovo.... sono i miseri avanzi di quei medesimi Romani o Vlahi che nei sec. VII, VIII e IX formarono i Banati di Croazia e Dalmazia... (75)

Anche il professore neir Università di Graz, H. J. Bidermann (morto nel 1896) porta un generoso contributo sui Rumeni dell'Istria, rispettivamente sui Morlacchi e Cici, nel suo lavoro "Die Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich„  (76) Egli, dopo aver riassunto i lavori pubblicati prima del 1877 in questo proposito, concorre col suo — quantunque più con dati storici che linguistici — a gettare nuova luce sulla questione dell'origine e della venuta dei Morlacchi e Cici nell'Istria, e con ciò dei Rumeni. Egli conosce il documento del 1463 (77) in cui si nominano i Cici per la prima volta; e pone questo documento in istretta relazione con due altri, uno del 1465, [199] l'altro del 1468, che parlano di Vlahi (nella traduzione italiana Morlacchi) importati sull'isola di Veglia dallo stesso conte Giovanni Frangipani; (78) sicchè anche da questi documenti [200] possiamo tirare la dedazione:

  1. che Vlahi, Morlacchi, Cici, gli è tutt'tmo, e che tutti sono Rumeni, come lo dimostra la lingua da essi parlata fino a pochi secoli fa;
  2. che vennero dalla vecchia Croazia (Erzegovina) fuggendo dai Turchi, e si stabilirono sul Carso rimasto deserto in conseguenza delle precedenti scorrerie dei Turchi.

Si cerchi, dic'egli, la patria dei Cici o Morlacchi nel paese posto fra il mare e i fiumi Unna e Verbas, al Velebit, e nelle regioni al settentrione e al mezzodì di questo. (79) Quello che non mi sembra accettabile si è, che questi Cici dell'Istria, siano qui venuti dalla terraferma passando oltre air isola di Veglia. I documenti del 1465 e 1466 che trattano di Vlahi (Morlacchi) o Rumeni dell'isola di Veglia, dicono soltanto che quelli di Castelmuschio o di Dobasnizza vennero importati sull'isola dal conte GK Frangipani, senza dubbio da' suoi possedimenti nella terraferma, specie dalla Corbavia....s) e questi Vlahi o Morlacchi appariscono col nome di Cici nella guerra del 1463 tra le genti del conte e quelli di Bogliuno, Vrana, Brest, Pisino... ma da ciò non viene, che quei Cici che 60 anni più tardi (1523) occuparono il Carso deserto, sieno venuti dall'isola di Voglia, ciò che sarebbe stato difficile; tanto più che negli stessi anni troviamo già i Cici nel' territorio di Trieste, (80) ed anche in quello di Capodistria. (81)

[201] Quanto all'opinione, che questi Vlahi, Morlacchi, Cici, venuti nell'Istria, erano già un miscuglio di Croati e Rumeni, sono d'accordo con lui; ma che questi parlassero ancora rumeno, ne abbiamo le prove nella lingua usata, nei secoli scorsi, dai Cici e Morlacchi del Carso, da quelli di Xeiane, della Valdarsa e dell'isola di Veglia, fino al giorno d'oggi; bisogna però farvi in questo proposito una piccola distinzione. Se si tratta di Vlahi, Morlacchi, Cici del sec. XIV o tutt'al più XV, questi parlavano ancora rumeno misto di slavo, quando vennero nell'Istria; se si tratta invece di Morlacchi, Cici, dei sec. XVI e XVII, importati da Venezia in Istria dalla Dalmazia, a riempire i vacui causati dalle pesti, cui il De Franceschi chiama Morlacchi novissimi, (82) ritengo per certo, che questi non parlavano più rumeno, quando vennero in Istria, e ciò per molte ragioni:

  1. Questi non lasciarono tracce della lingua rumena; ma sono oggidì serbi, come lo erano quando vennero;
  2. Che cosi sia stato lo eruisco dal fatto, che i Morlacchi venuti nel territorio di Rovigno (83) nel primo quarto del sec.

[202] XVI (1526) chiesero si concedesse loro un zupano (e non un podestà), che tutti i cognomi di detti Morlacchi sono già slavi, che il capitolo di Rovigno nel 1596 fu obbligato "di preveder a detti Murlachi un Prete schiavo atto et idoneo alla cura dell'anime loro.. (84)

Avvenne del nome Morlacchi ciò che presso gli Slavi avvenne del nome Vlahi.

In origine Morlacco (Maurovlaco, Negro Latino, in islavo Vlah) significò un Rumeno; col tempo Morlacco significò un abitante della Morlacchia, di costumi eguali al primo, fora'anco lontanamente derivante dal primo, ma parlante, non più il rumeno, bensì lo slavo; Vlah fu detto un Rumeno, più tardi un pastore della Bosnia, che esercitava la pastorizia come i Rumeni, ma non parlava più rumeno. E di fatti il Maiorescu (86) ci avverte, che gli Slavi dell'Istria chiamano Vlahi tanto i Rumeni della Valdarsa quanto i Morlacchi serbo-dalmati importati nell'Istria nei sec. XVI e XVII.

Del resto, sorvolando su tante altre cose dette dal Bidermann, che non hanno certo interesse per noi, mi piace osservare, che anch'egli (85), riferendosi ai lavori di tre competenti in materia, (87) trova una consonanza fra la lingua dei Rumeni d'Istria e quella dei Macedo-Rumeni, e ne deduce doversi supporre una lunga comune dimora dei progenitori d'ambedue queste schiatte, là nella penisola balcanica, dalla quale emigrarono e vennero nell'Istria.

Soltanto l'epoca a ciò da lui assegnata è un po' tarda, cioè, nei secoli XV o XVI.

Ed ora passiamo al secondo lavoro del Miklosich, che essendo uscito appena nel 1880; dunque dopo quello del [203] Bidermann, dal quale ricava alcuni dati sui Cici e Morlacchi dell'Istria, e alla distanza di 20 anni dal suo primo lavoro, contiene delle notizie più interessanti e dei giudizi più precisi sulla questione dei Rumeni d'Istria, che non contenesse il suo primo lavoro.

Il titolo di questo secondo lavoro del Miklosich si è:

"Über die Wanderungen der Rumunen in den dalmatinischen Alpen und den Karpaten" (88) e fu pubblicato nel vol. XXX delle Denkscriften... dell'Accad. di Vienna.

Riassunto anche qui quanto si sapeva da lui e da altri sulle sedi dei Rumeni d'Istria, detto che una volta dovevano estendersi dal golfo di Fiume fino a quello di Trieste... quanto all'origine di questi Istro-Rumeni, così il Miklosich (pag. 2):

"Dovedi respingere l'opinione, che questo popolo sia nato nella sua odierna patria dalla fusione d'un elemento indigeno con coloni romani, perchè la lingua da esso parlata sta a quelli dei Daco- e Macedo-Rumeni in tali intimi rapporti di affinità, da non poterla accettare per verosimile."

A questa opinione si oppone anche il fatto, che nella lingua degli Istro-Rumeni v'hanno delle voci d'origine slava, le quali non possono essere state prese ne dalla lingua degli Sloveni nè da quella dei Croati d'Istria, ma devono derivare dalla lingua dei Bulgari.

Dopo aver indicate queste voci d'origine bulgara, l'A. soggiunge:

'"Diese Worte zeigeny dass die Rumunen Istriens aus einem auch von Bulgaren bewohnten Lande stammen."

Ma siccome questo contatto non avvenne nell'Istria, bisogna ritenere, che avvenne altrove, e propriamente nei paesi dell'Emo, come fra breve vedremo.

Ed ora l'A. si fa queste domande:

  1. qual è la patria originaria dei Rumeni d'Istria?
  2. per quale via vennero essi dalla loro patria originaria nelle odierne sedi?
  3. quando avvenne la loro migrazione nell'Istria?

Ecco le sue risposte: [204]

Ad I. Egli dice, che bisogna cercare la patria dei Rumeni d'Istria nella patria originaria dei Romeni.

La qual patria originaria dei Rumeni è stata spesse volte trattata, ma non fu ancora risolta. Tuttavia l'A. è dell'opinione, doversi ricercare la patria originaria dei Rumeni al messodì del Danubio. Poi soggiunge: "Von da stammen auch die Rumunen Istriens."

Ad II. Per poter rispondere alla seconda domanda l'A. getta uno sguardo su quei Rumeni che una volta abitavano nei territori dei Serbi e dei Croati, e s'intrattiene quindi:

A. Sui Rumeni nel territorio serbo.

Gli è noto, dic'egli (pag. 3) che nei documenti serbi vien fatta più volte menzione dei Vlachi. — Vlah si traduce egualmente:

  1. I. con romanus, e s'intende con ciò un cittadino italiano delle coste dalmate, specie un Raguseo.
  2. II. con pecuarius (allevatore di bestiame). Il primo significato si attribuisce soltanto raramente alla parola, e dopo il 1260 sparisce completamente. Quanto al secondo significato, questo si è sviluppato da "omanus" nel senso in cui questa parola s'identifica con Rumeno. Quando vlah non significava più un Rumeno, ma un allevator di bestiame, non ci è dato precisare. Nella metà del secolo XII i Vlachi erano ancora rumeni; come apparisce dalle parole del Diocleate (Presbyter Diocleas) (89) ...Latini, qui illo tempore Romani vocabantur, modo vero Moroulahi, hoc est Nigri Latini vocantur." (90) Con ciò si spiega la severa scissione fra Serbi e Vlachi; tanto che i matrimoni fra Serbi e Vlachigne era accompagnato da dannose conseguenze legali.

[205] La nazionalità romena dei Vlahi serbi risulta da innumerevoli nomi rumeni (seguono molti nomi); di questi una parte (come Bukor, pulcher) sta in relazione con appellativi rumeni; laddove un'altra (come Dragul) tradisce la sua origine rumena soltanto coll'articolo ul aggiunto alla radice drag (che è slava).

Con vlah il Serbo designa il Rumeno, specie il settentrionale, dovunque egli viene a contatto con essolui, così nella Serbia orientale come nel Banato: il meridionale egli lo chiama Zumar; (91) il Bulgaro comprende con vlah sì l'uno che l'altro.

Opposto al nome vlah (lat. vlacus, blacus) stava e sta tuttodì un nome mezzo slavo: i documenti latini chiamano il popolo morovlahi, moroblachi, più tardi morlachi, ital. morlacchi, un nome il quale non istà in relazione con more, (mare), ma è identico col greco di mezzo [Greek text].

Una ragione della denominazione dei Rumeni quali Negri Vlachi non è stata trovata; (92) il nome si trova presso i Serbi quale Karavlah accanto a vlah. La voce morlacco ha esteso nei tempi posteriori il suo significato; giacchè si denominavano con essa non soltanto i veri Rumeni, ma anche gli abitanti [206] slavi della terraferma. Nelle Relazioni venete della prima metà del sec. XVI, tutti gli abitanti slavi della terraferma, tanto al Quarnero e nella Dalmazia settentrionale quanto presso Cattaro ed Antivari, si dicono morlacchi. (93) Nello slavo il nome [Greek text] non ha preso piede, se non s'intende forse il nome mertovlassi, col quale si denominano gli abitanti del confine fra Castagnizza e Novi, quale corruzione di morovlassi: Mertovlassi è anche il nome d'un villaggio nel Comitato di Poxega. (94)

I Vìachi erano allevatori di bestiame, i quali parte abitavano in luoghi fissi (catun, regio pastoria) (95) parte erravano coi loro cavalli, colle loro pecore e capre, da monte a monte, da pastura a pastura. Si deve dare un gran peso a questo tratto caratteristico del popolo rumeno: esso spiega la sua ulteriore dilatazione, e con ciò il grande significato del popolo rumeno per la storia dei territori siti tra i due mari, e dei paesi finitimi fino a grandi distanze.

Coll'allevamento del bestiame andava di pari passo unito presso i Vlachi il caseificio ed il commercio delle carovane.

II formaggio dei Vlachi aveva una tale importanza nel traffico dei Ragusei, da venir adoperato, accanto al metallo monetario, come mezzo di pagamento. Il prezzo del caseus vlachescus, vlachiscus (brença in un docum. dell'a. 1357) veniva stabilito dall'Autorità. Possessori di animali da soma, i Vlachi portavano a Ragusa piombo bosniaco, e prendevano da Ragusa, e da altre città della costa, tra le altre merci specialmente il [207] sale, che ha nella storia di questi paesi una grande importanza. Nell'lllyricum sacrum del Farlati (VI, 28) si può leggere una notizia del 1440, in cui si fa cenno del commercio che, circa una statua si faceva ...ab advenis Moralachis.

Dalle notizie che riferisco in nota (96) si vede che i Vlachi erano noti a Ragusa al principio del XIV sec.

Della lingua di questi Vlachi ci sono rimaste alcune poche parole nel serbo parlato in quelle regioni, fra altre: turma, carovana nel Montenegro, e turmar, cocchiere da nolo, usato in Croazia (in rumeno turma vale gregge); brença, formaggio vlaco, usato generalmente nei Carpazî, e che da qui si è diffuso nei paesi vicini.

B. Rumeni nel territorio croato.

Un dì c'eran dei Rumeni sull'isola di Veglia, lungo le coste orientali del Mare Adriatico, nell'interno del paese (Binnenland) e ce ne sono ancora oggigiorno nell'Istria.

a) Rumeni sull'isola di Veglia.

Che oggidì sull'isola di Veglia non si parli più rumeno è fuor di dubbio. (97)

Che però una volta ci fossero su quest'isola dei Rumeni, specie nei villaggi di Dobasnizza e Poglizza, ce lo attestano i documenti, i quali parlano di Morlacchi contrapposti ai Croati, proprio come in Serbia si distinguono i Vlachi dai Serbi. (98)

[208] Che i Murlachi dell'isola di Veglia erano identici con quelli della Dalmazia e dell'Istria, e che furono trapiantati nell'isola nei villaggi di Dobasnizza e Poglizza dai conte Giovanni Frangipani, trasportandoli dalle sue possessioni di terraferma (i Frangipani avevano vaste possessioni nel Vinodol e nell'interno della terraferma fino a Modrussa) devesi ritenere come cosa certa, ciò avvenne circa tra il 1450 e 1480. (99)

Un dubbio solo può sorgere in proposito; se cioè, questi Murlachi, all'epoca del loro trapiantamene, avessero già parlato il croato o ancora il rumeno; un dubbio che sparirebbe per colui che a torto ritenesse l'Istria per loro patria antica. Per dimostrare, che questi Murlachi, non soltanto ai tempo [209] della loro immigrazione, ma benanco al principio di questo secolo, parlavano il rumeno, possono citarsi il Padre nostro e l'Avemaria che pochi anni avanti si raccolsero dalla bocca di un vecchio Poglizzano, morto nel 1876. (100)

Quest'è l'unica prova della lingua rumena dell'isola di Veglia.

"Es isl nicht behannt, dass sich (il rumeno dell'isola) in der Sprache der Veglianer (si allude all'antico dialetto della città di Veglia) eine Spur der rumunischen erhalten habe". (101)

b) Rumeni alle coste orientali del mare Adriatico.

