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Sui rumeni dell'Istria
Riassunto Storico-Bibliografico
di G. Vassilich
Vréme tot véncè
- Tempus omnia
vincit. — (V. L'Istria,
IV, 236;
Saggi di lingua istro'rumena |
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[Tratto da: Giuseppe Vassilich, "Origine dei Rumeni e
della loro lingua" (PDF),
Archeografo triestino. Nuova Serie - Vol. XV. Stabilimento
Tipografico di Lodovico Hurmanstorfer (Trieste, 1899-1900), pag.
157-237.]
DUE
PAROLE D'INTRODUZIONE.
Vive nell'Istria un picciol popolo, chiuso oggidì in più ristretti confini di
quello che alcuni secoli fa noi fosse, il quale, sebbene alla lingua d'affari ed
ai costumi potrebbe esser ritenuto di famiglia slava, pure non lo è.
Dei vaghi accenni negli scrittori dei secoli passati, le indagini di alcuni
letterati sì nostrani che forestieri, e sopra tutto le prove indubbie della
lingua un di parlata da questo popolo, dimostrano ch'esso appartiene alla
nazione rumena.
Che di piccole colonie rumene vi fossero nei secoli scorsi anche sull'isola
di Veglia, è provato da documenti e da reliquie linguistiche; e si ritiene
generalmente, non senza fondamento, che i così detti Cici eziandio sieno di
ceppo rumeno.
Di questi
Rumeni d'Istria, oggi più o meno slavizzati, si occuparono non
pochi scrittori. La serie delle ricerche, specie da parte di scrittori istriani,
incomincia dalla metà circa del nostro secolo ; ma tali ricerche, sebbene degne
di lode, non apportarono gran luce sulla loro origine.
Sul quale proposito si possono distinguere due scuole : la prima,
rappresentata da letterati istriani, supponeva che questi
Rumeni sieno nati sul
suolo dell'Istria; la seconda, composta da scrittori non istriani, ritiene non
soltanto, che questi
Rumeni sieno venuti qui da altri paesi, ma vuole eziandio,
che la loro immigrazione risalga ad un'epoca relativamente recente.
Anche le indagini relative possono dirsi di due specie: quelle della prima
consistono in disquisizioni più o meno lunghe di scrittori che arrischiano delle
congetture, quasi sempre non confortate da prove; queste ricerche vanno dal 1846
al 1860.
[160] Coll'anno 1861 s'iniziano le investigazioni della seconda specie, e vanno
fino ai nostri giorni. I lavori sono più voluminosi, appoggiati su raffronti
linguistici, e, quello che più monta, sono scritti da uomini competenti in
materia, da valenti glottologi; epperò le loro conclusioni son degne della più
grande considerazione.
Scopo pertanto del presente lavoruccio si è quello di riassumere gli studi e
le indagini degli altri, pubblicate sin qui, su questi
Rumeni d'Istria; e
quantunque non sembri, il riassunto avrà qualche piccolo merito, perchè esporrà
in ordine cronologico la genesi, lo sviluppo e le conclusioni finali
sull'origine di questo popolo, destinato fra breve a perire come tale, in un
periodico nostro ed in lingua nostra; laddove le ricerche più interessanti sulla
lingua e sulla patria originaria di questi
Rumeni d'Istria sono estese quasi
tutte in lingua tedesca e sono pubblicate in periodici o riviste che non passano
per le mani dei più. Per quanto modeste, il riassunto conterrà, qua e là, anche
delle osservazioncelle mie.
Opere principali sulle quali si basa la Parte
1.
Miklosich Fr., Die
slavischen Elemente im
Rumunischen, nel vol.
XII delle Denkschriften
ecc. dell'Accademia delle scienze in Vienna, 1862. — Nell'introduzione si parla dell'origine dei Eumeni e della lingua rumena. — Sulla
fonetica dei tre dialetti
rumeni: il daco, il macedone e l'istro, ei tratta da
par suo nei:
Beiträge zur Lautlehre der rumun. Dialekte,
inseriti nei vol. 98°-102° dei
Sitzungsberichte ecc.
dell'Accademia stessa.
Rösler Rob., Romänische
Studien, Lipsia, 1871.
In questi egli risuscita la teoria di
Sulzer, (Geschichte des
transalp. Daciens, Vienna 1781-82) che fa venire i
Rumeni settentrionali dal
mezzodì del Danubio appena al principio del XIII sec.
Jung Giulio, Die Anfänge der Romänen,
nel periodico per i ginnasi austriaci, 1876 ; e
Römer und Romanen in
den Donauländern,
Innsbruck, 1877; nei quali, di
fronte al Rösler, egli propugna la
teoria della continuità dei
Rumeni nell'antica Dacia.
Pič
Gius. Lad., Ueber
die Abstammung der Rumänen,
Lipsia, 1880, che
condivide la teoria di Jung.
Tomaschek G., Ueber Rosalia und
Brumalia, nei
Sitzungsberichte ecc. dell'Accademia di Vienna,
vol. 60°, 1869 — Zur walachischen Frage,
nel periodico per i ginnasi austriaci, 1876; — Zur Kunde der Hämus-Halbinsel
nei Sitzungsberichte
ecc. dell'Accademia di Vienna,
vol. 99°, 1882. In tutti e tre i lavori egli porta
dei nuovi contributi sull'origine dei
Rumeni.
Jireček
C. G., Geschichte der Bulgaren,
Praga, 1876, in cui, oltre alla storia dei Bulgari,
che è intrecciata con quella dei
Rumeni, si parla diffusamente di questi e della
lingua rumena.
Picot M. E., Les Roumains de la Macédoine, Parigi, 1875, nella
Riv. d'antropol. vol. IV.
PARTE PRIMA. Origine dei Rumeni e della loro lingua.
Prima di trattare dei
Rumeni d'Istria, non istaran male due parole sui
Rumeni
in generale. Sebbene l'origine di questo popolo sia stata l'oggetto di molte e
dotte ricerche, si può dire tuttavia, ch'essa sia ancora avvolta nell'oscurità
e che nella questione non venne detta ancora l'ultima parola. La causa di ciò va
attribuita alla mancanza, o almeno alla scarsità, delle notizie su questo popolo
durante il Medio Evo.
Giusta l'opinione più comune, i
Rumeni si fan derivare dai coloni
romani importati dall'imperatore Traiano nella Dacia, dopo la conquista del
paese.(1) I Daci, popolo battagliero e turbolento, (2)
un ramo dei diffusissimi Traci, come i Geti loro affini, molestavano colle loro
scorrerie i possedimenti romani al mezzodì del Danubio.\
Già sotto Domiziano il valoroso loro re Decebalo, che aveva invaso la Mesia,
(86) fu vinto bensì; ma Roma dovette obbligarsi ad un annuo tributo, se volle
avere la pace (90).
Nel 101 Decebalo, perchè gli era stato ricusato questo tributo, riprese le
armi. Traiano, a capo d'un numeroso esercito, passò il Danubio, sconfìsse i
Daci, prese la loro capitale
Sarmizegethusa e li obbligò a chieder la pace (103).
Nel 104 i Daci si sollevarono di nuovo. Traiano tornò sulle rive del Danubio,
gettò sul fiume un ponte di pietra di cui si vedono ancora oggidì le rovine
(Pons Traiani presso Cerniz), entrò più volte nella Dacia, vinse Decebalo
che si tolse la vita, e conquistò il paese.
In onore del vincitore la capitale s'ebbe il nome di Ulpia Traiana e
la Dacia fu fatta provincia romana (106). A colmare [164] i vacui
causati dalle guerre, Traiano importò nella nuova provincia numerosi coloni
ch'ei trasse da tutto il mondo romano. (3)
Sotto i deboli successori di Traiano questa provincia fu esposta
all'invasione de' Goti. Decio, in una spedizione contro di loro, nel
251, vi lasciò la vita; e sotto Gallieno (260-268) la Dacia andò
perduta. (4) Riuscì, gli è vero, a Claudio II (269)
di sconfiggere presso Naïssus (Nissa) i Goti che avean varcato il
Danubio, onde gli venne il soprannome di Gotico; ma Aureliano
(270-276), vedendo di non poter mantenere la provincia della Dacia
di fronte all'avanzarsi dei Goti, la cedette loro tacitamente nel
272; ritirò quindi dalla Dacia tanto i coloni trapiantativi da
Traiano quanto i provinciali e li trasferì alla sponda destra del
Danubio, fra le due Mesie, regione che da lui s'ebbe il nome di
Dacia Aureliani.
(5)
[165] Fin qui le cose procedono
lisce, non così nei secoli seguenti.
Abbiamo, nelle regioni situate ad ambe le sponde del Danubio
inferiore, un avvicendarsi, un sospingersi, un mescolarsi di popoli, alcuni dei
quali le visitarono soltanto di passata, altri vi posero stabile dimora per più
o meno tempo, e tutti apportarono dei sensibili spostamenti nelle sedi delle
prische popolazioni (Goti, Sloveni, Unni, Avari, Gepidi, Bulgari, Magiari,
Peceneghi, Cumani....) finché, molti secoli più tardi, troviamo i
Rumeni, non
più alla riva destra del Danubio, ove li abbiamo lasciati, bensì alla sinistra,
cioè nelle odierne sedi; ed altri
Rumeni, probabilmente un ramo dei primi,
troviamo nella Macedonia, nella Tessaglia, attorno al Pindo... Ne nasce pertanto
una prima questione non peranco risolta dai dotti:
I. Gli odierni abitatori della Moldavia e Valacchia sono i
diretti discendenti dei coloni di Traiano e dei provinciali Daci romanizzati,
oppure sono derivati da quei Romani e provinciali che furono trasportati da
Aureliano nella Mesia?
II. E se ci troviamo nel secondo caso, come sembra più
probabile, come e quando i
Rumeni della Dacia di Aureliano, posta alla sponda
destra del Danubio inferiore, passarono alla riva sinistra ed occuparono le
odierne sedi? — Il Miklosich, un autore competentissimo in materia, (6)
si professa fautore dell'ultima ipotesi, e ritiene che il passaggio sia avvenuto
verso la fine del V secolo, allorquando gli Sloveni (7)
occuparono le regioni dell'Emo orientale.
[166] E siccome di
Rumeni si trovano
anche nella Macedonia e nei paesi circonvicini, gli è facile — dic'egli — che nella stessa epoca e per la stessa causa sia avvenuta
anche la migrazione d'una parte di loro verso mezzogiorno. Gli
Sloveni, cioè, avrebbero agito quasi un cuneo cacciato frammezzo ai
Rumeni, scindendoli in due rami, dei quali l'uno si diresse al
settentrione, passò il Danubio e diede orìgine agli odierni
Rumeni
di Moldavia e Valacchia; l'altro si diresse verso mezzogiorno, e
sarebbe rappresentato dai
Rumeni della Macedonia, Tessaglia e dei
paesi contermini.
Ma questa del Miklosich non è che una congettura,
da prendersi sul serio quanto si vuole, perchè parte da un
glottologo eminente che conosce a fondo la questione; essa resta
tuttavia sempre una congettura; e di congetture sull'origine dei
Rumeni ce ne sono diverse.
I
Rumeni delle regioni poste al settentrione del Danubio
furono per lungo tempo considerati quali diretti discendenti dei Daci misti coi
coloni di Traiano; in quelli della Macedonia e Tessaglia si voleva scorgere i
discendenti dei coloni romani e dei provinciali trasportati da Aureliano nella
Mesia.
Ma se noi prendiamo alla lettera l'affermazione di Flavio Vopisco, dobbiamo
ammettere, che la Dacia nel III secolo fu sromanizzata; e che venne nuovamente
romanizzata, durante il Medio Evo, col mezzo di Romani, meglio
Rumeni, immigrati
dai paesi che giacciono al mezzodì del Danubio inferiore.
Questa teoria, già propugnata da altri nel secolo passato, venne risollevata
negli ultimi tempi da Roberto Rösler. (8) Secondo lui, gli
attuali Rumeni settentrionali non sarebbero i diretta discendenti di quei Romani
cui Traiano trapiantò nella Dacia; si bene i discendenti dei
Rumeni meridionali,
emigrati a pochi [167] alla volta ed in varie riprese dalla Mesia,
Tracia e Macedonia, al principio del secolo XIII.
Ciò spiegherebbe il fatto, che del vasto territorio linguistico romano
esistente nei primordi del Medio Evo al mezzodì del Danubio e dei Balcani, non
si siano colà conservati che pochi avanzi dispersi e senz'alcuna relazione. La
maggior parte adunque dei
Rumeni meridionali sarebbe passata oltre al Danubio
dando così origine ai
Rumeni settentrionali.
Prima di muovere qualche obbiezione a questa teoria si noti però, che le
investigazioni posteriori misero in sodo, che i
Rumeni erano ben conosciuti al
settentrione del Danubio, secondo una notìzia tolta a Niceta Choniate, (9)
intorno al 1164; i fautori poi di questa teoria, possono provare con dati
abbastanza attendibili, che la trasmigrazione avvenne anche prima, cioè, verso
il 1100.(10)
Quest'ipotesi, della non immediata origine romana dei
Rumeni
settentrionali, trovò una viva opposizione nei patrioti
Rumeni, i
quali si sentirono offesi nel loro orgoglio nazionale, che non
tollera si ponga nemmeno lontanamente in dubbio la loro diretta
origine romana. E difatti a quest'ipotesi si possono muovere varie
obbiezioni. Eccodo alcune. L'affermazione di Vopisco non va intesa
nel senso, che tutti i coloni romani e i provinciali romanizzati
della Dacia, sieno stati trasferiti da Aureliano nella Mesia, alla
sponda destra del Danubio; e ciò perchè una simile misura
difficilmente si poteva porre in pratica; si deve piuttosto
ammettere, che una parte più o meno grande della popolazione
Daco-romana, specie i contadini e la piccola borghesia, sia rimasta
nella Dacia; di modo che il paese non fu affatto sromanizzato. Per
poter accettare interamente la teoria di Rösler, occorreva che la
Mesia, la Tracia e la Macedonia avessero avuta una popolazione
romana o romanizzata molto intensa, ciò che non fu.
Si sarebbe piuttosto tentati di spiegare la romanizzazione dei territori
posti al mezzodì del Danubio, non tanto per [168] l'influenza
diretta del romanismo, la quale non fu mai colà molto forte; si bene col mezzo
dell'immigrazione di numerosi Daco-Romani, i quali sarebbero fuggiti dinanzi ai
Peceneghi, ai Cumani e ad altre stirpi barbare dell'impero bizantino. Ad una di
queste immigrazioni accenna anche Vopisco; non è escluso però che ne seguissero
altre nei secoli successivi. D'altro canto, contro questa supposizione si può
subito obbiettare: se i Daco-Romani emigrarono in masse dal settentrione al
mezzodi, il numero dei superstiti al settentrione, ridotto ai minimi termini,
non avrebbe potuto conservare incolume la lingua, ma si sarebbe slavizzato o
magiarizzato. Gli è vero, che in simili casi — nel contatto, cioè, di due
nazionalità differenti — più che il numero conta la coltura; ed in questo caso,
di fronte agli Slavi ed ai popoli di ceppo uro-altaico, prevaleva certamente
l'elemento romano.
Contuttociò, a favore dell'ipotesi di Rösler, sta un fatto
decisivo: la breve durata, cioè, della signoria romana nella Dacia
(circa un secolo e mezzo). Bisogna però tener presente, che le
condizioni in cui avvenne la romanizzazione della Dacia, furono
differenti da tutte le altre provincie romanizzate. In queste i
coloni romani si trovarono in rapporto di grande inferiorità di
fronte agli indigeni; quindi per romanizzare questi, ci voleva un
tempo più lungo. All'incontro, quando la Dacia venne occupata dai
Romani, se la non era affatto disabitata, la era certamente molto
spopolata dalle lunghe guerre, come ce lo attesta Eutropio. Per una
celere romanizzazione di questa provincia bastava adunque una
numerosa popolazione romana, o almeno parlante il latino, la quale
poteva tanto più facilmente mantener puro il suo carattere
nazionale, in quanto non aveva da combattere contro elementi
stranieri.
Malgrado ciò si può dire, che il problema circa l'origine dei
Rumeni
settentrionali non può dirsi risolto; ma abbisogna di ulteriori ricerche e
discussioni, specie dal lato linguistico.(11)
Secondo me, la storia dei Bulgari deve guidare i dotti nello scioglimento
della quistione risguardante l'origine dei
Rumeni.
[169] D'origine uro-altaica, i Bulgari fondarono
nel VII secolo un regno, che all'epoca del massimo sviluppo
abbracciava tutte le provincie un dì romane ad ambe le sponde del
Danubio (I regno dal 678 al 1019). Sebbene avessero sottomesso le
stirpi slave che prima di loro occupavano la penisola balcanica,
ricevettero a poco a poco la lingua dei vinti; divennero cioè un
popolo slavo.
Essi furono per tre secoli i nemici più temibili dell'impero bizantino; ma
venne l'alleanza di questo coi Russi sotto Sviatoslav (964-973), venne
l'occupazione dell'odierna Ungheria per parte dei Magiari, vennero le vittorie
di Giovanni Zimiscè, venne infine la guerra sterminatrice di Basilio II
(976-1026) [Greek text], che fiaccò la tracotanza
dei Bulgari, i quali dal 1019 al 1186 dovettero sottostare al dominio greco.
Durante quest'epoca ritengo, che i
Rumeni, approfittando dell'occasione
propizia, abbiano abbandonato i monti e sieno tornati a poco a poco nelle sedi
dei loro antenati, dando così origine ai
Rumeni settentrionali; laddove alcuni
ne rimasero, e diedero origine ai
Rumeni meridionali. Nel 1186 i Bulgari
poterono fondare un secondo regno (1186-1393); ma questo non ebbe nè
l'estensione nè la potenza del primo; e quindi i
Rumeni del settentrione
poterono egualmente prosperare e diffondere le loro colonie.(12)
I Rumeni o
Rumuni, come da sè si appellano, sono conosciuti dagli altri popoli col
nome di Valacchi.
Questo nome venne loro dato dagli Slavi circonvicini.
Tanto gli Slavi che gli antichi Tedeschi chiamarono con questo nome
(nell'ant. alto ted. walah, nel medio alto ted. walh)
dapprima i Celti, poi i Romani. Il walh ted. in bocca slava divenne
Vlah,
plur. Vlahi, che i Greci scrissero [Greek text],
da leggersi Vlahoi, latinamente Vlachi,
donde l'italiano Vàlachi o
Valàcchi.
(13)
[170] I
Rumeni o Valacchi si distinguono in:
- settentrionali o
Daco-Rumeni;
- meridionali o Macedo-Rumeni.
I primi (circa 8 milioni) abitano nella Moldavia e Valacchia, in una parte
della Transilvania, dell'Ungheria e della Bessarabia; i secondi (circa un
milione) in una parte dell'antica Tracia, Macedonia e Tessaglia.
I Rumeni settentrionali vennero detti dai Greci dell'età di mezzo
[Greek text] (Mavrovlachi, Vlachi neri), i
meridionali
[Greek text] (Kutsovlachi, Vlachi zoppicanti),
i quali, dagli Slavi della Turchia son detti anche Zinzari.
(14)
Dal greco [Greek text] provenne il latino
Morolachi, Morlachi,
(onde l'italiano
Morlacchi) col quale nome si designavano nel medioevo i
Rumeni
parlanti la lingua rumena; laddove nei secoli a noi più vicini si chiamarono
Morlacchi
anche gli abitanti d'una parte del litorale ungaro-croato-dalmato, i quali
probabilmente provengono dai primi, ma si sono affatto slavizzati. Questa
distinzione va tenuta ben presente per quando parleremo dei
Rumeni e dei
Morlacchi dell'Istria.
Ed ora due parole della lingua rumena.
Questa lingua è una delle così dette lingue romanze o
neolatine, (15) che si stacca però alquanto dalle lingue
sorelle ed ha dei caratteri speciali, dovuti ad influssi stranieri.
La sua origine risale al principio del II secolo d. Cr., e deriva dall'unione
della lingua romana rustica o vulgare,(16)
(sermo rusticus, vulgaris, plebeius...) parlata dai coloni importati da Traiano,
colla lingua parlata dai Daci. Secondo il Miklosich, (17) è
senza fondamento l'opinione del Šafařik, che vuole i
Rumeni (e con ciò la lingua
rumena) sieno nati dalla fusione di Geti, Romani e Slavi, appena nel V o VI sec.
d. Cr.
[171] Nè, dic'egli, si può accettare l'opinione del
Kopitar, che stabilisce l'origine della lingua rumena ai
tempi in cui i Romani posero stabile dimora alle coste orientali del
mare Adriatico.
Che i Rumeni sieno pretti Romani è anche infondato; perchè già dai passi
degli scrittori poc'anzi riferiti risulta, che i coloni importati da Traiano
nella Dacia furono tolti da tutto il mondo romano. D'altro canto non
puossi ammettere, che, dopo la vittoria su Decebalo, la Dacia sia rimasta priva
di nomini in senso assoluto; una parte della prisca popolazione vi sarà rimasta;
ne consegue, che già i primi coloni della Dacia dovevano parlare una lingua
romana rustica bastarda, mista coli'elemento indigeno, il
dacico.
Trasportata la colonia daco-romana nella Mesia da Aureliano, (III sec.) la
lingua rumena non dovette qui subire dei gran cambiamenti, in quanto i Daci e i
Geti si fan parenti. (18)
Più tardi, specie dal V sec. in poi, entra nell'unione degli elementi
indigeni col romano, anche l'elemento sloveno. (19)
Nella lingua rumena c'entrarono eziandio altri elementi stranieri, come il
vecchio bulgaro-turanico, l'albanese, lo slavo, il magiaro, il neo-greco ed il
turco. (20)
La lingua rumena (limba rumîneâscâ, var.
romana, romena, romuna) in relazione alla divisione accennata dei
Rumeni,
ha due dialetti principali:
- il daco-rumeno
e
- il macedo-rumeno. (21)
Generalmente, quando si parla di lingua rumena, si accenna
[172] al daco-rumeno, che solo giunse a dignità letteraria.
II rumeno, di fronte alle altre lingue romanze, si trovò in
condizioni affatto speciali, e perciò presenta anche dei caratteri
peculiari.
Nei tratti principali conserva il fondo latino, ma gli elementi stranieri
frammistivi (bulgaro-turanici, albanesi, slavi, magiari, neo-greci e turchi) gli
danno una fisonomia tutta propria. (22) Si noti, che
l'elemento slavo (23) è rappresentato nella lingua rumena da
moltissimi vocaboli, e questo fatto ci darà la chiave per ispiegare la
slavizzazione dei
Rumeni dell'Istria, ora che passeremo a parlare di essi.
Ma non si tratta soltanto dell'abbondante elemento slavo nel
rumeno; le condizioni politiche dell'Europa fecero sì, che la
lingua dell'amministrazione e dei tribunali fosse la serba fino al
seo. XVII, e la lingua della chiesa fosse il vetero-sloveno e che
persino nei lavori letterari i
Rumeni settentrionali si servissero
dell'alfabeto cirillico fino al principio del nostro secolo, laddove
quelli del mezzodì adottarono la scrittura greca.
[173] Non va dimenticato ancora, che i
Rumeni sono
gli unici di ceppo romano che appartengono alla chiesa greca; epperò
anche questo fatto riuscì pregiudizievole alla sviluppo puro della
loro lingua, perchè si trovarono in relazione cogli Slavi ortodossi,
come d'altro canto fu contrario allo sviluppo della loro nazionalità
il dominio turco esercitato col mezzo dei greci Fanarioti.(24)
[174]
APPENDICE
A) Saggiuolo della lingua moderna daco-rumena (Cfr. Rovera,
Gram.
della lingua rumena — Man. Hoepli,
Milano, 1892, pag. 79). (traduz. letterale mia).
Importanţa agriculturel in România.