Il nome vlah ha nel croato e nel serbo molti significati: esso significa in serbo il Valacco, cioè, il Rumeno al basso Danubio, il quale in certe regioni vien detto Karavlah; nella Bosnia e nell'Erzegovina indica vlah nella bocca dei Turchi e dei cattolici, e da questi in Austria (ad eccezione della Dalmazia) gli appartenenti alla chiesa greca; la voce vieti, in questo significato, rinchiude un certo scherno; presso gli abitanti delle città, dei mercati e delle isole della Dalmazia vlah significa un abitante del continente senza distinzione religiosa: questi poi da se stessi adoperano il significato di vlah pari all'italiano Morlacco. Di qui provenne il nome di Canal della Morlacca o della Montagna. (102)

Dalle cose anzidette risulta, che i Vlachi una volta appartenevano alla chiesa greca; il che à comprovato da un documento del 1373. (103)

I Vlachi alle coste orientali del mare Adriatico vengono nominati più volte: nel citato documento del 1373, un distretto fra la Bosnia e la Oorbavia, chiamasi Maior Vlachia.(104)

[210] I Vlachi appariscono in un documento del bano Nicolò de Zeech del 1362, ove si parla di una "particula gentis Morlachorum,, e viene stabilito, che i Morlacchi non possono stabilirsi nel territorio della città di Trau: "Nullus Morlachorum nec aliqua gens de illorum progenie..." (105)

Dei Vlachi si parla hi un documento del 1412 del re Sigismondo, nei dintorni di Sebenico; (106) ed in un altro documento dello stesso anno si fa cenno dei Morlacchi. (107)

Io credo, conchiude il Miklosich, che questi Vlachi non si possono separare ne da quelli del territorio serbo nè da quelli dell'Istria.

c) Rumeni nell'Istria.

Sopra i Rumeni dell'Istria, dice il Miklosich, s'è osservato qualche cosa più sopra; più estesamente s'è detto nel vol. XII delle Denkschriften pag. 55-69 (e allude al lavoro: "Die Slav. Elem. im Rumun.")

Quando essi abbiano toccato il suolo istriano, non si lascia precisare; la qual cosa non deve meravigliare, trattandosi di un popolo che si spinse avanti (dai paesi originari) non già in grandi masse, ma in piccoli gruppi, e cosi ci vien data la ragione eziandio, che la loro venuta non venne notata dai cronisti.

Dai dati sopra citati si può ammettere, che la loro immigrazione nell'Istria sia avvenuta circa nel sec. XIV, e che siano venuti dalla Maior Vlachia. Dopo che i Rumeni, stabilitisi in territorio serbo e croato, circondati tutt'all'intorno da Slavi, si sono già da lungo tempo slavizzati, i Rumeni dell'Istria stanno, coi loro compagni di lingua meridionali fuori di ogni relazione. Il fatto che i Rumeni dell'Istria non si sono [211] slavizzati, può venir spiegato soltanto dall'aver essi vissuto compatti assieme. Ciò che spetta alla lingua degli Istro-Kumeni, qui si daranno delle nuove prove, oltre a quelle portate in appendice al lavoro: Die slav. Eletti... nel voi. XII delle DenJc-schriften... dell'Accad. di Vienna. Udiamo la conclusione:

"Dalle cose dette consegue, che i Rumeni sono penetrati in territorio serbo, partendo da un punto della penisola dell'Emo; da lì proseguirono verso settentrione in regioni abitate da Croati; non già in grandi masse, ma in piccoli gruppi, quali pastori erranti, epperò sema far del chiasso, e quindi il fatto sfuggì ai Cronisti.

Per quello che riguarda il mezzogiorno, alla sopracitata può venir contrapposta ropinione, che i Serbi immigrarono in un territorio abitato già da lungo tempo da Rumeni. Il territorio di Trieste fu indubbiamente il punto estremo delle loro migrazioni. (108)

Per ciò che riguarda il tempo, si può asserire soltanto con una certa verosimiglianza, che le migrazioni erano finite nel sec. XIV. (109)

E così egli ritiene, per quanto gli era possibile, d'aver risposto anche alle domande 2.a e 3.a.

Da pag. 6-8 l'A. s'occupa delle migrazioni dei Rumeni nei Carpazi.

[212] A pag. 8, dopo aver riferito le poche parole rumene passate nel serbo, riporta il Paternoster e l''Avemaria raccolte a Poglizza dalla bocca di un vecchio morto nel 1876. Questi raccontava, che i suoi antenati parlavano "alla rumena" (po vlašku). Attualmente i Poglizzani parlano il croato come tutti gli isolani. (110)

Il Miklosich ci dice ancora, che coloro i quali gli comunicarono queste preziose notizie sui Rumeni di Poglizza, lo fecero eziandio avvertito, che nella città di Veglia esisteva il nome Pacul, e nelle sue vicinanze, Bociul, Cociul, evidentemente nomi rumeni. (111)

Osservo in fine, che il Padre nostro e l'Avemaria offertici dal Miklosich hanno qualche piccola variante colle stesse orazioni offerteci dal Cubich (op. cit. pag 118) queste su per giù sono poi identiche colle lezioni dateci dall'Ascoli (Studi critici, pag. 75, 76) e dall'Ive per quelli di Valdarsa; il che dimostra all'evidenza, che tanto i Rumeni dell'isola di Veglia, quanto quelli della Valdarsa sono tutti immigrati dallo stesso luogo; soltanto non è accettabile la teoria, che dall'isola sieno passati nell'Istria; sta invece il fatto, che quelli dell'isola di Veglia vennero importati dalla terraferma dai conti Frangipani; laddove quelli [213] della Valdarsa vennero quali pastori erranti, anche dalla Croazia, senza passare però per l'isola di Veglia, come riteneva il Bidermann.

L'ultimo lavoro del Miklosich, quello che corona le sue molte e dotte ricerche sui Rumeni, porta il titolo di "Rumanische Untersuchungen" (112) pag. 1-91. Queste ricerche, dic'egli, hanno anzitutto per oggetto la conoscenza e la spiegazione delle fonti per la cognizione dei dialetti istro- e macedo-rumeno. Aggiunge che in un altro lavoro si occuperà della fonologia dei tre dialetti. (113)

Nelle Rumunische Untersuchungen, per quello che concerne il rumeno dell'Istria, abbiamo:

Monumenti istro-rumeni.

Le fonti pubblicate qui per la conoscenza del rumeno-istriano gli furono partecipate dal Dr. Antonio Ive e dal Dr. Teodoro Gartner.

I. a. Note del prof. Antonio Ive.

Queste furon fatte a Berdo, nel distretto di Albona. Il Dr. Ive dice che darà, per il rumeno parlato oggidì nella Valdarsa ed a Seiane (Xejane) il maggior numero di saggi possibili, riproducendo anche quanto per lo addietro venne pubblicato dall'Ascoli.

Questi saggi abbracciano (p. 2-16):

  1. l'orazione dominicale (Lezione data dall'Ascoli, Studi critici, I, 75-76); la variante della stessa (Lezione data dall'Ive);
  2. la Salutazione angelica;
  3. il Decalogo;
  4. il Credo; [214]
  5. la Salve Regina;
  6. Alcune frasi;
  7. Alcuni proverbi.

I. b. Indice delle Note del Dr. Antonio Ive.

Insieme coll'Indice l'A. vi unisce quanto fino allora era noto del tesoro linguistico dei Rumeni istriani, parte col suo mezzo nelle Denkschriften..." vol. XII e XXX, parte da Giov. Maiorescu nello scritto pubblicato dopo la di lui morte, dal titolo: 'ltinerar in Istria, şi vocabular istriano-romann Jassy, 1874.

Segue la Raccolta delle voci fatta in Istria dal Dr. Teodoro Gartner pag. (17-52.)

II. Materiali per lo studio del rumeno nell'Istria del Dr. Teodoro Gartner (pag. 63-78).

Egli visitò l'Istria a questo scopo nel 1880.

Le più grandi isole linguistiche rumene in Istria sono formate dai villaggi: Gradigne, Letai, Sugnevizza, Villanova, Berdo e Grobnico. (Il vocabolario va da pag. 64-78).

  1. a) Indice italiano del vocabolario (pag. 78-84).
  2. b) Aggiunte dell'editore (Miklosich) circa le parole non romane del vocabolario precedente (pag. 84-90).

Fra le voci non romane del dialetto istro-rumeno prendono il primo posto le slave. Dei vocaboli dati dal Dr. Gartner, su 1300, appartengono certamente allo slavo più di 500.

Veniamo alla conclusione (p. 84):

"Essendo che i Rumeni dell'Istria (come già espressi l'opinione nel lavoro: Über die Wanderungen.... cfr. vol. 30° delle Denkschr...) non sono immigrati nelle loro odierne sedi dall'oriente, ma dal mezzodì, da un paese abitato da Bulgari, si offrono, quali fonti da attingere di parole slave nel rumeno, il bulgaro, il serbo, il croato ed il neo-sloveno. Vista l'affinità stretta di queste lingue, alla domanda, da quale di queste sia stata tolta una parola rumena, spesso non è possibile rispondervi con certezza.

[215] Quale prova dell'origine bulgara, di alcune parole rumene nel dialetto istro-rumeno, l'A. considera come tali quelle le cui sillabe finali sono n, m in luogo dell'ant. slov. ẹ, ą, (je, ja?).

Se taluno volesse oppormi, dic'egli (p. 84) che anche il neosloveno possedeva le vocali nasali precitate, rispondo: È vero; ma ciò nulla prova contro l'opinione espressa testè perchè il Rhinesmus se lo riscontra nello sloveno moderno nel X sec. nei Monumenti di Frisinga, ma soltanto in singole forme; invece i Rumeni toccarono il suolo dell'Istria assai tardi, verosimilmente nel sec. XIV; dunque quando il Rhinesmus era cessato da un pezzo. (114)

Io credo, che dopo le tante e sì convincenti prove linguistiche offerteci dall'Ascoli e dal Miklosich, che i Rumeni dell'Istria non sono nati sul suolo istriano, ma sono immigrati (partendo dall'Emo, oltre la Serbia e la Croazia) verosimilmente nel XIV secolo, nessuno metterà più in dubbio questa nuova opinione contrapposta a quella del Kandler e del Combi.

Lasciamo da parte ogni altra considerazione e teniamo soltanto presente, che in questo proposito i due benemeriti letterati istriani non fecero che esprimere una loro opinione, ma non la seppero confortare da prove, ciò che del resto era loro impossibile, perchè vivevano quando la filologia comparata non era giunta allo stadio di scienza esatta, qual'è oggidì, nò dessi erano filologi; ed in questa questione la sola storia non può aiutarci, perchè come vedemmo, l'immigrazione non avvenne in masse grandi, si bene a piccoli gruppi, perciò il fatto sfuggì ai cronisti. Che così sia avvenuto, io lo desumo anche dal fatto, che i Rumeni dell'Istria non poterono mai affermarsi quale nazione a sè con propri comuni, proprie leggi, proprie scuole, proprie chiese, proprio rito religioso con propria lingua; ma dovettero subire la lingua, i costumi, la religione... degli Slavi che da per tutto li circondano, così nella Valdarsa come sull'isola di Veglia.

[216] Ben altrimenti va la cosa considerata dal lato linguistico.

Di fronte alle molte e convincenti prove offerteci da due glottologi riconosciuti, quali l'Ascoli ed il Miklosich (anche trascurando il Bidermann ed il Maiorescu, il qual ultimo però ha un'autorità non trascurabile quale Rumeno) dobbiamo dunque chinare il capo e conchiudere: Se la lingua de' Rumeni dell'Istria è quasi eguale a quella dei Rumeni della Moldavia e Valacchia, ma ancor più a quella dei Rumeni meridionali (che sono un ramo staccatosi dal tronco principale) dobbiamo assolutamente ammettere che sono immigrati; perchè ripugna alla ragione il ritenere, che elementi disparati (quali le supposte colonie romane e l'elemento indigeno pre-romano nel!'Istria) abbiano dato un risultato identico a quello ottenuto nella Dacia dalla fusione delle colonie di Traiano coi Daco-Geti e colle susseguenti immistioni di elementi stranieri durante e dopo la trasmigrazione dei popoli.

Non soltanto ad appoggiare, sì bene a corroborare vieppiù l'opinione dell'Ascoli e del Miklosich, viene il lavoro dell'illustre storico croato, Dr. Fr. Rački, dal titolo: La Croazia avanti il secolo XII, pubblicato nel vol. 57° del Rad dell'Accademia di Zagabria nel 1881, p. 102-149, dunque subito dopo la pubblicazione del Miklosich, Über die Wanderungen ecc...

Questo interessante lavoro ha due pregi: il primo consiste nelle prove ch'egli adduce (p. 106-137) del dialetto romano-volgare della Dalmazia romana (Ragusa, Salona, Spalato, Traù, Zara, Arbe, Ossero, Veglia) dal quale si sviluppò un dialetto romanico, come nell'Italia, e che non deve confondersi col rumeno; ciò che combina cogli studi recenti del prof. Bartoli, de' quali si dirà più avanti; il secondo pregio consiste poi nelle prove documentate offerteci sull'esistenza dei Rumeni (Vlachi) in Dalmazia e Croazia, già dal principio del sec. XIV, della relazione intima di questi Vlachi con quelli della Serbia e Bosnia, ove erano già nei secoli XII e XIII, e finalmente della derivazione dei Rumeni o Vlachi dell'isola di Veglia e di quelli dell'Istria dai Rumeni o Vlachi della Croazia (pag. 187-149).

Dopo aver discorso in generale dei Vlachi (p. 138, 139) l'A. viene a parlare (p. 140) dei Vlachi della Serbia antica, dei [217] loro catuni, del loro modo di vivere (pastorizia, caseificio, carovane...)

Interessante la distinzione di due epoche, quanto alla nazionalità dei Vlachi: a) anticamente i Vlachi erano non solo d'origine rumena, ma parlavano il rumeno, testimonio fra altri il Presbiter Diocleas. (Cfr. Regnum Slavorum, ed. Cerncich, p. 8) che visse nella metà del secolo XII, e che ci lasciò il celebre passo: "Lutini qui illo tempore Romani vocabantur, modo vero Moro-vlahi, hoc est Nigri Latini, vocantur".

Seguono altre prove del secolo XIII, dalle quali emerge che nella Dalmazia romana vlah indicava un Raguseo, un Latino, un Romano, da distìnguersi da uno Slavo in generale, da un Serbo, da un Albanese... (p. 141); b). coll'andar del tempo questi Vlachi che vivevano fra Slavi, perdettero a poco poco la loro nazionalità: vlah non indicò più un Rumeno, ma soltanto un pastore (pecuarius) che viveva alla foggia dei vlahi antichi, dei Rumeni (p. 142). Nel XIII secolo in certi catuni si sarà conservata ancora la lingua rumena; fra i pastori e i condottieri di carovane vlachi ci saranno stati per avventura ancora dei Rumeni, ma la loro lingua andò nei secoli XIV e XV perduta; essi si slavizzarono.

Da quanto si può arguire dai documenti, in Croazia i Vlachi vengono alla luce un po' più tardi, cioè, dal principio del secolo XIV, e si estendono dalla Cetina al Velebit (pag. 142, 143). Appariscono dessi nelle possessioni del conte Mladino (1312-1322), del conte Nelipzio (Nelepich), del conte Kuriakovich, presso Traù, nei dintorni di Sebenico, alla Cetina, presso Ostrovizza, Knin, nella Corbavia, alla costa sotto il Velebit presso Carlopago, e finalmente sull'isola di Veglia (Cfr. le fonti documentate, ivi, p. 142, 143).

I Vlachi adunque abitavano nel secolo XIII sui monti sovrastanti il litorale dalla Cettina fino all'Istria; di qui, calarono alla spiaggia, si stanziarono in certe località, e di qui, finalmente passarono sull'isola di Veglia (Castelmuschio, Dobasnizza, Poglizza).

Nei documenti croati il nome si scrive, come nei documenti serbi, Vlah; nei latini: vlacus, vlachus, blacus, anche morovlachus, in italiano morlacco.

[218] L'ultimo (morovlachus) s'incontra già (come abbiamo veduto) nel prete di Dioclea verso la metà del secolo XII; ma nei documenti più antichi trovasi soltanto vlachus; nei docum. seriori, dalla seconda metà del secolo XIV, incontransi ambidue i nomi; finché il secondo morovlachus (morlacco) passò interamente agli Italiani della Dalmazia e agli stranieri. Di qui provenne all'altipiano croato di fronte alle isole di Pago e d'Arbe, ove s'erano domiciliati molti Vlachi, il nome di Morlacchia; di qui i monti del Velebit si dissero le montagne della Murlacca, e il canale fra le isole suddette e la terraferma: Canale della Murlacca. Osservato quindi, sulla dichiarazione del Miklosich, che morlacco non deriva dallo slavo more (mare) ma dal greoo medioevale [Greek text], cui risponde a cappello il serbo Karavlah, tradotto fedelmente dai Diocleate con Niger Latinus... il Dr. Rački viene a parlare del modo di vivere dei Vlachi croati, eguale a quello dei vlachi serbi, bosniaci e ragusei. Stanziavano essi nei soliti catuni (V. nel 1344: catunos duos Morolacorum.. nella Corbavia) e vivevano in tentoria et domuncìdas esercitando la pastorizia ed il commercio delle carovane. Era proibito ai vlachi di pascolare le loro mandre nei dintorni di Traù (1383); altrettanto fecero i conti della Corbavia (1387) per i dintorni di Carlopago. A cagione del loro modo di vivere pastorale i Vlachi erano costretti a cercare delle nuove pasture per l'animalia, il che significa, a trasportarsi da luogo a luogo. Da tutto ciò il Dr. Rački deduce, che i Vlachi croati erano fratelli di quelli della Serbia e della Bosnia; ma che nel XIV secolo erano già slavizzati; eccetto quelli dell'isola di Veglia, i quali nei documenti del sec. XV vengono distinti dai Croati della stessa isola, e che mantennero la loro lingua fino ai nostri giorni.

Infine il Dr. Rački collega coi Vlachi fin qui esaminati (serbi, bosniaci, croati) i Rumeni dell'Istria dei quali ci parlò già diffusamente l'Ascoli ed il Miklosich, e questi sono alla lor volta collegati coi Rumeni della penisola balcanica; tutti chiamati ovunque, dai Greci e dagli Slavi, [Greek text], Vlachi, Vlahi; tutti dediti ovunque alla pastorizia e al commercio delle carovane.

L'A. infine dimostra, che questi Vlachi sono i discendenti dei coloni romani trasportati nella penisola balcanica, [219] dei Rumeni, venuti a poco a poco, quali pastori, nella Serbia, Bosnia, Dalmazia, Croazia... (p. 145-149) e che non devono ritenersi quali rimasugli dei Romani della Dalmazia antica, i quali diedero origine a dialetti romani, laddove i Vlachi dell'isola di Veglia e dell'Istria parlavano rumeno, e quelli dell'Istria lo parlano ancora oggidì. Il distacco di questi Vlahi da quelli della penisola balcanica incominciò probabilmente nel secolo XII, portandosi prima in Serbia e Bosnia, poi in Croazia e Dalmazia, durante i secoli XIII e XIV, sempre però in piccole masse, quali pastori erranti, evitando così di attirare su di sè l'attenzione dei cronisti contemporanei. L'ultima tappa verso occidente fu l'isola di Veglia e la parte orientale dell'Istria (p. 146).

Dopo quanto passò dinanzi ai nostri occhi, sembrerà per lo meno una temerità il vedere che nel 1883 (dunque due anni dopo) il Dr. Carlo Lechner (da Pisino?) pubblichi un articolo dal titolo: Die Rumunen in Istrien (115) nel quale finge d'ignorare l'opinione (se non è meglio dire la dimostrazione) d'un Ascoli e quella più importante ancora del Miklosich, poi fraintendendo persino (come lo vedremo) un passo staccato di quest'ultimo, voglia far ritornare la questione dell'origine dei Rumeni d'Istria al punto in cui si trovava nel 1816, allorquando il Covaz ci offrì per il primo il saggiuolo di cui già parlammo.

Il Dr. Lechner adunque, detto delle sedi abitate dai Rumeni d'Istria e del loro croatizzamento, si fa questa domanda: Come vennero questi Rumeni qui?

  1. Sono dessi immigrati in epoche precisabili, o
  2. sono gli avanzi di coloni illirici romanizzati?

E s'è vera la seconda supposizione, come si spiega, che proprio questi pochi abitanti del paese mantennero nel rumeno la lingua romana rustica, laddove l'ager Polesanus, il territorio della colonizzazione romana per eccellenza, ci diede un dialetto italiano speciale con antiche forme linguistiche? Risponderà, dic'egli, trattando la questione dal lato storico. Secondo lui, i popoli dell'Istria appartenevano alla schiatta liburnica, la quale [220] venne romanizzata. II punto centrale della vita romana era Pola. L'Arsa segnava il confine orientale, ed anche qui troviamo delle colonie romane. L'Anonimo ravennate nomina ancora nel VIII secolo la città Arsia, che sarebbe Gradas.

Più in là le tracce della romanizzazione non sono tanto evidenti, e ci troviamo di fronte ad una popolazione liburnico-illirica.

Egli ritiene pertanto, che i Rumeni dell'Istria siano avanti degli abitanti primitivi, di ceppo illirico, romanizzati, e che non immigrarono qui dal lontano Oriente. Osservo, che da alcune parole dell'estensore dell'articolo, sembra ch'egli abbia consultato i lavori del Miklosich in questo proposito; ma poi dalle sue deduzioni si deve conchiudere, o che non li ha letti tutti, o che li ha fraintesi. E difatti, da quanto abbiamo inteso fin qui, il Miklosich si fa strenuo difensore della teoria:

  1. che i Rumeni istriani sono immigrati e non nati sul suolo abitato da essi oggidì;
  2. che v'immigrarono probabilmente nel XIV secolo partendo dalla Maior Vlachia.

Invece il Pr. Lechner dice, che il Miklosich spiega con prove storiche e filologiche:

  1. che la divisione dei Rumeni in Baco-Macedo- e Istro-Rumenl ha soltanto un valore geografico (116) e che l'origine di questo [221] popolo sia da cercarsi soltanto alle coste orientali del mare Adriatico, ove abitavano i prodi llliri; (117)
  2. II. ch'egli dimostra, che alcune forme nell'Istro- e Macedo-Rumeno appartengono al rumeno primitivo, le quali forme non si riscontrano più nel daco-rumeno. (118)

[222] Il Dr. Lechner continua.

Se questa supposizione dell'origine locale è giusta, allora devono trovarsi anche delle indicazioni concernenti l'Istria. Eccone le più importanti:

  1. Costantino Porflrogenito ci fa sapere, che al suo tempo i Romani abitavano nelle città marittime della Dalmazia: Ragusa, Spalato, Traù e Zara, e delle isole: Arbe, Ossero e Veglia; (119)
  2. In un documento di Zara del 1072 si parla di testes latini... (120)
        
    Con ciò non è detto, che questi erano Rumeni, ma soltanto che parlavano ancora la lingua latina volgare. (121)
  3. III. Guglielmo di Tiro (n. nel 1126) lasciò scritto, che gli abitanti della Dalmazia erano barbari.... eccetto quelli della costa marittima, i quali parlavano latinum idioma... (122)

Ciò varrebbe per la Dalmazia. E per l'Istria?

[223] In un documento del 1102 del conte Uldarico (123) si parla fra tanti altri luoghi della Valdarsa, di una "villa ubi dicitur cortalba inter latinos" la quale Cortalba sarebbe Berdo, che s'incontra la prima volta nel 1395. (124)

Che questi Latini sieno Rumeni, dice egli, che questa denominazione non trovisi in alcun documento finora noto riguardante l'Istria, e che gli abitanti dei territori occidentali, in quell'epoca, ed anche prima, non venissero così chiamati, gli è fuori d'ogni dubbio.

Noi troviamo dunque una notizia, vecchia già 780 anni, dice il Dr. Lechner, che i Rumeni erano nella valle di Bogliuno. (125) Andiamo innanzi.

Ma se nel 1102, sotto il nome di Latini, continua egli, si comprendevano popoli che oggidì nomiamo Rumeni; allora erano tali anche gli abitanti della costa dalmata parlanti V idioma latinum, sebbene oggidì essi sieno spariti. (126)

[224] Costantino Porfirogenito trova a' suoi tempi Romani sulle isole del Quarnero; ed in verità si trovano anche qui degli avanzi della lingua rumena. (127)

Ciò sta in relazione, dice il nostro articolista, coll'unione nella quale questi isolani stavano, per mezzo dell'altura insignificante di Fianona, col lago di Cepich, la quale nella storia del paese si è sempre dimostrata quale porta d'assalto e d'irruzione coi compagni di stirpe sulla terraferma.  (128) La lingua di Veglia (si badi che egli parla della città) i cui abitanti parlano oggidì quasi esclusivamente croato (129) è un idioma affatto caratteristico, il quale, coxpe lo ha già esposto il .defunto medico Cubich, benemerito della sua patria (130) ha molto di [225] comune coll'Istro-Rumeno; (131) eppure ha qui regnato per lungo tempo Venezia e con essa la lingua italiana. (132)

E quasi tutti questi svarioni non bastassero, l'A. vuol intrattenersi anche con questo tanto nominato dialetto antico di Veglia, e dal raffronto di alcune voci di questo col rumeno dell'Istria, egli vorrebbe averne dimostrata l'affinità, anzi, ne deduce, che il dialetto antico di Veglia (città) sia perfettamente rumeno; ciò che potrà riconoscere facilmente, dic'egli, anche un profano di linguistica. (133)

Tutti questi svarioni furon presi dal Dr. Lechner per ignoranza delle condizioni locali; egli confonde cioè la città di Veglia (italiana) ed il suo dialetto arcaico (un dì ritenuto ladino, oggi più giustamente detto dalmatico) coll'isola slava e col rumeno lì importato, come fra gli Slavi della Valdarsa.

L'A. passa quindi a parlare dei Vlachi, col qual nome gli Slavi, come sappiamo, designano i Rumeni, e poi dei Morlacchi, la qual voce egli la rannoda allo slavo more (mare) malgrado la dimostrazione in contrario del Miklosioh. (134) A proposito di Morlacchi egli dice, che Venezia importò nell'Istria 60,000 Morlacchi. Mi permetta che gli dica: ma questi Morlacchi non sono i Mavrovlachi (Nigri Latini) del prete di Dioolea, [226] parlanti il rumeno; sì bene i Morlacchi novissimi de' quali il De Franceschi, (135) importati da Venezia nei secoli XVI e XVII, a colmare i vacui lasciati dalle pesti, i quali parlavano allora il serbo, come lo parlano oggidì. E lo dice lui stesso: Doch waren dieselben schon Serbo-kroatisirt, ald sie nach Istrien gelangten.n (pag. 297).

La presenza di Rumeni nell'Istria (e chi la nega?) li viene segnalata anche dalle numerose località dette Vlachi, Vlacovo, Vlacova; e poteva aggiungere anche da una quantità di cognomi, come Vlach, Vlacich, Vlacov, Vlacovich... (((136)

Il Dr. Lechner ritiene ancora, che quel "Andreas Detrih Rumen prò tempore index", in Albona, che riscontrasi nel documento del 1363, sia realmente un Rumeno; (137) altra prova della presenza dei Rumeni nell'Istria gli offrono i catuni che trovansi presso Treviso, Lindaro, Galignana, Gimino... (vedi anche all'oriente del llago di Cepich). Sicuramente, catun vale in rumeno "regio pastoria" e ce ne sono ovunque abitarono Rumeni; ma questo non prova nulla per la dimostrazione voluta dall'autore; come sono argomenti da non tenerne conto: la credenza dei Rumeni d'Istria nella stregoneria, l'incontro delle località Vrana (gurges, secondo lui) la derivazione di Castua da castrum, in rumeno Casteu, secondo il Maiorescu...

Gl'Italiani dell'Istria, continua egli, chiamano i Rumeni di quei luoghi Ciribiri, e ciò proviene dalle due voci tenet bene (dal val. tsire-tenet, e da bir, bire, bene. (138)

Trova i luoghi di Xeiane e Mune nominati la prima volta nel 1466 (139); soggiunge però, che resta indeciso, se gli abitanti eran Cici o no.

[227] Nel 1860, dic'egli, c'erano a Xeiane 24 famiglie di cognome Stambulich e Turcovich, che accennano a territori turchi (140) queste sono palesemente venute qui durante le guerre cogli Uscocchi e devono aver parlato allora un idioma mischiato di molte voci albanesi. (141)

V'ha molto di comune fra Uscocchi e Cici (142) nel 1513 i Cici appariscono assai ladri, come lo erano gli Uscocchi.

L'origine dei Cici è molto oscura (sapevamcelo), essi vennero in Istria dopo le guerre cogli Uscocchi. Pigliamolo in parola; ma come, se dopo due righe, egli ritiene trovare dei Cici nelle firme di un Cixcix in Albona nel documento del 1328 (143) e di un Pasculus Chichio a Pinguente nel documento del 1329. (144)

Se questi sono Cici, allora ha ragione il Miklosich; sono i Cici di Ireneo della Croce e del vescovo Tommasini, che parlavano il rumeno, immigrati nel XTV secolo; ma allora questi non van confusi coi Cici e coi Morlacchi importati nel sec. XVII da Venezia, i quali parlavano già il serbo!

Insomma, io non ho letto mai un articolo tanto sconclusionato!

Così, coll'articolo del Dr. Lechner, finirebbe il compito che m'era assunto, quello cioè, di riassumere quanto da altri fu scritto sui Rumeni dell'Istria; (145) visto però, che tanto dal [228] Dr. Lechner quanto dall'Ascoli e dal Miklosich si è accennato più volte al dialetto antico della città di Veglia, che tanto interessa ai dotti glottologi, e che è distinto dal rumeno importato sull'isola di Veglia; prima d'accomiatarmi dai lettori, si concederà, spero, a me Vegliotto, d'intrattenermi ancora per poco su questo dialetto tanto interessante, non foss'altro, perchè esso per avventura è chiamato a servire alla soluzione d'un grave quesito che oggidì si agita fra i dotti; cioè, che partendo dalla penisola balcanica, o meglio dall'ìllirio, fino all'Istria, esistesse un popolo affine di stirpe illiria, il quale, a contatto colla lingua romana rustica, diede per risultato alcuni dialetti, che hanno fors'anco delle affittita col rumeno, perchè i due substrati erano affini, ma che non sono identici col rumeno. Quale Vegliotto, io potrò forse evitare certi soogli nei quali incapparono alcuni forestieri tfhe sono ignari delle condizioni etniche de' nostri paesi.