'România a fost,
de când există o ţară, maǐ presus
de tôte
agricolă. Descendenţii al
poporului roman, noi Românii am
păstrat până adi aceiaşi
aplecare pentru lucrările câmpuluǐ ca şi
strămoşiǐ
noştri. Istoria ne
spune, că Romaniǐ
socotiaŭ, că
numaǐ
arta militară şi agricultura sunt îndeletnicirǐ
demne de ómeniǐ liberi. Artele mecanice şi comerciul nu
se bucurau de
mare favòre la Roma. Noǐ
am păstrat cu
atâta sfinţenie gran favore a Roma. deprinderile strămoşilor noştri, că cu dauna chiar a intereselor
nóstre, am
nesocotit ca şi dênsiǐ meseriile
şi comerciul.
Suntem dar agricultorǐ
de rasă". |
|
Importanza dell'agricoltura in
Rumenia.
La Romania è stata, da quando esiste il paese, sovratutto agricola. Discendenti del popolo romano, noi
Rumeni
abbiamo conservato
fino ad oggi le stesse
inclinazioni per i
lavori del campo come gli antenati nostri.
L'istoria ci dice, qualmente i Romani calcolavano, che oltanto l'arte militare
e l'agricoltura sono occupazioni degne di uomini liberi. Le arti
meccaniche ed il commercio non godevano (di) gran favore a Roma. Noi abbiamo conservato così religiosamente
le usanze degli antenati
nostri, anche con danno evidente degli interessi nostri, abbiamo negletto fin
anco essi i mestieri e il commercio. Siamo dunque agricoltori di razza.
|
P.S. Aurelian. |
Saggiuolo poetico (Cfr. Rovera,
Gram., pag. 8).
Omul gânditor.
Sub rază
uneǐ lampe ce palid licăreşce,
Incăt abia p'o
carte scriptura se
zăreşce,
In mijlocul
tăcerii stă omul gânditor,
Şi ascuns în sênul nopţiǐ de-a
tutulor privire,
Străbate, cercetèză universala fire
Şi lasă fără marginǐ gândiriǐ
sale sbor.
|
|
L'uomo meditabondo.
Sotto il raggio d'una lampada che pallidamente luccica,
In modo che a mala petia lo scritto a'un libro si
scorge,
In mezzo al silenzio sta
l'uomo meditabondo,
E ascoso in seno della notte di tutti
allo sguardo,
Percorre, investiga l'universale essere
E lascia senza margini al suo pensiero libero il
volo. |
Nicolae Scurtescu (1844-1879) [175] |
B) Saggiuolo del dialetto macedo-rumeno. (Dalle Rumun.
Untersuchunger del Miklosich, vol. 32, p. 230, 231,
loco cit.)

Dalle Rum. Untersuch. p. 233 (trascritto con caratt. latini).
IX.
Avému táo ghinne, sse suntu mplinne te aua, ma
Habemus duas vineas, et sunt pienae uvis, sed
nica nu atziumsira, sse va se asteptu putzéna
zamáne, pan
adhuc non maturaverunt, et expectabo breve tempus, donec
se atziunca nchene. sse atumtzia cara se
ntultziásca, va se molliu
maturescant bene. et tum quando dulcescent, humectabo
sesenca sse mpusle, tra se le úmplu pán te supra,
sse cara se
cupam et dolia, ut ea impieam usque supra, et quando
chiárpa patrutzitze te tzele, va se arúcu protlu
ghenu tru
fervebunt quadraginta dies, fundam primum vinum in
anna mpnte (p. 235).
unum dolium. |
XV.
Am tru cartünna a mea unu hicu, unu nucu, unu
Habeo in horto meo unam ficum, unam nucem, unam
cortzu, unu meru, unu tziressiu, am sse stucche multze, sse
pirum, unam malum, unam cerasum, habeo etiam alvearia multa, et
facu multa nniere sse tziara te tziara, sse vintu tru annu cate
una
facio multum mel et ceram, et vendo in anno singulas
parte, sse vlechiu sse tra vetea a mea. tora mpacáe toe mastore,
partes, et servo etiam pro ipso ma nunc locavi duos opifices,
tra se aréma toe trápure, tra se ghénna multa apa, sse se
ut foderent duas fossas, ut veniret multa aqua, et
atapa cartünna.
irrigaretur hortus. |
[176]
Fonti principali sulle quali si basa questo riassunto, disposte in ordine
cronologico.
A. Della prima serie (1846-1860):
-
Covaz Antonio, Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria, nel giornale
del Dr. Kandler "L'Istria" — 1846, pag. 7, 8.
-
Kandler Dr. Pietro, Lettera a.... nell'occasione della
scoperta d'un'aretta con iscrizione a Iesnovico presso l'Arsa. — Ibid. 1846,
p. 12.
- Detto (veramente la firma si desidera) — Della geografia genetica
dell'lstria, — Ibid. 1846, pag. 41, sgg.
- Detto, Qualcosa sulla lingua romanica, — Ibid. 1848, pag. 246,
247.
- Detto, Saggi di lingua valaca, come si parla dai Romanici
d'Istria, — Ibid. 1849, pag. 236, sgg.
- Detto, Dei popoli che abitarono l'Istria, — Ibid. 1861, pag.
73 sgg.
- Detto, Dei Morlacchi che abitano la parte montana della
Vena (fra il Risano e Pinguente) 1861, pag. 125, sgg.
-
De Franceschi Carlo, Sulle varie popolazioni dell'Istria,
(Lettera al Dr. Kandler) — Ibid. — 1852, pag. 225, sgg.
-
Combi C. A., Cenni etnografici sull'Istria, nella "Porta
orientale", 1869, pag. 99, sgg; in particolare pag. 108, sgg.
- Detto, Etnografia dell'Istria, nella "Rivista
contemporanea"
di Torino (fascic. Sett. 1860 e Giugno 1861) —
ristampata nel volume "Istria", Milano, 1886, pag. 150, sgg. in
ispecie pag. 158, sgg.
- Paropat Adriano (pseudonimo?) — Saggio della lingua parlata a
Seiane, 1860? (in foglio volante).
B. Della seconda serie (1861-1900):
- Ascoli G. I., Sui Rumeni o Valachi dell'Istria,
negli "Studi critici", Milano, 1861, Vol. I, pag. 48, sgg.
- Miklosich Dr. Fr., Die Istrischen Rumunen, quale appendice al
lavoro: Die slavischen Elemente im Rumunischen, nei "Denkschriften
der K. Akademie der Wissenschaften", Vienna, 1862, vol. XII, pag. 55-69.
[177]
-
Kandler Dr. Pietro, Li Cici, in appendice alla "Storia
monografica di Trieste, del canon. Vincenzo Scussa, Trieste,
1863, e
1885, pag. 253
sgg.
-
Maiorescu Dr. Giovanni, Lettera al Covaz,
pubblicata nel periodico di
Capodistria "La Provincia",
1872. pag. 934, 935.
- Detto, Itinerar in Istria,
şi vocabular istriano-roman,
Jassi, 1874.
- Bidermann H. J., Die
Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich,
Graz, 1877, pag.
78, sgg.
- Miklosich Dr. Fr., Über die Wanderungen
der Rumunen in den dalmatinischen Alpen und den Karpaten,
nel vol.
XXX, Vienna, 1880,
delle "Denkscriften..."
pag. 1, sgg.
- Detto, Beiträge zur
Lautlehre der rumunischen Dialekte (daco-macedo-istro-rumeno)
nei "Sitzungsberichte der
philos.-histor. Classe der
Kais. Akademie der Wissenschaften, Vienna,
vol. 98° 1881,
pag. 519-550;
vol. 99°, 1882,
pag. 5-74;
vol. 100°, 1882,
p. 229-301;
vol. 101°, 1882,
p. 3-94;
vol. 102°, 1883, p.
3-66.
- Detto, Rumunische
Untersuchungen, nelle "Denkschriften..."
Vienna, 1882,
pag. 1-90;
specialmente la parte: Istro-rumunische
Sprachdenkmäler, che abbracciano le raccolte
del Dr. Antonio Ive e del Dr. Teodoro
Gartner, pag.
1-90.
- Rački
Dr. Fr., La Croazia avanti il secolo XII,
nel vol. 57° del
Rad dell'Accad. jugoslava, 1881, P.
II, pag. 102-149;
e specialmente la parte che tratta dei Vlachi, pag.
138-149.
- Lechner Dr. Carlo, Die Rumunen in Istrien, nelle
"Mittheilungen aus Justus Perthes' geogr. Anstalt,
vol. 29°, 1883, pag.
294-299.
PARTE SECONDA.
Sui Romeni
dell'Istria
- Loro sedi - Quando e donde vennero.
Detto così brevemente e in sulle generali dei
Rumeni della Dacia e della
Macedonia, passo all'oggetto del mio lavoro, ai
Rumeni d'Istria.
Abitano dessi nei seguenti villaggi: Possert, Gradigne,
Letai,
Grobnico,
Susgnevizza,
Berdo,
Villanova e
Jessenovizza nella Valdarsa superiore; a
Xeiane
sul Carso di Raspo nel Castelnovano. (25) Ce n'erano anche a
Cherbune, Tupliaco,
Scopliaco... a S. Lucia di Schitazza... ma oggidì vanno sempre più
scomparendo. Il numero dei parlanti il rumeno nell'Istria oscillava, verso la
metà del secolo, fra 3000-6000. laddove una più recente statistica ufficiale li
riduce in cifra rotonda a 3000 soltanto. (26) Questi
Rumeni
parlano il loro dialetto soltanto nell'intimo della famiglia, quasi lingua di
confidenza; del resto adottarono la lingua, i costumi e persino la religione
degli Slavi contermini. (27)
[179] Generalmente, anche i
così detti Cici, che costituiscono ancora oggidì un indovinello
etnografico, vengono considerati quali
Rumeni slavizzati. (28)
Che i Rumeni siano stati una volta più numerosi nell'Istria ed avessero
occupato un territorio più esteso, risulta da esplicite testimonianze di
scrittori degni di fede. Già il vescovo di
Cittanova
G. F. Tommasini (1695-1664) nei suoi Commentarii (29)
parlando di
Pinguente,
così si esprime:
Usansi indifferentemente due lingue, schiava ed italiana, ma nel castello più
l'italiana, e la schiava di fuori. I Morlacchi che sono nel Carso hanno una
lingua da per si, la quale in molti vocaboli è simile alla latina.
Non è gran cosa; ma visto che si parla di Morlacchi, col qual nome nei secoli
addietro si designavano i
Rumeni, e che usavano una lingua in molti vocaboli
simile alla latina
[180]
(notisi quel: in molti vocaboli) questa lingua non poteva essere che
la rumena, perchè questa, oltre all'elemento latino, ha in sè; come abbiamo
veduto, molti altri elementi stranieri.
Giov.
Maria Manarutta, lo storiografo di
Trieste,
conosciuto col nome dell'ordine monastico di
Fra
Ireneo della Croce (1627-1713) nella sua Istoria antica e moderna della
città di Trieste (30) lasciò scritto così:
Un'altra memoria antica, degna di osservazione non minore delle già
adotte antichità romane, osservo in alcuni popoli addimandati Chichi
(si legga alla veneta Cici) habitanti nelle ville d'Opchiena,
Tribiciano e Gropada, situati nel territorio di Trieste, sopra il monte,
cinque miglia distante dalla città verso Greco: Et in molti altri
villaggi, aspettanti a Castelnuovo nel Carso, giurisdizione de gl'Ill.mi
Signori Conti Petazzi, quali, oltre l'idioma sclavo, comune a tutto il
Carso, usano un proprio e particolare consimile al Valacco, intrecciato
con diverse parole e vocaboli (sic!) latini, come scorgesi
dall'ingiunti, et a bel studio qui da me riferiti.
Parlando quindi della loro origine (che ai nostri giorni non può, nonchè
essere discussa, nemmeno esser presa in considerazione) riferendosi al Lucio,
l'illustre storico dalmatino, per l'origine dei
Rumeni o Valacchi, dice:
Che perciò anche i nostri Chichi, addimandansi nel proprio linguaggio Rumeri...
(31)
Da questa preziosa notizia ricaviamo dunque,
- che i Cici parlavano una volta il rumeno;
- che dicevansi Rumeri, cioè, Rumeni; ed ancora,
- che questi Cici equivalgono ai Morlacchi dei vescovo
Tommasini;
ciò che peraltro risulta anche dalla lettera del 1540 riferita
dal
Kandler nel giornale L'Istria. (32)
[181] Anche lo storico della Carniola
G. W. Valvasor (1641-1693) ci fa intravedere, se non chiaramente, almeno
alla larga, che i Cici parlassero una lingua diversa dagli altri popoli
della Carniola inferiore: i Vipacchi, i Carsolini e i veri Carniolini.
Ecco quanto egli ci lasciò scritto:
Das dritte Geschlecht der Einwohner nennet man die Tschitschen...
Diese hausen ztvischen Neuhaus und S. Serff: kommen zwar in der Tracht
den jetzgeschriebenen Karstner gar nahe; bleiben aber in der Sprache
weit von ihnen und reden ihre besondre. (33)
Se anche l'autore non dice, che i Cici a' suoi tempi parlavano il rumeno,
dice però, che parlavano una lingua speciale, molto diversa dagli altri
Carsolini; meraviglia pertanto, che il Miklosich (34),
di solito tanto guardingo nelle sue opinioni, s'esprima cosi recisamente
riguardo alla lingua dei Cici. — Schon zu Valvasor's
Zeiten jedoch sprachen die ihm bekannten Čičen slavisch.
I. 7. 156 (35).
Ho già detto, che di
Rumeni ce n'erano nei secoli scorsi anche sull'isola di
Veglia,
e propriamente nei villaggi di Castelmuschio, Dobrigno, Dobasnizza, Poglizza, (36)
e secondo il [182]
De Franceschi anche di Besca (37); sicché sarebbero stati
sparsi da un capo all'altro dell'isola.
Questi
Rumeni, dell'esistenza dei quali s'hanno documenti certi e di
antica data, sono spariti: o meglio, circondati da Croati, furono da questi
assimilati. E però degno di nota il fatto, che sebbene tagliati fuori dal
mondo rumeno e circondati da Croati, abbiano dessi potuto conservare la loro
lingua fino a questi ultimi tempi, nei quali si raccolsero dei preziosi
cimelii; e appena nel 1876 mori l'ultimo Poglizzano parlante il rumeno. (38)
Vedremo più avanti, che questi
Rumeni, detti dagli Italiani Morlacchi,
dagli slavi Vlachi, erano sull'isola di
Veglia
già nel XV secolo; (39) e i documenti che ne parlano ci
potranno servire di guida per giudicare dei
Rumeni d'Istria.
E chi sa, che un documento del 1321 (40) — finora ignorato — nel quale si parla
di vlaške zemlje a Dobrigno sull'isola di
Veglia
— il che vorrebbe dire:
di terre appartenenti ai Vlachi, cioè, ai Rumeni — non ci possa servire a
stabilire, che di
Rumeni ce n'erano su quest'isola già al principio del secolo
XIV.
[183] Degno di nota si è certamente il fatto, che quei
Rumeni dell'isola di
Veglia,
detti nei due documenti del conte Giovanni Frangipani (del 1465 e 1468)
Vlachi e in italiano Morlacchi, appariscono nel documento del 1463 (41) nell'Istria, quali assoldati, o almeno guerrieri dello stesso conte, col nome di
Cici; e questo sarebbe il primo documento in cui si nominano i Cici e
servirebbe a dimostrare, che Vlachi, Morlacchi e Cici sono tutt'uno.
Ed ora passiamo ad esaminare le due questioni che più c'interessano:
quando e donde vennero i Rumeni nell'Istria?
Sono dessi nati sul suolo istriano dall'unione di coloni romani cogli
abitanti indigeni, o sono
Rumeni, già parlanti il rumeno con tutte le sue
particolarità, vo' dire cogli elementi estranei ch'esso accolse là ne' paesi
dell'Emo, immigrati qui in epoche a noi più vicine?
Passando in rassegna le investigazioni e le deduzioni degli scrittori
nostrani e stranieri, ma specialmente quelle dei due insigni glottologi,
l'Ascoli ed il Miklosich, spero di poter dimostrare:
- che tanto i
Rumeni dell'isola di
Veglia,
ora estinti, quanto quelli dell'Istria ancora esistenti, ma quasi affatto
slavizzati, appartengono allo stesso ceppo;
- che con tutta probabilità vi
immigrarono nel sec. XIV dalla Maior Vlachia. (42)
Prima però di esaminare i lavori dell'Ascoli e del Miklosich, passerò in
rassegna le ricerche dei nostri e degli stranieri sui
Rumeni dell'Istria.
Il primo ad occuparsene si fu il pisinotto
Antonio Covaz, il quale pubblicò
nel 1846 un breve articolo dal titolo: Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria, e
riferì un saggiuolo della lingua [184] da essi parlata.
(43) Quanto alla loro origine, ecco com'egli si esprime:
Nè credasi che questa schiatta di gente da altre regioni in tempi a noi vicini nell Istria passasse...
l'immigrazione rimonta
a tempi pia lontani, e la colonia dei RinUiani dy Istria ha la stessa origine
di quelle che vediamo conservare la stessa lingua nella Dacia, Epiro, isole
dalmate e forse in più altri paesi.
Nello stesso anno 1846 la scoperta d'un aretta con lapide, rinvenuta a
Jesnovico (Jessenovizza?) presso l'Arsa a' piedi del
Monte Maggiore, (44)
offriva l'occasione al
Kandler (nella lettera ch'egli indirizza al parroco di
Vragna, Don Matteo Musina) di esporre indirettamente la sua opinione sui
Rumeni
d'Istria.
Dopo aver discorso della lapide, così il
Kandler conchiude:
penso che un
comune, quasi colonia di militi, vi fosse nella Valdarsa, alla quale Augusto
donò i terreni) e che posta fuori di ogni consorzio, conservò la lingua romanica
fino a questi tempi, in cui è per dare il luogo alla slava; e penso pure, che
simile colonia fosse nella valle di Castelnuovo a tutela della colonia di
Trieste, colonia, che per i più frequenti contatti, prima dei fratelli alVArsa
abbandonò la propria lingua.
Quest'opinione, accennata qui di volo, viene meglio esplicata dal
Kandler
nell'articolo: "Dei popoli che abitavano l'Istria" (45) e cioè, che i
Rumeni
della Valdarsa siano nati nell'Istria dal connubio di coloni romani col popolo
che allora l'abitava.
Egli dice (pag. 76) che una colonia fu collocata da Augusto nella valle
dell'Arsa, da Finale (Bogliuno) a
Felicia (Chersano),
[185] ch'è quanto dire, lungo il fiume Bogliunciza, dalle sorgenti al
lago
d'Arsa; e che questa colonia presidiava il passaggio del
Monte
Maggiore. Un'altra colonia venne posta nella vallata di Castelnuovo; ma che
questa non fu Augustea, ma sembra piuttosto che fosse Claudia, (pag. 77).
Dopo aver detto della calata dei Longobardi nell'Istria, delle scorrerie
degli Slavi (Sloveni?) Unni ed Avari, i quali, valicato il
Montemaggiore,
avrebbero uccise le guarnigioni e fatto una tale strage delle popolazioni nella
Valdarsa, che, "dura ancora la fama essere stata la valle coperta di
cadaverin egli prosegue, che i Croati occuparono il paese fra l'Arsa e la
Cettina nel IX secolo, e "convien credere, che frammistisi ai Liburni,
occupassero, non solo l'agro albonese, ma altresì le pendici orientali del Monte
maggiore." (pag. 78) "Le pia antiche popolazioni non furono cacciate ed
uccise, nè sull'agro albonese nè sulle isole (intendi del Quarnero); su
quello durarono lungamente le vestigie di altro popolo, su queste durano tuttora
di popolo che parlava il volgare romanico." Nel IX sec, continua il
Kandler, gli Slavi sono fra il Risano e la Dragogna... sulle alture dell'Istria
interna, intorno il filone che unisce
Lupoglau e
Pisino... pretti Latini vi
sono nella Valdarsa, intorno a
Pola, nella vallata di Castelnuovo...
Siccome il
Kandler accenna poscia al trasporto di Morlacchi in Istria nei
sec. XV, XVI e XVII da parte di Venezia e alle devastazioni degli Uscocchi, ciò
che segue deve riferirsi a quei secoli o ai seguenti.
Pag. 79. Nel territorio di
Trieste, in Opchina, rimanevan traccio della
lingua volgare latina, della rumena; rimanevano tracce di questa lingua sul
Carso di Pinguente, nella Valdarsa, — ed in altri tratti di paese non
precisabili. — Slave erano le pendici orientali del
Montemaggiore;
Fiume era
italiana, come eziandio
Fianona ed
Albona....
In mezzo alle popolazioni slave dell'interno durava la lingua rumena, e
coloro che la parlavano eran detti Ciceroni, Ciciliani, Cici, per la
pronunzia sonora del ci. Nell'interno dell'Istria la lingua romanica
aveva fatto luogo alla slava; il romanico usavasi come lingua familiare e delle
donne nei [186] villaggi di Gradigne,
Lettay,
Susgnevizza,
Villanova, Tepenovizza,
Berdo,
Cepich; vacillava in Chersusio (pag. 80) e
Cosliaco, era sparita dall'agro albonese; solo
Seiane manteneva la lingua, Mune
oscillava....
Pag 80. Quel terreno che oggidì è tenuto dai Cicci (che van distinti dai
Berchini) formava l'agro dei Giapidi, sul quale all'epoca romana venne condotta
colonia di soldati... Nella parte tenuta dai Cicci 200 anni fa si parlava il
romanico, oggidì ristretto alla sola
Seiane, che non tarderà a fondersi col
rimanente.
Rimangono ancora romanici nella Valdarsa, ove indizi certi fanno
ritenere, che vi fosse colonia, non di rango nobiliare, ma inferiore, però di
romani...
(46)
Carlo de Franceschi, il compianto estensore delle "Note storiche"
s'occupò nel 1852 nel giornale già citato delle varie popolazioni dell'Istria,
e quindi anche dei Cici e dei
Rumeni di Valdarsa. (47) Dopo aver riassunto quanto
da altri era stato pubblicato fino allora in tale proposito, ecco quale opinione
aveva egli sull'origine dei
Rumeni d'Istria:
(Pag 236) "Se i Rumeni provengono dalla nazione Daco-romana, ritengo che
sieno penetrati in Istria per la via di mare insieme cogli Slavi che
riscontriamo nel territorio di Albona ed in tutta la Valdarsa..., 9 E a pag.
235 egli spiega meglio il suo pensiero: uQuesta stirpe era sparsa per tutta
la Valdarsa e per Vagro albonese, però mista alla razza croata porfirogenita,
che venuta per mare dalla parte del Quarnero, occupò quel tratto di [187] paese. Si può credere, che i Romanici, venuti in questa provincia assieme ai
Croati porfirogeniti, avranno conosciuto la lingua slava per i mutui contatti
che forse duravano molti anni ancora al Danubio e nelle lente trasmigrazioni
assieme intraprese
..." Che questa tribù romanica pervenne per la via di
mare sbarcando sull'agro albonese, gliene fornisce un indizio forte (pag. 237)
il trovarne avanzi a Besca (48) sull'isola di
Veglia.
- Che poi la tribù croata dell'albonese e della Valdarsa venne dalla Dalmazia
marittima glielo dimostrano i cognomi... eguali a quelli delle isole e del
litorale della Dalmazia.Come si vede, il
De Franceschi si scosta di molto dall'opinione dei
precedenti scrittori, quanto all'origine dei
Rumeni d'Istria, e li vuole
immigrati; ma come vedremo più avanti, non concorda coll'Ascoli e col Miklosich
ne quanto all'epoca nè quanto alla via tenuta nell'immigrazione.
Un altro scrittore,
C. A. Combi, in un lavoro pubblicato nel 1869 dal titolo:
Cenni etnografici sull'Istria, s'occupò anche dei
Rumeni. (49) Dopo aver detto
delle loro sedi odierne e del prò continuo slavizzamento, quanto alla loro
origine, l'autore vede (pag. 110) "nei moderni avanzi romanici i discendenti
dei Latini di Roma".
Dello stesso argomento s'occupò il
Combi nella Rivista contemporanea
di Torino (50) ristampato poi nel volume Istria (51) ove a pag. 159, toccando
dell'origine di questi
Rumeni, dice: "si che il giudizio, ch'essi tenessero
un giorno tutto il confine [188] della provincia, coloni e soldati di presidio, ci vien fatto agevolmente,
anco senea riandare il passato, alla sola vista di quest'ultime reliquie di
Roma.... alle falde dei Caldiera."