E senz'altro entro nell'argomento:

L'Ascoli ne' suoi Studi critici, (146) quando allude al Biondelli, all'antico dialetto di Veglia ed al rumeno della Valdarsa, apre una nota e ci dice, che Gesner nel suo Mithridates (Zurigo 1555) scriveva:

*ln Adria, versus Istriam, non procul Pola, insula est, quam Velam (Vegliam?) aut Veglam vocant,... cujus incolas lingua propria uti audio, quae cum finitimis tllyrica et Italica commune nihil habeat."

[229] La lingua, differente dalla slava e dall'italiana, alla quale qui sì allude, è l'antico dialetto della città di Veglia o il rumeno dell'isola?

Il dialetto antico della città ha delle affinità col rumeno suddetto, od è affatto diverso? — Visto che mi si offre l'occasione, più volte da me vagheggiata e mai tanto a proposito offertami, m'intratterrò alquanto di questa questione. La notizia del dotto Corrado Gesner di Zurigo (1516-1565) non è cervellotica. Abbiamo veduto che la presenza di Rumeni sull'isola di Veglia è provata da documenti del sec. XV, (1465, 1468) se il Gesner allude a questi; che se poi allude al dialetto antico della città di Veglia, abbiamo anche la testimonianza di un coevo del Gesner; soltanto la sua narrazione ci farà ridere. Il veneto G. Battista Giustiniani nel suo Itinerario del 1553, dopo il viaggiò in Dalmazia, nella sua relazione d'obbligo al Senato, venendo a trattare della lingua parlata, pròprio dai cittadini di Veglia, dice così:

"Gli habitanti parlano lingua schiava (sic!), ma differente dall''altra (sic!), di maniera che hanmo un idioma proprio ch'assomiglia tal calmone; ma tutti indifferentemente parlano italiano francamente." (147)

Veramente, stando alle sublimi cognizioni storiche e linguistiche, che il nostro relatore dimostra in tutto il resto, non si dovrebbe dare alcun peso a qutesta dichairazione, sbugiardata dai fatti; ma prendiamola così com'è, e vedremo che egli prese un solenne granchio a secco. Dunque nel 1553 tutti i cittadini della città di Veglia parlavano l'italiano francamente, e nello stesso tempo parlavano un gergo slavo; ma questo non era la lìngua slava parlata in Dalmazia (egli viene di ritorno dalla Dalmazia), dunque l'altra deve riferirsi alla slava di quella provincia, che su per giù poi è uguale all'illirico così détto delle isole.

Quale Iingua era dunque questa? — Evidentemente quella che il Gesner, in quegli stessi anni, dice non avere nulla di comune cóoll'italiana e illirica finitime, quella studiata dall'Ascoli [230] e dall'Ive, e che ora si studia dal Bartoli; quella che vedremo non essere slava minimamente dal saggio che produrrò più avanti. A proposito del quale dialetto, non è detta ancora l'ultima parola. L'Ascoli negli Studî critici (148) dunque nel 1861, dubitava di un'essenziale differenza tra il dialetto vegliotto e il rumeno di Poglizza; e nel 1873, allorchè pubblicò il vol. I. dell'Archivio glottologico italiano, (149) accennando al dialetto di Veglia, dice:

"e più a Levante, nel Quarnero, si può legittimamente sospettare di avere le reliquie di qualche dialetto che formasse come anello di transizione fra i parlari dell'Italia alpina e quell'estrema latinità orientale che si stese dall'Illirico al Ponto."

Esaminando quindi questo dialetto (pag. 436) egli vi trova delle peculiarità proprie, poi lo connette coi dialetti di Rovigno e Dignano e finalmente conchiude:

"Nel dialetto vegliotto è manifestissima la presenza dell'elemento rumeno (valaco) il quale, del resto, può in parte confondersi coll'elemento italo-alpino, per le particolari concordanze che intercedono tra il ladino ed il valaco.

Anzi il vegliotto si prenderebbe facilmente per una mera fusione di rumeno e d'italo-istrioto; la qual sentenza non sarebbe di certo opposta al vero, ma si dovrebbe tuttavolta dire inesatta ed incauta, massime per ciò, che trascurerebbe le necessarie distinzioni cronologiche in ordine all'elemento che chiamiamo rumeno. Poiché il substrato rumeno di cui si tratta nel caso nostro, (dialetto di Veglia, città) rappresenta una fase ben diversa da quella del rumeno modernamente importato nell'Istria e nella stessa isola di Veglia; che è come dire, su per giù, il parlare dei Valachi del giorno d'oggi."

S'io ben m'appongo, il concetto dell'Ascoli è questo: il rumeno di Poglizza e della Valdarsa sono un'importazione più recente (sec. XIII o XIV); laddove l'elemento rumeno del vegliotto, per l'affinità che intercede fra il ladino ed il rumeno, devesi ascrivere ad un'epoca assai anteriore, probabilmente all'epoca romana. Anche l'Ive nell'Introduzione al lavoro: L'antico dialetto di Veglia, s'esprime press'a poco [231] come l'Ascoli:

"Per veglioto, o antico dialetto di Veglia, s'intende U dialetto che un giorno era proprio della città di Veglia e contado, e spiccatamente si distingue da quella varietà di rumeno la quale si parlava a Poglizza e a Dobasnizza, contrade della stessa isola di Veglia, e sempre ancora si parla in Val d'Arsa nell'Istria.

Sono però ben intime le attenenze che corrono tra il veglioto e codesta parlata rumena." (150)

Conchiudiamo. Non terremo nessun conto della cantonata presa dal Giustiniani, perchè non filologo; nemmeno prenderemo sul serio il pasticcio che fe il Dr. Lechner confondendo il dialetto della città di Veglia, romana prima, veneta poi, oggi e sempre, (151) coi miseri avanzi di quelle colonie rumene, che furono importate sull'isola — oggidi abitata da Croati — in epoche recenti, come quelle della Valdarsa; e ci atterremo alle divinazioni di quell'autorità glottologica ch'è l'Ascoli, il quale ravvisò nel dialetto ormai spento di Veglia un anello di congiunzione tra i parlari ladini e quell'estrema latinità orientale che si stese dall'Illirico al Ponto. In altre parole; grazie alle dilucidazioiri offertemi dall'egregio prof. Bartoli di Albona, che studiò recentemente quest'interessantissimo dialetto sul luogo, e pubblicherà fra breve i risultati de' suoi studi, (152) si può conchiudere:

Il dialetto antico di Veglia non è ladino pretto, ma non è neppur rumeno; non si riscontrano in esso delle infiltrazioni rumene, come sospettava il Miklosich; ma vi si riscontrano soltanto delle affinità analogiche, in quanto il substrato del vegliotto sia affine a quello del rumeno; questo dialetto è l'unico superstite di una latinità che doveva esser comune a tutta la Dalmazia romana, derivata dall'innesto del latino volgare su base illirica; e chi sa che fra non [232] molto il bravo prof. Bartoli non dica in proposito l'ultima parola. C'entrarono nel dialetto vegliotto invece delle infiltrazioni venete (è noto che Veglia era in contatto con Venezia già dal 1000) più recenti; ma queste si possono scorgere soltanto dai glottologi e non dagli storici dilettanti.

E concludiamo eziandio coi Rumeni dell'Istria. Venuti ivi, quali pastori erranti, probabilmente nel secolo XIV, dalla Croazia, meglio dalla Corbavia; e stabilitisi fra Croati, mantennero nell'intimo della famiglia la lingua rumena (la quale, come vedemmo accolse in sè tanti elementi slavi e tanti altri di origine non latina), ma coll'andar del tempo accettarono quale lingua degli affari e della religione la slava; essi si sonò oramai affatto slavizzati, comò avvenne di quelli dell'isola di Veglia, e come avvenne molti secoli prima dei Rumeni o Vlachi stanziatisi nella Serbia, nella Bosnia, nella Dalmazia e nella Croazia; come avvenne infine dei Cici e dei Morlacchi venuti qui nei secoli XIII e XIV. [233]


APPENDICE

Saggiuolo del dialetto istro-rameno. (Dal giornale L'lstria, 1846. p. 8, ma corretta la trascrizione come sta nel Miklosich, Die Slav. Elem. p. 58). La tradazione è mia e letterale.

Jarna fost a e cruto race. Fruniga, cara avut neberito
L'inverno fu e molto freddo. La formica, la quale aveva raccolto

en vera çuda hrana, stat a smirom en rä sä cassa. Cercecu,
in estate molto di cibo, stava quietamente in la sua casa. La cicala,

se bodit su pemint, patit a de home e de race. Rogat a donche
ficcatasi sotto terra, patì di fame e di freddo. Pregò dunque

fruniga, neca egl du je salec muncà sa xivi E fruniga sice:
la formica, che le dia un po' (da) mangiare per vivere. E la formica dice:

juva ai tu fost en jirima (inima) de vera? Saç che nà'i tu
Ove tu fosti nell'anima (nel cuore) della state? Perchè non hai tu

tunce a te xivglenge prepravit? — En vera, siss a cercecu,
allora al tuo vitto raccolto? — In estate, disse la cicala,

cantat am, mi divertit am car gli trecut. E fruniga ersuch:
cantato ho, e divertito ho quelli che passarono. E la formica ridendo:

S'ai tu en vera cantat, avmoce che i jarna, e tu xoca.
Se hai tu in estate cantato, ora che è l'inverno, e tu salta.

NB. da leggersi alla veneziana.

Sebbene l'argomento non lo richieda, tuttavia, quale saggio dei dialetti di Rovigno e di Dignano, che hanno delle relazioni con quello antico di Veglia, riferisco qui, togliendola al giornale L'Istria, 1846, p. 49 (not 49, p. 8), la stessa favola.

  1. nel dialetto di Rovigno:

    A giera inverno e fiiddo grande La formiga, che aviva ingrumà purassè roba d'istà, stiva quita in casa soa. La cigala sutto terra sepelida moriva de fam e de friddo. La ho pregà la formiga da daghe un po de magnà; tanto de vivi. Ma la furmiga ghe dise: Ula ti gieri nel cor de l'istà? Perchè non sonto ingrumada da vivi? — Nell'istà, responde la cigala, mi cantavo e divertivo i spassazieri. E la formiga, mettendose a ridi: se ti cantivi d'istà, adesso che xe inverno, e ti balla. [234]

  2. nel dialetto di Dignano:

    A giaèro da leinvaèrno, e perorassé friddo. La furméiga, ch'aviva za fatto le so pruoveiste in tal geistà, stiva quiita in casa sogia. La zeigala cazzada zuttaterra moréiva de fam e de friddo. La giò prigà donca la furmèiga, ch'a ghe disso òun po da magna, tanto da veivi. E la furmèiga ghe deis: Vulla tèi giaeri in tal cor d'al geistà? Parchi uccaziòn mo in quilla stadiòn non tei te giè pariccià al to veitto? — Da geistà, giò respondisto la zeigala, i cantivi e i desvertèivi i spasseizieri; e la furmèiga culla bucca in rèidi: Se tei da geistà tei cantivi, adesso ch'a zi leinvaèrno, balla.

Dai proverbii raccolti dal cooperatore di Mune (prima di Susgnèvizza) Don Lorenzo Racovez, trascrìtti però all'italiana. (Cfr. Die Slav. Ehm. p. 59.)

Vezut a žaba, (pron. alla francese: jaba) juve se calu fareca,
Veduto ha la rana, ove al cavallo le suole ferree si mettono,

     paca sci ja picioru dvighnit.
     e anch'essa il piede alzò.

I negra vaca ab lapte are.
Anche la nera vacca bianco latte ha.

Žensca (ž = franc. je) oppure, muliàra are lunž per, scurta paminte.
La donna (lat. mulier) ha lunga chioma, corta mente.

Cum maja torce, aša (asc[i]a) figlia zasse (z aspro).
Come la madre fila, così la figlia tesse.

Oja abe negru ml i e zleze (z dolce).
La pecora bianca nero agnello partorisce.

Nu putu fi lupi satùl, sci jezi na broj.
Non possono essere i lupi satolli, e i capretti in numero (illesi).

Il Pater noster dei Rumeni di Poglizza, sull'isola di Veglia. (Lezione del Miklosich, Über die Wander, p. 8).

Čaču (come in ital. ciaciu coll'i muto) nostru, karle šti (sc[i]'ti) Pater noster, qui es en čer, (cier, in ital. coll'i muto)... neka se spunè volja a te in coelis, fiat voluntas tua kum en čer, aša (asc[i]a) ši (sci) pre pemint. Pera nostre saka sicut in coelo, ita et in terra. Panem nostrum de omni [235] zi de nain astez, odprostè nam dužan, ka ši noi odprostim die da nobis hodie, remitte nobis debita, sicut et nos remittimus a lu nostri dužnič, neka nu na tu vezi en napastovanje, neka nos tris debitoribus, et ne nos inducas in tentationem, et na zbavešt de svaka slabe. Amen, nos libera de omni malo...

Lezione del Cubich (loco cit. p. 118) ma scritta come dal Miklosich.

Çaçe nostru, kirle esti in çer; neka se sveta numelu rater noster qui es in cœlis; santificetur nomen tev; neka venire kraljestvo to; neka fiè volja ta, kassi jaste tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua, sicut est? in çer, assa si pre pemint; pire nostre de saka zi da ne astez; in cœlo, ita et in terra; panem nostrum quotidianum da nobis hodie; si las ne delgule nostre, kassi si noi lessam al delsniça nostri; et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris; si nu lessai in ne nepasta; nego ne osloboda de rev. Assa si fi. et ne nos inducas in tentationem; sed nos libera a malo. Così sia.

Il Padre nostro dei Rumeni di Valdarsa. (Cfr. Ascoli, Studi critici, p. 75, 76).

Ćaće nostra carie šti en ćer; svetija-se te lume (oppure: lumele tev); verija ta kraljestvo (op. kraljestvo tă); fia volja tä, casi en ćer aša ši en (op. pre) pemint. Pera nostra de saca zi dă a noi astez (op. asteze), ši perdunäna (op. perdunä a noi, o lass a noi) nostri dug (op. nostre dugure) caši noi lassam lu nostri duznić; ši nu na (op. noi) zepeljei en napast, ma zbave noi de rev.

Sagginolo del dialetto antico di Veglia. (V. Notizie nat. e storiche ecc. del Dr. Cubich, P. I, p. 114-117).

El anduár fo bun en pauc.
Il camminare (l'andare) un poco fa bene.

Potaite zer anincs, se blaite.
Potete andare (ire) avanti, se volete.

En cal basálca zerme?
In quale chiesa (basilica) andremo?

Blai donner tota la desmun.
Voglio dormire tutta la mattina.

Decàite al mi jomno, que me venaia destruâr a bon aura.
Dite (dicete) al mio uomo, che mi venga svegliare (destare) di buon'ora.

No jai potáit dormér, que jéra al liát mal fat.
Non ho potuto dormire, che il letto era mal fatto.

Sai resoluto a stuár ne la vicla l'inviamo.
Sono solito di stare in città l'inverno. [236]

Il Padre nostro nell'antico dialetto di Veglia. (V. A. Ive, loco cit. p. 146).

Tuóta nuester che te sánte intél sil, santificuót el nàum to, vìgna el ráigno to, sáit fuót la voluntuót tóa, cóisa in sil, cóisa in tiára. Duóte cost dái el pun nuéster cotidiún, e remetiái le nuéstre debéte, cóisa nojltri remetiáime a i nuéstri debetuár, e náun ne menúr in tentatiáun, múi deliberiáine dal mul. Cóisa sáit.