Dunque il
Combi combina colla teoria del
Kandler, colla teorìa già nota, che,
cioè, i Rumeni d'Istria sieno nati ivi e sieno i discendenti di coloni romani.
(52)
Con questo lavoro cessano, dirò cosi, le investigazioni da dilettanti su
questi Rumeni; incominciano invece i lavori serii di giudici competenti in
materia, di glottologi, i quali, a base do' loro giudizi, pongono lo studio
della lingua parlata da questi
Rumeni ed istituiscono de' raffronti con quella
dei Daco- e Macedo-Valacchi, giusta i dettami della moderna filologia comparata.
Prima di passare ai lavori della seconda serie (1861-1900) fermiamoci un
tantino su questa teoria dei nostri scrittori, i quali, ove si tolga qualche
lieve scostamento, propendono a vedere nei
Rumeni dell'Istria gli avanzi di un
popolo nato dalla fusione di coloni romani colla popolazione che abitava
anticamente quella parte dell'Istria orientale, ove nei secoli scorsi abitavano
ed abitano tuttodì delle colonie rumene; un popolo dunque non immigrato, ma nato
sul suolo istriano; questo popolo poi, quantunque rumeno, si sarebbe lasciato
slavizzare dagli Slavi che li circondano da tutte le parti.
Vediamo un po', se una tale teoria possa reggersi.
Lasciamo da parte due fatti per noi ora poco importanti:
- le prove della specie delle colonie romane importate nella Valdarsa;
- quale sia stato il popolo preromano-istriano, il quale venne a contatto
colle supposte colonie romane.
I primi abitatori dell'Istria chi li vuole Traci, chi Uliri, chi Celti, chi
Liburni; (53) ma quand'anche sapessimo con [189] precisione a quale
di queste popolazioni appartenevano gl'Istri, (54) ci troveremmo di fronte a de'
nomi, a null'altro; in quanto che nulla si sa della lingua da essi parlata.
Non basta; quella parte dell'Istria, ove troviamo i
Rumeni, pare fosse
abitata dai Laburni, della cui lingua anche nulla sappiamo. Pare a me, che
questa teoria della fusione di un elemento romano-rustico coll'elemento indigeno
preromano, possa esser invocata piuttosto per ispiegare i dialetti italiani
dell'Istria occidentale, specie della costa; anziché per rendersi conto di un
dialetto rumeno isolato; parlato da pochi, e proprio in quella parte dell'Istria, che meno reliquie conserva della subita romanizzazione!
Esaminiamo la lingua parlata da questi
Rumeni, e vedremo, che questa teoria è
insostenibile. — Come vedremo più avanti, il dialetto istro-rumeno ritrae del
daco- e del maoedo-ruxneno; ma dopo le indagini più recenti, lo si avvicina più
al macedo-rumeno. (55) Ora teniamo ben presenti questi due fatti:
- quali elementi concorsero a formare la lingua rumena?
- quali risultati se n'ebbero?
Non si può dire con precisione, ma quasi tutti i dotti s'accordano nel dire i
Daci appartenenti al numeroso e assai sparso popolo traco-illirio. (56) Anche le
colonie romane venute a contatto coi Daci ci sono ignote; sappiamo però che
furon scelte da tutto l'orbe romano. (57)
[190] Ebbene, dall'innesto del latino rustico parlalo da questi coloni tolti da
tutto il mondo romano su base traco-illiria, ai ebbe una lingua neo-latina
speciale, la rumena.
Abbiamo visto però, che a formare questa lingua concorsero molti altri
elementi, come il vetero-sloveno, il bulgaro-turanico, l'antico illirico o
albanese, lo slavo, il magiaro, il neo-greco ed il turco.
Ora, il rumeno dell'Istria assomiglia al rumeno della Dacia e della
Macedonia; quindi dobbiamo ritenere, che per produrre gli stessi effetti, vi
dovevano concorrere le stesse cause; in altre parole:
- la popolazione dell'Istria, ove abitano oggidì i
Rumeni, doveva essere
eguale a quella della Dacia;
- le colonie romane venute a contatto con essa, dovevano esser eguali a
quelle trasportate da Traiano nella Dacia;
- la lingua nata da questo connubio ebbe
l'occasione di accogliere in sè, nell'Istria, tutti quegli elementi estranei
poc'anzi accennati, che la colonia di Traiano accolse invece là nelle lontane
regioni dell'Emo, regioni che furono il teatro di tante trasformazioni etniche!
Chi mai potrà ammettere una simile coincidenza di cause e di effetti! —
Nessuno.
Vediamo ora, se sia accettabile la teoria del
De Franceschi.
Egli ammette:
- che i
Rumeni dell'Istria provengano dai
Rumeni della Dacia;
- che siano immigrati nel secolo IX insieme coi Croati, e per la via di
mare;
- che l'elemento slavo, ch'entra nella lingua parlata dai
Rumeni
d'Istria, debbasi ascrivere ai contatti di questi coi Croati al Danubio e nelle
trasmigrazioni assieme intraprese.
Che questi
Rumeni siano venuti in Istria per la via di mare, lo consiglia il
fatto, nel trovare dei
Rumeni a Besca sull'isola di
Veglia;
(58) che i Croati dell'agro albonese e della Valdarsa sieno venuti dalla Dalmazia
marittima, lo persuadono [191] i cognomi (ed i costumi) di questi, eguali a quelli delle isole e del
litorale della Dalmazia.
Come si vede, la teoria del
De Franceschi ha molti punti di contatto colla
teoria propugnata dall'Ascoli e dal Miklosich, che, come vedremo, vuole i
Rumeni
d'Istria immigrati e non nati sul suolo istriano; soltanto egli si scosta da
loro nell'epoca dell'immigrazione; poi, non essendo filologo, ascrive
l'intrusione dell'elemento slavo nel rumeno d'Istria a cause non vere; e
finalmente, senza volere, entra nella questione della venuta dei Croati in
Istria, che, a rigor di termine, non entra direttamente nell'argomento da noi
trattato. L'opinione che i Croati avessero occupato l'agro albonese e la
Valdarsa, nel IX sec. come abbiamo veduto, era condivisa anche dal
Kandler;
soltanto egli riteneva, che i
Rumeni della Valdarsa originavano da colonie
romane ed abitavano colà prima dei Croati. Tanto l'uno che l'altro sono indotti
ad abbracciare quest'opinione dal racconto della venuta dei Croati in Dalmazia e
Croazia che ne fa Costantino Porfirogenito nel suo libro "De administrando
imperio", e al noto passo sui confini settentrionali della Croazia, dalla
parte dell'Istria orientale, fin oltre ai Caldiera; (59) ma gli studi critici
recenti del Dr.
Benussi, nel suo reputatissimo lavoro: Nel Medio Evo,
dimostrano il contrario e mi dispensano dal fermarmivi ulteriormente. (60)
Io non andrò certamente ad ingolfarmi qui in una questione, che non entra nel
mio argomento, cioè, quando e come vennero i Croati di qua dal
Monte maggiore;
quello che puossi accettare con qualche certezza si è:
- che l'elemento slavo
della lingua rumena entrò in essa già nei paesi dell'Emo-Balkan, ed i
Rumeni
d'Istria l'avevano già nella loro lingua, quando vennero qui;
- che singole
parole slave entrarono nella loro lingua anche nell'Istria, sia dai Croati che
dagli Sloveni moderni, ma in tempi recentissimi;
- che ripugna [192]
a credere, che i Croati sieno venuti nelle regioni accennate dell'Istria nel IX secolo e per via di mare, ciò che sarebbe stato assai difficile;
- che non consta da nessuna fonte attendibile, che di
Rumeni ci siano stati
mai a Besca; sibbene a Castelmuschio, Dobasnizza e Poglizza, villaggi dell'isola
di
Veglia;
- che l'eguaglianza dei costumi, della lingua, dei cognomi dei Croati dell'agro
albonese e della Valdarsa (e dicasi pure: del Pisinato e della Liburnia) con
quelli delle isole e del litorale della Dalmazia, dimostrano soltanto la loro
comune origine; si può però tenere per certo, che non sono venuti per mare, si
bene per terra; non nel IX sec., ma nei secoli seguenti, e per lenta espansione.
La venuta dei
Rumeni poi nell'Istria avvenne più tardi, come vedremo; e non
ha nulla di comune colla venuta dei Croati.
A queste opinioni, dettate ai nostri dall'amor di patria, ma non sorrette da
prove e che non reggono ad una critica seria, bisogna contrapporre un'altra,
che proviene dai raffronto della lingua, in quanto che la storia, nel caso
nostro, non ci aiuta affatto.
Questo raffronto, dovuto a due linguisti di fama nota e riconosciuta, ha
posto in sodo, che il dialetto istro-rumeno ritrae d'ambo i dialetti
rumeni,
cioè, deldaco e del macedone, ma più di quest'ultimo.
Gli è perciò, che bisogna cercare la patria originaria dei nostri
Rumeni, non
nell'Istria, ma nei paesi attorno all'Emo, ove ebbero origine ambo i rami dei
Rumeni o Valacchi, cioè, tanto il ramo settentrionale (Daco-Rumeni) quanto il
meridionale (Macedo-Rumeni); bisogna poscia cercare la via da essi tenuta nella
immigrazione, e stabilire, almeno approssimativamente, l'epoca nella quale
vennero nell'Istria. A queste questioni rispondono i lavori della seconda serie,
che incominciano col 1861.
Il primo che studiò scientificamente il dialetto rumeno della Valdarsa si fu
l'insigne glottologo G. I. [Graziadio Isaia] Ascoli, il quale, avuto il materiale nel 1860
dal parroco Antonio Micetich, nativo di
Berdo —
ch'ebbe quasi a lingua materna il rumeno di Valdarsa e ch'era ignaro affatto
degli altri due dialetti
rumeni
[193] — pubblicò nel 1861 i risultati delle sue indagini negli Studi critici.
(61)
L'Ascoli adunque, da quel glottologo competente che si è, sebbene a
malincuore, ribatte l'opinione del
Combi iutorno all'origine dei
Rumeni o
Valacchi dell'Istria. Di questi (e di quelli dell'isola di
Veglia)
s'era occupato, ne' suoi Studi linguistici anche il filologo lombardo
Biondelli; ma come avverte lo stesso Ascoli, al Biondelli non giunsero che
notizie imperfette su codesti
Rumeni, e quindi anche i giudizi suoi non sono in
tutto attendibili. L'Ascoli, a giorno di quanto s'era detto e stampato fin li
su questi Rumeni, dall'esame linguistico da lui fatto, dice doversi recisamente
rifiutare l'opinione del
Combi (cui accede il
Kandler) "che vede nei
Rumeni d'Istria i discendenti dei militari romani e dei coloni latini, onde
sarebbersi munite a' tempi di Augusto le frontiere della provincia e
popolati i suoi monti di confine e le terre dell'Arsa." (pag. 52).
Secondo tale ipotesi, il latino rustico di codesti coloni romani si
conserverebbe nel rumano delle accennate regioni dell'Istria, (pag. 53),
come il latino rustico d'altri coloni romani ci è mantenuto nel rumeno della
Dacia (valaco, daco-romano); e la consonanza dei due parlari rumeni
(Daco- e Istro-Rumeno) altro non proverebbe, se non comunanza di romana
origine. Ma ciò è ben lungi dal vero. Noi vedremo che si tratta di due idiomi
(prescindiamo per il momento dalle varietà del valaco extraistriano) "i
quali debbono ritenersi uno idioma istessissimo, e il cui fondamento latino si
mostra affetto di tanti e tali peculiari alteramente in parte non lieve dovuti
ad influsso straniero, che, il volerne supporre fortuita coincidenza nei due
paesi, ripugna assolutamente alla ragione; ond'è che non esiteremo ad annoverare
i Rumeni d'Istria, d'accordo col Biondelli, tra quelle genti, che per sottrarsi
alla barbarie degli Osmani migrarono in cerca di nuova patria."
(62)
[194] Finito l'esame del rumeno valdarsese, nel quale riscontra delle
caratteristiche comuni ai dialetti tnacedo- e daco-rumeno,
riporta il Padre nostro dei Valdarsesi (che fra parentesi somiglia
quasi perfettamente a quello dell'isola di
Veglia)
e poi conchiude:
"Diremo che Dacoromâni e Macedo Valachi sien venuti a
mescolarsi nell'Istria, o non diremo piuttosto.... che il rumeno di Valdarsa
rappresenti un dacoromano più antico di quel che oggidì si parla (o meglio
si scrive)
in Valachia, un dacoromano in cui si mantengono
certi caratteri di antichità proprio tuttora dei macedo-valachi, ma perduti nel
dacoromano moderno? (63)
"Gli elementi slavi del rumeno di Valdarsa.... conterranno per avventura
qualche prezioso adJitamento circa la precisa patria di codesti coletti....
comunque sia.... nessuno vorrà più mettere in dubbio il valachismo di questo
dialetto Valdarsese. Il quale non è quindi
(come credono i letterati d'Istria) una diretta
propaggine latino-istriana, ma sì il latino rustico elaborato compiutamente a
nuova liu, ma, tra ogni specie di straniero influsso, là negli ultimi paesi che
il Danubio bagna."
(64)
Io credo, che queste parole non han bisogno di commenti.
Dunque già l'Ascoli, un glottologo cui bisogna fare tanto di cappello,
sentenziò:
- la lingua parlata dai Valdarsesi è rumena;
- questa lingua non è nata qui, ma nei paesi del Danubio inferiore e vi
venne importata.
Quando, non à detto chiaramente; è detto però, da un popolo che, per
isfuggire alla barbarie dei Turchi, venne in cerca di nuove sedi; dunque, se non
nel secolo XIV, almeno nel secolo XV.
Ma eccoci finalmente giunti al creatore, si può dire, degli lstro Rumeni
e del terzo dialetto rumeno, cioè, dell'istro-rumeno, che viene
accettato oggidì da tutti coloro che si occupano di romanologia.
Quest'uomo, conosciuto nel mondo glottologico [195] per i tanti
lavori pubblicati, che consacrò tanta parte di sè allo studio del rumeno, è il
rinomato slavista, già prof, dell'Università di Vienna, Fr. Miklosich, morto nel
1896.
Il suo primo lavoro sui
Rumeni dell'Istria uscì nel 1862, in appendice al
lavoro: "Die slavischen Elemente im Rtununischen."
(65)
Egli lavorava all'insaputa dell'Ascoli, ma le conclusioni dei due filologi
sono le stesse. Il Miklosich, conoscitore profondo di tutte le questioni
dibattute fra i dotti circa l'origine dei
Rumeni e della loro lingua, non si
perde in lunghe disquisizioni, ma taglia corto. Anche delle questioni circa l'origine dei
Rumeni d'Istria egli ha piena contezza; anzi riporta le prove della
lingua che s'erano stampate sin lì, e su queste appoggiato, fonda il suo
giudizio. Queste prove consistono:
- nei due raccontini del
Covaz,
pubblicati nel giornale
l'Istria (66): Doi omir amnat a en ra se calle.... e Jarna
fost a, e cruto race...
- nel Pater Noster, l'Ave Maria ed il Credo, pubblicati nelle Novise di Lubiana (67) in e 22 proverbî dettati dal cooperatore di Mune, prima di
Susgnevizza, Don Lor. Rakovez, il quale offrì al Miklosich anche una piccola
raccolta di vocaboli di
Xejane e
Susgnevizza.
Delle voci ch'entrano in queste poche e brevi composizioni (350 circa), egli
ci dà un piccolo vocabolario, colla spiegazione e la relativa derivazione; di
queste 360 voci sono di origine slava 113.
Il Miklosieh dunque, dopo aver accennato all'opinione del
Kandler, quanto
all'origine di questi
Rumeni, opinione che già conosciamo, contrappone la sua:
All'opinione (così dic'egli press'a poco) che i
Rumeni d'Istria sieno nati lì,
bisogna contrapporre un'altra che nasce dalla somiglianza della lingua dei
Rumeni istriani con quella dei
Rumeni abitanti intorno al Mar Nero ed Egeo.
Secondo questa opinione (che come abbiam [196] visto è pur quella dell'Ascoli) si fanno derivare dal Danubio inferiore, nel
paese dell'Emo, (68) ambo i rami del popolo rumeno, cioè, i Macedo- e i
Daco-Rumeni; e quantunque in questo primo lavoro il Miklosich non lo dica
chiaramente, si bene nei lavori successivi, la deduzione è questa: Se i
Rumeni
d'Istria parlano una lingua che ritrae dei dialetti macedo- e daco-rumeno,
cercate la patria dei primi nella patria dei secondi, dunque al Danubio
inferiore.
Prima di passare al secondo e più importante lavoro del Miklosich sui
Rumeni
d'Istria, conviene ch'io dica due parole di due altri scrittori, intendo del
Maiorescu e del Bidermann. Il letterato rumeno
Giovanni [Ioan]
Maioreseu visitò
l'Istria e l'isola di
Veglia,
collo scopo precipuo di raccogliere il materiale e studiare il rumeno delie due
regioni ancora nel 1857; ma la lettera, di cui ci occuperemo tosto, venne
pubblicata appena nel 1872. (69)
Nel 1874 pubblicò poi a Jassy, quale frutto delle sue ricerche, il libro:
"Itinerar in Istria şi vocabular istriano-roman."
Nella lettera stampata nel 1872 (e diretta al
Covaz nel 1861) il
Maiorescu
descrive dapprima il suo viaggio di 12 giorni, fatto a piedi da villaggio a
villaggio nella Valdqrsa, ove da quei
Rumeni, specie da quelli di
Xejane
(ch'egli scrive Jejune, da pronunciarsi Xejune) venne ricevuto
oome un apostolo. Fu anche a Poglizza, sull'isola di
Veglia,
ove un vecchio di 80 anni si ricordava ancora di alcune espressioni rumene. I
Poglizzani lo assicurarono, che i loro antenati erano Vlachi, cioè,
Rumeni. A
Veglia
conobbe il Dr.
[Giambattista] Cubich, ma questi parve geloso del suo manoscritto (che
conteneva una raccolta di voci e di modi di dire dell'antico dialetto di
Veglia,
e che fu poi pubblicata nel 1861 (70) nel giornale
L'Istriano, N.ri 13, 14, 16 e 17, e ripubblicate nelle Notizie
naturali e storiche sull'isola [197] di
Veglia,
(71)
e gli concesse di confrontare soltanto il Padre-nostro e l'Avemaria dei
Poglizzani (72) col testo di quelli di Valdarsa. Anch'egli trovò, che la lingua
rumena di Poglizza è eguale a quella di Valdarsa e di
Xejane.
Racconta egli ancora, che il Dr. Cubich gli lesse qualche cosa "di altra
lingua romantica" (sic!) usata nella città di
Veglia
e ne' suoi dintorni, e soggiunge ancora, che fra tutti i dialetti romanici a lui
noti, questo (della città di
Veglia)
si accosta di più al rumeno. (73)
Ecco le conclusioni del Maiorescu: (74)
Dopo la colonizzazione della Dacia con coloni romani, tutte le regioni fra il
Danubio e l'Adriatico si copersero con colonie rumene, parlanti una lingua
romanica. La trasmigrazione dei Barbari ha causato degli spostamenti in queste
colonie rumene, in sostanza però la popolazione rumena rimase sul suolo
primiero. Cessate le incursioni dei Barbari, le popolazioni rumene si rialzarono
e nei sec. VII e VII) formarono dei piccoli stati o Banati, alcuni dei quali
esistettero fino al IX e X secolo.
[198] Gli odierni Vlahi o Morlacchi (i Maurovlahi del prete Diocleate) che
parlavano un dì la lingua dei Vlahi della Moldavia e Valachia, della Macedonia e
Tessaglia, e che lasciata la propria lingua, si distinsero dai Croati della
Croazia e Dalmazia soltanto per il rito religioso (greco), come i Vlahi o
Morlachi dell'Istria, che accanto ai Croati conservano la lingua romanica,
soltanto in pochi villaggi, ma che 170 anni fa, per dichiarazione di Fra
Ireneo
della Croce, si estendevano anche sul Carso di
Trieste e di Castelnuovo....
sono i miseri avanzi di quei medesimi Romani o Vlahi che nei sec. VII, VIII e IX
formarono i Banati di Croazia e Dalmazia... (75)
Anche il professore neir Università di Graz, H. J. Bidermann (morto nel
1896) porta un generoso contributo sui
Rumeni dell'Istria, rispettivamente sui
Morlacchi e Cici, nel suo lavoro "Die Romanen und ihre Verbreitung in
Oesterreich„ (76) Egli, dopo aver riassunto i lavori pubblicati prima del 1877
in questo proposito, concorre col suo — quantunque più con dati storici che
linguistici — a gettare nuova luce sulla questione dell'origine e della venuta
dei Morlacchi e Cici nell'Istria, e con ciò dei
Rumeni. Egli conosce il
documento del 1463 (77) in cui si nominano i Cici per la prima volta; e pone
questo documento in istretta relazione con due altri, uno del 1465, [199] l'altro del 1468, che parlano di Vlahi (nella traduzione italiana Morlacchi)
importati sull'isola di
Veglia
dallo stesso conte Giovanni Frangipani; (78) sicchè anche da questi documenti
[200] possiamo tirare la dedazione:
- che Vlahi, Morlacchi, Cici, gli è tutt'tmo,
e che tutti sono
Rumeni, come lo dimostra la lingua da essi parlata fino a pochi
secoli fa;
- che vennero dalla vecchia Croazia (Erzegovina) fuggendo dai
Turchi, e si stabilirono sul Carso rimasto deserto in conseguenza delle
precedenti scorrerie dei Turchi.
Si cerchi, dic'egli, la patria dei Cici o
Morlacchi nel paese posto fra il mare e i fiumi Unna e Verbas, al Velebit, e
nelle regioni al settentrione e al mezzodì di questo. (79) Quello che non mi sembra
accettabile si è, che questi Cici dell'Istria, siano qui venuti dalla terraferma
passando oltre air isola di
Veglia.
I documenti del 1465 e 1466 che trattano di Vlahi (Morlacchi) o
Rumeni
dell'isola di
Veglia,
dicono soltanto che quelli di Castelmuschio o di Dobasnizza vennero importati
sull'isola dal conte GK Frangipani, senza dubbio da' suoi possedimenti nella
terraferma, specie dalla Corbavia....s) e questi Vlahi o Morlacchi appariscono
col nome di Cici nella guerra del 1463 tra le genti del conte e quelli di
Bogliuno, Vrana,
Brest,
Pisino... ma da ciò non viene, che quei Cici che 60 anni
più tardi (1523) occuparono il Carso deserto, sieno venuti dall'isola di Voglia,
ciò che sarebbe stato difficile; tanto più che negli stessi anni troviamo già i
Cici nel' territorio di
Trieste, (80) ed anche in quello di
Capodistria.
(81)
[201] Quanto all'opinione, che questi Vlahi, Morlacchi, Cici, venuti nell'Istria,
erano già un miscuglio di Croati e
Rumeni, sono d'accordo con lui; ma che questi
parlassero ancora rumeno, ne abbiamo le prove nella lingua usata, nei secoli
scorsi, dai Cici e Morlacchi del Carso, da quelli di
Xeiane, della Valdarsa e
dell'isola di
Veglia,
fino al giorno d'oggi; bisogna però farvi in questo proposito una piccola
distinzione. Se si tratta di Vlahi, Morlacchi, Cici del sec. XIV o tutt'al più
XV, questi parlavano ancora rumeno misto di slavo, quando vennero nell'Istria;
se si tratta invece di Morlacchi, Cici, dei sec. XVI e XVII, importati da
Venezia in Istria dalla Dalmazia, a riempire i vacui causati dalle pesti, cui il
De Franceschi chiama Morlacchi novissimi,
(82) ritengo per certo, che
questi non parlavano più rumeno, quando vennero in Istria, e ciò per molte
ragioni:
- Questi non lasciarono tracce della lingua rumena; ma sono oggidì
serbi, come lo erano quando vennero;
- Che cosi sia stato lo eruisco dal fatto,
che i Morlacchi venuti nel territorio di
Rovigno
(83) nel primo quarto del sec.
[202] XVI (1526) chiesero si concedesse loro un zupano (e non un podestà), che
tutti i cognomi di detti Morlacchi sono già slavi, che il capitolo di
Rovigno nel 1596 fu obbligato
"di preveder a detti Murlachi un Prete
schiavo atto et idoneo alla cura dell'anime loro..
(84)
Avvenne del nome Morlacchi ciò che presso gli Slavi avvenne del nome Vlahi.
In origine Morlacco (Maurovlaco, Negro Latino, in islavo Vlah) significò un
Rumeno; col tempo Morlacco significò un abitante della Morlacchia, di costumi
eguali al primo, fora'anco lontanamente derivante dal primo, ma parlante, non
più il rumeno, bensì lo slavo; Vlah fu detto un Rumeno, più tardi un pastore
della Bosnia, che esercitava la pastorizia come i
Rumeni, ma non parlava più
rumeno. E di fatti il
Maiorescu
(86) ci avverte, che gli Slavi dell'Istria chiamano
Vlahi tanto i
Rumeni della Valdarsa quanto i Morlacchi serbo-dalmati importati
nell'Istria nei sec. XVI e XVII.
Del resto, sorvolando su tante altre cose dette dal Bidermann, che non hanno
certo interesse per noi, mi piace osservare, che anch'egli (85), riferendosi ai
lavori di tre competenti in materia, (87) trova una consonanza fra la lingua dei
Rumeni d'Istria e quella dei Macedo-Rumeni, e ne deduce doversi supporre una
lunga comune dimora dei progenitori d'ambedue queste schiatte, là nella
penisola balcanica, dalla quale emigrarono e vennero nell'Istria.
Soltanto l'epoca a ciò da lui assegnata è un po' tarda, cioè, nei secoli XV o
XVI.
Ed ora passiamo al secondo lavoro del Miklosich, che essendo uscito appena
nel 1880; dunque dopo quello del [203] Bidermann, dal quale ricava alcuni dati sui Cici e Morlacchi dell'Istria, e
alla distanza di 20 anni dal suo primo lavoro, contiene delle notizie più
interessanti e dei giudizi più precisi sulla questione dei
Rumeni d'Istria, che
non contenesse il suo primo lavoro.
Il titolo di questo secondo lavoro del Miklosich si è:
"Über die Wanderungen der Rumunen in den dalmatinischen Alpen und den
Karpaten" (88)
e fu pubblicato nel vol. XXX delle Denkscriften...
dell'Accad. di Vienna.
Riassunto anche qui quanto si sapeva da lui e da altri sulle sedi dei
Rumeni
d'Istria, detto che una volta dovevano estendersi dal golfo di
Fiume fino a
quello di Trieste... quanto all'origine di questi
Istro-Rumeni, così il
Miklosich (pag. 2):
"Dovedi respingere l'opinione, che questo popolo sia nato
nella sua odierna patria dalla fusione d'un elemento indigeno con coloni romani,
perchè la lingua da esso parlata sta a quelli dei Daco- e Macedo-Rumeni in tali
intimi rapporti di affinità, da non poterla accettare per verosimile."
A questa opinione si oppone anche il fatto, che nella lingua degli
Istro-Rumeni v'hanno delle voci d'origine slava, le quali non possono essere
state prese ne dalla lingua degli Sloveni nè da quella dei Croati d'Istria, ma
devono derivare dalla lingua dei Bulgari.
Dopo aver indicate queste voci d'origine bulgara, l'A.
soggiunge:
'"Diese
Worte zeigeny dass die Rumunen Istriens aus einem auch von Bulgaren bewohnten
Lande stammen."
Ma siccome questo contatto non avvenne nell'Istria, bisogna ritenere, che
avvenne altrove, e propriamente nei paesi dell'Emo, come fra breve vedremo.
Ed ora l'A. si fa queste domande:
- qual è la patria originaria dei
Rumeni d'Istria?
- per quale via vennero essi dalla loro patria originaria nelle odierne
sedi?
- quando avvenne la loro migrazione nell'Istria?
Ecco le sue risposte: [204]
Ad I. Egli dice, che bisogna cercare la patria dei
Rumeni d'Istria nella
patria originaria dei Romeni.
La qual patria originaria dei
Rumeni
è stata spesse volte trattata, ma non fu ancora risolta. Tuttavia l'A. è
dell'opinione, doversi ricercare la patria originaria dei
Rumeni al messodì del Danubio. Poi soggiunge:
"Von da
stammen auch die Rumunen Istriens."
Ad II. Per poter rispondere alla seconda domanda l'A. getta uno sguardo su
quei Rumeni che una volta abitavano nei territori dei Serbi e dei Croati, e s'intrattiene quindi:
A. Sui Rumeni nel territorio serbo.
Gli è noto, dic'egli (pag. 3) che nei documenti serbi vien fatta più volte
menzione dei Vlachi. — Vlah si traduce egualmente:
- I. con romanus, e s'intende con ciò un cittadino italiano
delle
coste dalmate, specie un Raguseo.
- II. con pecuarius (allevatore di bestiame). Il primo significato si
attribuisce soltanto raramente alla parola, e dopo il 1260 sparisce
completamente. Quanto al secondo significato, questo si è sviluppato da "omanus"
nel senso in cui questa parola s'identifica con
Rumeno. Quando
vlah non significava più un
Rumeno, ma un allevator di bestiame, non ci è
dato precisare. Nella metà del secolo XII i Vlachi erano ancora rumeni; come
apparisce dalle parole del Diocleate (Presbyter Diocleas) (89) ...Latini, qui
illo tempore Romani vocabantur, modo vero Moroulahi, hoc est Nigri Latini
vocantur." (90) Con ciò si spiega la severa scissione fra Serbi e
Vlachi; tanto che i matrimoni fra Serbi e Vlachigne era accompagnato da dannose
conseguenze legali.
[205] La nazionalità romena dei Vlahi serbi risulta da innumerevoli nomi
rumeni
(seguono molti nomi); di questi una parte (come Bukor, pulcher) sta in
relazione con appellativi rumeni; laddove un'altra (come Dragul)
tradisce la sua origine rumena soltanto coll'articolo ul aggiunto alla
radice drag (che è slava).
Con vlah il Serbo designa il Rumeno, specie il settentrionale,
dovunque egli viene a contatto con essolui, così nella Serbia orientale come nel
Banato: il meridionale egli lo chiama Zumar; (91) il Bulgaro comprende con
vlah sì l'uno che l'altro.
Opposto al nome vlah (lat. vlacus, blacus) stava e sta tuttodì
un nome mezzo slavo: i documenti latini chiamano il popolo morovlahi,
moroblachi, più tardi morlachi, ital. morlacchi, un nome il
quale non istà in relazione con more, (mare), ma è identico col greco di
mezzo [Greek text].
Una ragione della denominazione dei
Rumeni quali Negri Vlachi non è
stata trovata; (92) il nome si trova presso i Serbi quale Karavlah accanto a
vlah. La voce morlacco ha esteso nei tempi posteriori il suo
significato; giacchè si denominavano con essa non soltanto i veri
Rumeni, ma
anche gli abitanti [206] slavi della terraferma. Nelle Relazioni venete della prima metà del
sec. XVI, tutti gli abitanti slavi della terraferma, tanto al Quarnero e nella
Dalmazia settentrionale quanto presso Cattaro ed Antivari, si dicono
morlacchi. (93) Nello slavo il nome [Greek text] non ha preso piede, se non
s'intende forse il nome mertovlassi, col quale si denominano gli abitanti
del confine fra Castagnizza e Novi, quale corruzione di morovlassi:
Mertovlassi è anche il nome d'un villaggio nel Comitato di Poxega. (94)
I Vìachi erano allevatori di bestiame, i quali parte abitavano in
luoghi fissi (catun, regio pastoria) (95) parte
erravano coi loro
cavalli, colle loro
pecore e
capre, da monte a monte, da
pastura a pastura. Si deve dare un gran peso a questo tratto caratteristico del
popolo rumeno: esso spiega la sua ulteriore dilatazione, e con ciò il grande
significato del popolo rumeno per la storia dei territori siti tra i due mari, e
dei paesi finitimi fino a grandi distanze.
Coll'allevamento del bestiame andava di pari passo unito presso i Vlachi il
caseificio ed il commercio delle carovane.
II formaggio dei Vlachi aveva una tale importanza nel traffico dei Ragusei,
da venir adoperato, accanto al metallo monetario, come mezzo di pagamento. Il
prezzo del caseus vlachescus, vlachiscus (brença in un docum. dell'a.
1357) veniva stabilito dall'Autorità. Possessori di animali da soma, i Vlachi
portavano a Ragusa piombo bosniaco, e prendevano da Ragusa, e da altre città
della costa, tra le altre merci specialmente il [207]
sale,
che ha nella storia di questi paesi una grande importanza. Nell'lllyricum sacrum del Farlati (VI, 28) si può leggere una notizia del 1440,
in cui si fa cenno del commercio che, circa una statua si faceva ...ab
advenis Moralachis.
Dalle notizie che riferisco in nota (96) si vede che i Vlachi erano noti a
Ragusa al principio del XIV sec.
Della lingua di questi Vlachi ci sono rimaste alcune poche parole nel serbo
parlato in quelle regioni, fra altre: turma, carovana nel Montenegro, e
turmar, cocchiere da nolo, usato in Croazia (in rumeno turma vale
gregge); brença, formaggio vlaco, usato generalmente nei Carpazî, e che
da qui si è diffuso nei paesi vicini.
B. Rumeni nel territorio croato.
Un dì c'eran dei
Rumeni sull'isola di
Veglia,
lungo le coste orientali del Mare Adriatico, nell'interno del paese
(Binnenland) e ce ne sono ancora oggigiorno nell'Istria.
a) Rumeni sull'isola di Veglia.
Che oggidì sull'isola di
Veglia
non si parli più rumeno è fuor di dubbio. (97)
Che però una volta ci fossero su quest'isola dei
Rumeni, specie nei villaggi
di Dobasnizza e Poglizza, ce lo attestano i documenti, i quali parlano di
Morlacchi contrapposti ai Croati, proprio come in Serbia si
distinguono i Vlachi dai Serbi. (98)
[208] Che i Murlachi dell'isola di
Veglia
erano identici con quelli della Dalmazia e dell'Istria, e che furono trapiantati
nell'isola nei villaggi di Dobasnizza e Poglizza dai conte Giovanni Frangipani,
trasportandoli dalle sue possessioni di terraferma (i Frangipani avevano vaste
possessioni nel Vinodol e nell'interno della terraferma fino a Modrussa) devesi
ritenere come cosa certa, ciò avvenne circa tra il 1450 e 1480. (99)
Un dubbio solo può sorgere in proposito; se cioè, questi Murlachi, all'epoca
del loro trapiantamene, avessero già parlato il croato o ancora il rumeno; un
dubbio che sparirebbe per colui che a torto ritenesse l'Istria per loro patria
antica. Per dimostrare, che questi Murlachi, non soltanto ai tempo [209]
della loro immigrazione, ma benanco al principio di questo secolo, parlavano
il rumeno, possono citarsi il Padre nostro e l'Avemaria che pochi anni avanti si
raccolsero dalla bocca di un vecchio Poglizzano, morto nel 1876. (100)
Quest'è l'unica prova della lingua rumena dell'isola di
Veglia.
"Es isl nicht behannt, dass sich (il rumeno dell'isola) in der Sprache
der Veglianer (si allude all'antico dialetto della città di
Veglia)
eine Spur der rumunischen erhalten habe".
(101)
b) Rumeni alle coste orientali del mare Adriatico.
Il nome vlah ha nel croato e nel serbo molti significati: esso
significa in serbo il Valacco, cioè, il Rumeno al basso Danubio, il quale in
certe regioni vien detto Karavlah; nella Bosnia e nell'Erzegovina indica
vlah nella bocca dei Turchi e dei cattolici, e da questi in Austria (ad
eccezione della Dalmazia) gli appartenenti alla chiesa greca; la voce vieti,
in questo significato, rinchiude un certo scherno; presso gli abitanti delle
città, dei mercati e delle isole della Dalmazia vlah significa un
abitante del continente senza distinzione religiosa: questi poi da se stessi
adoperano il significato di vlah pari all'italiano Morlacco. Di qui
provenne il nome di Canal della Morlacca o della Montagna.
(102)
Dalle cose anzidette risulta, che i Vlachi una volta appartenevano alla
chiesa greca; il che à comprovato da un documento del 1373. (103)
I Vlachi alle coste orientali del mare Adriatico vengono nominati più volte:
nel citato documento del 1373, un distretto fra la Bosnia e la Oorbavia,
chiamasi Maior Vlachia.(104)
[210] I Vlachi appariscono in un documento del bano Nicolò de Zeech del 1362, ove
si parla di una "particula gentis Morlachorum,, e viene stabilito, che i
Morlacchi non possono stabilirsi nel territorio della città di Trau: "Nullus
Morlachorum nec aliqua gens de illorum progenie..."
(105)
Dei Vlachi si parla hi un documento del 1412 del re Sigismondo, nei dintorni
di Sebenico; (106) ed in un altro documento dello stesso anno si fa cenno dei
Morlacchi. (107)
Io credo, conchiude il Miklosich, che questi Vlachi non si possono separare
ne da quelli del territorio serbo nè da quelli dell'Istria.
c) Rumeni nell'Istria.
Sopra i Rumeni dell'Istria, dice il Miklosich, s'è osservato qualche cosa più
sopra; più estesamente s'è detto nel vol. XII delle Denkschriften pag. 55-69 (e
allude al lavoro: "Die Slav. Elem. im Rumun.")
Quando essi abbiano toccato il suolo istriano, non si lascia precisare; la
qual cosa non deve meravigliare, trattandosi di un popolo che si spinse avanti
(dai paesi originari) non già in grandi masse, ma in piccoli gruppi, e cosi ci
vien data la ragione eziandio, che la loro venuta non venne notata dai cronisti.
Dai dati sopra citati si può ammettere, che la loro immigrazione nell'Istria
sia avvenuta circa nel sec. XIV, e che siano venuti dalla Maior Vlachia.
Dopo che i Rumeni, stabilitisi in territorio serbo e croato, circondati tutt'all'intorno da Slavi, si sono già da lungo tempo slavizzati, i
Rumeni
dell'Istria stanno, coi loro compagni di lingua meridionali fuori di ogni
relazione. Il fatto che i
Rumeni dell'Istria non si sono [211]
slavizzati, può venir spiegato soltanto dall'aver essi vissuto compatti
assieme. Ciò che spetta alla lingua degli Istro-Kumeni, qui si daranno delle
nuove prove, oltre a quelle portate in appendice al lavoro: Die slav.
Eletti... nel voi. XII delle DenJc-schriften... dell'Accad. di
Vienna. Udiamo la conclusione:
"Dalle cose dette consegue, che i Rumeni sono penetrati in territorio serbo,
partendo da un punto della penisola dell'Emo; da lì proseguirono verso
settentrione in regioni abitate da Croati; non già in grandi masse, ma in
piccoli gruppi, quali pastori erranti, epperò sema far del chiasso, e quindi il
fatto sfuggì ai Cronisti.
Per quello che riguarda il mezzogiorno, alla sopracitata può venir
contrapposta ropinione, che i Serbi
immigrarono in un territorio abitato già da lungo tempo da Rumeni. Il territorio
di Trieste fu indubbiamente il punto estremo delle loro migrazioni. (108)
Per ciò che riguarda il tempo, si può asserire soltanto con una certa
verosimiglianza, che le migrazioni erano finite nel sec.
XIV. (109)
E così egli ritiene, per quanto gli era possibile, d'aver risposto anche
alle domande 2.a e 3.a.
Da pag. 6-8 l'A. s'occupa delle migrazioni dei
Rumeni nei Carpazi.
[212] A pag. 8,
dopo aver riferito le poche parole rumene passate nel serbo, riporta il
Paternoster e l''Avemaria raccolte a Poglizza dalla bocca di un
vecchio morto nel 1876. Questi raccontava, che i suoi antenati parlavano
"alla rumena" (po vlašku). Attualmente i Poglizzani parlano il croato come
tutti gli isolani. (110)
Il Miklosich ci dice ancora, che coloro i quali gli comunicarono queste
preziose notizie sui
Rumeni di Poglizza, lo fecero eziandio avvertito, che nella
città di
Veglia
esisteva il nome Pacul, e nelle sue vicinanze, Bociul, Cociul,
evidentemente nomi rumeni. (111)
Osservo in fine, che il Padre nostro e l'Avemaria offertici dal
Miklosich hanno qualche piccola variante colle stesse orazioni offerteci dal
Cubich (op. cit. pag 118) queste su per giù sono poi identiche colle lezioni
dateci dall'Ascoli (Studi critici, pag. 75, 76) e dall'Ive per quelli di
Valdarsa; il che dimostra all'evidenza, che tanto i
Rumeni dell'isola di
Veglia,
quanto quelli della Valdarsa sono tutti immigrati dallo stesso luogo; soltanto
non è accettabile la teoria, che dall'isola sieno passati nell'Istria; sta
invece il fatto, che quelli dell'isola di
Veglia
vennero importati dalla terraferma dai conti Frangipani; laddove quelli
[213]
della Valdarsa vennero quali pastori erranti, anche dalla Croazia, senza
passare però per l'isola di
Veglia,
come riteneva il Bidermann.
L'ultimo lavoro del Miklosich, quello che corona le sue molte e dotte
ricerche sui
Rumeni, porta il titolo di "Rumanische Untersuchungen" (112)
pag. 1-91. Queste ricerche, dic'egli, hanno anzitutto per oggetto la conoscenza
e la spiegazione delle fonti per la cognizione dei dialetti istro- e
macedo-rumeno. Aggiunge che in un altro lavoro si occuperà della fonologia dei
tre dialetti. (113)
Nelle Rumunische Untersuchungen, per quello che concerne il rumeno
dell'Istria, abbiamo:
Monumenti istro-rumeni.
Le fonti pubblicate qui per la conoscenza del rumeno-istriano gli furono
partecipate dal Dr.
Antonio
Ive e dal Dr. Teodoro Gartner.
I. a. Note del prof.
Antonio
Ive.
Queste furon fatte a
Berdo, nel distretto di
Albona. Il Dr.
Ive dice che
darà, per il rumeno parlato oggidì nella Valdarsa ed a
Seiane (Xejane) il
maggior numero di saggi possibili, riproducendo anche quanto per lo addietro
venne pubblicato dall'Ascoli.
Questi saggi abbracciano (p. 2-16):
- l'orazione dominicale (Lezione data dall'Ascoli, Studi critici,
I, 75-76); la variante della stessa (Lezione data dall'Ive);
- la Salutazione angelica;
- il Decalogo;
- il Credo; [214]
- la Salve Regina;
- Alcune frasi;
- Alcuni proverbi.
I. b. Indice delle Note del Dr. Antonio Ive.
Insieme coll'Indice l'A. vi unisce quanto fino allora era noto del
tesoro linguistico dei
Rumeni istriani, parte col suo mezzo nelle
Denkschriften..." vol. XII e XXX, parte da
Giov. Maiorescu nello scritto
pubblicato dopo la di lui morte, dal titolo: 'ltinerar in Istria, şi
vocabular istriano-romann Jassy, 1874.
Segue la Raccolta delle voci fatta in Istria dal Dr. Teodoro Gartner pag.
(17-52.)
II. Materiali per lo studio del rumeno nell'Istria del Dr. Teodoro
Gartner
(pag. 63-78).
Egli visitò l'Istria a questo scopo nel 1880.
Le più grandi isole linguistiche rumene in Istria sono formate dai villaggi:
Gradigne, Letai,
Sugnevizza,
Villanova,
Berdo e
Grobnico. (Il vocabolario va da
pag. 64-78).
- a) Indice italiano del vocabolario
(pag. 78-84).
- b) Aggiunte dell'editore (Miklosich) circa le parole non romane del
vocabolario precedente (pag. 84-90).
Fra le voci non romane del dialetto istro-rumeno prendono il primo posto le
slave. Dei vocaboli dati dal Dr. Gartner, su 1300, appartengono certamente allo
slavo più di 500.
Veniamo alla conclusione (p. 84):
"Essendo che i Rumeni dell'Istria (come già espressi l'opinione nel
lavoro: Über die Wanderungen.... cfr. vol. 30° delle Denkschr...) non
sono immigrati nelle loro odierne sedi dall'oriente, ma dal mezzodì, da un paese
abitato da Bulgari, si offrono, quali fonti da attingere di parole slave nel
rumeno, il bulgaro, il serbo, il croato ed il neo-sloveno. Vista l'affinità
stretta di queste lingue, alla domanda, da quale di queste sia stata tolta una
parola rumena, spesso non è possibile rispondervi con certezza.
[215] Quale prova dell'origine bulgara, di alcune parole rumene nel dialetto
istro-rumeno, l'A. considera come tali quelle le cui sillabe finali sono n, m
in luogo dell'ant. slov. ẹ, ą, (je, ja?).
Se taluno volesse oppormi, dic'egli (p. 84) che anche il neosloveno possedeva
le vocali nasali precitate, rispondo: È vero; ma ciò nulla prova contro
l'opinione espressa testè perchè il Rhinesmus se lo riscontra nello
sloveno moderno nel X sec. nei Monumenti di Frisinga, ma soltanto in
singole forme; invece i
Rumeni toccarono il suolo dell'Istria assai tardi,
verosimilmente nel sec. XIV; dunque quando il Rhinesmus era cessato da un
pezzo. (114)
Io credo, che dopo le tante e sì convincenti prove linguistiche offerteci
dall'Ascoli e dal Miklosich, che i
Rumeni dell'Istria non sono nati sul suolo
istriano, ma sono immigrati (partendo dall'Emo, oltre la Serbia e la Croazia)
verosimilmente nel XIV secolo, nessuno metterà più in dubbio questa nuova
opinione contrapposta a quella del
Kandler e del
Combi.
Lasciamo da parte ogni altra considerazione e teniamo soltanto presente, che
in questo proposito i due benemeriti letterati istriani non fecero che esprimere
una loro opinione, ma non la seppero confortare da prove, ciò che del resto era
loro impossibile, perchè vivevano quando la filologia comparata non era giunta
allo stadio di scienza esatta, qual'è oggidì, nò dessi erano filologi; ed in
questa questione la sola storia non può aiutarci, perchè come vedemmo,
l'immigrazione non avvenne in masse grandi, si bene a piccoli gruppi, perciò il
fatto sfuggì ai cronisti. Che così sia avvenuto, io lo desumo anche dal fatto,
che i Rumeni dell'Istria non poterono mai affermarsi quale nazione a sè con
propri comuni, proprie leggi, proprie scuole, proprie chiese, proprio rito
religioso con propria lingua; ma dovettero subire la lingua, i costumi, la
religione... degli Slavi che da per tutto li circondano, così nella Valdarsa
come sull'isola di
Veglia.
[216] Ben altrimenti va la cosa considerata dal lato linguistico.
Di fronte alle molte e convincenti prove offerteci da due glottologi
riconosciuti, quali l'Ascoli ed il Miklosich (anche trascurando il Bidermann ed
il Maiorescu, il qual ultimo però ha un'autorità non trascurabile quale Rumeno)
dobbiamo dunque chinare il capo e conchiudere: Se la lingua de'
Rumeni
dell'Istria è quasi eguale a quella dei
Rumeni della Moldavia e Valacchia, ma
ancor più a quella dei
Rumeni meridionali (che sono un ramo staccatosi dal
tronco principale) dobbiamo assolutamente ammettere che sono immigrati; perchè
ripugna alla ragione il ritenere, che elementi disparati (quali le supposte
colonie romane e l'elemento indigeno pre-romano nel!'Istria) abbiano dato un
risultato identico a quello ottenuto nella Dacia dalla fusione delle colonie di
Traiano coi Daco-Geti e colle susseguenti immistioni di elementi stranieri
durante e dopo la trasmigrazione dei popoli.
Non soltanto ad appoggiare, sì bene a corroborare vieppiù l'opinione
dell'Ascoli e del Miklosich, viene il lavoro dell'illustre storico croato, Dr.