Saggio d'una canzone popolare (V. A. Ive, *bid. P- 137).

Jú jái venóit de nuát in cósta cal,
Jú viád le móire e la puárta inseruóta:
E Di la múndi su la balcunuóta,
Nu viád cóla che me a práiso el cur.
Amáur, amáur, jú bláj che se ćuláime,
Se náun avráime ráuba, stantariáime.
Se náun avráime cuósa andúa stur,
Jóina de pája nói la fúrme fur;
Se náun avráime cuósa ne cusáta,
Nói dói furme la váita benedáta. [237]

P. S. Era già stampato il presente riassunto, allorquando mi fu dato di leggere il bel lavoro del nostro Camillo De Franceschi: "I castelli della Val d'Arsa" (153) — Fra tante cose interessanti dal lato storico che vi si leggono, mi piace notare, che anch'egli (pag. 2, 3) si mette dalla parte di quelli che considerano i Rumeni dell'Istria quali immigrati. Convengo eziandio con lui nel non ritenere, ch'essi siano stati importati dall'isola di Veglia nella Valdarsa, appena nel secolo XV, dal conte Giovanni Frangipani, e accetto senz'altro la conclusione, condivisa anche dal Miklosich, che udai documenti riferentisi alle baronie della Val d'Arsa, che contengono molti nomi personali e locali di radice e desinenza romanica, apparisce manifesto qualmente già nella seconda metà del milletrecento la nostra regione fosse abitata dall'elemento rumeno, il quale si estendeva abbastanza compatto lungo tutto il bacino dell'Arsa, occupando in parte anche gli agri di Albona e Fianona."


Ed. Note (2022), see also:

  • Gaster, Moses - La versione rumena del Vangelo di Matteo, Tratta dal Tetraevangelion del 1574 (ms. del Museo Britannico: Harley 6311b) e pubblicata per la prima volta in Archivio Glottologico Italiano, diretto da G.I. Ascoli, Ermanno Loescher (Torino 1890-1892);

Note:

  1. Che i Rumeni sieno, ad ogni modo, discendenti da colonie romane, la è un'opinione molto vecchia. Già Cinnamo, che scrisse sotto Emanuele Comneno (1143-1181) parlando dei Vlachi [Greek text] disse: (VI, 260) ... [Greek text].... // Cfr. anche il Lucio, Storia del regno di Dalmazia ecc., pag, 670 dell'edizione italiana.
  2. Cfr. Tacito, Histor. III, 46: .... "Dacorum gens nunquam fida"..,
  3. Cfr. Entropio, VIII, 2: "Daciam, Decebalo victo, subegit (cioè, Traiano), provincia trans Danubium facta"... e VIII, 6: "Traianus, victa Dacia, ex toto orbe romano infinitas eo copias hominum transtulerat ad agros et urbes colendas. Dacia enim, diuturno bello Decebali, viris fuerat exhausta".
         Cfr. poi Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'impero romano (trad. ital.) Milano, 1820, vol. I, p. 8 e sgg. per le generalità.
  4. Cfr. Sesto Rufo, Breviar. 8: 'Dacia Gallieno imperatore amissa est..."
         Entropio, IX, 8: "Dacia, quae a Traiano ultra Danubium fuerat adiecta, amissa est" (cioè, da Gallieno)...
  5. Flavio Vopisco (in Vita Aureliani, 39) ...""cum vastatum Illyricum ac Moesiam deperditam videret, provinciam Transdanuvinam Daciam a Traiano constitutam, sublato exercitu et provincialibus, reliquìt, desperans eam posse retineri; abductosque ex ea populos, in Moesia conlocavit appellavitque suam Daciam, quae nunc duas Moesias dividit".
         Entropio, IX, 15: ... Aureliano... "provinciam Daciam, quam Traianus ultra Danubium fecerat, intermisit, vastato omni Illyrico et Moesia, desperans eam posse reţineri, abductosque Romanos ex urbibns et agri* Daciae, in media Moesia collocavit appellavitque eam Daciam, quae nunc duas Moesias dividit et est in dextra Danubio in mare fluenti, cum antea fuerit in laeva,.
         Sesto Rufo, VIII: "Dacia Gallieno imperatore amissa est et per Aurelianum, translatia exindc Romanis, duae Daciae in regionibus Moesiae et Dardaniae factae sunt".
         Per i fatti generali cfr. l'op. cit. del Gibbon, vol. I, pag. 379 sgg.; vol. II, p. 7-14; 21 e 22.
  6. Cfr. Die Slavischen Elemente in Rumunischen, loco cit. p. 4.
  7. Sono questi gli [Greek text]... degli scrittori bizantini, gli Sclaveni, Sclavini, Sclavi degli scrittori occidentali (Cfr. Procopio, Jomandes, Paolo Diacono).
        
    Gli Sloveni e gli Anti erano i due rami principali della numerosa famiglia dei Vinidi o Vendi.
        
    Venuti dalle pianure della Russia, si spinsero sempre più a mezzogiorno; nel V secolo erano già al Danubio e lo passarono; nel VI secolo, ora soli ora in compagnia degli Unni-Avari, fecero delle terribili scorrerie, nella Mesia, nella Tracia, nell'Illirio, nella Dalmazia, nel Norico e nell'Istria...
         Per notizie più diffuse cfr. Dr. Rački nell'Archivio per la storia jugoslava, vol. IV, Zagabria 1857, p. 235 sgg.; poi la raccolta dei passi degli autori che parlano di queste incursioni stampata dallo stesso Rački nel vol. VII dei Monumenta spectantia historiam Slavorum meridionalium. p. 217, sgg.
         Per quanto riguarda le devastazioni di questi Sloveni nell'Istria nel VI secolo, cfr. Dr. Benussi, Nel Medio Evo, Parenzo 1897, pag. 15 e sgg.
  8. Cfr. Romänische Studien, Lipsia 1871.
  9. Cfr. G. Tomaschek, Zur walach. Frage (nel Periodico per i ginnasi austriaci, 1876).
  10. Cfr. G. Tomaschek, Zur Kunde der Hämus Halbinsel, Vienna 1882, nel vol. 99° dei Sitzungsberichte... pag. 483.
  11. Cfr. le fonti citate in principio della parte I e persino l'ultimo R. Breibrecher, op. cit. p. 30.
  12. Per la storia dei Bulgari cfr. Jireček, Geschichte der Bulgaren, Praga, 1876.
  13. Il nome Vlah proviene dai Celti; da questi passò ai Germani, da questi agli Sloveni e da questi ai Bizantini. Il walh dell'ant. ted. ed il vlah slov. dice: homo ormane originis. (Cfr. Miklosich, Lexicon palaeo slov. alla voce vlah; e Die Slav. Elem. ecc. p. 1.)
  14. Cfr. Miklosich, Die Sìav. Elem. p. 2, sgg. e le fonti citate in capo alla parte I.
  15. Cfr. Gorra, Lìngue acolatine, p. 93. che le numera così: rumene, ladino o retico. italiano, francese, provenzale, franco-provenzale, catalano, spagnuolo, portoghese. Neumann, La filologia romanza, p. 69, che tralascia la tranco-provenzale; come fa anche il De Gregorio, Glottologia, Man Hoepli, 1896, p. 299.
  16. Cfr. per tutti: Schuchardt, Vokalismus des Vulgürlateins, 3 vol., Lipsia, 1866-68.
  17. Cfr. Die Slav. Elem., p. 4.
  18. Cfr. Strabone, VII, 305: 6: [Greek text]. Plinio, IV, 25: alias Getae Daci Romanis dicti...
  19. Cfr. Miklosich, Die Slav. Elem., p 5.
  20. Cfr. F. Diez, Grammatik der rom. Sprachen, Bonna, 1876, p. 136 sgg.; e l'Etimologisches Wörterbuch der roman. Sprachen, Bonna, 1887.
         Gustav Kürting, Encyclopaedie und Metodologie der roman. Philologie, Heilbronna, vol. III, 1886, p. 784-834.
        
    Gustav Gröber, Grundriss der rom. Philologie, Strasburgo, 1888, vol. I, e specialmente a) l'articolo del [Moses] Gaster [nota], Die nichtlateinischen Elem. in Rumănischen, p. 406 egg. b) quello del Tiktin, Die Rumänische Sprache, p. 438 sgg.
  21. (V. l'Appendice). Se il daco-rumeno è più diffuso e letterariamente più noto, il macedo-rumeno presenta d'altro canto dei caratteri più arcaici; sicché si ritiene che il primo sia derivato dal secondo, e tutti e due da una lingua comune cui la scienza ha ancora da ricostruire.
         Il daco-rumeno accolse in sè più elementi slavi; il macedo-rumeno invece più elementi greci (cfr. l'articolo del Tiktin, loco cit., vol. I, p. 438, 489.
         Il Gaster [nota] (cfr. l'Enciclopedia... del Körting, voL III, p. 801) suddivide il daco-rumeno in tre sottodialetti: il valacco o muntenico, il moldavo e il transilvanico.
        
    Il Miklosich è, si può dire, il creatore del dialetto istro-rumeno, che s'accosta più al macedone che al dacico (cfr. l'articolo del Tiktin, loco cit., vol. I, p. 438, 439): cosi anche il nuovo dialetto vlaco-meglenico, studiato da Gustavo Weigand (cfr. Briebrecher, op. cit, p. 30) parlato da circa 14,000 anime, tra cristiani e maomettani, abitanti al settentrione di Salonicco.
  22. Cfr. l'articolo del Gaster [nota], nel Grundriss... del Gröber vol. I, p. 406: Die nichtlateinischen Elem. in Rumänischen.
  23. Non si conosce bene la derivayione di tutti i vocaboli della lingua rumena, perchè difettano i buoni vocabolarii. Stando al vocabolario di Alfredo Cihac (Dictionaire d'étimologie daco-romane, in 2 volumi, Francoforte sul Meno, 1870-1879) si avrebbero: 3800 vocaboli slavi, 2600 del latino popolare, 700 turchi, 650 greci, 500 magiari e 50 albanesi, senza tener conto dei neologismi e delle parole composte.
         Cfr. l'articolo del Tiktin nel Grundriss... del Gröber Die Rumănische Sprache, vol. I, p. 440.
         Questi dati vengono però modificati dai recenti studi in proposito. Cfr. Briebrecher, op. cit. p. 14.
  24. Cfr. l'articolo: Das Rumänische, nell'Enciclopedia ecc. del Körting, vol. III, p. 791 sgg. [END PART I]
         Per gli ultimi lavori, tango linguistici che storici, sulle questioni che si riferiscono al rumeno, si consultino, oltre alle opere citate in principio, e specialmente, oltre alle operate del Körting, Gröber, Gorra, Neumann, Briebrecher, i primi sei volumi pubblicai dal Dr. Gustavo Wiegand nei Juhresberichte des Instituts für Rumänische Sprache, Lipsia, 1894-1900.
  25. Cfr. Czörnig von Karl, Ethnographie der Oesterreichischen Monarchie, Vienna, 1857, vol. I, pag. 69, e le fonti citate in principio.
  26. Cfr. Miklosich, Rumunische Untersuchungen, pag. 1.
         Riproduco qui la statistica compiuta dei Rumeni d'Istria, la quale proviene da fonte ufficiosa:
       
    Distretto Abitanti
    1. Castelnuovo: a Xeiane 523 (525)
    2. Pisino: a Gradigne, Possert, Letai, Grobnico, Susgnevizza 1240
    3. Albona: a Berdo, Jessenovich, Villanuova 1190
    Totale 2953 (2955)

    Segue quest'osservazione:
         "Nella Valdarsa e nella penisola albonese, poi in Cherbune, Tupliaco, Scopliaco, Pedena, i Rumeni sono mescolati coi Croati e oggidì perfettamente slavizzati. A Schitazza presso Punta Negra parlano il rumeno, e male, solamente due persone. Del resto i Rumeni dell'Istria parlano più o meno tutti lo slavo".