Fr. Rački, dal titolo: La Croazia avanti il secolo XII, pubblicato nel
vol. 57° del Rad dell'Accademia di Zagabria nel 1881, p. 102-149, dunque
subito dopo la pubblicazione del Miklosich, Über die Wanderungen ecc...
Questo interessante lavoro ha due pregi: il primo consiste nelle prove
ch'egli adduce (p. 106-137) del dialetto romano-volgare della Dalmazia romana
(Ragusa, Salona, Spalato, Traù, Zara,
Arbe, Ossero,
Veglia)
dal quale si sviluppò un dialetto romanico, come nell'Italia, e che non
deve confondersi col rumeno; ciò che combina cogli studi recenti del
prof. Bartoli, de' quali si dirà più avanti; il secondo pregio consiste poi
nelle prove documentate offerteci sull'esistenza dei
Rumeni (Vlachi) in Dalmazia
e Croazia, già dal principio del sec. XIV, della relazione intima di questi
Vlachi con quelli della Serbia e Bosnia, ove erano già nei secoli XII e XIII, e
finalmente della derivazione dei
Rumeni o Vlachi dell'isola di
Veglia
e di quelli dell'Istria dai
Rumeni o Vlachi della Croazia (pag. 187-149).
Dopo aver discorso in generale dei Vlachi (p. 138, 139) l'A. viene a parlare
(p. 140) dei Vlachi della Serbia antica, dei [217] loro catuni, del loro modo di vivere (pastorizia, caseificio,
carovane...)
Interessante la distinzione di due epoche, quanto alla nazionalità dei
Vlachi: a) anticamente i Vlachi erano non solo d'origine rumena, ma
parlavano il rumeno, testimonio fra altri il Presbiter Diocleas. (Cfr.
Regnum Slavorum, ed. Cerncich, p. 8) che visse nella metà del secolo XII, e
che ci lasciò il celebre passo: "Lutini qui illo tempore Romani
vocabantur, modo vero Moro-vlahi, hoc est Nigri Latini, vocantur".
Seguono altre prove del secolo XIII, dalle quali emerge che nella Dalmazia
romana vlah indicava un Raguseo, un Latino, un Romano, da distìnguersi da
uno Slavo in generale, da un Serbo, da un Albanese... (p. 141); b). coll'andar del tempo questi Vlachi che vivevano fra Slavi, perdettero a poco poco la
loro nazionalità: vlah non indicò più un Rumeno, ma soltanto un
pastore (pecuarius) che viveva alla foggia dei vlahi antichi, dei
Rumeni (p.
142). Nel XIII secolo in certi catuni si sarà conservata ancora la lingua
rumena; fra i pastori e i condottieri di carovane vlachi ci saranno stati per
avventura ancora dei
Rumeni, ma la loro lingua andò nei secoli XIV e XV perduta;
essi si slavizzarono.
Da quanto si può arguire dai documenti, in Croazia i Vlachi vengono alla luce
un po' più tardi, cioè, dal principio del secolo XIV, e si estendono dalla
Cetina al Velebit (pag. 142, 143). Appariscono dessi nelle possessioni del conte
Mladino (1312-1322), del conte Nelipzio (Nelepich), del conte Kuriakovich,
presso Traù, nei dintorni di Sebenico, alla Cetina, presso Ostrovizza, Knin,
nella Corbavia, alla costa sotto il Velebit presso Carlopago, e finalmente
sull'isola di
Veglia
(Cfr. le fonti documentate, ivi, p. 142, 143).
I Vlachi adunque abitavano nel secolo XIII sui monti sovrastanti il litorale
dalla Cettina fino all'Istria; di qui, calarono alla spiaggia, si stanziarono in
certe località, e di qui, finalmente passarono sull'isola di
Veglia
(Castelmuschio, Dobasnizza, Poglizza).
Nei documenti croati il nome si scrive, come nei documenti serbi, Vlah;
nei latini: vlacus, vlachus, blacus, anche morovlachus, in
italiano morlacco.
[218] L'ultimo (morovlachus) s'incontra già (come abbiamo veduto) nel prete
di Dioclea verso la metà del secolo XII; ma nei documenti più antichi trovasi
soltanto vlachus; nei docum. seriori, dalla seconda metà del secolo XIV,
incontransi ambidue i nomi; finché il secondo morovlachus (morlacco) passò
interamente agli Italiani della Dalmazia e agli stranieri. Di qui provenne all'altipiano croato di fronte alle isole di Pago e d'Arbe, ove s'erano domiciliati
molti Vlachi, il nome di Morlacchia; di qui i monti del Velebit si
dissero le montagne della Murlacca, e il canale fra le isole suddette e
la terraferma: Canale della Murlacca. Osservato quindi, sulla
dichiarazione del Miklosich, che morlacco non deriva dallo slavo more
(mare) ma dal greoo medioevale [Greek
text], cui risponde a cappello il serbo
Karavlah, tradotto fedelmente dai Diocleate con Niger Latinus...
il Dr. Rački viene a parlare del modo di vivere dei Vlachi croati, eguale a
quello dei vlachi serbi, bosniaci e ragusei. Stanziavano essi nei soliti
catuni (V. nel 1344: catunos duos Morolacorum.. nella Corbavia) e
vivevano in tentoria et domuncìdas
esercitando la pastorizia ed il commercio delle carovane. Era proibito ai vlachi
di pascolare le loro mandre nei dintorni di Traù (1383); altrettanto fecero i
conti della Corbavia (1387) per i dintorni di Carlopago. A cagione del loro modo
di vivere pastorale i Vlachi erano costretti a cercare delle nuove pasture per
l'animalia, il che significa, a trasportarsi da luogo a luogo. Da tutto ciò il Dr.
Rački deduce, che i Vlachi croati erano fratelli di quelli della Serbia e della
Bosnia; ma che nel XIV secolo erano già slavizzati; eccetto quelli dell'isola di
Veglia,
i quali nei documenti del sec. XV vengono distinti dai Croati della stessa
isola, e che mantennero la loro lingua fino ai nostri giorni.
Infine il Dr. Rački collega coi Vlachi fin qui esaminati (serbi, bosniaci,
croati) i Rumeni dell'Istria dei quali ci parlò già diffusamente l'Ascoli ed il
Miklosich, e questi sono alla lor volta collegati coi
Rumeni della penisola
balcanica; tutti chiamati ovunque, dai Greci e dagli Slavi,
[Greek text], Vlachi,
Vlahi; tutti dediti ovunque alla pastorizia e al commercio delle carovane.
L'A. infine dimostra, che questi Vlachi sono i discendenti dei coloni romani
trasportati nella penisola balcanica, [219] dei
Rumeni, venuti a poco a poco, quali pastori, nella Serbia, Bosnia,
Dalmazia, Croazia... (p. 145-149) e che non devono ritenersi quali rimasugli dei
Romani della Dalmazia antica, i quali diedero origine a dialetti romani, laddove
i Vlachi dell'isola di
Veglia
e dell'Istria parlavano rumeno, e quelli dell'Istria lo parlano ancora oggidì.
Il distacco di questi Vlahi da quelli della penisola balcanica incominciò
probabilmente nel secolo XII, portandosi prima in Serbia e Bosnia, poi in
Croazia e Dalmazia, durante i secoli XIII e XIV, sempre però in piccole masse,
quali pastori erranti, evitando così di attirare su di sè l'attenzione dei
cronisti contemporanei. L'ultima tappa verso occidente fu l'isola di
Veglia
e la parte orientale dell'Istria (p. 146).
Dopo quanto passò dinanzi ai nostri occhi, sembrerà per lo meno una temerità il vedere che nel 1883 (dunque due anni dopo) il Dr.
Carlo Lechner (da Pisino?) pubblichi un articolo dal titolo: Die
Rumunen in
Istrien (115) nel quale finge d'ignorare l'opinione (se non è meglio dire la
dimostrazione) d'un Ascoli e quella più importante ancora del Miklosich, poi
fraintendendo persino (come lo vedremo) un passo staccato di quest'ultimo,
voglia far ritornare la questione dell'origine dei
Rumeni d'Istria al punto in
cui si trovava nel 1816, allorquando il Covaz ci offrì per il primo il saggiuolo di cui già parlammo.
Il Dr. Lechner adunque, detto delle sedi abitate dai
Rumeni d'Istria e del
loro croatizzamento, si fa questa domanda: Come vennero questi Rumeni qui?
—
- Sono dessi immigrati in epoche precisabili, o
- sono gli
avanzi di coloni illirici romanizzati?
E s'è vera la seconda supposizione, come si spiega, che proprio questi pochi
abitanti del paese mantennero nel rumeno la lingua romana rustica,
laddove l'ager Polesanus, il territorio della colonizzazione romana per
eccellenza, ci diede un dialetto italiano speciale con antiche forme
linguistiche? Risponderà, dic'egli, trattando la questione dal lato storico.
Secondo lui, i popoli dell'Istria appartenevano alla schiatta liburnica, la
quale [220] venne romanizzata. II punto centrale della vita romana era
Pola.
L'Arsa
segnava il confine orientale, ed anche qui troviamo delle colonie romane.
L'Anonimo ravennate nomina ancora nel VIII secolo la città Arsia, che
sarebbe Gradas.
Più in là le tracce della romanizzazione non sono tanto evidenti, e ci
troviamo di fronte ad una popolazione liburnico-illirica.
Egli ritiene pertanto, che i Rumeni dell'Istria siano avanti degli
abitanti primitivi, di ceppo illirico, romanizzati, e che non immigrarono qui
dal lontano Oriente. Osservo, che da alcune parole dell'estensore
dell'articolo, sembra ch'egli abbia consultato i lavori del Miklosich in questo
proposito; ma poi dalle sue deduzioni si deve conchiudere, o che non li ha letti
tutti, o che li ha fraintesi. E difatti, da quanto abbiamo inteso fin qui, il
Miklosich si fa strenuo difensore della teoria:
- che i Rumeni istriani sono immigrati e non nati sul suolo abitato da
essi oggidì;
- che v'immigrarono probabilmente nel XIV secolo partendo dalla Maior
Vlachia.
Invece il Pr. Lechner dice, che il Miklosich spiega con prove storiche e
filologiche:
- che la divisione dei Rumeni in Baco-Macedo- e Istro-Rumenl ha soltanto
un valore geografico (116) e che l'origine di questo
[221] popolo sia da cercarsi soltanto alle coste orientali del mare Adriatico, ove
abitavano i prodi llliri; (117)
- II. ch'egli dimostra, che alcune forme nell'Istro- e Macedo-Rumeno
appartengono al rumeno primitivo, le quali forme non si riscontrano più nel
daco-rumeno. (118)
[222] Il Dr. Lechner continua.
Se questa supposizione dell'origine locale è giusta, allora devono
trovarsi anche delle indicazioni concernenti l'Istria. Eccone le più importanti:
- Costantino Porflrogenito ci fa sapere, che al suo tempo i Romani abitavano
nelle città marittime della Dalmazia: Ragusa, Spalato, Traù e Zara, e delle
isole: Arbe, Ossero e
Veglia;
(119)
- In un documento di Zara del 1072 si parla di testes latini... (120)
Con ciò non è detto, che questi erano
Rumeni, ma soltanto che parlavano
ancora la lingua latina volgare.
(121)
- III. Guglielmo di Tiro (n. nel 1126) lasciò scritto, che gli abitanti della
Dalmazia erano barbari.... eccetto quelli della costa marittima, i quali
parlavano latinum idioma...
(122)
Ciò varrebbe per la Dalmazia. E per l'Istria?
[223] In un documento del 1102 del conte Uldarico (123) si parla fra tanti altri
luoghi della Valdarsa, di una "villa ubi dicitur cortalba inter latinos" la quale Cortalba sarebbe
Berdo,
che s'incontra la prima volta nel
1395. (124)
Che questi Latini sieno Rumeni, dice egli, che questa
denominazione non trovisi in alcun documento finora noto riguardante l'Istria, e
che gli abitanti dei territori occidentali, in quell'epoca, ed anche prima, non
venissero così chiamati, gli è fuori d'ogni dubbio.
Noi troviamo dunque una notizia, vecchia già 780 anni, dice il Dr. Lechner,
che i Rumeni erano nella valle di Bogliuno. (125) Andiamo innanzi.
Ma se nel 1102, sotto il nome di Latini, continua egli, si
comprendevano popoli che oggidì nomiamo Rumeni; allora erano tali anche
gli abitanti della costa dalmata parlanti V idioma latinum, sebbene
oggidì essi sieno spariti. (126)
[224] Costantino Porfirogenito trova a' suoi tempi Romani sulle isole del Quarnero;
ed in verità si trovano anche qui degli avanzi della lingua rumena. (127)
Ciò sta in relazione, dice il nostro articolista, coll'unione nella quale
questi isolani stavano, per mezzo dell'altura insignificante di
Fianona, col
lago di Cepich, la quale nella storia del paese si è sempre dimostrata quale
porta d'assalto e d'irruzione coi compagni di stirpe sulla terraferma.
(128) La
lingua di
Veglia
(si badi che egli parla della città) i cui abitanti parlano oggidì quasi
esclusivamente croato (129) è un idioma affatto caratteristico, il quale, coxpe lo
ha già esposto il .defunto medico Cubich, benemerito della sua patria (130) ha molto
di [225] comune coll'Istro-Rumeno; (131) eppure ha qui regnato per lungo tempo Venezia e
con essa la lingua italiana. (132)
E quasi tutti questi svarioni non bastassero, l'A. vuol intrattenersi anche
con questo tanto nominato dialetto antico di
Veglia,
e dal raffronto di alcune voci di questo col rumeno dell'Istria, egli vorrebbe
averne dimostrata l'affinità, anzi, ne deduce, che il dialetto antico di
Veglia
(città) sia perfettamente rumeno; ciò che potrà riconoscere facilmente,
dic'egli, anche un profano di linguistica. (133)
Tutti questi svarioni furon presi dal Dr. Lechner per ignoranza delle
condizioni locali; egli confonde cioè la città di
Veglia
(italiana) ed il suo dialetto arcaico (un dì ritenuto ladino, oggi più
giustamente detto dalmatico) coll'isola slava e col rumeno lì importato, come
fra gli Slavi della Valdarsa.
L'A. passa quindi a parlare dei Vlachi, col qual nome gli Slavi, come
sappiamo, designano i
Rumeni, e poi dei Morlacchi, la qual voce egli la rannoda
allo slavo more (mare) malgrado la dimostrazione in contrario del
Miklosioh. (134) A proposito di Morlacchi egli dice, che Venezia importò nell'Istria
60,000 Morlacchi. Mi permetta che gli dica: ma questi Morlacchi non sono i
Mavrovlachi (Nigri Latini) del prete di Dioolea, [226] parlanti il rumeno; sì bene i Morlacchi novissimi de' quali il
De Franceschi,
(135) importati da Venezia nei secoli XVI e XVII, a colmare i vacui
lasciati dalle
pesti, i quali parlavano allora il serbo, come lo parlano oggidì.
E lo dice lui stesso: Doch waren dieselben schon Serbo-kroatisirt, ald sie
nach Istrien gelangten.n (pag. 297).
La presenza di
Rumeni nell'Istria (e chi la nega?) li viene segnalata anche
dalle numerose località dette Vlachi, Vlacovo, Vlacova; e poteva
aggiungere anche da una quantità di cognomi, come Vlach,
Vlacich, Vlacov,
Vlacovich...
(((136)
Il Dr. Lechner ritiene ancora, che quel "Andreas Detrih Rumen prò
tempore index", in
Albona, che riscontrasi nel documento del 1363, sia
realmente un Rumeno; (137) altra prova della presenza dei
Rumeni nell'Istria gli
offrono i catuni che trovansi presso Treviso, Lindaro, Galignana,
Gimino... (vedi anche all'oriente del llago di Cepich). Sicuramente, catun
vale in rumeno "regio pastoria" e ce ne sono ovunque abitarono
Rumeni; ma questo non prova nulla per la dimostrazione voluta dall'autore; come
sono argomenti da non tenerne conto: la credenza dei
Rumeni d'Istria nella
stregoneria, l'incontro delle località
Vrana (gurges, secondo lui) la
derivazione di Castua da castrum, in rumeno Casteu, secondo
il Maiorescu...
Gl'Italiani dell'Istria, continua egli, chiamano i
Rumeni di quei luoghi
Ciribiri, e ciò proviene dalle due voci tenet bene (dal val.
tsire-tenet, e da bir, bire, bene.
(138)
Trova i luoghi di
Xeiane e Mune nominati la prima volta nel
1466 (139); soggiunge però, che resta indeciso, se gli abitanti eran Cici o
no.
[227] Nel 1860, dic'egli, c'erano a
Xeiane 24 famiglie di cognome Stambulich e
Turcovich, che accennano a territori turchi (140) queste sono palesemente venute
qui durante le guerre cogli Uscocchi e devono aver parlato allora un idioma
mischiato di molte voci albanesi. (141)
V'ha molto di comune fra Uscocchi e Cici (142) nel 1513 i Cici appariscono assai
ladri, come lo erano gli Uscocchi.
L'origine dei Cici è molto oscura (sapevamcelo), essi vennero in Istria dopo
le guerre cogli Uscocchi. Pigliamolo in parola; ma come, se dopo due righe, egli
ritiene trovare dei Cici nelle firme di un Cixcix in
Albona nel documento
del 1328 (143) e di un Pasculus Chichio a
Pinguente nel documento del 1329.
(144)
Se questi sono Cici, allora ha ragione il Miklosich; sono i Cici di
Ireneo
della Croce e del vescovo
Tommasini, che parlavano il rumeno, immigrati nel XTV
secolo; ma allora questi non van confusi coi Cici e coi Morlacchi importati nel
sec. XVII da Venezia, i quali parlavano già il serbo!
Insomma, io non ho letto mai un articolo tanto sconclusionato!
Così, coll'articolo del Dr. Lechner, finirebbe il compito che m'era assunto,
quello cioè, di riassumere quanto da altri fu scritto sui
Rumeni dell'Istria;
(145)
visto però, che tanto dal [228] Dr. Lechner quanto dall'Ascoli e dal Miklosich si è accennato più volte al
dialetto antico della città di
Veglia,
che tanto interessa ai dotti glottologi, e che è distinto dal rumeno importato
sull'isola di
Veglia;
prima d'accomiatarmi dai lettori, si concederà, spero, a me Vegliotto,
d'intrattenermi ancora per poco su questo dialetto tanto interessante, non
foss'altro, perchè esso per avventura è chiamato a servire alla soluzione d'un
grave quesito che oggidì si agita fra i dotti; cioè, che partendo dalla penisola
balcanica, o meglio dall'ìllirio, fino all'Istria, esistesse un popolo affine di
stirpe illiria, il quale, a contatto colla lingua romana rustica, diede per
risultato alcuni dialetti, che hanno fors'anco delle affittita col rumeno,
perchè i due substrati erano affini, ma che non sono identici col rumeno. Quale
Vegliotto, io potrò forse evitare certi soogli nei quali incapparono alcuni
forestieri tfhe sono ignari delle condizioni etniche de' nostri paesi.
E senz'altro entro nell'argomento:
L'Ascoli ne' suoi Studi critici, (146) quando allude al Biondelli,
all'antico dialetto di
Veglia
ed al rumeno della Valdarsa, apre una nota e ci dice, che Gesner nel suo
Mithridates (Zurigo 1555) scriveva:
*ln Adria, versus Istriam, non procul
Pola, insula est, quam Velam
(Vegliam?) aut Veglam vocant,... cujus incolas lingua propria uti audio,
quae cum finitimis tllyrica et Italica commune nihil habeat."
[229]
La lingua, differente dalla slava e dall'italiana, alla quale qui sì allude,
è l'antico dialetto della città di
Veglia
o il rumeno dell'isola?
Il dialetto antico della città ha delle affinità col rumeno suddetto,
od è affatto diverso? — Visto che mi si offre l'occasione, più volte da me
vagheggiata e mai tanto a proposito offertami, m'intratterrò alquanto di questa
questione. La notizia del dotto Corrado Gesner di Zurigo (1516-1565) non è
cervellotica. Abbiamo veduto che la presenza di
Rumeni sull'isola di
Veglia
è provata da documenti del sec. XV, (1465, 1468) se il Gesner allude a questi;
che se poi allude al dialetto antico della città di Veglia, abbiamo anche la
testimonianza di un coevo del Gesner; soltanto la sua narrazione ci farà
ridere. Il veneto G. Battista Giustiniani nel suo Itinerario del 1553,
dopo il viaggiò in Dalmazia, nella sua relazione d'obbligo al Senato,
venendo a trattare della lingua parlata, pròprio dai cittadini di Veglia,
dice così:
"Gli habitanti parlano lingua schiava (sic!), ma differente
dall''altra (sic!), di maniera che hanmo un idioma proprio
ch'assomiglia tal calmone; ma tutti
indifferentemente parlano italiano francamente." (147)
Veramente, stando alle sublimi cognizioni storiche e linguistiche, che il
nostro relatore dimostra in tutto il resto, non si dovrebbe dare
alcun peso a qutesta dichairazione, sbugiardata dai fatti; ma
prendiamola così com'è, e vedremo che egli prese un solenne granchio a
secco. Dunque nel 1553 tutti i cittadini della città di
Veglia
parlavano l'italiano francamente, e nello stesso tempo parlavano un gergo
slavo; ma questo non era la lìngua slava parlata in Dalmazia (egli viene di
ritorno dalla Dalmazia), dunque l'altra deve riferirsi alla slava di
quella provincia, che su per giù poi è uguale all'illirico così détto delle
isole.
Quale Iingua era dunque questa? — Evidentemente quella che il Gesner, in
quegli stessi anni, dice non avere nulla di comune cóoll'italiana e illirica
finitime, quella studiata dall'Ascoli [230] e dall'Ive, e che ora si studia dal
Bartoli; quella che vedremo non essere
slava minimamente dal saggio che produrrò più avanti. A proposito del quale
dialetto, non è detta ancora l'ultima parola. L'Ascoli negli Studî critici
(148)
dunque nel 1861, dubitava di un'essenziale differenza tra il dialetto
vegliotto e il rumeno di Poglizza; e nel 1873, allorchè pubblicò il vol. I.
dell'Archivio glottologico italiano, (149) accennando al dialetto di
Veglia,
dice:
"e più a Levante, nel Quarnero, si può legittimamente sospettare di
avere le reliquie di qualche dialetto che formasse come anello di transizione
fra i parlari dell'Italia alpina e quell'estrema latinità orientale che si stese
dall'Illirico al Ponto."
Esaminando quindi questo dialetto (pag. 436) egli
vi trova delle peculiarità proprie, poi lo connette coi dialetti di
Rovigno e
Dignano e finalmente conchiude:
"Nel dialetto vegliotto è
manifestissima la presenza dell'elemento rumeno (valaco) il quale, del
resto, può in parte confondersi coll'elemento italo-alpino, per le
particolari concordanze che intercedono tra il ladino ed il valaco.
Anzi il vegliotto si prenderebbe facilmente per una mera fusione di rumeno e
d'italo-istrioto; la qual sentenza non sarebbe di certo opposta al vero, ma si
dovrebbe tuttavolta dire inesatta ed incauta, massime per ciò, che trascurerebbe
le necessarie distinzioni cronologiche in ordine all'elemento che chiamiamo
rumeno. Poiché il substrato rumeno di cui si tratta
nel caso nostro,
(dialetto di
Veglia,
città) rappresenta una fase ben diversa da quella del rumeno modernamente
importato nell'Istria e nella stessa isola di Veglia; che è come dire,
su per giù, il parlare dei Valachi del giorno d'oggi."
S'io ben m'appongo, il concetto dell'Ascoli è questo: il rumeno di Poglizza e
della Valdarsa sono un'importazione più recente (sec. XIII o XIV); laddove
l'elemento rumeno del vegliotto, per l'affinità che intercede fra il ladino ed
il rumeno, devesi ascrivere ad un'epoca assai anteriore, probabilmente all'epoca romana. Anche l'Ive nell'Introduzione al lavoro:
L'antico dialetto di
Veglia, s'esprime press'a poco [231] come l'Ascoli:
"Per veglioto, o antico dialetto di Veglia, s'intende U
dialetto che un giorno era proprio della città di Veglia e contado, e
spiccatamente si distingue da quella varietà di rumeno la quale si parlava a
Poglizza e a Dobasnizza, contrade della stessa isola di Veglia, e sempre ancora
si parla in Val d'Arsa nell'Istria.