  27. Cfr. Le tonti citate in principio.
         Quanto alla religione, è noto che i Rumeni sono gli unici Romani appartenenti alla chiesa greca; quelli dell'Istria sono invece cattolici.
         Mi mancano i documenti a comprovare, se quando vennero nell'Istria nel XIV secolo, erano ortodossi; ciò che dovrebbesi supporre, perchè da un documento del 1373 riferito dal Farlati (Cfr. Illyr. sacrum. vol. IV, pag. 63) si sa di positivo, che i Vlachi della Bosnia, coi quali quelli dell'Istria hanno sicura affinità, erano scismatici: "in regionibus montosis et asperis, parochorum custodia destitutis, ubi Vlachi, pastores schismatici, fusi per agros ac dispersi degebant"... E ancora nel 1615 o (1618) in un firmano di Osman II i trati Minori dicono: Nos sumus Beligionis latinae, sectaque nostra a Religione Serborum, Graecorum ac Valachorum infìdelium plane diversa est"...
         Cfr. Firmani inediti dei Sultani... ai conventi Francescani della Bosnia e Erzegovina, pubblicati dal P. Donato Fabianich, Firenze, 1884, pag. 83.
         Che i Rumeni dell'Istria siano cattolici, non deve recar meraviglia; essi dovettero semplicemente dichiararsi tali, perchè non ebbero mai una propria chiesa nè un clero nazionale.
  28. Cfr. Kandler, Li Cici, in appendice alla Storia etnografica di Trieste del canon. V. Scussa. Trieste, 1885, pag. 253 sgg.
         Carl von Czoernig, Die Ethnologischen Verhältnisse des österreich. Küstenlandes, Trieste, 1885, pag. 26, ove in nota si cita il lavoro del prof. W. Urbas, Die Tschitscherei und die Tschitschen, 1884.
         lstrien (di un anonimo) Trieste, 1863, pag. 149; die Tschitschen, nella parte etnografica, ove a pag. 150, si accenna anche alla derivazione del nome da cicia, cugino in valacco, nel senso in cui noi del veneto diciamo barba a qualunque più vecchio.
         Dr. Benussi, Manuale di Geografia dell'Istria, Trieste, 1877, pag. 58.
  29. Cfr. Archeografo triestino, vol. IV, pag. 515 (vecchia serie).
  30. Cfr. pag. 334, edizione di Venezia; e pag. 677, vol. I, edizione di Trieste.
  31. Cfr. pag. 335 ed. Venezia, 678 ed. Trieste.
  32. Cfr. a. 1851, pag. 125. Alcuni Cici insultarono una fantesca di Risano. Il podestà di Capodistria Micheli chiama gl'insultatori prima Cici, ma poi Morlachi, quasi che i Triestini li chiamassero Cici, i Capodistriani Morlachi... "fato per certi Chichi,... et intendrò et casa da lui (dall'oste di Risano Debegliak) et lo nome de detti murlachi".
         Cfr. eziandio nella "Raccolta delle Leggi, Ordinanze e Regolamenti, speciali per Trieste del Kandler, 1861, capit. Lo Rimboscamento, pag. 480 (a. 1517) "omnibus Chichiis et Murlachis qui non sunt amasati aut terrena non habent in territorio Tergesti....
  33. Cfr. Die Ehre dee Herzogthums Crain, Rudoltswerth, 1877. vol. I, pag. 256.
  34. Cfr. Die slav. Elem. ecc. pag. 56.
  35. Non nominando l'A. l'opera cui si riferisce la citazione I, 7, 156, si deve supporre che accenni all'opera stessa del Valvasor; giova però notare, che il Valvasor parla dei Cici nel vol. I, libro II, pag. 256; ma, come s'è visto, dalle sue parole non ne viene che parlassero slavo; viceversa egli parla della lingua slovena o carniolina nel vol. I libro VI, pag. 271-288; ma qui non si dice nulla nè dei Cici nè della lingua da essi parlata.
  36. Cfr. nel giornale L'Istriano, N. 16 del 1861.
         Dr. Cubich, Notizie natur. e storiche sull'isola di Veglia, Trieste, 1874, P. I, pag. 117, 118, 119 ove si parla però soltanto del villaggio di Poglizza, distante un'ora e mezza dalla città di Veglia.
         Giovanni Maiorescu, nella Provincia dell'Istria, 1872, pag. 934, che parla anche soltanto di Poglizza.
         A. Ive, nella Romania, IX, 826 sgg., che allude a Poglizza e Dobasnizza.
         G. I. Ascoli, Studi critici, Milano, 1861, voi. I, pag. 50 che accenna ad un articolo del filologo lombardo Biondelli in proposito; non istarà male però notare, che le notizie furon passate al filologo lombardo, ancora nel 1842, dallo stesso Dr. Cubich (Gfr. Notizie nat. e storiche citate pag. 108, 109 in nota).
         Giovanni Milcetich, che parla più diffusamente dei Rumeni di tutti i quattro villaggi sopra citati nel Viestnik della Società archeolog. croata di Zagabria 1884, a. VI, N. 2, pag. 60 sgg.
         Miklosich, Über die Wanderungen»., pag. 4, 5, 8.
         G. Maiorescu. loco cit. pag. 934; Miklosich, Ober die Wanderungen, pag. 8.
  37. Cfr. L'Istria (giornale) 1852, pag. 237.
  38. Cfr, Cubich, op. cit. I, 118; G. Milcetich, loco. cit. pag. 50.
  39. Cfr. Cucuglievich, Monumenta histor. Slavor. Merid. (Acta croatica) Zagabria, 1863, vol. I, pag. 97, docum. del 1465, e pag. 103 del 1468, nei quali si parla di Vlahi (nella trad. ital. di Morlachi) importati sull1 isola di Veglia dal conte Giov. Frangipani, del quale mi sono occupato diffusamente neìl'Archeografo triestino, voi. XVIII, pag. 188, col titolo: Li ultimo dei Frangipani, contendi Veglia.
  40. Cfr. Cucuglievich, Ibid. pag. 3, il docum. del 1821 — esteso a Dobrigno.
  41. Cir. Cucuglievich, Ibid. pag. 93, 94, doc. LXXIII, del 1463. — Bidermann, Die Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich, Graz, 1877, pag. 86.
  42. Cfr. nel Farlati, Illyr. sacrum, IV, 63, il docum. del 1373, nel quale si parla dei Vlachi, "pastores schismatici, e si concede ai frati dell'ordine de' Minori di fabbricare delle cappelle.... vobis in tetris, castris. seu villi* et metis Hungariae circa Sabete et maiorem Vlacbiam, circa metas Bosnae in Absan et Corbavia...."
  43. Cfr. L'Istria, 1846, pag. 7, & Il saggiuolo della lingua parlata da questi Rumeni è riportato anche dal Miklosich Die slavisch. Elem. p. 68, 59; e un brano è riportato in appendice anche in questo riassunto.
         Mi ripugna a credere, che i Rumeni dell'Istria sian detti Rimljani dagli Slavi! Il Miklosich, che in queste questioni ha una grande autorità, avverte (Cfr. Die slav. Elem. pag. 1) che il nome rumen (derivato da romanus) giusta le leggi fonetiche della lingua rumena, devesi distinguere da rimljan (anche romanus), nel voterò-slavo rinujanin, che deriva dallo slavo. Gli slavi chiamano Roma, Rim ; dunque Rimljanin significa un Romano e non un Rumeno.
  44. Cfr. L'Istria, 1846, pag. 12.
  45. Cfr. L'Istria, 1856, pag. 73, sgg.
  46. Con tutta la riverenza che dobbiamo al Kandler, mi pare che in fatto di lingue non sia stato troppo felice nelle deduzioni. Per quello che riguarda le colonie nella Valdarsa, si desiderano le prove. Anche circa l'asserita venuta dei Croati in Istria nel IX secolo egli si adagia al racconto del Porfirogenito troppo ciecamente. La severa critica moderna ha sfatato la leggenda, che i Croati avessero occupato l'Istria orientale nel VII secolo e nei secoli che subito lo seguono. Cfr. Dr. Benussi, Nel Medio Evo, Parenzo 1807, pag. 22 sgg. ed il mio lavoro: Due Tributi nell'Archeografo triestino vol. XI (nuova serie) pag. 322.
  47. Cfr. L'Istria, 1852, pag. 225, sgg. "Sulle varie popolazioni dell'Istria."
  48. Di Rumeni esistiti a Besca, sull'isola di Veglia, dalla parte verso Segna, non mi consta da nessun'altra fonte, nè i documenti che possediamo parlano mai di loro. Non sarei alieno però dal ritenere, che ci fossero stati anche a Besca, venuti da Segna, visto che nello Statuto di Segna si parla di Morlacchi, calati dalla Bosnia in Dalmazia e Croazia, e di qui nella Gatska, anzi nel territorio di Segna. In un documento del 1892 si accenna a dei Morlacchi, appartenenti ad Obrovazzo sopra Zara, venuti quali coloni nel territorio di Segna. Cfr. Giov. Kobler, Memorie per la storia della liburnica città di Fiume, Fiume, 1896, vol. I, pag. 177.
  49. Ctr. nella Porta orientale, 1859, pag. 99 sgg.
  50. Cfr. la puntata di Settembre 1860 e di Giugno 1861 col titolo: Etnografia dell'Istria.
  51. Cfr. Istria, Studi storici e politici, Milano, 1886, pag. 150 sgg.
  52. In ordine cronologico seguirebbe il Saggio del Paropat (1860 ?); ma tanto l'Ascoli che il Miklosich lo ritengono una mistificazione. Il Miklosich (Die slav. Elem. pag. 57) dimostra, che un dialetto scacciato dalla vita sociale e dalla chiesa e adoperato soltanto in famiglia, quasi lingua di confidenza, non può servirsi di parole quali: Afrodites, elcui (ambasciatore, d'origine turca) spatariu mare (generale)...
  53. Cfr. Dr. Benussi. L'Istria sino ad Augusto, Trieste, 1883, pag. 61-92 e 122-186. A pag. 122 egli dice più conforme al vero l'opinione che fa i Veneti e gl'Istri d'origine tracica; ma gl'Istri vinti dai Romani (pag. 136) erano stati celtizzati.
  54. I dotti in generale ammettono oggidì, che i popoli abitanti anticamente dalla penisola balcanica alla Venezia (quindi anche i Dalmati, gl'Illirî, i Liburni, gl'Istri, i Veneti) appartenevano alla grande e diffusa schiatta traco-illirica.
  55. Cfr. nel Grundriss.... l'articolo del Tiktin pag. 438: "Immerhin lässt sich soviel mit ziemlicher Sicherheit sagen, dass der istrische Zweig dem macedonischen näher steht als dem dacischen."
  56. Cfr. Erodoto, V, 3: [Greek text]...
         Strabone, VII, 303: [Greek text]... e VII, 305: [Greek text];
         Plinio, IV, 25: alias Getae Daci Romanis dicti.
  57. Eutropio, VIII, 2: Traianus, victa Dacia, ex toto orbe romano infinitas eo copias hominum transtulerat ad agros et urbes colendas.
  58. Vedi la nota 1, pag. 187.
  59. Vedi il passo nel lavoro del De Franceschi, L'Istria, 1879, pag. 79: in quello del Dr. Benussi, Nel Medio Evo 1897, pag. GO, § 37; nei Due Tributi delle isole del Quarnero, 1835, pag. 26, (op. separato) dell'A. di questo riassunto.
  60. Cfr. Dr. Benussi, Nel Medio Evo, 1897, pag. 56, sgg. e pag. 60-68.
  61. Cfr. G. I. Ascoli, Studi critici, Milano, 1861, volume I. pag. 48, sgg.
  62. Cfr. Ibid. pag. 52, 58. — Qui l'Ascoli apre una nota e osserva, che mentre si stampava il suo lavoro, usciva pur quello del Miklosich, Die slav. Elem. ecc., ove trattando in appendice dei Rumeni d'Istria, egli osserva a pag. 57, nota 1, che tra le famiglie di Xeiane 24 portano il nome Stambulich e Turcovich; ciò che per rAscoli significa, che g'indigeni avrebbero chiamato i sorvenuti con nomi che dicevano il paese e dominatore da cui fuggivano (Ibid. pag. 53, Nota 1).
  63. Dunque:
         I. I Daco-Rumeni e i Macedo-Rumeni sono due rami dello stesso ceppo;
         II. Il macedo-rumeno conserva dèi fenomeni linguistici più vecchi che non il daco-rumeno:
         III. L'Istro-rumeno s'avvicina più al secondo che al primo.
  64. Cfr. Ibid. pag. 78, 79.
  65. Cfr. vol. XII delle Denkschriften.... pag. 55-69 sotto il titolo: Die Istrischen Rumunen.
  66. Cfr. a. 1846, pag. 7, 8.
  67. Cfr. a. 1856, pag. 848. — Gli sfuggi peraltro il saggiuolo del dialetto istro-rumeno pubblicato nell'lstria, 1849, pag. 286.
  68. Quest'opinione, che viene a confortare la teoria di Rösler, è accettata oggidì da quasi tutti i rumenologi. Veggasi, fra altri, M. [Moses] Gaster [nota] nel Neumann, La filologia romanza, pag. 180; e Briebrecher, op. cit. pag. 30.
  69. Cfr. La Provincia dell'Istria, 1872, pag. 984, 985.
  70. Cfr. il giornale L'Istriano, N.ri 13, 14, 16 e 17 del 1861.
  71. Cfr. Parte I, pag. 107, sgg., Trieste, 1874.
  72. E non degli antichi Vegliesi, come s'esprime il Maiorescu. Di questo particolare e interessantissimo dialetto, che fu studiato dall'Ascoli, dal rovignese prof. Ive, ed ora si studia dall'albonese prof. Bartoli, si tratterà più avanti.
  73. Il Maiorescu qui m'intorbida alquanto le acque. Che ci sia dell'affinità fra questo dialetto antico di Veglia (città italiana ora e sempre), col rumeno, lo ammette anche l'Ascoli (Cfr. Archivio glottologico ital., vol. I, pag. 435, sgg.); ma il rumeno di Poglizza, villaggio slavo dell'isola, n'è affatto distinto.
         Nel dialetto antico di Veglia, connesso oggidì dai glottologi con quelli di Rovigno e Dignano, si ritiene trovare le reliquie di "quell'estrema latinità orientali che si stese dall'Illirico al Ponto, (Ascoli 1. cit. pag. 435) o meglio, giusta gli studi recentissimi del prof. Bartoli, dell'antico dalmatico, (Cfr. Top. tjber cine Studienreise zur Erforschung des Altromanischen Dalmatiens); laddove il rumeno dell'isola, ora estinto, è un'importazione più recente, ed è intimamente connesso col rumeno della Vaidarsa. Ma di queste questioni si parlerà più avanti e più diffusamente.
  74. Degna di nota è l'osservazione del Maiorescu, che nell'Istria (dagli Slavi?) si dicono Vlahi tanto i romanici della Valdarsa, quanto i Serbo-Dalmati di Parenzo, Pola, Dignano, Pisino e Montona (s'intenda degli agri di queste città).
         Evidentemente è avvenuto qui ciò che avvenne altrove. Vlach significò in origine un Rumeno; più tardi un pastore slavo.
         Altrettanto accadde del nome Morlacco. In origine esso significò un Rumeno; più tardi un contadino slavo venuto dalla Dalmazia.
  75. Graz, 1877, pag. 79 sgg.
  76. Cfr. Cucuglievich, Acta croatica, pag. 98, 94, Doc LXXIL del 1463. Un prete di Lindaro, sotto la spiegazione del Salterio in croato, nota che nell'anno 1463 vi fu una guerra tra le genti del conte Giovanni Frangipani e quelli di Bogliuno, Vrana, Brest, Pisino.... Nella nota si aggiunge (è scritta con caratteri glagolitici) che rimasero morti sul campo 20 dei Cici del conte Giovanni (cic Kneza Ivana).
        
    A proposito della derivazione del nome Cicio, molti nostri eruditi ritengono che il nome provenga dalla pronuncia sonora del ci usata dai Cici nel discorso (Ciribiri, Ciciliani, Ciceroni.... sono nomignoli); altri ritengono derivi piuttosto da cici a, in rumeno cugino, nel senso in cui nella Dalmazia, nell'Istria, nel Veneto, si dà del barba (zio) ai proprî connazionali. Non ho potuto poi porre in sodo, se questo nome lo portarono i Cicio-Rumeni con sè, oppure, se gli Slavi istriani chiamaron così i sorvenuti Rumeni mezzo slavizzati.
  77. Cfr. Cucuglievich, Acta croatica, vol. I, pag. 97, 103 II primo documento è del 1465, e fu esteso li 10 novembre a Castelmuschio sull'isola di Veglia. Con questo il conte Giovanni Frangipani (V. il mio lavoro: L'ultimo dei Frangipani conte di Veglia, nell'Archeografo triestino, vol, XVIII, pag. 138 sgg.), stabilisce i confini, entro i quali possono pascolare, ai Vlahi o Morlacchi "cui abbiamo posto noi nei confini del detto Castelmuschio." (L'originale è esteso in croato con caratteri glagolitici; il documento è riferito anche dal Miklosich, Über die Wanderung... pag. 64, 65 in caratteri latini). Il secondo documento è del 1468, e fu esteso a Veglia.
         Il conte Giovanni proibisce ai Vlahi (nella trad. ital. Morlacchi) dei dintorni di Castelmuschio di oltrepassare i confini già loro stabiliti col precedente decreto... "dei Vlahi, i quali or ora son venuti qui a stabilirsi". Nel documento del 1465 s'incontra una sola volta la voce Vlah; le altre volte, anche in croato, si dice Murlachi; nella traduzione italiana s'usa sempre Morlacchi. — Nel documento del 1468 s'adopera sempre, anche in croato, la voce Murlak.
        
    E qui, per non ritornare più volte sullo stesso argomento, mi sia permessa l'osservazione, che se Vlah, Morlacco equivale a Rumeno, come lo si ammette, e sull'isola di Veglia ne abbiamo una prova palmare nella lingua parlata da essi, io ritengo potersi congetturare, dal documento seguente, che i Vlahi, ossia Rumeni, erano sull'isola già al principio del secolo XIV. — Nel documento del 1321, esteso li 8 novembre a Dobrigno sull'isola di Veglia (Vedilo in Acta croatica del Cucuglievich pag. 3) il parroco Ambrogio dona alla chiesa di S. Ambrogio da lui fabbricata, alcune terre.... che si chiamano vlaške (cioè, appartenenti ai Vlachi). Ne ciò deve recar meraviglia, perchè anche il Dr. Rački (Cfr. La Croazia avanti il XII secolo, nel Rad. vol. 57, pag. 143), dice che i Vlachi erano noti nella Croazia nel sec. XIV e si trovavano domiciliati negli agri delle città dalmate e croate, dalla Cettina all'Istria.
         I passi riferiti nei due documenti del 1465, 1468 alludono con molta probabilità a quei Vlachi, che portò a Castelmuschio il conte Giovanni, naturalmente dalle sue terre del litorale ungaro-croato; con ciò non si nega, che altri Vlachi sieno venuti prima sull'isola, come lo dimostrerebbe questo documento del 1321.
         Nè qui terminano i documenti sui Vlachi dell'isola di Veglia. Nel 1488 il vescovo di Veglia Donato di Torre si adirò "con tutti li corvati et morlacchi di Dubasniza e Pogliza" perchè non gli volevano pagare le decime (Cfr. Dr. Cerncich, La più vecchia istoria dei vescovati: vegliese, osserese, arbese ecc. Roma, 1867, pag. 137). E a pag. 139 si può leggere in nota 1) dell'a. 1504 di un terreno "quod tempore comitis Ioannis quidam Radaz, Corvatus tenebat et possidebat, et antea possidebat quidam Murlacus". Che questi Vlachi o Morlacchi erano già prima sull'isola l'abbiamo visto; e se i nomi dicono qualcosa, quel "magister Nicolaus di Flacho" nominato nel Doc. del 1402 fatto a Veglia (Cfr. Cerncich, op. cit. pag. 159) starebbe anche a darci una novella prova di ciò.
  78. Cfr. Ibid. pag. 87. — Vedi anche: Rački: La Croazia avanti a secolo XII, nel Rad., vol. 57°, 1881, pag. 142, sgg.
  79. Che i Vlachi ci sieno stati in tutta la regione litoranea, fra Obrovazzo e Segna, già dal principio del sec. XIV, si possono vedere i documenti nel lavoro del Rački cit. pag. 142, 143.
  80. Cfr. Kandler, Raccolta dette Leggi...  capit Lo Rimboscamento, p. 480 1527.... extra Venam Comunis, quod Rustici et Chichi, qui habitant in Charsia in territorio tergestino... omnibus Chichis et Murlachis qui non sunt amansati aut terrena non habent in territorio Tergesti... circa Chiohios consuluerunt, quod fiat super scalis palatii unum publicum proclama, similiter in villa Opchienae et in aliis extra montem...
        
    1524... quod dicti Chichi...
         1526... quod Chichii habitantes in territorio tergestino licentiarentar...
         1517... quod omnes Chichii tam in civitate Tergest. quam in districtu..
  81. Cfr. L'Istria, 1851, pag. 125 "fato per certi Chichi  ...et intenderò el caso da lui, et lo nome de deti Murlachi" (a. 1540).
  82. Cfr. L'Istria, Note storiche, Parenzo. 1879, pag. 870.
         Secondo lo stesso autore (Cfr. op. cit. pag. 356) alcune famiglie Morlacche vennero investite di terreni nel comune di Buie nel 1440. — Nel 1490 dei Morlacchi ci sarebbero già stati sul Carso tanto austriaco che veneto, ed in qualche villaggio del territorio di Capodistria. — (pag. 356, sgg).
         Certamente, se li vediamo negli stessi anni sull'isola di Veglia, erano questi i veri Morlachi o Cici, in islavo Vlahi, ossia quel!i che parlavano il rumeno e allora, e all'epoca del vescovo Tommasini e del irate Ireneo, e che lo parlano ancora oggidì a Xeiane e nella Valdarsa e fino a pochi anni fa sull'isola di Veglia, e tatti immigrati facilmente dalla Bosnia, Erzegovina, Dalmazia, Croazia, fuggitivi dai Turchi.
         Dove non si può andar d'accordo col De Franceschi si è nel ritenere, che questi Morlacchi (del sec. XV) erano mandriani "mescolatisi cogl'indigeni carsolini di razza romanica, che, giusta lo storico Fra Ireneo, ancora intorno al 1700 fra loro denominavansi Ruméri (Romani), ebbero dai Triestini il nome di Cicci."
         Son questi Morlacchi, Cici, Vlachi dei sec. XIV e XV, immigrati, fuggenti dinanzi i Turchi, che portarono con sò il rumeno, e non gl'indigeni carsolini.
  83. Cfr. Caenazzo, I Morlacchi nel territorio di Rovigno. negli: Atti e memorie della Soc. istr. di archeolog. e storia patria, vol. I, pag. 129 sgg. (1885).
  84. Cfr. op. e 1. cit. pag. 139. — Questi erano già Morlacchi serbi, che non parlavano più il rumeno, quando giunsero nell'Istria. L'osservazione vale a fortiori per i Morlacchi importati in Istria nel sec. XVII. (Cfr. De Franceschi, op. cit. pag. 364 sgg.)
  85. Cfr. La Provincia, 1872, pag. 935.
  86. Cfr. op. cit pag. 93.
  87. Cioè: al lavoro del Maiorescu, Itinerar in Istria şi vocabular istriano-roman, Jassy, 1874; al lavoro del Biondelli, Studî linguistici, pag. 58; a quello dell'Ascoli, Studî critici, I, 49.
  88. Cfr. Vol. XXX delle Denkschriften... 1880, p. 1 sgg.
  89. Scrisse il libro Regnum Slavorum verso la metà circa del secolo XII.
  90. Cfr. anche nel Lucio, De regno Dalm., pag. 274 (ediz. Vienna) e pag. 674 dell'ediz. ital. Trieste, 1896.
         I Bulgari... "presero tutta la Macedonia e appresso tutta la provincia dei Latini, i quali allora erano detti Romani, e al presente Morovlahi, (1150) ossia Latini negri."
  91. Da tsints, ch'essi pronunciano in luogo di cinci, quinque, rum. (Cfr. nel Grundriss ecc. pag. 421, l'articolo del Gröber: Die Roman. Sprachen).
  92. Sta bene; tuttavia il Lucio, op. cit. ed. Vienna, pag. 276 ove parla della Mavrovlachia, aggiunge: "id est Nigra Vlachia a Graecis, nunc quoque (il Lucio nacque nel 1604, mori nel 1679) a Turcis Carabogdania, id est, nigra Bogdani regio, a Bogdano principe... nigra vero "a frumento nigro"... — Bogdano (Diodato) era figlio di Stefano il Grande che regnò in Moldavia all'epoca di Maometto II, Baiazet II, Solimano, e gli a succedette nel 1511. — Cfr. La Romania davanti all'Europa, per Enrico Croce, Firenze, 1878, pag. 19.
         Questa particolarità però degli attributi bianco e nero, dati ai popoli, non è una rarità; ce ne sono di molti esempi, specie presso gli Slav; non credo però si possa accettare l'opinione del Kobler (op. cit. pag. 179, vol. I) che il nero attribuito ai Vlachi significhi qualità servile, e che gli Slavi chiamarono bieli (bianchi) i liberi e zerni (neri) i soggetti. Lo stesso A. dissente in molti punti dai glottologi sui Vlachi, Morlacchi, Cici, (V. pag. 175 sgg.) e mi pare fraintenda il Lucio, il quale in molti luoghi ha prevenuto le deduzioni dei moderni glottologi. Veggasi il suo capitolo De Vlahis, pag. 271 sgg. ediz. Vienna, e pag. 668 sgg. ediz. italiana.
  93. Cfr. il vol. XI (Tomo III delle Commissiones et Relationes venetae) a. 1558-1571, pag. 3-248.
  94. Sarebbero per avventura i Martolossi, più volte nominati negli stessi anni insieme coi Morlacchi e cogli Uscocchi? — Cfr. il vol. XI citato nella nota precedente.
  95. Il Rački (La Croazia avanti il XII sec., op. cit pag. 140, nelle Note 2 e 3.) osserva: Il Danicich, nel Vocabol. dell'antichità serbe, alla voce catun, la spiega con regio pastoria. — Nei documenti latini di Ragusa troviamo: catune, cathoni.
         Quanto all'etimologia della voce catun, il Miklosich, (Die Fremdwörter in den slav. Sprachen, pag. 25) la fa derivare dall'albanese; ma il Matzenauer, Voci straniere nelle lingue slave I, 37, la deriva giustamente dal rom.
    cantone.
  96. Cfr. Jireček, Die Wlachen und Maurowlachen in den Denkmälern von Ragusa, pubblic, nel Sitzungsberichte der kön. böhm. Gelehrtengesellschaft, 27 gennaio 1879; poi il vol. X dei Monum. Slav. Merid., che tratta soltanto di Ragusa, pag. 133 (1324) ...ad petitionem Vlachi famuli sui, pag. 158 (1344) ...ex relatione unius Vlachi de terra Bossinae ....accusavit certos homines sive Blachos, qui venerunt Ragusium accipere salem... pag. 159 (1344) circa expeditionem Vlacorum, dando eis ordinem accipiendi salem, pag. 267 (1347) ....quod quilibet Vlacus slavus...
  97. Sta bene. Io che sono nato nella città di Veglia e che conosco l'isola per longum et per latum, posso confermare quest'asserzione.
  98. Cfr. Cemcich, La più vecchia istoria ecc., pag. 137... "con tutti li corvati et morlacchi di Dubasniza e Pogliza,... e a pag. 139... "terrenum quod tempore comitis Ioannis quidam Eadaz Cortatus tenebat et possi-debat, et antea possidebat quidam Murlacus.... e Miklosich, tber die Wander. ecc. pag. 4, 5.
         (1488-1496) ...che il primo patron della possession sia stato Corvato cioè Schiavon, et non Murlaco;
        
    (1486) Murlachi pagavano...
         (1489) Crovati pagavano...
         (1488) Ridusse detti Murlacchi et Crouati....
        
    Cfr. anche nella nota 1, p. 199, i docum. del 1465 e 1468, nei quali si parla di Vlachi o Morlacchi.
        
    Ce n'erano però anche a Castelmuschio e a Dobrigno, come dalla nota stessa.
  99. Il Miklosich, nel fissare quest'epoca, si basa sulla dichiarazione del conte Giovanni Frangipani, contenuta nei documenti del 1465 e 1468 (V. nota 58), nei quali si dice di Vlachi importati da lui; ma come ho già avvertito, dal docum. del 1821, esteso a Dobrigno, si deve ritenere, che di Vlachi c'erano sull'isola di Veglia già dal principio del sec. XIV, come ce n'erano a Ragusa, nei dintorni di Trau, di Sebenico, di Zara, in tutta la Corbavia, e persino nei dintorni di Segna.
         Per Ragusa V. la nota 69 (a. 1324).
         Per Trau V. Lucio, Memorie storiche di Traù, pag. 279, 280 (a. 1362) Per Sebenico V. Cucuglievich, Jura regni Croatiae ecc. vol. I pag. 126 (a. 1357) pag. 149 (a. 1383).
         Per Carlopago pag. 155-159 (a. 1387).
         Per la Corbavia in generale V. Monum. spect. histor. Slav. Merid., vol. II, pag. 219 (a. 1344) — e per il distretto di Zara V. vol. III, pag. 237 (a. 1352).
         Per Segna v. Kobler, op. cit, vol. I, pag 177 (a. 1392).
  100. Cfr. anche il Cubich, il Maiorescu, l'Ascoli e l'Ive nei luoghi già citati.
  101. Giusta l'opinione del prof. Bartoli Über eine Studienreise.... pag. 88, 89, 90 le colonie rumene dell'isola non influenzarono menomamente l'antico dialetto della città di Veglia.
  102. Cfr. nel vol. XI dei Monum. Slavor. Merid., da pag. 21-193.\
  103. V. Farlati, Illyr. sacrum, IV, pag. 63, ..."Vlachi, pastores schismatici, fusi per agros ac dispersi degebant."
  104. V. Parlati, lllyr. sacrum, IV, pag. 63, ..."circa Sabete et maiorem Vlachiam."
  105. V. Lucio, Memorie storiche di Traù,
  106. Cfr. Monum. Slav. Merid. vol. IX, pag. 218.
         II re Sigismondo ingiunge ai suoi mercanti "Wlachis ut puta et Croatis° che conducano le mercanzie soltanto a Sebenico.
  107. Cfr. Monum. Slav. Merid. vol. IX, pag. 239.
         "Cum rectores nostri Jadre scripserint nostro dominio, quod castrum Ostrovich, quod emimus a Sandallo, furatum et acceptum sit per certos Murlachos...
  108. Tuttavia il Czörnig, (Ethnographie der Oesterreichischen Monarchie, Viennla, 1857, vol. I, pag. 69) ci parla anche di Rumeni carniolici in Hrast, Mötling e al mezzodì di Tschernembl... i quali però, come i Rumeni dell'Istria, appresero la lingua slava del paese; e il Valvasor (Die Ehre des Herzogthums Crain, ediz. Rudolfswerth, pag. 292) ci parla di Uscocchi (sic) abitanti a Veniz (Weinitz), presso Siohelberg (Sichelburg) e attorno ai monti degli Uscocchi quali Rumeni.... "Dieses Volk redet walachisch... i quali, colle donne e coi figli, sarebbero immigrati lì, fuggitivi dai Turchi, verso il 1530-40."
  109. Ciò combina coll'epoca delle migrazioni dei Rumeni nelle regioni dei Carpazi. Cfr. pag. 39, sgg. Über die Wander.
         E combina anche colla mia opinione, che le parole del conte Giovanni Frangipani contenute nei documenti del 1466 e 1468 si riferiscono ai
    Rumeni (Vlachi, Morlacchi) importati da lui a Castelmuschio; ma che di Rumeni, immigrati alla spicciolata dalla Croazia, ce n'erano sull'isola di Veglia anche dai principio del sec. XIV, come ne fa fede il docum. del 1821 di Dobrigno.
  110. Cfr. anche l'articolo del prof. Milcetich (Viestnik.... 1884, Anno VI, pag. 51) che racconta di un vecchio di 80 anni, morto nel 1875, l'ultimo Poglizzano, diremo, che parlò alla rumena colla propria moglie [vlaški) il quale gli additò eziandio la casa nella quale abitò il primo Vlaco (Rumeno). — Dove anche lui prende una cantonata si è quando dice, che nella città di Veglia si conservò più a lungo la parlata rumena. Ma di ciò si dirà più avanti. — Lo stesso professore ci racconta (pag. 52) che a Malinsca (presso Dobasmzza) viveva una vecchia (morta nel 1884) la quale sapeva ancora qualche cosa di rumeno. — Questi sarebbero gli ultimi rappresentanti dei Rumeni sull'isola di Veglia, i quali si sono affatto croatizzati.
  111. Osservo: dei cognomi Bociul e Cociul non mi consta; Pacul esisteva, ed era mio parente, ma era un soprannome; il nome di famiglia vero era Depicolzuane, famiglia che.esiste ancora. Aggiungo del mio, che esiste ancora a Veglia la famiglia Chietul (leggi Cietúl) venuta in città dall'isola, verosimilmente da Poglizza; e le numerose famiglie dei Giórgolo, anche miei parenti, non saranno per avventura che dei Giorgul (alla veneta Giórgolo) rumeni.
         Di fatti, il loro tipo si stacca affatto dagli altri vegliotti.
  112. Cfr. nel vol. 32° delle Denkschriften... Vienna, 1882, pag. 1-91.
  113. Negli anni 1881 e seg. pubblicava il Miklosich, in diverse puntate dei Sitzungsberichte.... quel colossale lavoro fonologico sui tre dialetti romeni, che porta per titolo: Beiträge zur Lautlehre der rumunischen Dialekte... lavoro che fu quasi l'ultimo canto del cigno.
  114. Ho tradotto testualmente quest'ultime conclusioni che furono più diffusamente propugnate dal Miklosich nei lavori precedenti, perchè fra breve dovremo ribattere le conclusioni d'un altro scrittore.
  115. Cfr. vol. 29°, 1883. pag. 294-299 delle Mitteilungen aus Justus Perthes' geogr. Anstalt.
  116. Il compilatore dell'articolo si richiama ai Beiträge... del Miklosich, vol. 101°, pag. 49 sgg. — Ma dalla lettura delle parole del Miklosich non si può menomamente trarne la deduzione del Dr. Lechner. Ecco le parole testuali del Miklosich in traduzione: "Si distinguono, non badando ai Rumeni dell'Istria, i Macedo- e i Daco-Rumeni; una divisione contro la quale nulla puossi oppone, finchè la si considera soltanto come geografica, che cessa però d'esser giusta, tosto ch'essa riceve un valore etnografico, perciò linguistico) dacché, come risulta da queste spiegazioni (cioè, dai raffronti fonetici) si trovano al settentrione del Danubio dei dialetti che concordano colla lingua dei Macedo-Rumeni.
        