Sono però ben intime le attenenze che corrono tra il veglioto e codesta
parlata rumena."
(150)
Conchiudiamo. Non terremo nessun conto della cantonata presa dal Giustiniani,
perchè non filologo; nemmeno prenderemo sul serio il pasticcio che fe il Dr.
Lechner confondendo il dialetto della città di
Veglia,
romana prima, veneta poi, oggi e sempre, (151) coi miseri avanzi di quelle colonie
rumene, che furono importate sull'isola — oggidi abitata da Croati — in epoche
recenti, come quelle della Valdarsa; e ci atterremo alle divinazioni di
quell'autorità glottologica ch'è l'Ascoli, il quale ravvisò nel dialetto ormai
spento di
Veglia
un anello di congiunzione tra i parlari ladini e quell'estrema latinità
orientale che si stese dall'Illirico al Ponto. In altre parole; grazie alle
dilucidazioiri offertemi dall'egregio prof.
Bartoli di
Albona, che studiò
recentemente quest'interessantissimo dialetto sul luogo, e pubblicherà fra breve
i risultati de' suoi studi, (152) si può conchiudere:
Il dialetto antico di
Veglia
non è ladino pretto, ma non è neppur rumeno; non si riscontrano in esso delle
infiltrazioni rumene, come sospettava il Miklosich; ma vi si riscontrano
soltanto delle affinità analogiche, in quanto il substrato del vegliotto sia
affine a quello del rumeno; questo dialetto è l'unico superstite di una latinità
che doveva esser comune a tutta la Dalmazia romana, derivata dall'innesto del
latino volgare su base illirica; e chi sa che fra non [232]
molto il bravo prof.
Bartoli non dica in proposito
l'ultima parola.
C'entrarono nel dialetto vegliotto invece delle infiltrazioni venete (è noto
che
Veglia
era in contatto con Venezia già dal 1000) più recenti; ma queste si possono
scorgere soltanto dai glottologi e non dagli storici dilettanti.
E concludiamo eziandio coi
Rumeni dell'Istria. Venuti ivi, quali pastori
erranti, probabilmente nel secolo XIV, dalla Croazia, meglio dalla Corbavia; e
stabilitisi fra Croati, mantennero nell'intimo della famiglia la lingua rumena
(la quale, come vedemmo accolse in sè tanti elementi slavi e tanti altri di
origine non latina), ma coll'andar del tempo accettarono quale lingua degli
affari e della religione la slava; essi si sonò oramai affatto slavizzati, comò
avvenne di quelli dell'isola di
Veglia,
e come avvenne molti secoli prima dei
Rumeni o Vlachi stanziatisi nella Serbia,
nella Bosnia, nella Dalmazia e nella Croazia; come avvenne infine dei Cici e dei
Morlacchi venuti qui nei secoli XIII e XIV. [233]
|
APPENDICE
Saggiuolo del dialetto istro-rameno. (Dal giornale L'lstria, 1846.
p.
8, ma corretta la trascrizione come sta nel Miklosich, Die Slav. Elem.
p. 58). La tradazione è mia e letterale.
Jarna fost a e cruto race. Fruniga, cara avut neberito
L'inverno fu e molto
freddo. La formica, la quale aveva raccolto
en vera çuda hrana, stat a smirom en rä sä cassa. Cercecu,
in estate molto di
cibo, stava quietamente in la sua casa. La cicala,
se bodit su pemint, patit a de home e de race. Rogat a donche
ficcatasi sotto
terra, patì di fame e di freddo. Pregò dunque
fruniga, neca egl du je salec muncà sa xivi E fruniga sice:
la formica, che
le dia un po' (da) mangiare per vivere. E la formica dice:
juva ai tu fost en jirima (inima) de vera? Saç che nà'i tu
Ove tu fosti nell'anima (nel cuore) della state? Perchè non hai tu
tunce a te xivglenge prepravit? — En vera, siss a cercecu,
allora al tuo
vitto raccolto? — In estate, disse la cicala,
cantat am, mi divertit am car gli trecut. E fruniga ersuch:
cantato ho, e
divertito ho quelli che passarono. E la formica ridendo:
S'ai tu en vera cantat, avmoce che i jarna, e tu xoca.
Se hai tu in estate
cantato, ora che è l'inverno, e tu salta.
NB. da leggersi alla veneziana.
Sebbene l'argomento non lo richieda, tuttavia, quale saggio dei dialetti di
Rovigno e di
Dignano, che hanno delle relazioni con quello antico di
Veglia,
riferisco qui, togliendola al giornale L'Istria, 1846, p. 49
(not 49, p. 8), la stessa
favola.
- nel dialetto di
Rovigno:
A giera inverno e fiiddo grande La formiga, che aviva ingrumà purassè roba
d'istà, stiva quita in casa soa. La cigala sutto terra sepelida moriva de fam e
de friddo. La ho pregà la formiga da daghe un po de magnà; tanto de vivi. Ma la
furmiga ghe dise: Ula ti gieri nel cor de l'istà? Perchè non sonto ingrumada da
vivi? — Nell'istà, responde la cigala, mi cantavo e divertivo i spassazieri. E
la formiga, mettendose a ridi: se ti cantivi d'istà, adesso che xe inverno, e ti
balla. [234]
- nel dialetto di
Dignano:
A giaèro da leinvaèrno, e perorassé friddo. La furméiga, ch'aviva za fatto
le so pruoveiste in tal geistà, stiva quiita in casa sogia. La zeigala cazzada
zuttaterra moréiva de fam e de friddo. La giò prigà donca la furmèiga, ch'a ghe
disso òun po da magna, tanto da veivi. E la furmèiga ghe deis: Vulla tèi giaeri
in tal cor d'al geistà? Parchi uccaziòn mo in quilla stadiòn non tei te giè
pariccià al to veitto? — Da geistà, giò respondisto la zeigala, i cantivi e i
desvertèivi i spasseizieri; e la furmèiga culla bucca in rèidi: Se tei da geistà
tei cantivi, adesso ch'a zi leinvaèrno, balla.
Dai proverbii raccolti dal cooperatore di Mune (prima di Susgnèvizza) Don
Lorenzo Racovez, trascrìtti però all'italiana. (Cfr. Die Slav. Ehm. p.
59.)
Vezut a žaba, (pron. alla francese: jaba) juve se calu fareca,
Veduto ha la
rana, ove al cavallo le suole ferree si mettono,
paca sci ja picioru dvighnit.
e anch'essa il piede alzò.
I negra vaca ab lapte are.
Anche la nera vacca bianco latte ha.
Žensca (ž = franc. je) oppure, muliàra are lunž per, scurta paminte.
La donna (lat.
mulier) ha lunga chioma, corta mente.
Cum maja torce, aša (asc[i]a) figlia zasse (z aspro).
Come la madre fila,
così la figlia tesse.
Oja abe negru ml i e zleze (z dolce).
La pecora bianca nero agnello
partorisce.
Nu putu fi lupi satùl, sci jezi na broj.
Non possono essere i lupi satolli, e i capretti in numero (illesi).
Il Pater noster dei
Rumeni di Poglizza, sull'isola di
Veglia.
(Lezione del Miklosich, Über die Wander, p. 8).
Čaču (come in ital. ciaciu coll'i muto) nostru, karle
šti (sc[i]'ti)
Pater noster, qui es en čer, (cier, in ital. coll'i muto)... neka se spunè volja a te in coelis,
fiat voluntas tua kum en čer, aša (asc[i]a) ši (sci) pre pemint. Pera nostre saka sicut in
coelo, ita et in terra. Panem nostrum de omni [235] zi de nain astez, odprostè nam dužan, ka
ši noi odprostim die da nobis
hodie, remitte nobis debita, sicut et nos remittimus
a lu nostri dužnič, neka nu na tu vezi en napastovanje, neka nos tris
debitoribus, et ne nos inducas in tentationem, et na zbavešt de svaka slabe. Amen, nos libera de omni malo... Lezione del Cubich (loco cit. p. 118) ma scritta come dal Miklosich.
Çaçe nostru, kirle esti in çer; neka se sveta numelu rater noster qui es in
cœlis; santificetur nomen tev; neka venire kraljestvo to; neka fiè volja ta, kassi jaste tuum; adveniat
regnum tuum; fiat voluntas tua, sicut est?
in çer, assa si pre pemint; pire nostre de saka zi da ne astez; in cœlo, ita
et in terra; panem nostrum quotidianum da nobis hodie;
si las ne delgule nostre, kassi si noi lessam al delsniça nostri; et dimitte
nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
si nu lessai in ne nepasta; nego ne osloboda de rev. Assa si fi. et ne nos
inducas in tentationem; sed nos libera a malo. Così sia.
Il Padre nostro
dei Rumeni di Valdarsa. (Cfr. Ascoli, Studi critici, p. 75, 76).
Ćaće nostra carie šti en ćer; svetija-se te lume (oppure:
lumele tev); verija
ta kraljestvo (op. kraljestvo tă); fia volja tä, casi en ćer aša ši en (op. pre)
pemint. Pera nostra de saca zi dă a noi astez (op. asteze), ši perdunäna (op.
perdunä a noi, o lass a noi) nostri dug (op. nostre dugure) caši noi lassam lu
nostri duznić; ši nu na (op. noi) zepeljei en napast, ma zbave noi de rev.
Sagginolo del dialetto antico di
Veglia.
(V. Notizie nat. e storiche
ecc. del Dr. Cubich, P. I, p. 114-117).
El anduár fo bun en pauc.
Il camminare (l'andare) un poco fa bene.Potaite zer anincs, se blaite.
Potete andare (ire) avanti, se volete.
En cal basálca zerme?
In quale chiesa (basilica) andremo?
Blai donner tota la desmun.
Voglio dormire tutta la mattina.
Decàite al mi jomno, que me venaia destruâr a bon aura.
Dite (dicete) al mio
uomo, che mi venga svegliare (destare) di buon'ora.
No jai potáit dormér, que jéra al liát mal fat.
Non ho potuto dormire, che il
letto era mal fatto.
Sai resoluto a stuár ne la vicla l'inviamo.
Sono solito di stare in città l'inverno. [236]
Il Padre nostro
nell'antico dialetto di Veglia. (V.
A.
Ive, loco cit.
p. 146).
Tuóta nuester che te sánte intél sil, santificuót el nàum to, vìgna el
ráigno to, sáit fuót la voluntuót tóa, cóisa in sil, cóisa in tiára. Duóte cost
dái el pun nuéster
cotidiún, e remetiái le nuéstre debéte, cóisa nojltri
remetiáime a i nuéstri debetuár, e náun ne menúr in tentatiáun, múi
deliberiáine dal mul. Cóisa sáit.
Saggio d'una canzone popolare (V.
A. Ive, *bid. P- 137).
Jú jái
venóit de nuát in cósta cal,
Jú viád le móire e la puárta inseruóta:
E Di la múndi su la balcunuóta,
Nu viád cóla che me a práiso el
cur.
Amáur,
amáur, jú bláj che se
ćuláime,
Se náun avráime ráuba, stantariáime.
Se náun
avráime cuósa andúa
stur,
Jóina de pája nói la fúrme fur;
Se náun
avráime cuósa ne cusáta,
Nói dói furme la váita benedáta. [237]
P. S. Era già stampato il presente riassunto, allorquando mi fu dato di
leggere il bel lavoro del nostro
Camillo De Franceschi:
"I castelli della Val
d'Arsa" (153)
— Fra tante cose interessanti dal lato storico che vi si leggono,
mi piace notare, che anch'egli (pag. 2, 3) si mette dalla parte di quelli che
considerano i
Rumeni dell'Istria quali immigrati. Convengo eziandio con lui nel
non ritenere, ch'essi siano stati importati dall'isola di
Veglia
nella Valdarsa, appena nel secolo XV, dal conte Giovanni Frangipani, e accetto
senz'altro la conclusione, condivisa anche dal Miklosich, che udai documenti
riferentisi alle baronie della Val d'Arsa, che contengono molti nomi personali
e locali di radice e desinenza romanica, apparisce manifesto qualmente già
nella seconda metà del milletrecento la nostra regione fosse abitata
dall'elemento rumeno, il quale si estendeva abbastanza compatto lungo tutto il
bacino dell'Arsa, occupando in parte anche gli agri di
Albona e
Fianona."
Ed. Note (2022), see also:
- Gaster, Moses -
La versione rumena del Vangelo di Matteo,
Tratta dal Tetraevangelion del 1574 (ms.
del Museo Britannico: Harley 6311b) e pubblicata per la prima volta
in Archivio Glottologico Italiano, diretto da G.I. Ascoli,
Ermanno Loescher (Torino 1890-1892);
Note:
- Che i
Rumeni
sieno, ad ogni modo, discendenti da colonie romane, la è
un'opinione molto vecchia. Già Cinnamo, che scrisse sotto Emanuele Comneno
(1143-1181) parlando dei Vlachi [Greek text] disse: (VI, 260)
... [Greek text].... // Cfr. anche il Lucio,
Storia del regno di Dalmazia ecc.,
pag, 670 dell'edizione italiana.
- Cfr. Tacito, Histor. III, 46: .... "Dacorum gens nunquam fida"..,
-
Cfr. Entropio, VIII, 2: "Daciam, Decebalo victo, subegit (cioè, Traiano),
provincia trans Danubium facta"... e VIII, 6: "Traianus, victa Dacia, ex toto
orbe romano infinitas eo copias hominum transtulerat ad agros et urbes
colendas. Dacia enim, diuturno bello Decebali, viris fuerat exhausta".
Cfr. poi
Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'impero romano
(trad. ital.) Milano, 1820, vol. I, p. 8 e sgg. per le generalità.
- Cfr.
Sesto Rufo, Breviar. 8: 'Dacia Gallieno imperatore amissa
est..."
Entropio, IX, 8: "Dacia, quae a Traiano ultra Danubium fuerat adiecta,
amissa est" (cioè, da Gallieno)...
- Flavio Vopisco (in Vita Aureliani, 39) ...""cum
vastatum Illyricum ac Moesiam deperditam videret,
provinciam Transdanuvinam Daciam a Traiano constitutam, sublato exercitu et provincialibus,
reliquìt, desperans
eam posse retineri;
abductosque ex ea populos, in Moesia conlocavit appellavitque
suam Daciam, quae nunc duas Moesias dividit".
Entropio, IX, 15: ...
Aureliano... "provinciam Daciam, quam Traianus ultra Danubium fecerat,
intermisit, vastato omni Illyrico et Moesia, desperans eam posse
reţineri,
abductosque Romanos ex urbibns et agri* Daciae, in media Moesia
collocavit appellavitque eam Daciam, quae nunc duas Moesias dividit et est
in dextra Danubio in mare fluenti, cum
antea fuerit in laeva,.
Sesto Rufo, VIII: "Dacia Gallieno imperatore amissa est et per
Aurelianum, translatia
exindc Romanis, duae Daciae in regionibus Moesiae
et Dardaniae factae sunt".
Per i fatti generali cfr. l'op. cit.
del Gibbon, vol. I, pag.
379 sgg.; vol. II, p. 7-14; 21 e 22.
- Cfr. Die Slavischen Elemente
in Rumunischen, loco
cit. p. 4.
- Sono questi gli [Greek text]...
degli scrittori bizantini, gli Sclaveni, Sclavini, Sclavi degli scrittori
occidentali (Cfr. Procopio, Jomandes, Paolo Diacono).
Gli
Sloveni e gli Anti
erano i due rami principali della numerosa famiglia dei Vinidi
o Vendi.
Venuti dalle pianure della Russia, si spinsero sempre più a mezzogiorno; nel
V secolo erano già al Danubio e lo passarono; nel VI secolo, ora soli ora in
compagnia degli Unni-Avari, fecero delle terribili scorrerie, nella
Mesia, nella Tracia, nell'Illirio, nella
Dalmazia, nel Norico e nell'Istria...
Per notizie più diffuse cfr. Dr. Rački
nell'Archivio per la storia jugoslava,
vol. IV, Zagabria 1857, p. 235 sgg.; poi la raccolta dei passi
degli autori che parlano di queste incursioni stampata dallo stesso Rački nel
vol. VII dei Monumenta spectantia historiam Slavorum meridionalium. p.
217, sgg.
Per quanto riguarda le devastazioni di questi Sloveni nell'Istria nel VI
secolo, cfr. Dr. Benussi, Nel Medio Evo, Parenzo 1897,
pag. 15 e sgg.
- Cfr. Romänische Studien,
Lipsia 1871.
- Cfr. G. Tomaschek, Zur
walach. Frage
(nel Periodico per i ginnasi austriaci, 1876).
- Cfr. G. Tomaschek, Zur
Kunde der Hämus Halbinsel,
Vienna 1882, nel vol. 99° dei Sitzungsberichte...
pag. 483.
- Cfr. le fonti citate in principio della parte I e
persino l'ultimo R. Breibrecher, op. cit. p. 30.
- Per la storia dei Bulgari cfr. Jireček, Geschichte der Bulgaren,
Praga, 1876.
- Il nome Vlah proviene dai Celti; da questi passò ai
Germani, da questi agli Sloveni e da questi ai Bizantini. Il walh
dell'ant. ted. ed il vlah slov. dice: homo ormane originis. (Cfr.
Miklosich, Lexicon palaeo slov. alla voce vlah; e Die
Slav. Elem. ecc. p. 1.)
- Cfr. Miklosich, Die Sìav. Elem. p. 2, sgg. e le fonti citate in capo
alla parte I.
- Cfr. Gorra, Lìngue acolatine, p. 93. che le numera così: rumene,
ladino o retico. italiano,
francese, provenzale, franco-provenzale, catalano, spagnuolo, portoghese.
Neumann, La filologia romanza, p. 69, che tralascia la tranco-provenzale; come fa
anche il De Gregorio, Glottologia, Man Hoepli, 1896, p. 299.
- Cfr. per tutti: Schuchardt, Vokalismus des
Vulgürlateins, 3
vol., Lipsia, 1866-68.
- Cfr. Die
Slav. Elem., p.
4.
-
Cfr.
Strabone, VII, 305: 6: [Greek
text].
Plinio, IV, 25: alias Getae Daci
Romanis dicti...
- Cfr. Miklosich, Die
Slav. Elem., p
5.
- Cfr. F. Diez, Grammatik
der rom. Sprachen,
Bonna, 1876, p. 136 sgg.; e l'Etimologisches Wörterbuch der roman. Sprachen,
Bonna, 1887.
Gustav Kürting, Encyclopaedie und Metodologie der
roman. Philologie, Heilbronna, vol. III, 1886, p. 784-834.
Gustav Gröber, Grundriss der rom.
Philologie, Strasburgo, 1888, vol. I,
e specialmente a) l'articolo del [Moses] Gaster
[nota], Die nichtlateinischen Elem.
in Rumănischen, p. 406
egg. b) quello del Tiktin, Die Rumänische Sprache, p. 438 sgg.
- (V. l'Appendice). Se il daco-rumeno è più diffuso
e letterariamente più noto, il macedo-rumeno presenta d'altro canto
dei caratteri più arcaici; sicché si ritiene che il primo sia derivato dal secondo, e tutti e due da una
lingua comune cui la scienza ha ancora da ricostruire.
Il daco-rumeno accolse in sè più elementi slavi; il macedo-rumeno invece più
elementi greci (cfr. l'articolo del Tiktin, loco cit., vol. I, p. 438, 489.
Il Gaster [nota] (cfr. l'Enciclopedia... del Körting, voL III, p.
801)
suddivide il daco-rumeno in tre sottodialetti: il valacco o muntenico, il moldavo e il
transilvanico.
Il Miklosich è, si può dire, il creatore del dialetto istro-rumeno,
che s'accosta più al macedone che al
dacico (cfr. l'articolo del Tiktin, loco
cit., vol. I, p. 438, 439): cosi
anche il nuovo dialetto vlaco-meglenico, studiato da Gustavo Weigand
(cfr. Briebrecher, op. cit, p. 30)
parlato da circa 14,000 anime, tra cristiani e maomettani, abitanti al
settentrione di Salonicco.
- Cfr. l'articolo del Gaster [nota], nel Grundriss... del Gröber vol. I, p.
406: Die nichtlateinischen Elem. in
Rumänischen.
- Non si conosce bene la derivayione di tutti i vocaboli della
lingua rumena, perchè difettano i buoni vocabolarii.
Stando al vocabolario di Alfredo Cihac (Dictionaire d'étimologie
daco-romane, in 2 volumi,
Francoforte sul Meno, 1870-1879) si avrebbero: 3800 vocaboli slavi, 2600 del
latino popolare, 700 turchi, 650 greci, 500 magiari e 50 albanesi, senza
tener conto dei neologismi e delle parole composte.
Cfr. l'articolo del Tiktin nel Grundriss... del Gröber Die Rumănische
Sprache,
vol. I, p. 440.
Questi dati vengono però modificati dai recenti studi in proposito. Cfr.
Briebrecher, op. cit. p. 14.
- Cfr. l'articolo: Das Rumänische,
nell'Enciclopedia ecc. del Körting, vol. III,
p. 791 sgg. [END PART I]
Per gli ultimi lavori, tango linguistici che storici, sulle
questioni che si riferiscono al rumeno, si consultino, oltre alle opere
citate in principio, e specialmente, oltre alle operate del Körting, Gröber,
Gorra, Neumann, Briebrecher, i primi sei volumi pubblicai dal Dr. Gustavo
Wiegand nei Juhresberichte des Instituts für Rumänische Sprache,
Lipsia, 1894-1900. -
Cfr. Czörnig von Karl,
Ethnographie der Oesterreichischen Monarchie, Vienna, 1857, vol. I, pag.
69, e le fonti citate in principio.
-
Cfr. Miklosich, Rumunische Untersuchungen, pag. 1.
Riproduco qui la statistica compiuta dei
Rumeni
d'Istria, la quale proviene da fonte ufficiosa:
Segue quest'osservazione:
"Nella Valdarsa e nella penisola albonese, poi in
Cherbune, Tupliaco, Scopliaco,
Pedena, i
Rumeni sono mescolati coi Croati e
oggidì perfettamente slavizzati. A Schitazza presso Punta Negra parlano il
rumeno, e male, solamente due persone. Del resto i
Rumeni dell'Istria parlano
più o meno tutti lo slavo".
-
Cfr. Le tonti citate in principio.
Quanto alla religione, è noto che i
Rumeni sono gli
unici Romani appartenenti alla chiesa greca; quelli dell'Istria sono invece
cattolici.
Mi mancano i documenti a comprovare, se quando vennero
nell'Istria nel XIV secolo, erano ortodossi; ciò che dovrebbesi supporre,
perchè da un documento del 1373 riferito dal Farlati (Cfr. Illyr. sacrum.
vol. IV, pag. 63) si sa di positivo, che i Vlachi della Bosnia, coi
quali quelli dell'Istria hanno sicura affinità, erano scismatici: "in
regionibus montosis et asperis, parochorum custodia destitutis, ubi
Vlachi, pastores schismatici, fusi per agros ac dispersi degebant"... E
ancora nel 1615 o (1618) in un firmano di Osman II i trati Minori dicono:
Nos sumus Beligionis latinae, sectaque nostra a Religione Serborum,
Graecorum ac Valachorum
infìdelium plane diversa est"...
Cfr. Firmani inediti dei Sultani... ai conventi
Francescani della Bosnia e Erzegovina, pubblicati dal P. Donato Fabianich,
Firenze, 1884, pag. 83.
Che i
Rumeni dell'Istria siano cattolici, non deve
recar meraviglia; essi dovettero semplicemente dichiararsi tali, perchè non
ebbero mai una propria chiesa nè un clero nazionale.
-
Cfr.
Kandler,
Li Cici, in appendice alla Storia etnografica di Trieste
del canon.
V. Scussa.
Trieste, 1885, pag. 253 sgg.
Carl von Czoernig, Die Ethnologischen Verhältnisse
des
österreich. Küstenlandes, —
Trieste, 1885, pag. 26, ove in
nota si cita il lavoro del prof. W. Urbas,
Die Tschitscherei und die Tschitschen, 1884.
lstrien (di un anonimo)
Trieste, 1863, pag. 149;
die Tschitschen, nella parte etnografica, ove a pag. 150, si
accenna anche alla derivazione del nome da cicia,
cugino in valacco, nel senso in cui noi del veneto diciamo barba a
qualunque più vecchio.
Dr.
Benussi, Manuale di Geografia dell'Istria,
Trieste, 1877, pag. 58.
-
Cfr. Archeografo triestino,
vol. IV, pag. 515 (vecchia serie).
-
Cfr. pag. 334, edizione di Venezia; e pag. 677, vol. I, edizione di
Trieste.
-
Cfr. pag. 335 ed. Venezia, 678 ed.
Trieste.
-
Cfr. a. 1851, pag. 125. Alcuni Cici insultarono una fantesca di Risano.
Il podestà di Capodistria Micheli chiama gl'insultatori prima Cici,
ma poi
Morlachi, quasi che i Triestini li chiamassero Cici, i Capodistriani
Morlachi... "fato per certi Chichi,... et intendrò et casa da lui
(dall'oste di Risano Debegliak) et lo nome de detti murlachi".
Cfr. eziandio nella "Raccolta delle Leggi, Ordinanze
e Regolamenti, speciali per Trieste del
Kandler, 1861, capit. Lo
Rimboscamento, pag. 480 (a. 1517) "omnibus Chichiis et
Murlachis qui non sunt amasati aut terrena non habent in territorio
Tergesti....
-
Cfr. Die Ehre dee Herzogthums Crain, Rudoltswerth, 1877.
vol. I, pag. 256.
-
Cfr. Die slav. Elem. ecc. pag. 56.
-
Non nominando l'A. l'opera cui si riferisce la citazione I, 7,
156, si deve supporre che accenni all'opera stessa del
Valvasor; giova però notare, che il
Valvasor parla dei Cici nel vol. I, libro II, pag. 256;
ma, come s'è visto, dalle sue parole non ne viene che parlassero
slavo; viceversa egli parla della lingua slovena o carniolina nel
vol. I libro VI, pag. 271-288; ma qui non si dice nulla nè dei Cici
nè della lingua da essi parlata.
-
Cfr. nel giornale L'Istriano, N. 16 del 1861.
Dr. Cubich, Notizie natur. e storiche
sull'isola di Veglia,
Trieste, 1874, P. I, pag. 117, 118, 119 ove si
parla però soltanto del villaggio di Poglizza, distante un'ora e mezza dalla
città di
Veglia.
Giovanni
Maiorescu, nella Provincia dell'Istria, 1872, pag. 934, che
parla anche soltanto di Poglizza.
A.
Ive, nella Romania, IX, 826 sgg., che allude a Poglizza e
Dobasnizza.
G. I. Ascoli, Studi critici, Milano, 1861, voi.
I, pag. 50 che accenna ad un articolo del filologo lombardo Biondelli
in proposito; non istarà male però notare, che le notizie furon passate al
filologo lombardo, ancora nel 1842, dallo stesso Dr. Cubich (Gfr. Notizie
nat. e storiche
citate pag. 108, 109 in nota).
Giovanni Milcetich, che parla più diffusamente dei
Rumeni di tutti i quattro villaggi sopra citati nel Viestnik della
Società archeolog. croata di Zagabria 1884, a. VI, N. 2, pag. 60 sgg.
Miklosich, Über die Wanderungen»., pag. 4, 5, 8.
G. Maiorescu. loco cit. pag. 934; Miklosich, Ober
die Wanderungen,
pag. 8.
-
Cfr. L'Istria (giornale) 1852, pag. 237.
-
Cfr, Cubich, op. cit. I, 118; G. Milcetich, loco. cit. pag. 50.
-
Cfr.
Cucuglievich, Monumenta histor. Slavor. Merid. (Acta
croatica) Zagabria, 1863, vol. I, pag. 97, docum. del 1465, e pag. 103 del
1468, nei quali si parla di Vlahi (nella trad. ital. di Morlachi)
importati sull1 isola di
Veglia
dal conte Giov. Frangipani, del quale mi sono occupato diffusamente
neìl'Archeografo triestino, voi. XVIII, pag. 188, col titolo: Li
ultimo dei Frangipani, contendi Veglia.
-
Cfr.
Cucuglievich, Ibid. pag. 3, il docum. del 1821 —
esteso a Dobrigno.
-
Cir.
Cucuglievich, Ibid. pag. 93, 94, doc. LXXIII, del 1463. — Bidermann,
Die Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich, Graz, 1877, pag. 86.
-
Cfr. nel Farlati, Illyr. sacrum, IV, 63, il docum. del 1373, nel
quale si parla dei Vlachi, "pastores schismatici, e si concede ai frati
dell'ordine de' Minori di fabbricare delle cappelle.... vobis in tetris,
castris. seu villi* et metis Hungariae circa Sabete et maiorem Vlacbiam, circa metas Bosnae in Absan et Corbavia...."
-
Cfr. L'Istria, 1846,
pag. 7, & Il saggiuolo della lingua parlata da questi
Rumeni
è riportato
anche dal Miklosich Die slavisch. Elem. p. 68, 59; e un brano è
riportato in appendice anche in questo riassunto.
Mi ripugna a credere,
che i
Rumeni
dell'Istria sian detti Rimljani dagli Slavi! Il
Miklosich, che in queste questioni ha una grande autorità, avverte (Cfr.
Die slav. Elem. pag. 1) che il nome rumen (derivato da
romanus) giusta le leggi fonetiche della lingua rumena, devesi
distinguere da rimljan (anche romanus), nel voterò-slavo
rinujanin, che deriva dallo slavo. Gli slavi chiamano Roma, Rim ;
dunque Rimljanin significa un Romano e non un Rumeno.
-
Cfr. L'Istria, 1846, pag. 12.
-
Cfr. L'Istria, 1856, pag. 73, sgg.
-
Con tutta la riverenza che dobbiamo al
Kandler, mi pare che in fatto di
lingue non sia stato troppo felice nelle deduzioni. Per quello che riguarda le
colonie nella Valdarsa, si desiderano le prove. Anche circa l'asserita venuta
dei Croati in Istria nel IX secolo egli si adagia al racconto del Porfirogenito
troppo ciecamente. La severa critica moderna ha sfatato la leggenda, che i
Croati avessero occupato l'Istria orientale nel VII secolo e nei secoli che
subito lo seguono. Cfr. Dr.
Benussi, Nel Medio Evo,
Parenzo 1807, pag.
22 sgg. ed il mio lavoro: Due Tributi nell'Archeografo triestino
vol. XI (nuova serie) pag. 322.
-
Cfr. L'Istria,
1852, pag. 225, sgg. "Sulle varie popolazioni dell'Istria."
-
Di
Rumeni esistiti a Besca, sull'isola di Veglia, dalla
parte verso Segna, non mi consta da nessun'altra fonte, nè i documenti che
possediamo parlano mai di loro. Non sarei alieno però dal ritenere, che ci
fossero stati anche a Besca, venuti da Segna, visto che nello Statuto di
Segna si parla di Morlacchi, calati dalla Bosnia in Dalmazia e Croazia,
e di qui nella Gatska, anzi nel territorio di Segna. In un documento del
1892 si accenna a dei Morlacchi, appartenenti ad Obrovazzo sopra Zara,
venuti quali coloni nel territorio di Segna. Cfr.
Giov.
Kobler, Memorie per la storia della liburnica città di Fiume,
Fiume,
1896, vol. I, pag. 177.
-
Ctr. nella Porta orientale, 1859, pag. 99 sgg.
-
Cfr. la puntata di Settembre 1860 e di Giugno 1861 col titolo:
Etnografia dell'Istria.
-
Cfr.
Istria, Studi storici e politici, Milano, 1886, pag. 150 sgg.
-
In ordine cronologico seguirebbe il
Saggio del Paropat (1860 ?); ma tanto l'Ascoli che il Miklosich lo
ritengono una mistificazione. Il Miklosich (Die slav. Elem. pag. 57)
dimostra, che un dialetto scacciato dalla vita sociale e dalla chiesa e
adoperato soltanto in famiglia, quasi lingua di confidenza, non può
servirsi di parole quali: Afrodites, elcui (ambasciatore, d'origine
turca) spatariu mare (generale)...
-
Cfr. Dr.
Benussi. L'Istria sino ad Augusto,
Trieste,
1883, pag. 61-92 e 122-186. A pag. 122 egli dice più conforme al vero
l'opinione che fa i Veneti e gl'Istri d'origine tracica; ma gl'Istri vinti
dai Romani (pag. 136) erano stati celtizzati.
-
I dotti in generale ammettono oggidì, che i popoli
abitanti anticamente dalla penisola balcanica alla Venezia (quindi anche i
Dalmati, gl'Illirî, i Liburni, gl'Istri,
i Veneti) appartenevano alla grande e diffusa schiatta traco-illirica.
-
Cfr. nel Grundriss.... l'articolo del
Tiktin pag. 438: "Immerhin lässt sich soviel mit
ziemlicher Sicherheit sagen, dass der istrische Zweig dem macedonischen
näher steht als dem dacischen."
-
Cfr. Erodoto, V, 3:
[Greek text]...
Strabone,
VII, 303: [Greek text]... e VII, 305:
[Greek text];
Plinio, IV, 25: alias Getae Daci
Romanis dicti.
-
Eutropio,
VIII, 2:
Traianus, victa Dacia, ex toto
orbe romano infinitas eo copias hominum transtulerat ad agros et
urbes colendas.
-
Vedi la nota 1, pag. 187.
-
Vedi il passo nel lavoro del
De Franceschi, L'Istria, 1879, pag.
79: in quello del Dr. Benussi, Nel Medio Evo 1897, pag. GO, § 37; nei
Due Tributi delle isole del Quarnero, 1835, pag. 26, (op. separato)
dell'A. di questo riassunto.
-
Cfr. Dr.
Benussi, Nel Medio Evo, 1897, pag. 56, sgg. e pag.
60-68.
-
Cfr. G. I. Ascoli, Studi critici, Milano, 1861, volume I. pag.
48, sgg.
-
Cfr. Ibid. pag. 52, 58. — Qui l'Ascoli apre una nota e osserva, che
mentre si stampava il suo lavoro, usciva pur quello del Miklosich, Die
slav. Elem. ecc., ove trattando in appendice dei
Rumeni
d'Istria, egli
osserva a pag. 57, nota 1, che tra le famiglie di
Xeiane 24 portano il nome
Stambulich e Turcovich; ciò che per rAscoli significa, che
g'indigeni avrebbero chiamato i sorvenuti con nomi che dicevano il paese e
dominatore da cui fuggivano (Ibid. pag. 53, Nota 1).
-
Dunque:
I. I Daco-Rumeni e i Macedo-Rumeni sono due rami dello
stesso ceppo;
II. Il macedo-rumeno conserva dèi fenomeni linguistici più vecchi che non il
daco-rumeno:
III. L'Istro-rumeno s'avvicina più al secondo che al primo.
-
Cfr. Ibid. pag.
78, 79.
-
Cfr. vol. XII delle
Denkschriften.... pag. 55-69 sotto il titolo: Die Istrischen
Rumunen.
-
Cfr. a. 1846, pag. 7, 8.
-
Cfr. a. 1856, pag. 848. — Gli sfuggi peraltro il saggiuolo del
dialetto istro-rumeno pubblicato nell'lstria, 1849, pag. 286.
-
Quest'opinione, che viene a confortare la teoria di Rösler,
è accettata oggidì da quasi tutti i rumenologi. Veggasi, fra altri, M.
[Moses] Gaster [nota] nel Neumann, La filologia romanza, pag. 180; e Briebrecher,
op. cit. pag. 30.
-
Cfr. La Provincia dell'Istria, 1872, pag. 984, 985.
-
Cfr. il giornale L'Istriano, N.ri 13, 14, 16 e 17 del 1861.
-
Cfr. Parte I, pag. 107, sgg.,
Trieste, 1874.
-
E non degli antichi Vegliesi, come s'esprime il
Maiorescu. Di questo
particolare e interessantissimo dialetto, che fu studiato dall'Ascoli, dal
rovignese prof. Ive, ed ora si studia dall'albonese prof.
Bartoli, si tratterà
più avanti.
-
Il
Maiorescu qui m'intorbida alquanto le acque. Che ci sia dell'affinità
fra questo dialetto antico di
Veglia
(città italiana ora e sempre), col rumeno, lo ammette anche l'Ascoli (Cfr.
Archivio glottologico ital., vol. I, pag. 435, sgg.); ma il rumeno di
Poglizza, villaggio slavo dell'isola, n'è affatto distinto.
Nel dialetto antico di
Veglia,
connesso oggidì dai glottologi con quelli di
Rovigno e
Dignano, si ritiene
trovare le reliquie di "quell'estrema latinità orientali che si stese dall'Illirico al Ponto, (Ascoli 1. cit. pag. 435) o meglio, giusta gli studi
recentissimi del prof.
Bartoli, dell'antico dalmatico, (Cfr. Top. tjber cine
Studienreise zur Erforschung des Altromanischen Dalmatiens); laddove il
rumeno dell'isola, ora estinto, è un'importazione più recente, ed è intimamente
connesso col rumeno della Vaidarsa. Ma di queste questioni si parlerà più avanti
e più diffusamente.
-
Degna di nota è l'osservazione del
Maiorescu, che nell'Istria (dagli
Slavi?) si dicono Vlahi tanto i romanici della Valdarsa, quanto i Serbo-Dalmati
di Parenzo, Pola,
Dignano,
Pisino e Montona (s'intenda degli agri di queste
città).
Evidentemente è avvenuto qui ciò che avvenne altrove. Vlach significò in
origine un Rumeno; più tardi un pastore slavo.
Altrettanto accadde del nome Morlacco. In origine esso significò un Rumeno;
più tardi un contadino slavo venuto dalla Dalmazia.
-
Graz, 1877, pag. 79 sgg.
-
Cfr.
Cucuglievich, Acta croatica, pag. 98, 94, Doc LXXIL del 1463.
Un prete di Lindaro, sotto la spiegazione del Salterio in croato, nota che
nell'anno 1463 vi fu una guerra tra le genti del conte Giovanni Frangipani e
quelli di Bogliuno,
Vrana,
Brest,
Pisino.... Nella nota si aggiunge (è scritta
con caratteri glagolitici) che rimasero morti sul campo 20 dei Cici del conte
Giovanni (cic Kneza Ivana).
A proposito della derivazione del nome Cicio, molti nostri eruditi
ritengono che il nome provenga dalla pronuncia sonora del ci usata dai
Cici nel discorso (Ciribiri, Ciciliani, Ciceroni.... sono nomignoli);
altri ritengono derivi piuttosto da cici a, in rumeno cugino, nel
senso in cui nella Dalmazia, nell'Istria, nel Veneto, si dà del barba
(zio) ai proprî connazionali. Non ho potuto poi porre in sodo, se questo nome lo
portarono i Cicio-Rumeni con sè, oppure, se gli Slavi istriani chiamaron
così i sorvenuti
Rumeni mezzo slavizzati. -
Cfr.
Cucuglievich, Acta croatica, vol. I, pag. 97, 103 II primo
documento è del 1465, e fu esteso li 10 novembre a Castelmuschio sull'isola di
Veglia.
Con questo il conte Giovanni Frangipani (V. il mio lavoro:
L'ultimo dei Frangipani conte di Veglia, nell'Archeografo triestino, vol,
XVIII, pag. 138 sgg.), stabilisce i confini, entro i quali possono pascolare, ai
Vlahi o Morlacchi "cui abbiamo posto noi nei confini del detto
Castelmuschio."
(L'originale è esteso in croato con caratteri glagolitici; il documento è
riferito anche dal Miklosich, Über die Wanderung... pag. 64, 65 in
caratteri latini). Il secondo documento è del 1468, e fu esteso a
Veglia.
Il conte Giovanni proibisce ai Vlahi (nella trad. ital. Morlacchi) dei
dintorni di Castelmuschio di oltrepassare i confini già loro stabiliti col
precedente decreto... "dei Vlahi, i quali or ora son venuti qui a
stabilirsi". Nel documento del 1465 s'incontra una sola volta la voce
Vlah; le altre volte, anche in croato, si dice Murlachi; nella
traduzione italiana s'usa sempre Morlacchi. — Nel documento del 1468 s'adopera
sempre, anche in croato, la voce Murlak.
E qui, per non ritornare più volte sullo stesso argomento, mi sia permessa
l'osservazione, che se Vlah, Morlacco equivale a Rumeno, come lo si
ammette, e sull'isola di
Veglia
ne abbiamo una prova palmare nella lingua parlata da essi, io ritengo potersi
congetturare, dal documento seguente, che i Vlahi, ossia
Rumeni, erano
sull'isola già al principio del secolo XIV. — Nel documento del 1321, esteso li
8 novembre a Dobrigno sull'isola di
Veglia
(Vedilo in Acta croatica del Cucuglievich pag. 3) il parroco Ambrogio
dona alla chiesa di S. Ambrogio da lui fabbricata, alcune terre.... che si
chiamano
vlaške (cioè, appartenenti ai Vlachi). Ne ciò deve recar meraviglia, perchè
anche il Dr. Rački (Cfr. La Croazia avanti il XII secolo, nel
Rad. vol. 57, pag. 143), dice che i Vlachi erano noti nella Croazia nel sec.
XIV e si trovavano domiciliati negli agri delle città dalmate e croate, dalla
Cettina all'Istria.
I passi riferiti nei due documenti del 1465, 1468 alludono con molta
probabilità a quei Vlachi, che portò a Castelmuschio il conte Giovanni,
naturalmente dalle sue terre del litorale ungaro-croato; con ciò non si nega,
che altri Vlachi sieno venuti prima sull'isola, come lo dimostrerebbe questo
documento del 1321.
Nè qui terminano i documenti sui Vlachi dell'isola di
Veglia.
Nel 1488 il vescovo di
Veglia
Donato di Torre si adirò "con tutti li corvati et morlacchi di Dubasniza
e Pogliza" perchè non gli volevano pagare le decime (Cfr. Dr. Cerncich,
La più vecchia istoria dei vescovati: vegliese, osserese, arbese ecc. Roma,
1867, pag. 137). E a pag. 139 si può leggere in nota 1) dell'a. 1504 di un
terreno "quod tempore comitis Ioannis quidam Radaz, Corvatus tenebat
et possidebat, et antea possidebat quidam
Murlacus". Che questi Vlachi o Morlacchi erano già prima sull'isola l'abbiamo
visto; e se i nomi dicono qualcosa, quel "magister Nicolaus di Flacho"
nominato nel Doc. del 1402 fatto a
Veglia
(Cfr. Cerncich, op. cit. pag. 159) starebbe anche a darci una novella
prova di ciò.
-
Cfr. Ibid. pag. 87. — Vedi anche: Rački: La Croazia avanti a
secolo XII, nel Rad.,
vol. 57°, 1881, pag. 142, sgg.
-
Che i Vlachi ci sieno stati in tutta la regione litoranea, fra
Obrovazzo e Segna, già dal principio del sec. XIV, si possono vedere i
documenti nel lavoro del Rački cit. pag. 142, 143.
-
Cfr.
Kandler, Raccolta dette Leggi...
capit Lo Rimboscamento, p. 480
1527.... extra Venam Comunis, quod
Rustici et Chichi,
qui habitant
in Charsia in territorio tergestino... omnibus
Chichis et Murlachis qui non
sunt amansati aut terrena non habent in territorio Tergesti... circa
Chiohios consuluerunt, quod
fiat super scalis palatii unum publicum proclama, similiter in villa
Opchienae et in aliis extra montem...
1524...
quod dicti Chichi...
1526... quod Chichii habitantes in territorio tergestino
licentiarentar...
1517... quod omnes Chichii tam in civitate Tergest. quam in districtu..
-
Cfr. L'Istria, 1851, pag. 125 "fato per certi Chichi ...et
intenderò el caso da lui, et lo nome de deti Murlachi" (a. 1540).
-
Cfr.
L'Istria, Note storiche,
Parenzo. 1879, pag. 870.
Secondo lo stesso autore (Cfr. op. cit. pag.
356) alcune famiglie Morlacche
vennero investite di terreni nel comune di
Buie nel 1440. — Nel 1490 dei
Morlacchi ci sarebbero già stati sul Carso tanto austriaco che veneto, ed in
qualche villaggio del territorio di
Capodistria. — (pag.
356, sgg).
Certamente, se li vediamo negli stessi anni sull'isola di
Veglia,
erano questi i veri Morlachi o Cici, in islavo Vlahi, ossia quel!i che
parlavano il rumeno e allora, e all'epoca del vescovo
Tommasini e del irate
Ireneo, e che lo parlano ancora oggidì a
Xeiane e nella Valdarsa e fino a pochi
anni fa sull'isola di
Veglia,
e tatti immigrati facilmente dalla Bosnia, Erzegovina, Dalmazia, Croazia,
fuggitivi dai Turchi.
Dove non si può andar d'accordo col
De Franceschi si è nel ritenere, che
questi Morlacchi (del sec. XV) erano mandriani "mescolatisi cogl'indigeni
carsolini di razza romanica, che, giusta lo storico
Fra Ireneo, ancora
intorno al 1700 fra loro denominavansi Ruméri (Romani), ebbero dai
Triestini il nome di Cicci."
Son questi Morlacchi, Cici, Vlachi dei sec. XIV e XV, immigrati, fuggenti
dinanzi i Turchi, che portarono con sò il rumeno, e non gl'indigeni
carsolini.
-
Cfr. Caenazzo, I Morlacchi nel territorio di Rovigno. negli:
Atti e memorie della Soc. istr. di archeolog. e storia patria, vol. I,
pag. 129 sgg. (1885).
-
Cfr. op. e 1. cit. pag.
139. — Questi erano già Morlacchi serbi, che
non parlavano più il rumeno, quando giunsero nell'Istria.
L'osservazione vale a fortiori per i Morlacchi importati in
Istria nel sec. XVII.
(Cfr.
De Franceschi, op. cit. pag.
364 sgg.)
-
Cfr. La Provincia, 1872, pag. 935.
-
Cfr. op. cit pag. 93.
-
Cioè:
al lavoro del
Maiorescu, Itinerar in Istria şi vocabular istriano-roman, Jassy, 1874; al lavoro del Biondelli, Studî linguistici, pag. 58; a quello dell'Ascoli, Studî critici, I, 49.
-
Cfr. Vol. XXX delle Denkschriften... 1880, p. 1 sgg.
-
Scrisse il libro
Regnum Slavorum verso la metà circa del secolo XII.
-
Cfr. anche nel Lucio, De regno Dalm., pag. 274 (ediz.
Vienna) e pag. 674 dell'ediz. ital. Trieste, 1896.
I Bulgari... "presero tutta la Macedonia e appresso
tutta la provincia dei Latini, i quali allora erano detti Romani, e
al presente Morovlahi, (1150) ossia Latini negri."
-
Da tsints,
ch'essi pronunciano in
luogo di cinci, quinque, rum. (Cfr. nel Grundriss
ecc. pag. 421, l'articolo del Gröber:
Die Roman. Sprachen).
-
Sta bene; tuttavia il Lucio, op. cit.
ed. Vienna, pag. 276 ove parla della Mavrovlachia, aggiunge: "id est
Nigra Vlachia
a Graecis, nunc
quoque (il Lucio nacque nel 1604, mori nel 1679) a Turcis
Carabogdania, id est, nigra
Bogdani regio, a
Bogdano principe...
nigra vero "a frumento nigro"...
— Bogdano (Diodato) era
figlio di Stefano il Grande che regnò in Moldavia all'epoca di Maometto
II, Baiazet II, Solimano, e
gli a succedette nel 1511. — Cfr. La Romania davanti all'Europa, per
Enrico Croce, Firenze, 1878, pag. 19.
Questa particolarità però degli attributi bianco
e nero, dati ai popoli, non è una rarità; ce ne sono di molti esempi,
specie presso gli Slav; non credo però si possa accettare l'opinione del
Kobler
(op. cit. pag. 179, vol. I) che il nero attribuito ai
Vlachi significhi qualità servile, e che gli Slavi chiamarono
bieli (bianchi) i liberi e zerni (neri) i soggetti. Lo stesso A.
dissente in molti punti dai glottologi sui Vlachi, Morlacchi, Cici, (V. pag.