    La cosa riesce comprensibile, se si ammette, che l'ordine I (Daco-Rumeno) e l'ordine II (Macedo-Rumeno) si sieno formati al mezzodì del Danubio, e che stirpi di tutti e due gli ordini abbiano intrapreso la migrazione alla sponda sinist ra del Danubio."
        
    Questo si chiama parlar chiaro, ma per chi lo voglia intendere. Come in tutti i suoi lavori precedenti, il Miklosich sostiene anche qui doversi cercare la patria d'ambo i rami del popolo rumeno all'Emo.
  117. Ciò che segue sembra una contraddizione, ma essa non ò che apparente; soltanto bisogna aver letto tutti i lavori del Miklosich.
         Ecco la traduzione del passo sul quale si basa il Dr. Lechner.
         "Chi medita intorno all'origine del popolo rumeno, dalla lingua e dalla storia l'attenzione viene portata alla costa orientale del Mare Adriatico, ove vivevano i prodi llliri, ed ove oggidì i loro altieri discendenti attirano di quando in quando l'attenzione del mondo. Gli Schipetari ed i Rumeni sono uniti l'uno coll'altro indissolubilmente. Questi (i Rumeni) sono essenzialmente llliri romanizzati; quelli (gli Albanesi) sono llliri che hanno respinto da sè una compiuta romanizzazione.
         L'origine della nazionalità rumena cade in quel primo tempo, quando il piede romano si posò per la prima volta sul suolo dell'Illiria. Allora fu guerreggiata la loro (degli llliri) nazionalità e fu iniziata la loro romanizzazióne."
         Per comprendere il Miklosich, ripeto, bisogna leggere tutti i suoi lavori. Ora egli si è occupato anche dell'albanese, ed è persuaso, che gli Albanesi o gli Schipetari siano i rappresentanti degli antichi lllirî; quindi, che i dialetti (tosco e ghego) dei moderni Albanesi rappresentino la lingua parlata dai prischi lllirî. Siccome poi gl llliri si fanno un ramo dei Traci (d'onde più giustamente si dicono Traco-Illirî), e i discendenti dei Tracci romanizzati sono i Rumeni, nulla di meraviglia, se c'è dell'affinità fra il rumeno e l'albanese, come lo dice lo stesso Miklosich; ma la chiusa del passo significa tutt'altro di quello che vuole il Dr. Lechner. Il Miklosich con quelle parole vuol dire: il primo germe del romanesimo (se non volete dir del rumenismo) devesi cercare nella fusione dell'elemento illirio o traco-illirio col romano, già allora quando i Romani conquistarono l'Illirio; ma la culla d'ambo i rami del popolo rumeno va cercata all'Emo; in ciò il Miklosich non si disdice mai.
  118. Quest'è vero, ma con ciò il Miklosich non fa che corroborare la sua opinione condivisa anche dall'Ascoli (V. infra pag. 196) che ambo i rami dei Rumeni provengono da uno stesso ceppo. Che se il dialetto istro-rumeno s'avvicina più al macedo-rumeno che al daco-rumeno, ciò consuona sempre colle vedute del Miklosich. Ciò vuol dire, che i Rumeni dell'Istria si sono staccati dal primitivo ceppo rumeno assai per tempo; e siccome, immigrati nell'Istria, non ebbero nè letteratura, nè vita nazionale, nè civile, ma vissero quali semplici pastori in piccoli gruppi, così mantennero nel loro dialetto delle forme linguistiche arcaiche, le quali non si riscontrano più nel daco-rumeno, il solo che pervenne alla dignità letteraria, e che perciò subì dei cambiamenti fonetici e morfologici maggiori. A deste sono cose che le può comprendere soltanto chi sa qualche cosa di linguistica. Ma non bisogna dire: tratterò l'argomento dal lato storico, e poi affogarsi in questioni linguistiche.
  119. Cfr. il mio lavoro: Due tributi delle isole del Quamero, Archeogr. triest., vol. XI, 1885, pag. 800.
  120. Cfr. Monum. Slav. Merid, vol. VII, pag. 91 (Doc. 71 — ad a. 1072, Nona).
         Alcuni fratelli donano al convento di S. Grisogono in Zara una loro possessione, pag. 93. — Dopo alcuni testimoni slavi, seguono: Item testes latini...
  121. Precisamente. Quei testes latini, come tutti gli abitanti della Dalmazia romana, che parlavano latinum idioma, non erano Rumeni, ma Romani parlanti il latino volgare.
        
    Cfr. Lucio, Storia del regno di Dalmazia.... edizione italiana pag. 654, 655;
         Rački, La Croazia av. il sec. XII, loco cit. pag. 117, 118, ove sono riferite molte voci del sermo rusticus usato in Dalmazia, e del quale fa cenno espresso nel 1067-69 il vescovo di Zara Stefano: "chyrographum hoc rustico sermone conscripsi". Questo sermo rusticus fini poi a darci il dalmatico, del quale si occupa oggidì il prof. Bartoli, il quale dalmatico poi non è rumeno.
  122. Cfr. Mon. Slav. Merid., VII, 462 (a. 1096-97). Descrizione della Dalmazia (nell'occasione della I crociata) di Guglielmo arcivescovo di Tiro, che si dice abitata da un popolo ferocissimo ..."exceptis paucis, qui in oris marittimis habitant, qui ab aliis (Slavi dell'interno) et moribus et lingua dissimiles, latinum habent idioma, reliquis sclavonico sermone utentibus et habitu barbarorum".
  123. Cfr. Cod. diplom. istriano ad a. 1102.
  124. Cfr, Cod. diplom. istriano ad a. 1395.
         Fra le firme trovasi: Mochoro Supano de Berdo. Quanto alla derivazione poi di Berdo da Beli dvor (alba curtis) ne lascio la responsabilità al Dr. Lechner. Di villaggi slavi montani, che portano il nome di Berdo (colle, monte) ce ne sono tanti, senza che nessuno mai si chiamasse Cortalba!
  125. Ma chi glielo dice? — Chi vorrà trarne una simile deduzione da quell'inter Latinos? Certamente questa frase sarà ancora per molto tempo un indovinello; ma che dessa significhi "fra i Rumeni" è anche un po' arrischiato.
         Cfr. anche : De Franceschi, L'Istria, pag. 99 per tutto il documento del conte Voldarico o Volrico e per la variante riferita nella nota 4: "Cort alba inter latinos".
  126. Ecco un'altra deduzione che non scaturisce spontanea dalla premessa. Bisogna prima provare, che i Latini del documento del 1192 sono tutt'uno coi Rumeni importati più tardi nell'Istria. Che invece gli abitanti della Dalmazia romana parlanti l'idioma latinum, non siano Rumeni, ma Romani parlanti un latino rustico che si risolse in un dialetto italico, lo dimostrano e il Rački nell'opera più volte citata pag. 117, e il Bartoli nell'opusc. cit, pag. 88.
  127. Andiamo di male in peggio. — Il Porfirogenito parla di Romani, non sulle isole del Quarnero, (che furono occupate subito dopo dai Croati) ma delle città ([Greej text]) Arbe, Veglia, Ossero, che ebbero colonie romane e i cui abitanti si dissero perciò Romani. Cfr. i passi precisi del Porfirogenito nel mio lavoro "Due tributi delle isole del Quarnero, pag. 300, voi. XI, Arch. triest. 1885.
         Viceversa gli avanzi della lingua rumena cui accenna il Dr. Lechner, si trovarono sull'isola di Veglia soltanto, quali colonie importate frammezzo agli Slavi, e non nella città di Veglia romano-veneta, che ebbe un dialetto proprio di cui si dirà più avanti.
  128. La è un'opinione questa, che viene professata anche da altri, non esclusi alcuni istriani; ma la é un'opinione sbagliata. Non le isole del Quarnero (abitate ancora nel secolo XVI assai scarsamente, come puossi vedere nei vol. VII! e XI dei Mon. Slav. Merid. offrirono la popolazione (nè croata, nè rumena) alla Valdarsa e all'agro fianonese e albonese; ma tanto i Croati quanto le colonie rumene vennero, e sulle isole e nella Valdarsa, dalla terraferma, cioè, dalla Croazia, per lenta e progressiva espansione.
  129. Eppoi andatevi a fidare di certi scrittori! Immaginatevi, se lo scritto del Dr. Lechner capiterà fra le mani dei dotti alemanni, quali giuste notizie ne ricaveranno! Buon per noi, che altri, ben più dotti di lui, parlarono esattamente di queste questioni, e che ormai lo sanno anche i passeri dei tetti, che la città di Veglia è italiana sempre stata, e lo è anche oggidì; laddove gl'isolani sono croati; e noi intendiamo per isolani tutti quelli che non abitano nella città.
  130. Assai benemerito, senza dubbio; ma, con buona pace del Dr. Lechner, il Dr. Cubich era nativo di Gorizia!
  131. Non è vero, signor dottore! — L'antico dialetto della città di Veglia vien messo in relazione coi dialetti delle città della Dalmazia romana: Ragusa, Spalato, Traù, Zara, Arbe, Ossero, Veglia, (cfr. l'òpusc. cit. del Bartoli), poi con quelli di Rovigno e di Dignano, e non coll'istro-rumeno; viceversa il rumeno dell'isola di Veglia, del quale ci rime ne soltanto il Padre nostro e l'Ave Maria, viene posto in relazione col rumeno della Valdarsa.
         Le prove le abbiamo già viste nei lavori dell'Ascoli e del Miklosich.
  132. Altro che regnato per lungo tempo (dal 1000 al 1797); ma non vede, ch'ella confonde il dialetto antico della città di Veglia, (dalmatico, italico) sul quale ebbe certamente molta influenza il veneto (Cfr. Bartoli, opusc. cit. pag. 88) col rumeno, sporadico e importato fra gli Slavi dell'isola!
  133. Per non ripetere più volte la stessa cosa, tralascio qui di dimostrare l'infondatezza di quest'asserzione, e mi riservo di dimostrarlo alla fine del presente riassunto, nell'Appendice. Dal sagginolo lì riferito, anche i non filologi si persuaderanno, che il dialetto antico della città di Veglia non ha a che fare col rumeno.
  134. Vedi infra pag. 205.
  135. Vedi L'Istria, Note storiche, pag. 370.
  136. E lo stesso rinomato Flacius Iliricus (se per altro è un istriano) non è che un bell'e buono Vlach, un Rumeno di quelli di Schitazza presso Albona.
  137. Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1863. — Sarà, ma ne dubito. Ritengo sia il cognome slavo Rumer, Rumez: di fatti ad a. 1328 m'incontro in un Rumiz. Ma sia pure; allora questi è il primo Rumeno del sec. XIV, la cui presenza ci è attestata nell'Istria da un documento.
  138. Anche in questa derivazione io non ci metto nè sale nè pepe. — Ciribiri (come: Ciciriani, Ciciliani, Ciceroni....) sono, secondo me, dei nomignoli locali di nessuna entità.
  139. Cfr. Cod. diplom. istriano ad a 1465: "fideles nostri villarum de Xiana (Xejane) Moneque superioris et Mone inferioris."
  140. La notizia è tolta dal Miklosich. V. la nota 2, pag. 193.
  141. Perchè di voci albanesi? — Le guerre cogli Uscocchi avvennero fra il 1616-17; ma sia gli Uscocchi venuti nell'Istria come corsari e ladri, sia quelli importativi da Venezia e dai duchi d'Austria, erano già slavi (serbi).
         Per notizie sugli Uscocchi, durante il sec. XVI, ed al principio del XVII, Cfr. Atti e Memorie della Società istriana d'archeologia e storia patria, vol. VI, pag. 312-362 (a. 1588-1613); De Franceschi, L'Istria, Note storiche, pag. 296 sgg.
  142. Lo credo anch'io; ma bisogna distinguere fra i Cici d'Ireneo della Croce che parlavano rumeno, che sono poi tutt'uno coi Morlacchi del vescovo Tommasini, e fra i Cici, Morlacchi, Uscocchi del sec. XVI e XVII ormai slavi.
  143. Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1328.
  144. Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1329.
  145. Per chi volesse fare delle ulteriori ricerche sui Rumeni dell'Istria, valgano le seguenti indicazioni di lavori recentissimi : H. Nicora, Românii istriani, Transsilvia, 1890; T. T. Burada, O câlâtorie in satele rumânesti din Istria, Bucureşti 1891;
         G. Weigand: Nouvelles recherches sur le Roumain dell'lstrie, in Romania, XXII, p. 240-256, 1892; Istrisches, nel I e II Annuario dell'Istituto, per la lingua rumena, di Lipsia, 1894, p. 122-125; 1895, p. 215-224;
         St. Nanu,, Der Wortschatz des Istrischen, Lipsia, 1895;
         Dr. Arthur Byhan, Istrorumänisches Glossar, VI annuario dell'Istituto rumeno di Lipsia, 1899, p. 174-396.
         Sul rumeno dell'isola di Veglia vedi: T. T. Burada, Cercetărĭ despre Romănii din insula Veglia, nell'Archivio della Società scientif. e letter. di Jaşi, a. VI (1895).
  146. Cfr. vol. I, pag. 50.
  147. Cfr. Monum. Slav. Merid., vol. VIII (Tomo II delle Com. et Relat, ven.) pag. 262.
  148. Cfr. vol. I, pag. 50.
  149. Ctr. pag. 436.
  150. Cfr. L'antico dialetto di Veglia, vol. IX dell'Archivio glottologico ital., pag. I15-187.
  151. Cfr. Farlati, Illyr. sacrum, V. 295: "Sunt autem Veglienses... victu cultuque Italis quam Dalmatis propiores: omnes vero italice loqui perbene sciunt."
  152. Cfr. per intanto la monografia: Über eine Studienreise zur Erforschung des Altromanischen Dalmatiens. (Estratto dall'Anzeiger del phil.-hist. Classe del 29 Novembre 1899, N. XXV.
  153. Parenzo, 1900 (Estratto dagli Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria).

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Created: Wednesday, August 18, 2010; Last Updated: Friday, March 31, 2023
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