175 sgg.) e mi pare fraintenda il Lucio, il quale in molti luoghi ha
prevenuto le deduzioni dei moderni glottologi. Veggasi il suo capitolo De
Vlahis, pag. 271 sgg. ediz. Vienna, e pag. 668 sgg. ediz. italiana.
-
Cfr. il vol. XI (Tomo III delle Commissiones et Relationes venetae)
a. 1558-1571, pag. 3-248.
-
Sarebbero per avventura i Martolossi, più volte nominati negli stessi anni
insieme coi Morlacchi e cogli Uscocchi? — Cfr. il vol. XI citato nella nota
precedente.
-
Il Rački
(La Croazia avanti il XII sec., op.
cit pag. 140, nelle Note 2 e 3.) osserva: Il Danicich, nel
Vocabol. dell'antichità serbe, alla voce catun, la spiega
con regio pastoria. — Nei documenti latini di Ragusa
troviamo: catune, cathoni.
Quanto all'etimologia della voce catun, il Miklosich, (Die
Fremdwörter in den slav. Sprachen, pag. 25) la fa derivare dall'albanese; ma il Matzenauer, Voci straniere nelle lingue slave
I, 37, la deriva giustamente dal rom.
cantone.
-
Cfr. Jireček,
Die Wlachen und
Maurowlachen in den Denkmälern
von Ragusa, pubblic,
nel
Sitzungsberichte der kön. böhm. Gelehrtengesellschaft,
27 gennaio 1879; poi il vol. X
dei Monum. Slav. Merid., che
tratta soltanto di Ragusa, pag. 133 (1324) ...ad
petitionem Vlachi famuli sui, pag. 158 (1344) ...ex relatione unius Vlachi
de terra Bossinae ....accusavit certos homines sive Blachos, qui venerunt
Ragusium accipere salem... pag. 159 (1344) circa expeditionem Vlacorum,
dando eis ordinem accipiendi salem, pag. 267 (1347) ....quod
quilibet Vlacus slavus...
-
Sta bene. Io che sono nato nella
città di Veglia e che conosco l'isola
per longum et per latum,
posso confermare quest'asserzione.
-
Cfr. Cemcich, La più vecchia istoria ecc., pag.
137... "con tutti li corvati
et morlacchi di Dubasniza e Pogliza,... e a pag. 139... "terrenum
quod tempore comitis Ioannis quidam Eadaz Cortatus tenebat et
possi-debat, et antea possidebat quidam Murlacus.... e Miklosich, tber
die Wander. ecc. pag. 4, 5.
(1488-1496) ...che il primo patron della possession sia stato Corvato
cioè Schiavon, et non Murlaco;
(1486) Murlachi pagavano...
(1489) Crovati pagavano...
(1488) Ridusse detti Murlacchi et Crouati....
Cfr. anche nella nota 1, p. 199, i docum. del 1465 e 1468, nei quali si parla
di Vlachi o Morlacchi.
Ce n'erano però anche a Castelmuschio e a Dobrigno, come dalla nota stessa.
-
Il Miklosich, nel fissare quest'epoca, si basa sulla
dichiarazione del conte Giovanni Frangipani, contenuta nei documenti del
1465 e 1468 (V. nota 58), nei quali si dice di Vlachi importati da lui; ma
come ho già avvertito, dal docum. del 1821, esteso a Dobrigno, si deve
ritenere, che di Vlachi c'erano sull'isola di Veglia già dal principio del
sec. XIV, come ce n'erano a Ragusa, nei dintorni di
Trau, di Sebenico, di Zara, in tutta la Corbavia, e
persino nei dintorni di Segna.
Per Ragusa V. la nota 69 (a. 1324).
Per Trau
V. Lucio, Memorie storiche di Traù, pag. 279, 280 (a. 1362) Per
Sebenico V.
Cucuglievich,
Jura regni Croatiae
ecc. vol.
I pag. 126 (a. 1357) pag. 149 (a. 1383).
Per Carlopago pag. 155-159 (a. 1387).
Per la Corbavia in generale V. Monum. spect. histor.
Slav. Merid., vol. II,
pag. 219 (a. 1344) — e per il distretto di Zara V. vol. III, pag. 237 (a.
1352).
Per Segna v.
Kobler, op. cit,
vol.
I, pag 177 (a. 1392).
-
Cfr. anche il Cubich, il
Maiorescu, l'Ascoli e l'Ive
nei luoghi già citati.
-
Giusta l'opinione del prof.
Bartoli Über eine Studienreise.... pag.
88, 89, 90 le colonie rumene dell'isola non influenzarono menomamente
l'antico dialetto della città di Veglia.
-
Cfr. nel vol. XI dei Monum. Slavor. Merid., da
pag. 21-193.\
-
V. Farlati, Illyr. sacrum, IV, pag. 63,
..."Vlachi, pastores schismatici, fusi per agros ac dispersi
degebant."
-
V. Parlati, lllyr. sacrum, IV, pag. 63, ..."circa
Sabete et maiorem Vlachiam."
-
V. Lucio, Memorie storiche di Traù,
-
Cfr. Monum. Slav. Merid. vol. IX, pag.
218.
II re Sigismondo ingiunge ai suoi
mercanti "Wlachis ut puta et Croatis° che conducano le
mercanzie soltanto a Sebenico.
- Cfr. Monum. Slav. Merid. vol. IX, pag. 239.
"Cum rectores nostri Jadre
scripserint nostro dominio, quod castrum Ostrovich, quod emimus a Sandallo,
furatum et acceptum sit per certos Murlachos...
-
Tuttavia il Czörnig, (Ethnographie der
Oesterreichischen Monarchie, Viennla, 1857, vol. I, pag. 69) ci parla
anche di
Rumeni carniolici in Hrast, Mötling e al mezzodì di Tschernembl...
i quali però, come i
Rumeni dell'Istria, appresero la lingua slava del
paese; e il
Valvasor (Die Ehre des Herzogthums Crain, ediz.
Rudolfswerth, pag. 292) ci parla di Uscocchi (sic) abitanti a Veniz
(Weinitz), presso Siohelberg (Sichelburg) e attorno ai monti degli Uscocchi
quali
Rumeni.... "Dieses Volk redet walachisch... i quali, colle donne e coi
figli, sarebbero immigrati lì, fuggitivi dai Turchi, verso il 1530-40."
- Ciò combina coll'epoca delle
migrazioni dei
Rumeni nelle regioni dei Carpazi. Cfr. pag. 39, sgg. Über
die Wander.
E combina anche colla mia opinione, che le parole del
conte Giovanni Frangipani contenute nei documenti del 1466 e 1468 si
riferiscono ai
Rumeni (Vlachi, Morlacchi) importati da lui a Castelmuschio;
ma che di
Rumeni, immigrati alla spicciolata dalla Croazia, ce n'erano sull'isola di Veglia anche dai principio del sec. XIV, come ne fa fede il docum.
del 1821 di Dobrigno.
- Cfr. anche l'articolo del prof.
Milcetich (Viestnik.... 1884, Anno VI, pag. 51) che racconta di un
vecchio di 80 anni, morto nel 1875, l'ultimo Poglizzano, diremo, che parlò
alla rumena colla propria moglie [vlaški)
il
quale gli additò eziandio la casa nella quale abitò il primo Vlaco (Rumeno).
— Dove anche lui prende una cantonata si è quando dice, che nella città di
Veglia si conservò più a lungo la parlata rumena. Ma di ciò si dirà più
avanti. — Lo stesso professore ci racconta (pag. 52) che a Malinsca (presso
Dobasmzza) viveva una vecchia (morta nel 1884) la quale sapeva ancora
qualche cosa di rumeno. — Questi sarebbero gli ultimi rappresentanti dei
Rumeni sull'isola di Veglia, i quali si sono affatto croatizzati.
- Osservo: dei cognomi Bociul
e Cociul
non mi consta; Pacul esisteva, ed era mio parente, ma era un
soprannome; il nome di famiglia vero era Depicolzuane, famiglia
che.esiste ancora. Aggiungo del mio, che esiste ancora a Veglia la famiglia
Chietul (leggi Cietúl)
venuta in città dall'isola,
verosimilmente da Poglizza; e le numerose famiglie dei Giórgolo,
anche miei parenti, non saranno per avventura che dei Giorgul
(alla veneta
Giórgolo) rumeni.
Di fatti, il loro tipo si stacca affatto dagli altri
vegliotti.
-
Cfr. nel vol. 32° delle
Denkschriften... Vienna, 1882, pag. 1-91.
- Negli anni 1881 e seg. pubblicava il Miklosich,
in diverse puntate dei
Sitzungsberichte.... quel colossale
lavoro fonologico sui tre dialetti romeni, che porta per titolo:
Beiträge zur Lautlehre der rumunischen
Dialekte... lavoro
che fu
quasi l'ultimo canto del
cigno.
- Ho tradotto testualmente quest'ultime
conclusioni che furono più diffusamente propugnate dal Miklosich nei lavori
precedenti, perchè fra breve dovremo ribattere le conclusioni d'un altro
scrittore.
- Cfr. vol. 29°, 1883. pag. 294-299 delle Mitteilungen aus Justus
Perthes' geogr. Anstalt.
- Il compilatore dell'articolo si richiama ai Beiträge... del
Miklosich, vol. 101°, pag. 49 sgg. — Ma dalla lettura delle parole del Miklosich
non si può menomamente trarne la deduzione del Dr. Lechner. Ecco le parole
testuali del Miklosich in traduzione: "Si distinguono, non badando ai
Rumeni
dell'Istria, i Macedo- e i Daco-Rumeni; una divisione contro la quale nulla
puossi oppone, finchè la si considera soltanto come geografica, che
cessa però d'esser giusta, tosto ch'essa riceve un valore etnografico,
perciò linguistico) dacché, come risulta da queste spiegazioni (cioè, dai
raffronti fonetici) si trovano al settentrione del Danubio dei dialetti che
concordano colla lingua dei Macedo-Rumeni.
La cosa riesce comprensibile, se si ammette, che l'ordine I (Daco-Rumeno) e
l'ordine II (Macedo-Rumeno) si sieno formati al mezzodì del Danubio, e che
stirpi di tutti e due gli ordini abbiano intrapreso la migrazione alla sponda
sinist ra del Danubio."
Questo si chiama parlar chiaro, ma per chi lo voglia intendere. Come in tutti
i suoi lavori precedenti, il Miklosich sostiene anche qui doversi cercare la
patria d'ambo i rami del popolo rumeno all'Emo.
- Ciò che segue sembra una contraddizione, ma essa non ò che apparente;
soltanto bisogna aver letto tutti i lavori del Miklosich.
Ecco la traduzione del passo sul quale si basa il Dr. Lechner.
"Chi medita intorno all'origine del popolo rumeno, dalla lingua e dalla
storia l'attenzione viene portata alla costa orientale del Mare Adriatico, ove
vivevano i prodi llliri, ed ove oggidì i loro altieri discendenti attirano di
quando in quando l'attenzione del mondo. Gli Schipetari ed i
Rumeni sono uniti
l'uno coll'altro indissolubilmente. Questi (i
Rumeni) sono essenzialmente
llliri romanizzati; quelli (gli Albanesi) sono llliri che hanno respinto
da sè una compiuta romanizzazione.
L'origine della nazionalità rumena cade in quel primo tempo, quando il piede
romano si posò per la prima volta sul suolo dell'Illiria. Allora fu
guerreggiata la loro (degli llliri) nazionalità e fu iniziata la loro
romanizzazióne."
Per comprendere il Miklosich, ripeto, bisogna leggere tutti i suoi lavori.
Ora egli si è occupato anche dell'albanese, ed è persuaso, che gli Albanesi o
gli Schipetari siano i rappresentanti degli antichi lllirî; quindi, che i
dialetti (tosco e ghego) dei moderni Albanesi rappresentino la lingua parlata
dai prischi lllirî. Siccome poi gl llliri si fanno un ramo dei Traci (d'onde più
giustamente si dicono Traco-Illirî), e i discendenti dei Tracci romanizzati sono
i Rumeni, nulla di meraviglia, se c'è dell'affinità fra il rumeno e l'albanese,
come lo dice lo stesso Miklosich; ma la chiusa del passo significa tutt'altro di
quello che vuole il Dr. Lechner. Il Miklosich con quelle parole vuol dire: il
primo germe del romanesimo (se non volete dir del rumenismo) devesi cercare
nella fusione dell'elemento illirio o traco-illirio col romano, già allora
quando i Romani conquistarono l'Illirio; ma la culla d'ambo i rami del popolo
rumeno va cercata all'Emo; in ciò il Miklosich non si disdice mai.
- Quest'è vero, ma con ciò il Miklosich non fa che corroborare la sua
opinione condivisa anche dall'Ascoli (V. infra pag. 196) che ambo
i rami dei
Rumeni
provengono da uno stesso ceppo. Che se il dialetto istro-rumeno s'avvicina
più al macedo-rumeno che al daco-rumeno, ciò consuona sempre colle vedute
del Miklosich. Ciò vuol dire, che i
Rumeni dell'Istria si sono staccati dal
primitivo ceppo rumeno assai per tempo; e siccome, immigrati nell'Istria,
non ebbero nè letteratura, nè vita nazionale, nè civile, ma vissero quali
semplici pastori in piccoli gruppi, così mantennero nel loro dialetto delle
forme linguistiche arcaiche, le quali non si riscontrano più nel
daco-rumeno, il solo che pervenne alla dignità letteraria, e che perciò subì
dei cambiamenti fonetici e morfologici maggiori. A deste sono cose che le
può comprendere soltanto chi sa qualche cosa di linguistica. Ma non bisogna
dire: tratterò l'argomento dal lato storico, e poi affogarsi in questioni
linguistiche.
- Cfr. il mio lavoro: Due tributi delle isole del Quamero, Archeogr.
triest., vol. XI, 1885, pag. 800.
- Cfr. Monum. Slav. Merid, vol. VII, pag. 91 (Doc. 71 — ad a. 1072, Nona).
Alcuni fratelli donano al convento di S. Grisogono in Zara una loro
possessione, pag. 93. — Dopo alcuni testimoni slavi, seguono: Item testes
latini...
- Precisamente. Quei testes latini,
come tutti gli abitanti della Dalmazia romana, che parlavano latinum
idioma, non erano
Rumeni, ma Romani parlanti il latino volgare.
Cfr. Lucio, Storia del regno di Dalmazia....
edizione italiana pag. 654, 655;
Rački,
La Croazia av. il sec. XII, loco cit. pag. 117, 118, ove sono
riferite molte voci del sermo rusticus usato in Dalmazia, e del quale
fa cenno espresso nel 1067-69 il vescovo di Zara Stefano: "chyrographum hoc
rustico sermone conscripsi". Questo sermo rusticus fini poi a
darci il dalmatico, del quale si occupa oggidì il prof.
Bartoli, il quale dalmatico poi non è rumeno.
- Cfr.
Mon. Slav. Merid., VII, 462 (a. 1096-97). Descrizione della Dalmazia
(nell'occasione della I crociata) di Guglielmo arcivescovo di Tiro, che si
dice abitata da un popolo ferocissimo ..."exceptis paucis, qui in
oris marittimis
habitant, qui ab aliis (Slavi dell'interno) et moribus et
lingua dissimiles, latinum habent idioma, reliquis
sclavonico sermone utentibus et habitu barbarorum".
- Cfr. Cod. diplom. istriano ad a. 1102.
- Cfr, Cod. diplom. istriano ad a. 1395.
Fra le firme trovasi: Mochoro Supano de Berdo.
Quanto alla derivazione poi di Berdo da Beli dvor (alba curtis) ne
lascio la responsabilità al Dr. Lechner. Di villaggi slavi montani, che
portano il nome di Berdo (colle, monte) ce ne sono tanti, senza che nessuno
mai si chiamasse Cortalba!
- Ma chi glielo dice? — Chi vorrà trarne una simile deduzione da quell'inter
Latinos? Certamente questa frase sarà ancora per molto tempo un
indovinello; ma che dessa significhi "fra i Rumeni" è anche
un po' arrischiato.
Cfr. anche :
De Franceschi,
L'Istria, pag. 99 per tutto il
documento del conte Voldarico o Volrico e per la variante riferita nella
nota 4: "Cort alba inter latinos".
- Ecco un'altra deduzione che non scaturisce spontanea dalla premessa.
Bisogna prima provare, che i Latini del documento del 1192 sono
tutt'uno coi Rumeni importati più tardi nell'Istria. Che invece gli
abitanti della Dalmazia romana parlanti l'idioma latinum, non siano
Rumeni, ma Romani parlanti un latino rustico che si risolse in un dialetto
italico, lo dimostrano e il Rački nell'opera più volte citata pag. 117, e
il
Bartoli nell'opusc. cit, pag. 88.
- Andiamo di male in peggio. — Il
Porfirogenito parla di Romani, non sulle isole del Quarnero, (che
furono occupate subito dopo dai Croati) ma delle città ([Greej text])
Arbe,
Veglia,
Ossero, che ebbero colonie romane e i cui abitanti si dissero perciò Romani.
Cfr. i passi precisi del Porfirogenito nel mio lavoro "Due tributi delle
isole del Quarnero, pag. 300, voi. XI, Arch. triest. 1885.
Viceversa gli avanzi della lingua rumena cui accenna il
Dr. Lechner, si trovarono sull'isola di Veglia soltanto, quali colonie
importate frammezzo agli Slavi, e non nella città di Veglia romano-veneta,
che ebbe un dialetto proprio di cui si dirà più avanti.
- La è un'opinione questa, che viene professata anche
da altri, non esclusi alcuni istriani; ma la é un'opinione sbagliata. Non
le isole del Quarnero (abitate ancora nel secolo XVI assai scarsamente, come
puossi vedere nei vol. VII! e XI dei Mon. Slav. Merid. offrirono la
popolazione (nè croata, nè rumena) alla Valdarsa e all'agro fianonese e
albonese; ma tanto i Croati quanto le colonie rumene vennero, e sulle isole
e nella Valdarsa, dalla terraferma, cioè, dalla Croazia, per lenta e
progressiva espansione.
- Eppoi andatevi a fidare di certi scrittori! Immaginatevi, se lo scritto
del Dr. Lechner capiterà fra le mani dei dotti alemanni, quali giuste
notizie ne ricaveranno! Buon per noi, che altri, ben più dotti di lui,
parlarono esattamente di queste questioni, e che ormai lo sanno anche i
passeri dei tetti, che la città di Veglia è italiana sempre stata, e lo è
anche oggidì; laddove gl'isolani sono croati; e noi intendiamo per isolani
tutti quelli che non abitano nella città.
- Assai benemerito, senza dubbio; ma, con buona pace del Dr. Lechner, il
Dr. Cubich era nativo di Gorizia!
- Non è vero, signor dottore! — L'antico dialetto della
città di Veglia vien messo in relazione coi dialetti delle città della
Dalmazia romana: Ragusa, Spalato, Traù, Zara,
Arbe,
Ossero,
Veglia, (cfr. l'òpusc. cit. del
Bartoli), poi con quelli di
Rovigno
e di
Dignano, e non coll'istro-rumeno; viceversa il rumeno dell'isola di
Veglia,
del quale ci rime ne soltanto il Padre nostro e l'Ave Maria, viene posto in
relazione col rumeno della Valdarsa.
Le prove le abbiamo già viste nei lavori dell'Ascoli e
del Miklosich.
- Altro che regnato per lungo tempo (dal 1000 al 1797); ma
non vede, ch'ella confonde il dialetto antico della città di
Veglia,
(dalmatico, italico) sul quale ebbe certamente molta influenza il veneto
(Cfr.
Bartoli, opusc. cit. pag. 88) col rumeno,
sporadico e importato fra gli Slavi dell'isola!
- Per non ripetere più volte la stessa cosa, tralascio qui
di dimostrare l'infondatezza di quest'asserzione, e mi riservo di
dimostrarlo alla fine del presente riassunto, nell'Appendice. Dal sagginolo
lì riferito, anche i non filologi si persuaderanno, che il dialetto antico
della città di Veglia non ha a che fare col rumeno.
- Vedi infra pag. 205.
- Vedi
L'Istria, Note storiche, pag. 370.
- E lo stesso rinomato
Flacius
Iliricus (se per altro è un istriano) non è che un bell'e buono
Vlach, un Rumeno di quelli di Schitazza presso
Albona.
- Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1863. — Sarà, ma ne dubito.
Ritengo sia il cognome slavo Rumer, Rumez: di fatti ad a. 1328 m'incontro in
un Rumiz. Ma sia pure; allora questi è il primo Rumeno del sec. XIV,
la cui presenza ci è attestata nell'Istria da un documento.
- Anche in questa derivazione io non ci metto nè sale nè pepe. —
Ciribiri (come: Ciciriani, Ciciliani, Ciceroni....) sono, secondo
me, dei nomignoli locali di nessuna entità.
- Cfr. Cod. diplom. istriano ad a 1465: "fideles nostri villarum de
Xiana (Xejane)
Moneque superioris et Mone inferioris."
- La notizia è tolta dal Miklosich. V. la nota 2, pag.
193.
- Perchè di voci albanesi? — Le guerre cogli Uscocchi avvennero fra il
1616-17; ma sia gli Uscocchi venuti nell'Istria come corsari e ladri, sia
quelli importativi da Venezia e dai duchi d'Austria, erano già slavi
(serbi).
Per notizie sugli Uscocchi, durante il sec. XVI, ed al
principio del XVII, Cfr. Atti e Memorie della Società istriana
d'archeologia e storia patria, vol. VI, pag. 312-362 (a. 1588-1613);
De Franceschi,
L'Istria, Note storiche, pag. 296 sgg.
- Lo credo anch'io; ma bisogna distinguere fra i Cici d'Ireneo
della Croce che parlavano rumeno, che sono poi tutt'uno coi Morlacchi
del vescovo
Tommasini, e fra i Cici, Morlacchi, Uscocchi del sec. XVI e XVII ormai
slavi.
- Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1328.
- Cfr. Cod. diplom. istriano, ad a. 1329.
- Per chi volesse fare delle ulteriori ricerche sui
Rumeni
dell'Istria,
valgano le seguenti indicazioni di lavori recentissimi : H. Nicora,
Românii
istriani,
Transsilvia, 1890; T. T. Burada, O câlâtorie in satele rumânesti din
Istria, Bucureşti 1891;
G. Weigand: Nouvelles recherches sur le Roumain dell'lstrie, in
Romania, XXII, p. 240-256, 1892; Istrisches, nel I e II Annuario
dell'Istituto, per la lingua rumena, di Lipsia, 1894, p. 122-125; 1895, p.
215-224;
St. Nanu,, Der Wortschatz des Istrischen,
Lipsia, 1895;
Dr. Arthur Byhan, Istrorumänisches Glossar, VI annuario dell'Istituto
rumeno di Lipsia, 1899, p. 174-396.
Sul rumeno dell'isola di
Veglia
vedi: T. T. Burada, Cercetărĭ despre Romănii din insula Veglia, nell'Archivio della Società scientif. e letter. di Jaşi, a. VI (1895).
- Cfr. vol. I, pag. 50.
- Cfr. Monum.
Slav. Merid., vol. VIII (Tomo II delle Com. et
Relat, ven.)
pag.
262.
- Cfr. vol. I, pag. 50.
- Ctr. pag. 436.
- Cfr. L'antico dialetto di Veglia, vol. IX
dell'Archivio glottologico ital., pag. I15-187.
- Cfr. Farlati, Illyr. sacrum, V. 295: "Sunt
autem Veglienses... victu cultuque Italis quam
Dalmatis propiores: omnes vero italice loqui perbene sciunt."
- Cfr. per intanto la monografia: Über eine Studienreise
zur Erforschung des Altromanischen Dalmatiens. (Estratto dall'Anzeiger del phil.-hist.
Classe del 29 Novembre 1899, N.
XXV.
-
Parenzo, 1900 (Estratto dagli
Atti e memorie della Società istriana
di archeologia e storia patria).
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Created: Wednesday, August 18, 2010; Last Updated:
Friday, March 31, 2023
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